lunedì 18 marzo 2019


IL CERVELLO DI MIO PADRE
Jonathan Franzen
Einaudi


[...]Il desiderio di registrare le storie in maniera indelebile, di annotarle con parole permanenti, mi sembra imparentato con la nostra convinzione di non essere fatti di sola biologia. Mi chiedo se l’attuale sensibilità culturale al fascino del materialismo – la crescente propensione a considerare la psicologia come una questione chimica, l’identità come una questione genetica, e il comportamento come il prodotto di antiche esigenze dell’evoluzione umana – non sia intimamente connessa alla rinascita dell’oralità e al declino della parola scritta tipici dell’era postmoderna: le nostre continue telefonate, le nostre effimere e-mail, la nostra tenace devozione al luccichio del televisore.[...]

IL CERVELLO DI MIO PADRE
Questo è uno dei miei ricordi. In un nuvoloso mattino di febbraio del 1996, ricevetti per posta da St Louis il pacco di San Valentino di mia madre, che conteneva una romantica cartolina d’auguri rosa, due barrette Mr Goodbar da un etto, un cuore cavo di filigrana rossa con un anello di spago per appenderlo, e una copia del referto del neuropatologo che aveva compiuto l’autopsia sul cervello di mio padre.
Ricordo l’intensa luce grigia di quel mattino invernale. Ricordo di aver lasciato le barrette, la cartolina e il ninnolo in soggiorno, di aver portato il referto dell’autopsia in camera da letto e di essermi seduto a leggere. Il cervello(cosí cominciava il referto) pesava 1255 grammi e presentava un’atrofia parasagittale con dilatazione sulcale. Ricordo di aver convertito i grammi in libbre e le libbre in equivalenti familiari, i vassoi di carne cellofanati del supermercato. Ricordo di aver rimesso il referto nella busta senza leggere nient’altro.
Qualche anno prima di morire, mio padre aveva preso parte a una ricerca sulla memoria e l’invecchiamento finanziata dalla Washington University, e uno dei benefit per i partecipanti era un’autopsia cerebrale gratuita. Presumo che la ricerca offrisse altri benefit sotto forma di controlli medici e terapie, cosa che aveva spinto mia madre, che adorava gli omaggi di qualunque genere, a insistere perché mio padre si offrisse volontario. La parsimonia era anche, con tutta probabilità, l’unico motivo cosciente per cui aveva inserito il referto dell’autopsia nel mio pacco di San Valentino. Stava risparmiando i trentadue centesimi del francobollo.
I miei ricordi piú nitidi di quel mattino di febbraio sono visivi e spaziali: la barretta Mr Goodbar gialla, il mio trasferimento dal soggiorno alla camera da letto, la luce del tardo mattino di una stagione lontana dal solstizio d’inverno quanto dalla primavera. Eppure so di non potermi fidare nemmeno di questi ricordi. Secondo le teorie piú recenti, che si fondano su un gran numero di ricerche neurologiche e psicologiche condotte negli ultimi decenni, il cervello non è un album in cui i ricordi vengono immagazzinati separatamente come fotografie inalterabili. Un ricordo è, invece, come afferma lo psicologo Daniel L. Schacter, una «costellazione temporanea» di attività – un’eccitazione inevitabilmente approssimativa dei circuiti neuronali che collegano un insieme di immagini sensoriali e dati semantici per creare la sensazione momentanea di un ricordo unitario. Immagini e dati sono raramente appannaggio esclusivo di un unico ricordo. In realtà, mentre stavo vivendo l’esperienza di quella mattina di San Valentino, il mio cervello si stava basando su categorie preesistenti di «rosso» e «cuore» e «Mr Goodbar»; il cielo grigio che vedevo dalla finestra mi era familiare in seguito ad altre mille mattine d’inverno; e io avevo già milioni di neuroni impegnati nel ritratto di mia madre – la sua tirchieria con i francobolli, il suo romantico attaccamento ai figli, la sua rabbia persistente nei confronti di mio padre, la sua bizzarra mancanza di tatto, e cosí via. Secondo i modelli piú recenti, dunque, il mio ricordo di quel giorno è formato da un insieme di collegamenti neuronali fra le regioni del cervello interessate, e da una predisposizione dell’intera costellazione ad accendersi – chimicamente, elettricamente – quando qualsiasi segmento del circuito venga stimolato. Pronunciate le parole «Mr Goodbar» e chiedetemi di associarle liberamente, e se non dirò «Diane Keaton» dirò senz’altro «autopsia cerebrale».
Il mio ricordo di San Valentino funzionerebbe in questo modo anche se lo stessi rivangando adesso per la prima volta. Ma il fatto è che ho ri-ricordato quella mattina di febbraio innumerevoli volte da allora. Ho raccontato la storia ai miei fratelli. L’ho presentata come un Bizzarro Episodio Materno ai miei amici che amano questo genere di cose. L’ho persino raccontata, mi vergogno ad ammetterlo, a persone che conosco pochissimo. Ogni ulteriore rievocazione e narrazione consolida la costellazione di immagini e nozioni che formano il ricordo. A livello cellulare, secondo i neuroscienziati, ogni volta imprimo il ricordo piú in profondità, rafforzando i collegamenti dendritici fra i suoi componenti e incoraggiando ulteriormente l’attivazione di quello specifico insieme di sinapsi. Una delle grandi virtú adattative del nostro cervello, la caratteristica che rende la nostra materia grigia assai piú intelligente di qualsiasi macchina finora inventata (l’ingombro hard disk del mio portatile o il World Wide Web che insiste a rievocare, nei minimi dettagli, un sito di Beverly Hills 90210 il cui ultimo aggiornamento risale al 20/11/98), è la nostra capacità di dimenticare quasi tutto quello che ci è successo. Del passato conservo ricordi generici, prevalentemente divisi in categorie (un anno trascorso in Spagna; diverse serate in ristoranti indiani in East Sixth Street), ma relativamente pochi ricordi di episodi specifici. Tendo a ritornare sui ricordi che conservo, e in questo modo li rafforzo. Essi diventano letteralmente – morfologicamente, elettrochimicamente – parte dell’architettura del mio cervello.
