sabato 9 marzo 2019


FEDELTÀ
Marco Missiroli
Einaudi

–Tua moglie mi ha seguita.
–Mia moglie.
–Fino a qui –. Sofia lo fissò: –Professore?
Lui guardava l’entrata dell’aula.
–Credo sia in cortile.
Carlo Pentecoste andò alla finestra e riconobbe Margherita per il cappotto amaranto che indossava dal secondo giorno di primavera. Si era seduta sul muricciolo e leggeva un libro, ancora Némirovsky, teneva una gamba accavallata e con la mano libera vegliava lo zaino. Era fine marzo e una foschia inattesa attraversava Milano. Carlo si voltò verso gli studenti. Sofia si stava sistemando in seconda fila e aveva tirato fuori il taccuino e le mandorle. Era piú giovane dei suoi ventidue anni, per il viso minuto, e per i movimenti gentili che mitigavano i fianchi, cosí inaspettati. Lo guardò, aveva la stessa apprensione di quando il rettore li aveva convocati per essere stati sorpresi da una matricola nel bagno del piano terra: lui sopra di lei, le mani che le carezzavano il collo, o qualcosa del genere, visto che la versione della matricola era stata una, un’altra, innumerevoli, tutte a irrobustire la voce per cui il professor Pentecoste e una sua studentessa avevano avuto un incontro ravvicinato di natura ambigua. Non iniziò la lezione, indossò la giacca e uscí dall’aula, scese le scale, rallentò nell’atrio e si girò verso il bagno. Era tornato lí per fare chiarezza con un collega, era tornato con il rettore. E per ognuno aveva inscenato la ricostruzione di quello che chiamava il malinteso: l’entrata nella toilette degli uomini, la pisciata, l’uscita nello spazio comune, il lavaggio delle mani, della faccia, l’asciugatura, aver sentito un tonfo provenire dalla toilette delle donne, aver notato che la porta era socchiusa e aver trovato la sua studentessa Sofia Casadei quasi svenuta –per «quasi» cosa intendeva? Si era chinato su di lei e l’aveva chiamata per nome piú volte, aiutandola a sedersi e a rialzarsi –al rettore aveva indicato come –, tenendola per un istante appoggiata all’angolo. Era durato non piú di qualche minuto, poi la ragazza si era ripresa e lui l’aveva accompagnata a sciacquarsi il viso: non si era mai accorto della matricola. Si bloccò prima di dirigersi da sua moglie e controllò il cellulare: Margherita non aveva avvertito che sarebbe passata. Proseguí in direzione del cortile, lei stava ancora leggendo sul muricciolo. –Il tuo cappotto è inconfondibile, –le indicò la finestra dell’aula. –Sto facendo riposare il tendine. Sarei salita adesso –. Chiuse il libro e si alzò in piedi. –L’hai dimenticato, –e gli porse un flacone. –Sei qui per un antistaminico. –Vederti star male la settimana scorsa mi è bastato. –Non mi va che affatichi la gamba. –Sono venuta in metro, –gli raddrizzò il bavero della giacca. –Fossi in te oggi farei lezione fuori, la foschia ha un suo fascino. –Si distraggono, –e le mise una mano sulla fine della schiena come quando si erano conosciuti, a cena da sua sorella. Il solco sulle lombari gli aveva fatto presagire il corpo allenato. –Vuoi salire? Devo iniziare. Margherita amava le sue mani che non erano mani da insegnante. Si fece aiutare a indossare lo zaino, poi lo accompagnò all’entrata. –Sei davvero venuta fin qui per. –Sono venuta perché sono venuta, –gli indicò l’orologio e lo invitò ad affrettarsi, lui le sorrise e si avviò. Appena lo vide scomparire oltre la scalinata, Margherita si appoggiò alla porta di vetro e abbassò la testa. Perché non aveva avuto il coraggio di accompagnarlo in classe? Perché non aveva avuto il fegato, come diceva sua madre, di attraversare quell’ingresso e di dirigersi verso quel bagno? E perché tremava, adesso? Si allontanò lenta, aveva voglia di fermarsi ma si costrinse ad arrivare in strada, superò la cancellata e abbottonò il cappotto. Si bloccò e chiuse gli occhi cercando dentro di lei un appiglio per arginare lo sconforto: pensò ai cinquanta minuti che sarebbero venuti di lí a poco e che la facevano sentire diversa. Diversa, insidiata. Li annotava nell’agenda con la dicitura Fisioterapia che voleva dire anche avventura. Provava questo, e lo custodí come un antidoto all’insicurezza mentre si lasciava alle spalle l’università e si avviava verso la fermata dei taxi. La gamba doleva da quando si era svegliata. Un tormento che partiva dal pube e scendeva al ginocchio, comparso dopo una corsa in palestra tre mesi prima. Da allora pensava a dettagli che la intristivano: i tacchi sostituiti dalle scarpe da ginnastica, la rinuncia ai sopralluoghi di immobili senza ascensori, non poter correre dietro a un bambino. Tirò fuori il telefono e vide un messaggio della proprietaria di corso Concordia, Ho firmato, cara Margherita. Ora tocca a voi, e uno del collega: l’agenzia aveva ricevuto le chiavi per iniziare la vendita. C’era una chiamata di sua madre. La ignorò e rimase con il cellulare in mano, riuscí a non toccare Facebook. Ogni volta che apriva il profilo di Sofia Casadei le venivano strane idee, la caffetteria dove lavorava, il bar dove faceva colazione la mattina, il quartiere dove viveva, avvicinarsi a quei paraggi. Raggiunse la fila di taxi, diede l’indirizzo di FisioLab, via Cappuccini 6, si rilassò adagiandosi sul sedile e chiudendo gli occhi. Il tassista propose di allungare il tragitto, c’erano i lavori in corso sulla circonvallazione interna, lei disse che andava bene e non pensò piú a niente. Ogni tanto sbirciava dal finestrino, Milano e il viavai sui marciapiedi e i portinai davanti ai palazzi. Poi si ricordò di sua madre, la richiamò e si sentí rispondere al primo squillo: –Mamma. –Stavo per telefonare all’idraulico. –Cos’è successo? –Quel, –e prese fiato, –quella cazzo di caldaia. –Buongiorno. –Mi è sempre piaciuto dirlo, ma tuo padre sosteneva che la bocca di una donna deve