Il modello di memoria che ho descritto in questo compendio piuttosto approssimativo, da profano, stimola lo scienziato dilettante che è in me. Tale modello si adatta perfettamente alla qualità dei miei ricordi, confusi e vividi allo stesso tempo, e incute soggezione con la sua immagine di reti neuronali che si autocoordinano spontaneamente, con un parallelismo su vasta scala, per creare la mia fantasmatica coscienza e il mio fortissimo senso dell’io. Lo trovo affascinante e postmoderno. Il cervello umano è una rete formata da cento, forse addirittura duecento miliardi di neuroni, con migliaia di miliardi di assoni e dendriti che si scambiano milioni di miliardi di messaggi per mezzo di almeno cinquanta trasmettitori chimici diversi. L’organo con cui osserviamo e cerchiamo di capire l’universo è di gran lunga l’oggetto piú complesso che conosciamo in quell’universo.
E tuttavia è anche un pezzo di carne. A un certo punto, forse piú tardi in quello stesso giorno di San Valentino, mi sforzai di leggere l’intero referto del patologo, che comprendeva una «Descrizione Microscopica» del cervello di mio padre:
Alcune sezioni della corteccia cerebrale frontale, parietale, occipitale e temporale presentavano numerose placche senili, del tipo piú diffuso, con un numero minimo di grovigli neurofibrillari. Il materiale trattato con ematossilina ed eosina mostrava la presenza evidente di corpi corticali di Lewy. L’amigdala presentava placche, grovigli sporadici e una lieve perdita neuronale.
Nell’annuncio che avevamo pubblicato sui giornali locali nove mesi prima, mia madre aveva voluto scrivere che mio padre era morto «dopo lunga malattia». Le piaceva il tono formale e reticente di quella frase, ma era difficile non percepire in essa anche il suo risentimento, l’accento sul termine lunga. L’identificazione delle placche senili nel cervello di mio padre da parte del patologo serví a confermare, come solo un’autopsia poteva fare, il fatto contro cui mia madre aveva lottato quotidianamente per molti anni: come milioni di altri americani, mio padre aveva il morbo di Alzheimer.
Questa era la sua malattia. Ed era anche, si potrebbe dire, la sua storia. Ma permettetemi di raccontarla.
L’Alzheimer è una di quelle classiche malattie «dall’inizio insidioso». Dato che anche le persone sane perdono la memoria quando invecchiano, non c’è modo di stabilire quale sia il primo ricordo a cadere vittima della malattia. La questione era particolarmente complicata nel caso di mio padre, che non solo era depresso, schivo e leggermente sordo, ma assumeva anche potenti farmaci per altri disturbi. Per molto tempo fu possibile attribuire i suoi non sequitur all’udito compromesso, la sua smemoratezza alla depressione, le sue allucinazioni ai farmaci; e fu proprio cosí che ci comportammo.
I ricordi piú vividi degli anni in cui mio padre cominciò il suo declino riguardano cose che non hanno niente a che vedere con lui. In effetti, sono piuttosto sconcertato dalla posizione centrale che la mia persona occupa nei miei ricordi, e dal ruolo marginale che vi svolgono i miei genitori. Ma in quegli anni vivevo lontano da casa. La mia principale fonte di informazioni erano le lamentele di mia madre nei confronti di mio padre, lamentele che prendevo con un grano di sale; la sentivo lamentarsi praticamente da sempre.
Quello dei miei genitori non è stato certo un matrimonio riuscito. Sono rimasti insieme per amore dei figli e perché non credevano che il divorzio li avrebbe resi piú felici. Finché mio padre lavorava, entrambi godevano di una certa autonomia nei rispettivi feudi, la casa e il posto di lavoro, ma quando lui andò in pensione, nel 1981, all’età di sessantasei anni, misero in scena una loro versione del dramma A porte chiuse, recitandolo giorno e notte nella loro confortevole casa suburbana. Io arrivavo per brevi visite come una forza di pace dell’Onu, e allora entrambe le fazioni mi presentavano con fervore le prove a carico dell’avversario.
A differenza di mia madre, che aveva subíto quasi trenta ricoveri ospedalieri nel corso della sua vita, mio padre ebbe una salute di ferro finché non andò in pensione. I suoi genitori e zii avevano superato gli ottanta e i novant’anni, e lui, Earl Franzen, era assolutamente certo che a novant’anni sarebbe stato ancora al mondo, «per vedere – diceva sempre – come andrà a finire». (Il suo omonimo anagrammatico Lear immaginava i suoi ultimi anni in termini simili: ascoltare le «notizie di corte» insieme a Cordelia, vedere «chi perde e chi vince, chi è dentro e chi è fuori»). Mio padre non aveva hobby, e i suoi unici piaceri erano sedersi a tavola, vedere i figli e giocare a bridge, ma aveva un interesse narrativo nei confronti della vita. Guardava una quantità sbalorditiva di notiziari televisivi. La sua aspirazione per la vecchiaia era seguire la storia della nazione e quella dei suoi figli il piú a lungo possibile.
La passività di questa aspirazione e la monotonia delle sue giornate lo rendevano quasi invisibile ai miei occhi. Dai primi anni del suo declino mentale riesco a ripescare un unico ricordo diretto: io che lo guardo, verso la fine degli anni Ottanta, mentre si sforza invano di calcolare la mancia sul conto del ristorante.
Per fortuna, mia madre era una grande scrittrice di lettere. La passività di mio padre, che io consideravo deplorevole ma non del tutto affar mio, era per lei fonte di amaro disappunto. Fino all’autunno del 1989 – un’epoca in cui, secondo le sue lettere, mio padre giocava ancora a golf ed eseguiva le principali riparazioni domestiche – mia madre mantenne le sue lamentele in termini strettamente personali:
È estremamente difficile vivere con una persona molto infelice quando sospetti di essere la causa principale di quell’infelicità. Decenni fa, quando papà mi disse che secondo lui l’amore non esisteva (che il sesso era una «trappola») e che lui non era tagliato per essere una persona «felice», avrei dovuto essere tanto furba da capire che quella relazione non sarebbe mai stata soddisfacente per me. Ma ero indaffarata & impegnata con i figli e gli amici a cui volevo bene, e credo di essermi detta, come Rossella O’Hara, «Ci penserò domani».
Questa lettera risale al periodo in cui la sordità di mio padre era diventata il nuovo campo di battaglia dei miei genitori. Mia madre sosteneva che fosse uno sconsiderato a non portare l’apparecchio acustico; mio padre protestava che gli altri non si premuravano di «parlare ad alta voce». La battaglia culminò con una vittoria di Pirro: mio padre acquistò un apparecchio acustico che poi si rifiutò di portare. Anche questa volta, mia madre elaborò un racconto morale sulla «testardaggine», la «vanità» e il «disfattismo» di mio padre; ma è difficile non immaginare, in retrospettiva, che le sue orecchie difettose servissero già a camuffare un problema piú serio.
Una lettera di mia madre del gennaio 1990 contiene il primo accenno scritto a questo problema:
Un giorno, la settimana scorsa, ha dovuto saltare il farmaco dell’ora di colazione per sostenere dei test motori alla Washington University, dove è in corso la ricerca su Memoria & Invecchiamento. Quella notte mi sono svegliata al suono del rasoio elettrico, ho guardato l’orologio & lui era in bagno a farsi la barba alle 2,30.
Nel giro di pochi mesi mio padre cominciò a commettere cosí tanti errori che mia madre fu costretta a prendere in considerazione altre spiegazioni:
Può darsi che sia stressato o deconcentrato o che abbia subíto un deterioramento mentale, ma ultimamente si è verificata una serie di incidenti che mi preoccupano molto. Continua a lasciare la macchina aperta o le luci accese & abbiamo dovuto chiamare l’assistenza due volte in una settimana per venire a ricaricare la batteria (adesso ho attaccato dei cartelli in garage & sembra che funzioni)… non mi piace affatto l’idea di lasciarlo solo in casa per piú di qualche minuto.
Il suo timore di lasciarlo solo si fece sempre piú assillante con il passare dei mesi. Mia madre aveva il ginocchio destro malconcio, e dato che aveva già una placca d’acciaio nella gamba per una frattura precedente, doveva affrontare un complicato intervento seguito da un lungo periodo di convalescenza e riabilitazione. Le lettere che scrisse tra la fine del 1990 e l’inizio del 1991 si distinguevano per i paragrafi tormentati in cui si chiedeva se sottoporsi all’intervento e, in tal caso, cosa fare di mio padre.
Se rimanesse a casa da solo per piú di una notte mentre sono all’ospedale sarei terribilmente in ansia, perché non chiude i rubinetti, si dimentica il gas aperto, lascia le luci accese dappertutto, ecc… Ultimamente controllo e ricontrollo tutto quello che posso, ma anche cosí molte nostre faccende sono in disordine & la cosa piú difficile da affrontare è il suo risentimento per le mie intrusioni – «non ti impicciare!!!» Non accetta né capisce il mio desiderio di rendermi utile & questa è la cosa piú difficile per me.
A quell’epoca avevo appena terminato il mio secondo romanzo, e cosí mi offrii di stare con mio padre mentre mia madre veniva operata. Per non ferire il suo orgoglio, concordammo di fingere che non sarei venuto per lui, ma per lei. La cosa strana, tuttavia, era che fingevo soltanto a metà. Lei descriveva l’incapacità di mio padre in maniera inconfutabile, ma mio padre era altrettanto inconfutabile quando la dipingeva come un’allarmista bisbetica. Andai a St Louis perché, per lei, quell’incapacità era assolutamente reale; una volta là, mi comportai come se per me non lo fosse affatto.
A conferma dei suoi timori, mia madre restò in ospedale per quasi cinque settimane. Stranamente, nonostante quella fosse la prima e l’ultima volta che rimanevo solo con mio padre per cosí tanto tempo, ho pochissimi ricordi precisi di quel periodo passato con lui; ho la vaga impressione che fosse piuttosto taciturno, ma per il resto completamente normale. Ciò poteva sembrare in totale contraddizione con i precedenti resoconti di mia madre. E tuttavia non ho alcun ricordo di essere stato turbato da quella contraddizione. Quello che ho, invece, è la copia di una lettera che scrissi a un amico mentre ero a St Louis. Nella lettera, parlando di mio padre, accennavo al fatto che gli avevano aggiustato le dosi delle medicine e che adesso andava tutto bene.
Mi illudevo? Sí, fino a un certo punto. Ma una delle principali caratteristiche della mente è la smania di costruire interi a partire da frammenti. Tutti quanti abbiamo un vero e proprio punto cieco nel campo visivo, nella zona in cui il nervo ottico si congiunge alla retina, ma il nostro cervello registra immancabilmente un mondo senza soluzione di continuità. Cogliamo parte di una parola e ci sembra di sentirla per intero. Vediamo volti espressivi in una tappezzeria a disegni floreali; siamo sempre impegnati a riempire gli spazi vuoti. Allo stesso modo, credo che fossi incline a inserire interpolazioni fra i silenzi e le assenze mentali di mio padre e a insistere nel vederlo come lo stesso vecchio Earl Franzen di sempre. Avevo ancora bisogno che recitasse un ruolo nella mia storia. Nella lettera che scrissi al mio amico, descrivevo una prova mattutina della St Louis Symphony a cui mia madre ci aveva esortato ad assistere perché i biglietti omaggio non andassero sprecati. Al termine della prima parte, nella quale la giovanissima Midori aveva eseguito alla perfezione il concerto per violino di Sibelius, mio padre saltò in piedi in preda a un’infelice agitazione geriatrica. «Bene, – disse, – è ora di andare». Ebbi abbastanza buonsenso da non chiedergli di fermarsi per la sinfonia di Charles Ives che veniva dopo, ma lo odiai per quella che ritenni una mancanza di sensibilità artistica. Sulla strada di casa, fece un commento su Midori e Sibelius. «Non capisco quella musica, – disse. – Cosa fanno, la imparano a memoria?»