essere pulita –. Si zittí. –Comunque ti ho cercato per chiederti della casa di corso Concordia. –Mi hanno scritto proprio ora. –Cosa dici? –Non c’è l’ascensore ma è interessante. Mando Carlo a vederla prima di esporla in agenzia. –E la gamba? –Tu se hai un sospetto cosa fai? –Ti fa male, lo sapevo. –Cosa fai? –Che genere di sospetto? –Un sospetto. –Un sospetto è una prova. –Non siamo a Un giorno in pretura, mamma. –È la vita, tesoro mio –. Tentennò: –Vuoi dirmi a cosa ti riferisci? –Sono arrivata, devo salutarti. –Figlia mia, –si schiarí la voce, –tutti i tuoi sospetti domani potrai chiarirteli all’appuntamento. –Oddio. La madre sbuffò. –Ci vuoi andare da mesi e io te l’ho fatto avere con una fatica boia: dieci e mezza, via Vigevano 18 campanello F. –Ricordami perché mi sono fatta convincere. –Perché ci andava Dino Buzzati. Segnatelo sul dorso della mano. –E tu segnati il compleanno di mia suocera. –Non vengo. –Oh sí che vieni. –Oh no. Però tu passa a trovare la tua mamma prima o poi, ma solo se hai voglia. La sua mamma aveva seppellito il marito ed era rimasta sveglia tre giorni, seduta sulla poltrona dove lui leggeva il giornale la domenica mattina. Infine aveva detto Adesso per chi cucinerò, e per un po’non aveva piú voluto parlare di quell’uomo che le aveva abituate alle ritualità, ai mercatini di cianfrusaglie, a Tex Willer, alla compostezza. Era stato un uomo di silenzi, per non sentirne l’addio lei e sua madre si erano dovute inventare brusii. Bisticciare, telefonarsi, essere pimpanti. Pagò il taxi e scese davanti a FisioLab. Era accaldata ma sapeva che era impazienza. Aprí lo zaino e controllò il costume, il bagnodoccia, l’asciugamano, il pettine. Si presentò alla reception e si diresse nello spogliatoio, indossò il costume sotto i pantaloncini –lo aveva comprato nuovo dopo aver capito il genere di terapia a cui avrebbe dovuto sottoporsi –, si legò i capelli, portò il telefono con gli auricolari e si avviò con il dubbio che l’estetista avesse fatto un lavoro affrettato. Prese la bottiglia d’acqua che il centro regalava ai clienti ed entrò nella palestra riabilitativa. Andrea era puntuale, e lo fu anche quel giorno. Le strinse la mano e le chiese come andava il dolore, lei rispondeva sempre «A singhiozzo» e si abbandonava al suono del séparé chiuso con un colpo secco, abituandosi a condividere quell’angolo con un ventiseienne serioso che cercava di alleviarle un’infiammazione quasi cronica. La invitò a stendersi, lei si sfiorò l’elastico dei pantaloncini e lo guardò, lui annuí e lei se li sfilò. Il ragazzo prese l’elettromedicale e glielo appoggiò sull’interno coscia, salí verso l’inguine, insistette sul pube con una pressione adeguata. Quando accadeva, Margherita si concentrava su un lembo del séparé imponendosi una respirazione lenta. Quel riscaldamento –come lo chiamava lui –durava i dieci minuti che lei impiegava per contrastare l’imbarazzo. Poi si affidava. La convinceva la fermezza di Andrea, la sapienza delle dita, gli occhi bassi. Anche lei guardava altrove, tranne quando –come adesso –lui metteva via l’elettromedicale e si preparava a scostarle il costume un poco di piú: era l’istante in cui Margherita pretendeva di trovargli un principio di eccitazione, oltre la deontologia. Tentava di percepirgli le dita indecise mentre premevano sul pube e cercavano il tendine. Lui imponeva il pollice, il medio, certe volte l’indice, calcando come scavasse. Durante la prima seduta le aveva spiegato cosa sarebbe accaduto nel corso della fisioterapia: l’azione disinfiammante delle macchine, l’effetto assottigliante delle mani, gli esercizi che lei avrebbe dovuto seguire in palestra. Sarebbero serviti venticinque incontri, oltre le visite di controllo e le ecografie per un totale di duemilaottocentoventi euro. Non se lo poteva permettere o quasi, aveva tentato con la sanità pubblica ma si era sentita persa nelle attese estenuanti, corrompendosi alla scelta che suo padre avrebbe chiamato facile. Facile era pagare tremila euro per un badante della fisioterapia, facile era farsi regalare un Interrail da adolescente pur non essendo tra i primi della classe, facile era accontentarsi di fare l’agente immobiliare con una testa da architetto. Facile, probabilmente, era confondere una manipolazione terapeutica con la lussuria. E ora che si faceva toccare dal suo fisioterapista con un’intensità giusta in una zona di confine, nell’attesa di comunicargli dove fosse il punto esatto del dolore, Margherita tornò lí: suo marito, la porta del bagno, edificio 5 dell’università, piano terra, toilette femminile. Era quello il punto esatto che le doleva da due mesi. Eluse il pensiero, come si era abituata a fare nelle ultime settimane, ribaltando ogni fronte. Era una figlia attenta e disponibile? Poteva esserlo infinitamente meno. Era un’agente immobiliare che non abusava del tempo tra un sopralluogo e l’altro? Poteva abusarne. Era una paziente che non si sarebbe mai fatta sedurre da tre dita esperte? Poteva. Ogni volta che il pensiero di quel bagno si affacciava, lei poteva sovvertire la propria indole, distraendosi dal sospetto. Andrea le chiese se il dolore si fermasse esattamente dove la stava massaggiando. Le sarebbe bastato dire «Piú a destra» per avverare la sua fantasia. Andrea si sarebbe insinuato piú a destra e l’effetto sarebbe stato quello: godere, santo cielo. Invece disse: –Piú a sinistra. Lui si spostò. –Il dolore cresce la sera? –Dipende dai giorni. –Gli esercizi li fai? –Dipende dai giorni, –si aggiustò sul lettino, –in teoria sarei una donna ligia. –Dicono tutte cosí. –Tutte? –E poi si tirano indietro. –Cioè? –Non affrontano davvero il problema –. Premette appena: –Si è ispessito in questa zona, lo senti? Lei tacque. Era tutte le donne che affollavano