Piú tardi, quella stessa primavera, gli fu diagnosticato un piccolo cancro alla prostata a lento sviluppo. I medici gli consigliarono di non darsi la pena di curarlo, ma lui insistette per un ciclo di radioterapia. Per una specie di coscienza indiretta del proprio stato mentale, era terrorizzato dall’idea che qualcosa non funzionasse in lui: che, dopotutto, non sarebbe vissuto fino a novant’anni. Mia madre, che ebbe un’emorragia interna al ginocchio per i sei mesi successivi all’operazione, era poco paziente con quella che considerava la sua ipocondria. Nel settembre del 1991 scrisse:
È un sollievo che papà abbia cominciato la radioterapia & questo lo obbliga a uscire di casa tutti i giorni [inserita, a questo punto, una faccina sorridente] – un grosso vantaggio. Era ormai cosí nervoso, cosí preoccupato, cosí depresso che doveva per forza prendere una decisione. In effetti, essendo diventato cosí sedentario (contento di non far nulla), ha avuto troppo tempo per preoccuparsi & pensare a se stesso – HA BISOGNO di distrazioni!… Sono sempre piú convinta che le maggiori qualità che una persona possa avere siano (1) un atteggiamento positivo & (2) un buon senso dell’umorismo – vorrei che papà le avesse.
Seguirono alcuni mesi di relativo ottimismo. Il cancro era stato debellato, il ginocchio di mia madre era finalmente migliorato, e nelle lettere era ricomparsa la sua innata fiducia. Mi raccontò che mio padre aveva vinto una partita a bridge: «Ora che ha la mente un po’ piú lucida & un approccio meno prudente sta giocando benissimo & questa è quasi l’unica cosa che lo diverte (& che lo tiene sveglio!)» Ma l’ansia di mio padre per la propria salute non diminuí; aveva dolori allo stomaco che era convinto fossero causati dal cancro. A poco a poco, il senso della storia che mia madre mi stava raccontando passò dal personale e morale allo psichiatrico. «È davvero sconvolgente il numero di amici che abbiamo perso negli ultimi sei mesi – tutto questo fa parte del nervosismo & della depressione di papà, ne sono certa», scriveva nel febbraio del 1992. La lettera continuava:
Le conclusioni dell’internista, il dottor Rouse (che ha escluso tutte le possibilità cliniche), confermano pressappoco quello che ho sempre pensato riguardo ai disturbi di stomaco di papà. Papà è (1) terribilmente nervoso, (2) molto depresso & spero che il dottor Rouse gli prescriva un antidepressivo. Sono certa che esiste una cura… L’anno scorso sono successe cose sconvolgenti, angoscianti, nella nostra vita, lo so benissimo, ma la malattia mentale di papà lo sta danneggiando fisicamente & se non vuole sottoporsi a una terapia (come suggerisce il dottor Weiss) forse adesso accetterà le pillole o qualunque cosa occorra per nervosismo & depressione.
Per qualche tempo l’espressione «nervosismo & depressione» fu un elemento costante nelle sue lettere. Il Prozac sembrò tirarlo su di morale, ma gli effetti furono di breve durata. Infine, nel luglio del 1992, con mia sorpresa, mio padre acconsentí a farsi vedere da uno psichiatra.
Mio padre era sempre stato estremamente diffidente nei riguardi della psichiatria. Considerava la terapia come un’invasione della privacy, la salute mentale come una questione di autodisciplina, e i suggerimenti sempre piú energici di mia madre affinché «parlasse con qualcuno» come atti di aggressione – piccole granate di riprovazione lanciate contro la loro infelicità di coppia. Il fatto che mettesse piede volontariamente in uno studio psichiatrico era una misura della sua disperazione.
In ottobre, quando mi fermai a St Louis prima di partire per l’Italia, gli chiesi delle sue sedute con il medico. Agitò le mani in un gesto disperato. «È molto competente, – disse. – Ma temo che mi abbia rifiutato».
L’idea che qualcuno rifiutasse mio padre era piú di quanto potessi sopportare. Dall’Italia inviai un appello di tre pagine allo psichiatra perché riesaminasse il caso, ma proprio mentre lo scrivevo, a casa andava tutto a rotoli. «Mi dispiace dirtelo, – scriveva mia madre in una lettera spedita via fax in Italia, – ma papà è peggiorato terribilmente. Il farmaco per i problemi urinari prescritto dall’urologo, in combinazione con quello per depressione e nervosismo, l’ha mandato di nuovo fuori di testa, ha avuto allucinazioni terribili». Durante un fine settimana da mio zio Erv in Indiana, mio padre, allontanato dall’ambiente familiare, aveva scatenato una notte di follia culminata con mio zio che gli urlava in faccia: «Earl, Dio mio, sono tuo fratello, Erv, abbiamo dormito nello stesso letto!» Tornato a St Louis, mio padre aveva cominciato a infierire contro la signora Pryble, la pensionata che mia madre aveva assunto per prestargli assistenza due mattine la settimana mentre lei andava in giro per commissioni. Non capiva perché avesse bisogno di assistenza, e, anche ammesso che ne avesse bisogno, non vedeva perché dovesse assisterlo un’estranea, invece che sua moglie. Era diventato il classico «nottambulo», che sonnecchiava di giorno e si scatenava durante le ore piccole.