quel luogo, il completino acquistato per l’occasione, le perle ai lobi e il domicilio in centro, un marito dai comportamenti discutibili, l’arrendevolezza. –Si sente che ami il tuo lavoro, Andrea. Lui diminuí l’intensità della pressione. –Voglio dire, sei bravo. Te lo dicono che sei bravo? –È capitato –. Si scostò da lei e girò intorno al lettino, frizionò con le dita la parte bassa della gamba e risalí piano. Margherita lo sentí avvicinarsi all’inguine senza fretta, arpionando il tendine centimetro per centimetro. Si concesse di immaginare come sarebbe stato a letto. Brutale, forse, inesperto probabilmente. Per un attimo considerò i due immobili vuoti dove avrebbe potuto portarlo: viale Sabotino 3, l’appartamento che non riuscivano ad affittare per le spese condominiali eccessive, e via Bazzini 18, il trilocale con la piccola Jacuzzi. –Piú a destra, –sussurrò di colpo, stupendosi di se stessa. Lui rallentò: –Piú a destra? –Un po’di piú. Lui sapeva che piú a destra era sbagliato. Aveva il tendine tra i polpastrelli nel punto esatto in cui doleva e lo stava già pizzicando al meglio. Piú a destra era qualcosa di rischioso, tranne che per un movimento minimo: abbassare il mignolo per assaporare il calore, l’umido, la consistenza differente, infine risollevarlo, senza mai aver interrotto il lavoro. Non lo aveva mai fatto, ma i suoi colleghi gli avevano mostrato l’esecuzione preservando il volto professionale. Ogni volta che arrivava un caso di tendinite adduttoria e la paziente era interessante, sgomitavano per farsela assegnare. Margherita era stata sua per l’apparente invisibilità. Una donna carina, quasi scialba. Invece si era rivelato un corpo di sorprese: e non per l’armonia muscolare, o le gambe sinuose e forti, o i fianchi levigati, era una rivelazione per come predisponeva il tendine e le articolazioni e tutta se stessa a quei cinquanta minuti di tensione curativa. Amava i mutismi di questa donna che lo facevano lavorare concentrato, Margherita dava l’idea di non avere pensieri e improvvisamente di averne. Cosí non la guardava mai, come spaventato all’idea di sorprenderla in quei balenii mentali. Piuttosto la annusava: emanava una fragranza che non aveva mai sentito –quasi di latte –, gli rimaneva finché non si buttava sotto la doccia. Controllò l’orologio, aveva ancora cinque minuti. L’aiutò a flettere la gamba e le chiese dove si intensificasse il dolore in base al piegamento, capí che doveva sciogliere una piccola contrattura a livello ischio-crurale. Si appoggiò la caviglia sulla spalla e insistette sul retro della coscia pizzicando la fascia muscolare, quando avvertí il blocco affondò. La sentí gemere come nelle prime sedute, era un mugolio e non un grido. Abbi pazienza, le disse, e pestò una seconda volta per riascoltare quel gemito che sapeva d’altro. Era come i suoi colleghi, dunque? Si fece leggero e rapido finché gli si indolenzí il braccio. Le adagiò la gamba sul lettino. –Ora fai un po’di ellittica, poi Alice ti seguirà negli esercizi. –Alice? –Oggi esco prima. Ma domani devi tornare. Si è infiammato in un modo che non mi piace. –Già domani? –Se puoi sí. Lei ci pensò su. –Riesco alle nove –. Tirò su la schiena e lasciò cadere le gambe penzoloni. –Dove te ne vai di bello oggi pomeriggio? Lui iniziò a schiudere il séparé. –Saranno anche fatti tuoi, perdonami –. Lei indossò i pantaloncini. –È che un pomeriggio libero a Milano fa sempre notizia. –Non sarà tanto libero. –Davvero? –Margherita fece una smorfia di imbarazzo. –Scusa, è piú forte di me, –e gli sfilò accanto, accomodandosi alla ellittica nella sala attrezzi. Andrea continuò a guardarla, poi si diresse nello spogliatoio. Si cambiò veloce, uscendo da FisioLab non pensava piú a lei e a nessuno dei pazienti. Una volta si portava dietro i corpi: come poterli riparare, in quanto tempo, come riuscire a ottimizzare le sedute. Poi aveva imparato a dimenticarli, camminando nella Milano delle vie signorili intorno a via Cappuccini, il formicare improvviso di corso Buenos Aires, il traffico rabbioso della circonvallazione, Milano la complicata. Complicato era l’aggettivo che le sue insegnanti e tutti gli attribuivano fin dall’infanzia. Complicato: parla poco. Complicato: non ascolta. Complicato: ha pestato un suo compagno. Complicato: ha abbandonato il suo cane da un giorno all’altro. Complicato: non ha mai avuto una ragazza, poi troppe di sbagliate. Complicato: Andrea Manfredi. E quando la madre aveva detto che suo figlio era complicato come Milano –difficile solo alle prime occhiate –, lui aveva saputo cosa significasse essere compreso. Adesso aveva bisogno di questo, «sentirsi parte», sfilando accanto a Villa Invernizzi e ai fenicotteri improbabili nella fontana, sotto lo sfoggio dei palazzi liberty anneriti dal traffico, tornando indietro nelle strade che finivano a Porta Venezia, con i froci e gli africani e i borghesi uno accanto all’altro, seguendo le rotaie di viale Piave ricoperte di erba fresca. Le costeggiò per un chilometro –aveva questo modo di passeggiare con le mani in tasca e le spalle curve, quasi elegante –, arrivò in piazza Tricolore e prese il 9 fino a Porta Romana, la borgata di Milano prima che diventasse di moda. Era cresciuto lí, i suoi genitori avevano da ventitre anni l’edicola di fronte alla chiesa di Sant’Andrea. Nell’edicola si era guadagnato gli studi di fisioterapia, lavorando dall’alba per sei estati di fila e facendo due inverni per intero. Sapeva spuntare le rese dei quotidiani con cura e portava avanti una sua filosofia di esposizione: tra le riviste inseriva un intruso, i fumetti della Marvel o gli illustrati sugli animali o gli album Panini. Il padre lo lasciava fare, poi riordinava. Suo padre riordinava sempre, anche quel giorno era chino su una cassetta e impilava con precisione gli Urania usati da vendere a due euro. –Io non ci vengo, –disse quando vide arrivare Andrea. –È testardo, –la madre uscí dall’edicola e fece un cenno. Andrea prese il padre per un braccio e lo aiutò a sollevarsi, aveva gli occhi acquosi, lo tenne lí mentre la madre gli passava la cartellina con i referti medici. –Fatemi sapere. Attraversarono la strada e sfilarono accanto alla chiesa, stavano vicini come avessero freddo, poi il vecchio ripeté Io non ci vengo. –Ci sono voluti due mesi per prenotare. –Sembri tua mamma. –È solo un controllo. –Non insistere. –Fai come ti pare. Faceva come gli pareva da quando i ragazzi del bar Rock lo avevano trovato steso davanti all’edicola che si teneva il braccio sinistro e si lamentava per il male al petto, era uscito dall’ospedale con tre bypass e il proclama che il Vaticano –non il Papa, ma i cardinali –e l’Inter –non Moratti, ma i giocatori –gli erano valsi il crepacuore. Poi aveva detto: l’edicola. E i medici gli avevano dato ragione, riposare quattro ore a notte per una vita aveva minato il miocardio. Cosí aveva dormito un’ora in piú, aveva smesso di sbraitare davanti alla Domenica Sportiva, di affannarsi, di dare quattro tiri alla Marlboro della moglie. Aveva smesso di provvedere prima che i bisogni venissero alla luce. Andrea se la sarebbe cavata. Maria se la sarebbe cavata. Lui aveva solo quell’imperativo: dar retta a se stesso. –Fatti visitare e finiscila. –Riprenditi un cane e non badare a me. Andrea lo seguiva di mezzo passo e continuò a seguirlo fino alla panchina a ridosso delle altalene. Si sedettero, il sole era debole per la foschia e il padre si chiuse la polo fino all’ultimo bottone, affogava nei jeans e le gambe ondeggiavano come pendoli. –Ti prendi un pastore tedesco e sei contento. Sulla panchina di fronte sedeva una ragazza con uno zaino di cuoio in grembo, dallo zaino estraeva qualcosa e se lo mangiava. Andrea la guardava, gli sembrò malinconica. –Oppure un maremmano –. Il padre raddrizzò la schiena, si afferrò una spalla. –Prenditelo tu. –Cosí smetti di badare a me, –continuava a tenersi la spalla. –Cos’hai? –Lo sgabello mi incricca. Andrea si fissò le mani. Erano ampie, e lisce, l’anulare piú lungo dell’indice. Le mise una nell’altra e le frizionò, le frizionava sempre quando era indeciso, con la coda dell’occhio controllò il padre che si afferrava la spalla. Cercò di ignorarlo, fissò la ragazza malinconica e si accorse che anche lei lo stava fissando, sullo sfondo alcune bambinaie sudamericane parlottavano alle altalene. Si portò i palmi al volto. Odoravano ancora di Margherita. Li abbassò. –Sei incriccato dove? –La signora Venturi non prende piú il «Corriere della Sera» perché il marito lo legge al computer. –La spalla? –Vendi l’edicola subito se non ci sono piú io. –La spalla e basta? –Un po’il collo. –Appoggiati bene e tieni le braccia lungo i fianchi. –Vendi l’edicola subito, hai capito? –Fa’come ti ho detto. Il padre non si mosse e Andrea si diresse dietro la panchina, lo aiutò ad adagiarsi sullo schienale e appena cominciò a massaggiarlo sentí che era leggero ed ebbe paura di fargli male. Avevano lo stesso naso, ma era l’espressione schiva a dire che erano un babbo e un figlio. Sofia smise di guardarli e finí di masticare la mandorla, sollevò lo zaino e lo indossò. Era uscita a metà della lezione di Pentecoste, aveva preso la 91 ed era scesa appena aveva adocchiato il parco Ravizza dal finestrino del filobus. Da quando aveva lasciato Rimini aveva voglia di spazi aperti. Sei mesi prima era arrivata in stazione Centrale scorticata dai desideri e con il presagio che la sua vita sarebbe cambiata, invece era al punto di partenza: una ventiduenne legata alla provincia che faceva cose di cui si pentiva. Si incamminò sull’erba, arrivò in strada con un’ultima occhiata al vecchio e al ragazzo che lo massaggiava, la foschia li confondeva. Proseguí lenta, Porta Romana era un quartiere che la rassicurava, le case con i tetti bassi e le botteghe, quando oltrepassò la chiesa si bloccò e ammise che avrebbe voluto scusarsi con Pentecoste. Essersi avvicinata alla cattedra davanti ai compagni l’aveva esposto ad altri sospetti. Avrebbe voluto confessargli che sua moglie non l’aveva seguita e che si era trovata per caso sul suo stesso tragitto. Ma cosa avrebbe potuto rispondere se le avesse chiesto perché lo aveva ingannato? Neanche lei sapeva perché lo aveva ingannato. Quando si era accorta della moglie di Pentecoste in metropolitana, si era confusa tra i passeggeri continuando a spiarla e l’aveva tenuta a distanza fino all’università. L’aveva vista sedersi in cortile e aveva raggiunto l’aula, avvicinando il professore per dirgli quella piccola menzogna. E mentre gliela diceva aveva provato un senso di giustizia: dopo il malinteso del bagno lui l’aveva tenuta a distanza, non le aveva piú dato la possibilità di un dialogo, nemmeno sul secondo racconto che gli aveva consegnato da quasi due mesi, lasciandola con la critica del primo, che aveva giudicato come inconsistente. –Inconsistente? –Inconsistente. Ecco perché gli aveva dato il secondo, di sette pagine, scritte a mano, in cui raccontava cosa fosse accaduto nella Fiat Punto con sua madre. L’aveva intitolato Come stanno le cose. Quando il professore l’aveva ricevuto, un mercoledí mattina, le aveva detto che non accettava lavori ideati su libera iniziativa. Lei era rimasta con i fogli tra le dita, glieli aveva abbandonati sulla cattedra, tenendoli d’occhio per tutta la lezione finché lui li aveva raccolti con i libri e il computer, mettendoli nella borsa, evitando di guardarla, come quando erano stati convocati dal rettore, con lui che non l’aveva degnata di una complicità, pur sapendo di essere appeso a