Infine ci fu una triste visita festiva durante la quale io e mia moglie intervenimmo in favore di mia madre e la mettemmo in contatto con un assistente sociale per anziani, e mia madre ci esortò a stancarlo perché dormisse tutta la notte senza episodi psicotici, e mio padre sedette con il volto impietrito davanti al caminetto o raccontò macabre storie della sua infanzia mentre mia madre si angosciava per la spesa, la spesa proibitiva, delle sedute con l’assistente sociale. Ma nemmeno allora, per quanto ricordi, qualcuno pronunciò la parola «demenza». In tutte le lettere di mia madre, la parola «Alzheimer» appare esattamente una volta, in riferimento a un’anziana signora tedesca per la quale lavoravo da ragazzo.
Ricordo la diffidenza e il fastidio che provai quando l’espressione «morbo di Alzheimer» cominciò a diffondersi, quindici anni fa. Mi sembrava un altro esempio della medicalizzazione dell’esperienza umana, l’ultima voce della sempre piú ricca terminologia del vittimismo. Alle notizie fornitemi da mia madre sulla mia vecchia datrice di lavoro replicai: «Quella che descrivi sembra la solita vecchia Erika, solo molto peggiorata, e non è cosí che dovrebbe agire l’Alzheimer, giusto? Ogni mese passo qualche minuto a irritarmi per le comuni malattie mentali che, per moda, vengono erroneamente diagnosticate come Alzheimer».
Dalla mia posizione attuale, nella quale passo qualche minuto al mese a irritarmi per il trentenne moralista che ero allora, riesco a vedere la mia riluttanza ad applicare il termine «Alzheimer» a mio padre come un modo per proteggere la specificità di Earl Franzen dalla genericità di una malattia nominabile. Le malattie hanno dei sintomi; i sintomi fanno pensare al fondamento organico di tutto ciò che siamo. Fanno pensare al cervello come a un pezzo di carne. E, laddove dovrei riconoscere che, sí, il cervello è un pezzo di carne, sembro invece conservare un punto cieco nel quale inserisco storie che enfatizzano gli aspetti dell’io piú legati all’anima. Vedere mio padre malato come una collezione di sintomi organici mi spingerebbe a interpretare anche l’Earl Franzen sano (e il me stesso sano) in termini sintomatici – a ridurre le nostre amate personalità a insiemi circoscritti di coordinate neurochimiche. Chi vorrebbe vedere la storia della propria vita in questo modo?
Anche adesso mi sento a disagio quando raccolgo informazioni sull’Alzheimer. Leggendo, per esempio, il libro di David Shenk The Forgetting: Alzheimer’s: Portrait of an Epidemic, mi torna in mente che quando mio padre si perdeva nel suo quartiere, o si dimenticava di tirare lo sciacquone, stava manifestando sintomi identici a quelli di milioni di altre persone malate. Può essere consolante avere tanta compagnia, ma mi dispiace vedere il significato personale staccarsi da certi errori di mio padre, come confondere la moglie con la suocera, una cosa che allora mi parve bizzarra e misteriosa e dalla quale racimolai ogni sorta di nuove e importanti intuizioni sul matrimonio dei miei genitori. A quanto pare, il mio senso della personalità individuale era illusorio.
La demenza senile esiste da quando la gente ha i mezzi per descriverla. Quando la durata media della vita umana era ancora breve e la vecchiaia una relativa rarità, la senilità era considerata un naturale sottoprodotto dell’invecchiamento – forse il risultato dello sclerotizzarsi delle arterie cerebrali. Il giovane neuropatologo tedesco Alois Alzheimer credette di trovarsi di fronte a un tipo completamente nuovo di malattia mentale quando, nel 1901, ricoverò nella propria clinica una donna di cinquantun anni, Auguste D., che soffriva di strani sbalzi d’umore e gravi perdite di memoria e che, durante la prima visita, forní risposte problematiche alle domande di Alzheimer:
«Nome?»
«Auguste».
«Cognome?»
«Auguste».
«Come si chiama suo marito?»
«Auguste, credo».
Quattro anni dopo, quando Auguste D. morí in manicomio, Alzheimer, avvalendosi dei recenti progressi nel campo della microscopia e della colorazione istologica, riuscí a distinguere nei vetrini dei suoi tessuti cerebrali la natura sorprendentemente doppia della sua malattia: innumerevoli pezzi di «placca» dall’aspetto vischioso e innumerevoli neuroni sommersi da «viluppi» di fibrille neuronali. Le scoperte di Alzheimer suscitarono un grande interesse nel suo mentore Emil Kraepelin, l’allora decano della psichiatria tedesca, che era impegnato in una feroce disputa scientifica con Sigmund Freud e con le sue teorie psicoletterarie sulla malattia mentale. Le placche e i viluppi di Alzheimer fornivano un gradito sostegno clinico alla tesi di Kraepelin secondo cui la malattia mentale era fondamentalmente organica. Nel suo Trattato di psichiatria egli definí la malattia di Auguste D. Morbus Alzheimer.
Nei sessant’anni successivi all’autopsia effettuata da Alzheimer su Auguste D., proprio mentre i progressi nella prevenzione e nella cura delle malattie aggiungevano quindici anni all’aspettativa di vita nelle nazioni sviluppate, il morbo di Alzheimer continuò a essere considerato una rarità medica, un po’ come la corea di Huntington. David Shenk racconta di una neuropatologa americana di nome Meta Naumann che, nei primi anni Cinquanta, praticò l’autopsia cerebrale su 210 vittime di demenza senile e scoprí che una minoranza presentava arterie sclerotizzate, mentre la maggior parte mostrava la presenza di placche e viluppi. Era la prova inconfutabile che il morbo di Alzheimer era molto piú diffuso di quanto si pensasse; ma a quanto pare il lavoro di Naumann non convinse nessuno. «Pensavano che Meta dicesse sciocchezze», ricorda suo marito.