ciò che lei avrebbe detto. Lei si era attenuta al copione: il malore nel bagno, lui che la soccorreva e l’aiutava a reggersi in piedi. Il rettore aveva ribadito che non ci sarebbero state conseguenze, non avrebbe nemmeno approfondito se non fosse stato lo stesso Pentecoste a insistere. Per arrivare alla versione comune aveva raggiunto il professore due giorni prima in un bar del quartiere cinese. Avevano messo a punto una cronaca minuziosa con sequenze e gesti e tempistiche naturali. L’avevano architettata, l’avevano ripetuta, avevano trascorso il resto del tempo a discorrere del piú e del meno. Quando erano usciti –lui aveva pagato il conto –e si erano salutati, lei aveva percorso a piedi la via che arriva al Cimitero Monumentale, aveva tirato fuori il telefono e spento la registrazione, aveva indossato gli auricolari per riascoltarla una volta, due volte, tre. Aver deciso di registrare voleva dire: il frutto non è caduto lontano dall’albero. Proteggersi, premunirsi, difendersi dalla realtà che ha in grembo eterne persecuzioni. Era l’ossessione della sua famiglia. I numeri ti daranno da vivere, non i libri: laurea triennale in Economia del turismo. Continua con la danza, potresti essere assunta da una compagnia rinomata. Lascia stare i ragazzi piú grandi di te. Milano ti farà perdere tempo. Custodire i cinquantuno minuti e trentasette secondi della registrazione era la prova che anche lei era questo. C’era però un dettaglio che la riportava a se stessa: il timbro della voce di Pentecoste. La cadenza morbida, le o appena schiuse, la risata timida e poi divertita, la facevano eccitare. Forse lei invece era questo, trarre piacere crogiolandosi sul monologo al minuto ventuno: «Ci porta anche una mezza naturale per favore? Tu prendi altro, Sofia? Ok, allora solo una mezza naturale, grazie. Stavo dicendo che i miei genitori mi avevano portato a casa un pulcino come ricompensa dopo l’intervento alle tonsille, avrò avuto quattro anni, era un pulcino che chiamavamo Alfredo e tenevamo in casa dei miei nonni, al piano di sotto, dentro uno scatolone. Era educato e pigolava poco e quando io ero da solo lo lasciavo libero in cucina e lo vedevo tentare un balzo, uno scatto, e la cosa che piú mi intrigava era rimetterlo nello scatolone e subito concedergli di nuovo la libertà. A distanza di piú di trent’anni ho capito che mi interessava questo, il passaggio dallo scatolone alla cucina, il momento preciso in cui le zampette acquisivano una propulsione timida e allo stesso tempo irrefrenabile, ma questo non significava che detestassi vederlo rinchiuso nel cartone. Mi attirava la sua trasformazione. Mi interessa il cambiamento che attraversa qualcuno quando ne ha la possibilità, capisci cosa intendo?» Ascoltava il monologo e premeva stop quando Pentecoste diceva propulsione, tornava indietro e lo riascoltava. La p battente e la s timida. Propulsione, il pulcino, Milano, il master che stava frequentando, il lavoro nella caffetteria dove era diretta adesso, infilandosi nel pertugio tra la basilica di San Nazaro e i giardini Cederna. Alla caffetteria lei amalgamava le lezioni di tecniche della narrazione alla sua indole pratica, certe volte annotava idee nel quadernetto delle comande. Era un posto accogliente, con il parquet decapato e alcune proposte vegane nel menu –il couscous era il piatto forte –, le davano nove euro netti all’ora. Aveva trovato l’annuncio nella bacheca dell’università, le avevano dato il posto dopo due giorni di prova, dicendole di perfezionarsi nel disegnare un cuore o un piccolo motivo sulla schiuma dei cappuccini. Lavorando sei turni alla settimana, con pochi straordinari, togliendo l’affitto, avrebbe restituito una parte dei settemila euro che suo padre le aveva finanziato per il master. Si sarebbe messa in tasca quarantacinque euro anche quel giorno, avrebbe riordinato le barrette di sesamo alla cassa chiacchierando con Khalil della sua Giordania, avrebbe abbellito di cornici colorate la lavagna su cui scrivevano i piatti speciali, avrebbe cercato di essere gentile con i clienti: cosí sarebbe riuscita a non immaginarsi il futuro in un luogo simile. Quando arrivò vide cinque persone sedute ai tavoli, mangiò di fretta un toast al salmone e avocado, poi si vestí nello sgabuzzino, annodò il grembiule di modo che non le premesse sui fianchi, tolse l’orologio e riempí la tasca con un po’di sale grosso –sua zia diceva che ne bastavano pochi grani contro gli influssi negativi. Raggiunse Khalil e gli arrotolò meglio la manica della camicia. –Continua a mancarmi Rimini, –disse accarezzandogli la spalla. –Sei qui da troppo poco. –Sei mesi non è troppo poco. –Per Milano? –Faccio io la cassa oggi, posso? Si disposero di fianco, lei agli scontrini e lui alla macchina del caffè. Quando non c’era nessuno stavano zitti, oppure Khalil le chiedeva di fare una lista di mansioni insieme, glielo chiese anche quel giorno, lei prese un post-it e cominciò a scrivere Pulire vetrina, lui rispose Buttare spazzatura, lei Predisporre forniture colazione, lui Rivedere foglio dei turni, lei Tagliare la frutta, lui Pregare cinque volte. –Ma non eri un giordano cristiano? –Cresci tu con il novantaquattro per cento di musulmani intorno e vediamo se non diventi competitiva. Lei sorrise. –Ora ragazza di Rimini scrivi qualcosa di tuo e finisci la lista. –Ho già scritto qualcosa di mio. –Tagliare la frutta? Complimenti per la tua anima profonda. Sentirono la porta aprirsi, lei tirò su la testa e vide che era la moglie di Pentecoste. Era entrata e stava riaccompagnando la maniglia dietro di sé. Sofia andò alla macchina del caffè e chiese a Khalil se poteva sostituirla alla cassa, diede la schiena alla sala, bagnò la spugna e iniziò a pulire il ripiano. La moglie si avvicinò e