La comunità scientifica non era semplicemente pronta ad accettare il fatto che la demenza senile fosse qualcosa di piú di una naturale conseguenza dell’invecchiamento. Nei primi anni Cinquanta non c’era una categoria consapevole di «anziani», non era ancora scoppiato il boom delle comunità di pensionati della Sun Belt, non esisteva l’Aarp1, né lo sconto al ristorante per chi mangia al turno delle sei; e il pensiero scientifico rifletteva queste realtà sociali. Bisognava attendere gli anni Settanta perché maturassero le condizioni per una nuova interpretazione della demenza senile. A quell’epoca, come afferma Shenk, «le persone vivevano cosí a lungo che la senilità non sembrava piú tanto normale o accettabile». Il Congresso approvò il Research on Aging Act2 nel 1974, e istituí il National Institute on Aging3, su cui ben presto si riversò una cascata di fondi. Alla fine degli anni Ottanta, al culmine della mia irritazione contro il termine clinico e la sua improvvisa ubiquità, l’Alzheimer aveva ottenuto lo stesso status sociale e medico delle cardiopatie e del cancro – e la quantità di fondi destinati alla ricerca era lí a dimostrarlo.
Ciò che accadde con l’Alzheimer negli anni Settanta e Ottanta non fu solo un cambiamento nel paradigma diagnostico. Il numero di nuovi casi è in vertiginoso aumento. Dato che sempre meno persone vengono stroncate da un infarto o muoiono per un’infezione, sono sempre di piú quelle che sopravvivono per diventare dementi. Nelle cliniche i pazienti con l’Alzheimer vivono molto piú a lungo degli altri, al costo di almeno quarantamila dollari l’anno a paziente; finché non vengono ricoverati, essi sconvolgono progressivamente la vita dei membri della famiglia incaricati di assisterli. Sono già cinque milioni gli americani con questa malattia, e il loro numero potrebbe salire a quindici milioni entro il 2050.
Dato che esiste un grosso giro di denaro intorno alle malattie croniche, le industrie farmaceutiche stanno investendo febbrilmente nella ricerca di brevetti per l’Alzheimer, mentre gli scienziati che attingono ai finanziamenti pubblici presentano richieste di brevetto per conto proprio. Ma poiché la conoscenza della malattia rimane vaga (un cervello funzionante non è molto piú accessibile del centro della terra o dei confini dell’universo), nessuno può dire con certezza quali percorsi di ricerca porteranno a una cura efficace. Nel complesso, a quanto pare, l’opinione diffusa nel settore è che le persone sotto i cinquant’anni possano ragionevolmente aspettarsi di ricevere farmaci efficaci contro l’Alzheimer nel momento in cui ne avranno bisogno. Ma d’altra parte, vent’anni fa, molti ricercatori avevano predetto che nel giro di vent’anni si sarebbe trovata una cura per il cancro.
David Shenk, che è tranquillamente sotto i cinquanta, sostiene in The Forgetting che una cura per la demenza senile potrebbe avere dei risvolti negativi. Egli osserva, per esempio, una sorprendente peculiarità dell’Alzheimer: spesso i pazienti soffrono sempre meno con il procedere della malattia. Assistere un ammalato di Alzheimer è faticosamente ripetitivo proprio perché l’ammalato non ha piú l’equipaggiamento cerebrale necessario a percepire la ripetizione. Shenk cita pazienti che parlano di «qualcosa di delizioso nell’oblio», e che avvertono un’esaltazione dei piaceri sensoriali nel momento in cui giungono a stabilirsi in un eterno Presente senza passato. Se la nostra memoria a breve termine è distrutta, non ci ricorderemo, quando ci chiniamo ad annusare una rosa, che ci siamo chinati ad annusare quella stessa rosa per tutta la mattina.
Come osservò per la prima volta lo psichiatra Barry Reisberg vent’anni fa, il declino di un ammalato di Alzheimer rispecchia in senso inverso lo sviluppo neurologico di un bambino. Le prime capacità sviluppate dal bambino – alzare la testa (da uno a tre mesi), sorridere (dai due ai quattro mesi), mettersi a sedere senza bisogno di aiuto (dai sei ai dieci mesi) – sono le ultime a scomparire nella persona affetta da Alzheimer. Lo sviluppo cerebrale del bambino si consolida tramite un processo chiamato mielinizzazione, nel quale i collegamenti assonali fra neuroni vengono gradualmente rinforzati da guaine di mielina, una sostanza grassa. A quanto pare, poiché le regioni che si sviluppano per ultime nel cervello del bambino restano le meno mielinizzate, queste regioni saranno anche le piú esposte all’aggressione dell’Alzheimer. L’ippocampo, che trasforma i ricordi a breve termine in ricordi a lungo termine, è molto lento a mielinizzarsi. Ecco perché non siamo in grado di formare ricordi episodici permanenti prima dei tre o quattro anni, e perché l’ippocampo è la prima zona in cui compaiono le placche e i viluppi dell’Alzheimer. Ed ecco da dove arriva l’apparizione spettrale della paziente allo stadio intermedio che è ancora in grado di camminare e nutrirsi da sola anche se non ricorda niente da un’ora all’altra. Il bambino interiore non è piú interiore. Neurologicamente parlando, siamo di fronte a una persona dell’età di un anno.
Benché Shenk cerchi coraggiosamente di vedere un vantaggio nell’infantile affrancamento dalle responsabilità e nella fanciullesca concentrazione sul Presente dell’ammalato di Alzheimer, sono certo che tornare bambino fosse l’ultima cosa che mio padre desiderava. Le storie che raccontava sulla sua infanzia nel Nord del Minnesota erano generalmente (come si addice ai ricordi di un depresso) orribili: padre brutale, madre ingiusta, interminabili faccende domestiche, povertà e isolamento, tradimenti famigliari, spaventosi incidenti. Piú di una volta mi aveva detto, quando era già in pensione, che il piú grande piacere della sua vita era stato andare a lavorare da adulto in compagnia di altri uomini che apprezzavano le sue capacità. Mio padre era un uomo profondamente riservato, e per lui essere riservati significava mantenere il contenuto vergognoso della propria vita intima lontano dagli sguardi della gente. Poteva esistere per lui una malattia peggiore dell’Alzheimer? Nelle fasi iniziali, essa provocò la disgregazione dei rapporti interpersonali che lo avevano salvato dai peggiori momenti di isolamento depressivo. Nelle fasi piú avanzate lo privò della protezione della condizione adulta, dei mezzi con cui nascondeva il bambino dentro di sé. Avrei preferito che gli venisse un infarto.