controllò il menu alla parete, ordinò un centrifugato verde. Khalil chiese se lo voleva piccolo, medio o grande. –Piccolo va benissimo, grazie. –Glielo portiamo noi al tavolo. Sofia accantonò la spugna e posizionò il tagliere al centro. Dai cassetti refrigerati prese la mela, il finocchio, il basilico, il lime, lo zenzero, cominciò ad affettare e mentre affettava si interruppe e si girò, la moglie si stava sedendo su uno degli sgabelli alla vetrina. Mise gli ingredienti nell’estrattore e stantuffò sette volte. Riempí il bicchiere, inserí il cappuccio e la cannuccia, lo porse a Khalil e raggiunse lo sgabuzzino. Si appoggiò alla parete e si tenne le mani nelle mani, le appoggiò sugli occhi. Restò immobile finché capí che doveva rientrare. Quando ricomparve, Khalil stava cambiando stazione radiofonica: –Stai bene, Sofi? Ma lei fissava la moglie che sorseggiava il centrifugato e sfogliava una delle riviste, si era spogliata del cappotto amaranto. Aveva il volto assorto e la cannuccia sulla punta delle labbra. Khalil le fece un cenno: –Va tutto bene? Gli disse di sí e buttò via gliscarti della frutta. Era la seconda volta in un giorno che vedeva la moglie del professore, la terza in totale, considerando l’inaugurazione del master. Aveva pensato che fosse una donna attraente, tuttora la ricordava bene, la camicia di taglio maschile e le décolleté abbinate al passo accorto. Le trasmise lo stesso fascino, il ciuffo castano le copriva un occhio e le gambe attorcigliate parevano riposare una intorno all’altra, le ricordò Virna Lisi. Le piacevano tanto i film vecchi con Virna Lisi, li aveva guardati con sua madre. Smise di scrutarla e prese il registro degli ordini, lo integrò con le rese che aveva fatto Khalil dopo le colazioni. Si concentrò sulle forniture di latte parzialmente scremato –doveva ordinarne un cartone in meno alla settimana –, poi sentí lo sgabello rullare sul parquet. Alzò la testa e vide che la moglie si stava avvicinando. Arrivò lí. –Posso parlarti? Sofia poggiò la penna. –Io? La moglie annuí. Khalil le guardava. –Vai pure. Sofia si tenne al grembiule, poi sfilò accanto alla cassa e si diresse verso la porta. La moglie ringraziò Khalil e la seguí, si ritrovarono nello spiazzo di ciottoli, cento metri piú avanti cominciavano i muri della Statale. –Sei Sofia e frequenti il corso con il professor Pentecoste. Annuí. –Volevo conoscerti, –la moglie appoggiò a terra la borsetta e lo zaino, si portò via i capelli dagli occhi. Capí che assomigliava alla Lisi dallo sguardo, rideva anche quando era serio. –Volevo chiederti la tua versione. Due ragazzi le sfiorarono entrando nella caffetteria. –La mia versione di cosa. –Ti prego. –Oh, –mormorò lei, e si accarezzò un lembo del grembiule. –Il professore ha già detto che. –Tu, –la moglie la interruppe. –Dimmelo tu. –Mi sono sentita poco bene e lui mi ha aiutata. –Davvero. –Davvero. –E prima, prima cos’è successo. La foschia si era dissolta, dava l’impressione che potesse scendere di nuovo. –Prima quando? –Prima del giorno del bagno. –Normale. –Normale cosa vuol dire? –Le lezioni, qualche volta ci ha portato fuori per i racconti da correggere –. Un border collie e il suo padrone le passarono accanto. –È il suo metodo. –Il metodo Pentecoste. Sofia guardò il border collie, annusava una coppia di cani a ridosso dell’aiuola. –Il professore ci porta in un luogo significativo e. –Fa una lezioncina lí. –Sí. –Dove ti ha portato? –Alla paninoteca. –Quella di Bianciardi in Brera. Sofia annuí. –E poi? –Una volta al quartiere cinese, –tirò fuori le mani dal grembiule e le lasciò penzoloni. –Mi sembra un interrogatorio. –Ti prego, –la moglie di Pentecoste tentò di sorridere. –Perché ti ha portato lí? Rimini. Il suo babbo e il camice blu della ferramenta. La base del faro giallo all’estremità est, tornare. –Eravamo un gruppetto di studenti e il professore voleva che, –si schiarí la voce. –Voleva che ambientassimo un racconto da quelle parti. –Quindi eri con altri? –Sí –. Mentire le chinava la testa, guardò a terra. –Hai ragione, sembra un interrogatorio. –Non fa niente. –Piacere, io sono Margherita, –si allungò per porgerle la mano. Sofia ricambiò, erano mani morbide. –Avevo bisogno di parlarti, credo che tu mi capisca. Mi capisci? Annuí, ed era vero. Le era affine in uno strano modo, perché non era riuscita a trattenersi, per i fianchi incoerenti al tratto longilineo. –Allora arrivederci, –Sofia fece per tornare dentro. –Ehi, –la moglie si era rimessa la borsa sulla spalla. Sofia la guardò. –Ehi, scusami per l’invadenza. Margherita si avviò, come le fosse venuto scusami se lo chiese per i primi tre passi, poi la invase la confusione. Aveva sbagliato a pronunciare l’ultima battuta. E poi cosa aveva voluto dire. L’importante era non essere sembrata una poverina, quelle donne tremolanti, quelle donne in balía, se lo ribadí rallentando davanti a una rosticceria indiana, ma perché lo aveva fatto? Perché forse lei era stata Sofia una dozzina di anni prima e perché forse lei adesso era tutte, come aveva detto il fisioterapista. Si fermò e fu certa che nella stessa situazione si sarebbe comportata come Sofia Casadei doveva essersi comportata, insidiare il confine di un maschio insidiabile. Si guardò la mano destra, come gliel’aveva stretta? Aveva avuto una presa abbastanza decisa? Era madida, se la mise in tasca e camminò con la convinzione di aver dato compimento a qualcosa. Magari ora avrebbe smesso di proiettarsi la scena del bagno, lui sopra la ragazza che accoglieva la sua lingua insistente, oppure lei inginocchiata e Carlo in piedi con i pantaloni slacciati. Aveva evitato di rinfacciare tutto a suo marito, tranne il fatto di aver sollevato lui stesso il polverone, pretendendo che il rettore sapesse la sua verità, che sua moglie sapesse la sua verità, che il mondo sapesse la sua cazzo di verità. Carlo aveva riversato la sua retorica su di loro, questo la faceva infuriare. Affrettò il passo e il tendine la punzecchiò, quando arrivò in piazza del Duomo era esausta. Mandò un messaggio in ufficio per avvertire che non sarebbe rientrata, tentennò a ridosso della galleria, poi scese in metropolitana e si diresse verso l’unico posto in cui aveva voglia di stare. Acquistò un biglietto ai distributori automatici e aspettò sulla banchina direzione nord. Tirò fuori Némirovsky e strinse il libro in grembo. Suite francese era un romanzo che traboccava di vita: c’era però anche un presagio tra le pagine, un ultimo canto alla vita, prima che Auschwitz interrompesse i sogni di chi lo stava scrivendo. Salí sulla metropolitana ripetendosi a mente il telegramma che il marito di Némirovsky scrisse al suo editore, appena la moglie fu prelevata dalla polizia: «Irène partita oggi all’improvviso. Destinazione Pithiviers (Loiret). Spero possiate intervenire urgenza stop Cerco invano telefonare». Impugnò il libro finché non scese a Pasteur, risalí in superficie e attraversò il quartiere dov’era cresciuta. Era stato dei milanesi, ora teneva insieme ventisette etnie diverse, studenti, un viavai che la metteva di buonumore, rallentò imboccando via delle Leghe con i suoi ristoranti cinesi e gli alimentari marocchini. Qui era stata se stessa prima delle passioni e quando ancora si accontentava. Il condominio della sua giovinezza faceva angolo, al piano terra la latteria adesso era un bar gestito da una famiglia tunisina, avevano il caffè Illy e una connessione internet veloce. Prese le chiavi ma decise di suonare, suonò due volte, il citofono gracchiò e lei disse: –Sono io. –Io? –Tua figlia. Spinse il portone e salí la prima rampa di scale, sua madre l’aspettava sul pianerottolo: –È successo qualcosa. –È venuto quello della caldaia? –Non cambiare discorso. –Non posso aver voglia di vedere la mia mamma? Dimmi della caldaia. La madre arricciò la bocca: –Era una de-com-pres-sio-ne, –scandí bene. –Il vaso in espansione scarico. La baciò sulla guancia, aveva una mamma che sapeva di Oil of Olaz. Era minuta e ti guardava dal basso verso l’alto. –Hai fame? Margherita andò nel salottino. La poltrona del padre era stata scostata dalla libreria, la televisione era accesa senza audio su Rai Uno. –Tesoro, dimmi tutto. –Volevo prendermi un’ora qui da te. –Come Churchill che si prende un giorno di ferie durante la Seconda guerra mondiale –. Le sedette accanto. Si zittiva appena capiva che il cuore della figlia era malconcio. Certe volte, quando Margherita era ragazza, nei momenti di subbuglio, le baciava la testa, ma dopo che si era sposata cercava una vicinanza piú accorta, standole fianco contro fianco, aggiustandole il colletto della camicia, spazzolandole il cappotto indosso con il dorso della mano. Le sfilò Némirovsky dalla presa. –Sai, tesoro, voglio dirtelo: io non leggo piú come prima, –e indicò la libreria. –Ho scoperto che leggevo per matrimonio. –Ti annoiavi cosí tanto con papà? –Al contrario, leggere mi faceva da cassa di risonanza –. Le spostò la frangia. –Se non mi vuoi dire che cos’hai, ti dirò io cosa c’è. –Non c’è niente, te l’ho detto. –Se ho sognato Pannella qualcosa c’è. –Mamma! –e non trattenne un sorriso. –Ma perché ti sei fissata con la politica? –Ho vissuto con un uomo che ha votato Berlusconi. Sai cosa mi ha risposto quando gli ho chiesto il motivo? –Eh. –Voto Silvio per il Drive In. –Tette e culi. –La leggerezza, tesoro, –si adagiò sul divano, –e capirai che tette e culi possono essere un buon intrattenimento. –Lasciamo perdere. La madre sollevò lo sguardo: –È per tuo marito, dunque. –Non ne voglio parlare, –e fissò la portafinestra. Il pavimento del balco[..ne era a livello del soggiorno, da piccola suo pa.dre le teneva aperte le ante e le permetteva di uscire con la bicicletta a rotelle, avanti e indietro, mentre la mamma cuciva accucciata sullo sgabello. Rammendava come leggeva, chirurgica e rapida, portando a casa lo stesso stipendio del marito ferroviere. *

Margherita misurò la perdita di suo marito mentre stava per entrare in agenzia.
Era certa che se avesse continuato con Andrea avrebbe esposto il suo matrimonio all’infrazione. Ebbrezza, avrebbe detto Némirovsky. Aprì la porta, disinnescò l’allarme e andò in bagno. Lo scandì davanti allo specchio: — Sei un’adescatrice di ventiseienni.
Si sentì diversa, più salda, e seppe che il suo reale spavento era perdere Carlo dentro di sé poco alla volta. Per questo gli aveva rivelato di Andrea prima dell’orgasmo, sperando che la confidenza mettesse in comunicazione i loro compartimenti stagni. Del resto, cosa avrebbe tolto un corpo nuovo al suo matrimonio? Magari non le sarebbe piaciuto nemmeno. Magari avrebbe fatto scaturire nuova linfa miracolosa per il loro sentimento. Quanto detestava la psicologia da due soldi: riportare il tradimento all’infelicità. Lei avrebbe tradito per le spalle larghe di Andrea. Per il suo sedere. Perché era giovane. Perché era timido e lei poteva fargli scoprire qualcosa di sé. E soprattutto: per il desiderio che il ragazzo aveva di lei. Vedersi desiderata in un modo primordiale, come prima dei fidanzamenti e degli altari e delle case acquistate con i mutui. La sua disfatta non era l’ammissione del fermento, lo stava ammettendo, piuttosto quella di non accettare il compromesso: che lei potesse toccare il fisioterapista ma suo marito non potesse toccare le altre. Si era rivelata una donna despota e non aveva nessunissima intenzione di fare passi indietro. Aveva smussato il fastidio per il malinteso del bagno, era ben lontana dall’averlo accantonato. Andrea era la ricompensa? Andrea era una voglia.