Eppure, benché gli argomenti di Shenk a favore dei lati positivi dell’Alzheimer siano piuttosto deboli, il suo assunto centrale è piú difficile da respingere: la senilità non è soltanto una distruzione di significato ma anche una fonte di significato. Nel caso di mia madre, i danni dell’Alzheimer da una parte amplificarono e dall’altra rovesciarono alcuni schemi ricorrenti del suo matrimonio. Mio padre si era sempre rifiutato di parlarle di sé, e adesso, ogni giorno di piú, non riusciva a parlarle di sé. Per mia madre, lui era sempre lo stesso Earl Franzen che sonnecchiava nella saletta e non ci sentiva bene. Paradossalmente, fu lei quella che lentamente e inevitabilmente perdette se stessa, vivendo con un uomo che la scambiava per sua madre, che dimenticava tutto quello che sapeva di lei e che alla fine smise di chiamarla per nome. Lui, che aveva sempre sostenuto di essere il capo all’interno del matrimonio, quello che prendeva le decisioni, l’adulto che proteggeva la moglie infantile, adesso non poteva fare a meno di comportarsi come un bambino. Adesso era lui, e non piú mia madre, a lasciarsi andare a indecorosi scoppi emotivi. Adesso lei lo portava in giro per la città come un tempo aveva portato me e i miei fratelli. Una mansione dopo l’altra, assunse il controllo della vita di entrambi. E cosí, la «lunga malattia» di mio padre, benché terribilmente faticosa e frustrante, le diede l’opportunità di acquisire gradualmente un’autonomia che non le era mai stata concessa: di sistemare qualche vecchio conto in sospeso.
Quanto a me, una volta accettata la portata del disastro, la pura e semplice durata della malattia mi costrinse a un piú stretto e inaspettatamente gradito contatto con mia madre. Imparai, come probabilmente non avrei imparato altrimenti, che potevo davvero contare sui miei fratelli e che loro potevano contare su di me. E stranamente, pur avendo sempre stimato le mie doti di intelligenza e buonsenso e consapevolezza, scoprii che vedere mio padre perderle tutte e tre mi rendeva meno timoroso di perderle a mia volta. Diventai un po’ meno timoroso in generale. Davanti a me si era aperta una brutta porta, e io scoprii di essere in grado di oltrepassarla.
La porta in questione era al quarto piano del Barnes Hospital, a St Louis. Circa sei settimane dopo che io e mia moglie avevamo messo in contatto mia madre con l’assistente sociale ed eravamo tornati sulla costa orientale, mio fratello maggiore e i medici convinsero mio padre a entrare in ospedale per una serie di accertamenti. L’idea era quella di ripulirgli il sangue da tutti i farmaci e vedere cosa c’era sotto. Mia madre lo aiutò a registrarsi all’accettazione e passò il pomeriggio a sistemarlo nella stanza. Quando lo lasciò per andare a cena, mio padre era sempre uguale, semipresente come al solito, ma quella sera, a casa, mia madre cominciò a ricevere telefonate dall’ospedale, prima da mio padre, che le chiedeva di andare a toglierlo da «questo albergo», e poi dalle infermiere che le riferivano che era diventato aggressivo. Il mattino dopo, quando tornò all’ospedale, lo trovò del tutto fuori di sé – pazzo furioso, profondamente disorientato.
La settimana dopo tornai a St Louis. Mia madre mi portò direttamente dall’aeroporto all’ospedale. Mentre lei parlava con le infermiere, andai in camera di mio padre e lo trovai a letto, completamente sveglio. Lo salutai. Lui gesticolò freneticamente per zittirmi e mi fece cenno di avvicinarmi al cuscino. Quando mi chinai su di lui mi chiese, con un flebile sussurro, di parlare a bassa voce perché «loro» stavano «ascoltando». Gli chiesi chi fossero «loro». Non me lo seppe dire, ma i suoi occhi rotearono spaventosamente per ispezionare la stanza, come se ultimamente «li» vedesse dappertutto e fosse sconcertato dalla «loro» scomparsa. Quando mia madre apparve sulla soglia, mi confidò, con un sussurro ancora piú fioco: «Credo che siano arrivati fino a tua madre».
I miei ricordi della settimana seguente formano nel complesso una macchia sfocata, inframmezzata da un paio di scene sconvolgenti. Andavo in ospedale tutti i giorni e rimanevo al capezzale di mio padre il piú a lungo possibile. Neppure una volta gli riuscí di mettere insieme due frasi coerenti. Il ricordo che, in retrospettiva, mi sembra piú significativo è un ricordo molto singolare. È immerso in una penombra irreale, da interno, è ambientato in una stanza d’ospedale che non trova riscontro in nessun altro mio ricordo né per l’orientamento né per le dimensioni ridotte, e mi ritorna in mente privo di quegli indizi cronologici che di solito caratterizzano i miei ricordi. Non sono nemmeno sicuro che risalga alla prima settimana in cui andai a trovare mio padre in ospedale. E tuttavia sono certo che non si tratti di un sogno. Tutti i ricordi, dicono i neuroscienziati, sono in realtà ricordi di ricordi, ma di solito non sembrano tali. Questo invece sí. Mi ricordo di ricordare: mio padre a letto, mia madre seduta accanto a lui, io in piedi vicino alla porta. Avevamo appena avuto un’angosciosa conversazione famigliare, forse su dove avremmo trasferito mio padre quando fosse uscito dall’ospedale. È una conversazione che mio padre detesta, per quel poco che riesce a seguirla. Alla fine urla con enfasi appassionata, come se ne avesse abbastanza di tutte quelle sciocchezze: «Ho sempre amato tua madre. Sempre». E mia madre si nasconde la faccia tra le mani e scoppia in singhiozzi.