Gli aveva scritto e lui le aveva risposto in modo composto tranne per i puntini di sospensione che chiudevano la frase in cui le diceva che si sarebbero visti lunedì per la fisioterapia. Una volta Carlo le aveva detto che i puntini di sospensione sono una debolezza: gli scrittori li usano se vacillano sulla pagina. Poi aveva letto Avventure della ragazza cattiva, e si era resa conto che i puntini volevano dire altro. Le anime di Vargas Llosa li usano come preliminari di rivoluzioni. Tre puntini per un’intesa amorosa. Tre puntini per una sommossa politica. Tre puntini per sedursi. Così aveva chiamato Andrea. Avevano parlato della ferita alla mano e della sua gamba, lo aveva invitato per un caffè sabato o domenica. Lui le aveva risposto che andava bene…
***
Al risveglio, in Carlo, la prima immagine furono Margherita e il fisioterapista. Lei stesa su un lettino, le gambe schiuse, il ragazzo che le massaggiava l’interno coscia. Il piacere soffocato di lei, il ragazzo che non riusciva a trattenersi — come avrebbe potuto? — sfiorandola un poco dove non era lecito sfiorarla. Carlo sgattaiolò fuori dalla camera e andò in bagno, si lavò in fretta, raggiunse il cucinino e preparò la moka per Margherita. La lasciò da parte e addentò una fetta biscottata integrale, masticava calmo osservando l’angolo del tavolo, le ultime bollette pagate da inserire nel faldone, gli occhiali da lettura e il flacone dell’antistaminico, una piantina grassa, il cellulare di sua moglie sotto carica. Il cellulare di sua moglie. Si distrasse appuntandosi una possibile spesa al supermercato, riponendo nello zaino le bozze corrette degli impaginati sul Marocco, poi uscì di casa: come avrebbe reagito se avesse letto nel telefono di lei gli stessi messaggi che lui aveva indirizzato a Sofia? Camminò lento per via Montevideo, costeggiò parco Solari con i cani euforici dopo una notte in cuccia, seguiti dai loro padroni assonnati, scrutò la gioia in quegli animali senza guinzaglio e comunque fedeli.
Come avrebbe reagito se avesse saputo che Margherita aveva un altro uomo? Abbandonò il parco e scansò quell’interrogativo, si lasciò andare alla certezza che l’allerta per Sofia stava prendendo una forma diversa. Il suo ritorno a Rimini, non trovarla più in classe di lì a tre giorni, era una disfatta che ora poteva assorbire. A patto di non rintanarsi in Margherita. Aveva esteso il desiderio oltre il suo matrimonio, se avesse tentato di riconfinarlo avrebbe finito per vivere sua moglie come ripiego. Margherita era la felicità, lui lo avvertiva con certezza. Ma ora avvertiva anche una zona franca venuta a delimitarsi in modo solido, capriccioso, inconfutabile: questa parte della sua mente sprigionava energia ogni volta che sfiorava l’idea di Sofia. Sofia adesso, chissà chi in un futuro. L’altra felicità.
***
Margherita raggiunse Sofia. — Posso parlarti?
Sofia poggiò la penna. — Io?
La moglie annuì.
Sofia si tenne al grembiule, poi sfilò accanto alla cassa e si diresse verso la porta. La moglie ringraziò Khalil e la seguì, si ritrovarono nello spiazzo di ciottoli, cento metri più avanti cominciavano i muri della Statale.
— Sei Sofia e frequenti il corso con il professor Pentecoste.
Annuì.
— Volevo conoscerti, — la moglie appoggiò a terra la borsetta e lo zaino, si portò via i capelli dagli occhi. Capì che assomigliava alla Lisi dallo sguardo, rideva anche quando era serio. — Volevo chiederti la tua versione.
Due ragazzi le sfiorarono entrando nella caffetteria. — La mia versione di cosa.
— Ti prego.
— Oh, — mormorò lei, e si accarezzò un lembo del grembiule.
— Il professore ha già detto che.
— Tu, – la moglie la interruppe. – Dimmelo tu.
— Mi sono sentita poco bene e lui mi ha aiutata.
— Davvero.
— Davvero.
— E prima, prima cos’è successo.
La foschia si era dissolta, dava l’impressione che potesse scendere di nuovo. — Prima quando?
— Prima del giorno del bagno.
— Normale.
— Normale cosa vuol dire?
— Le lezioni, qualche volta ci ha portato fuori per i racconti da correggere —. Un border collie e il suo padrone le passarono accanto. — È il suo metodo.
— Il metodo Pentecoste.
Sofia guardò il border collie, annusava una coppia di cani a ridosso dell’aiuola. — Il professore ci porta in un luogo significativo e —.
— Fa una lezioncina lì.
— Sì.
— Dove ti ha portato?
— Alla paninoteca.
— Quella di Bianciardi in Brera.
Sofia annuì.
— E poi?
— Una volta al quartiere cinese, — tirò fuori le mani dal grembiule e le lasciò penzoloni. — Mi sembra un interrogatorio.
— Ti prego, – la moglie di Pentecoste tentò di sorridere.
— Perché ti ha portato lì?
Rimini. Il suo babbo e il camice blu della ferramenta.
La base del faro giallo all’estremità est, tornare. — Eravamo un gruppetto di studenti e il professore voleva che, — si schiarì la voce. — Voleva che ambientassimo un racconto da quelle parti.
— Quindi eri con altri?
— Sì —. Mentire le chinava la testa, guardò a terra.
— Hai ragione, sembra un interrogatorio.
— Non fa niente.
— Piacere, io sono Margherita, – si allungò per porgerle la mano.
Sofia ricambiò, erano mani morbide.
— Avevo bisogno di parlarti, credo che tu mi capisca.
— Mi capisci?
Sofia annuì, ed era vero. Le era affine in uno strano modo, perché non era riuscita a trattenersi, per i fianchi incoerenti al tratto longilineo.
— Allora arrivederci, — Sofia fece per tornare dentro.
— Ehi, — la moglie si era rimessa la borsa sulla spalla.
Sofia la guardò.
— Ehi, scusami per l’invadenza.
Margherita si avviò, come le fosse venuto scusami se lo chiese per i primi tre passi, poi la invase la confusione.