Quella fu l’unica volta in cui lo sentii dire che amava mia madre. Sono sicuro che il ricordo sia autentico perché la scena mi sembrò enormemente significativa anche allora, e poi la descrissi a mia moglie e ai miei fratelli e la incorporai nella storia che stavo raccontando a me stesso sui miei genitori. Quando, qualche anno piú tardi, mia madre sostenne che mio padre non le aveva mai detto di amarla, neppure una volta, le chiesi se si ricordasse di quella volta in ospedale. Le ripetei le sue parole, e lei scosse la testa con aria incerta. «Può darsi, – disse. – Può darsi che l’abbia detto. Non me lo ricordo».
Io e i miei fratelli ci alternavamo, a intervalli di pochi mesi, nelle visite a St Louis. Mio padre non mancò mai di riconoscermi come una persona che era lieto di vedere. La sua vita in clinica era un interminabile sogno angoscioso, popolato di fantasmi del passato e di compagni di degenza deformi e squilibrati; in quel sogno, le infermiere entravano piú come intruse sgradite che come attrici. A differenza di molte pazienti donne, che scoppiavano a piangere come bambine e subito dopo avvampavano di piacere davanti a una coppa di gelato, non vidi mai mio padre piangere, e il piacere che provava mangiando il gelato non smise mai di sembrarmi una cosa da adulti. Mi rivolgeva cenni significativi e sorrisi ansiosi mentre mi confidava frammenti di assurdità, e io annuivo come se lo capissi. L’argomento meno incoerente era il suo desiderio di essere portato via da «questo albergo», e la sua incapacità di comprendere perché non potesse vivere in un piccolo appartamento e lasciare che mia madre si prendesse cura di lui.
Il giorno del Ringraziamento di quell’anno, mia madre, mia moglie e io lo tirammo fuori dalla clinica e lo portammo a casa con una sedia a rotelle sulla mia Volvo station wagon. Non era piú tornato a casa da quando era stato ricoverato, dieci mesi prima. Se mia madre aveva sperato in una gratificante dimostrazione di gioia da parte sua, rimase delusa: a quell’epoca, un cambiamento di sede non lo impressionava piú di quanto avrebbe impressionato un bambino di un anno. Ci sedemmo davanti al camino, e per un’irragionevole, sciagurata consuetudine, ci venne l’idea di fotografare un uomo che, nonostante la sua incoscienza, sembrava perfettamente e dolorosamente cosciente di essere un triste soggetto per una fotografia. Oggi trovo orribili quelle immagini: mio padre che si inclina sulla sedia a rotelle come una marionetta dai fili allentati, gli occhi folli e sbarrati, la bocca semiaperta, la macchia del flash sugli occhiali che quasi gli cadono dal naso; mia madre con una maschera di disperazione ragionevolmente trattenuta sul volto; mia moglie e io che esibiamo sorrisi grottescamente forzati mentre ci allunghiamo a toccare mio padre. A tavola mia madre stese un asciugamano su mio padre e gli tagliò il tacchino in piccoli pezzi. Continuava a chiedergli se fosse contento di essere a casa per la cena del Ringraziamento. Lui rispondeva con un silenzio, con un movimento degli occhi, qualche volta con una lieve alzata di spalle. I miei fratelli chiamarono per augurargli buone feste; e qui, di punto in bianco, tirò fuori un sorriso e una voce cordiale, fu in grado di rispondere a domande semplici, ringraziò entrambi per la telefonata.
Questa parte della serata era tipica dell’Alzheimer. Dato che i bambini imparano molto presto i comportamenti sociali, in molti ammalati di Alzheimer la capacità di compiere gesti di cortesia e pronunciare frasi vagamente garbate sopravvive a lungo alla distruzione dei ricordi. Non era cosí straordinario che mio padre fosse in grado di gestire (piú o meno) le telefonate d’auguri dei miei fratelli. Ma considerate quello che successe in seguito, dopo cena, davanti alla clinica. Mentre mia moglie correva dentro a cercare una sedia geriatrica, mio padre sedeva accanto a me e osservava il portone dell’istituto in cui stava per rientrare. «Sarebbe stato meglio non uscire di qui, – mi disse con voce chiara e forte, – che doverci ritornare». Questa non era una frase vaga; era del tutto pertinente alla situazione, e indicava una precisa consapevolezza della sua condizione generale e una connessione con il passato e il futuro. Stava chiedendo che gli venisse risparmiato il dolore di essere trascinato di nuovo verso la coscienza e la memoria. E infatti il mattino seguente al giorno del Ringraziamento, e per il resto della nostra permanenza, lo vidi piú folle che mai: le parole trasformate in un guazzabuglio di sillabe alla rinfusa, il corpo in preda a un’agitazione scomposta.
Secondo David Shenk, la piú importante delle «finestre sul significato» offerte dall’Alzheimer è il rallentamento della morte. Shenk paragona la malattia a un prisma che rifrange la morte nello spettro delle sue parti, di solito saldamente congiunte – morte dell’autonomia, morte della memoria, morte della consapevolezza, morte della personalità, morte del corpo –, e condivide l’opinione piú diffusa sull’Alzheimer: questa malattia è particolarmente triste e orribile perché il paziente perde il proprio «io» molto prima che il corpo muoia.
Questo mi sembra in gran parte corretto. Quando il cuore di mio padre si fermò, lo stavo già piangendo da anni. Eppure, quando ripenso alla sua storia, mi chiedo se le varie morti siano davvero cosí disgiunte, e se la memoria e la coscienza abbiano davvero pieno diritto, dopotutto, a essere considerate la sede della personalità. Non riesco a smettere di cercare significati nei due anni successivi alla perdita del suo presunto «io», e non riesco a smettere di trovarli.
Ciò che mi colpisce è soprattutto l’apparente persistere della sua volontà. Non posso fare a meno di credere che stesse applicando qualche residuo fisico di autodisciplina, qualche riserva di energia situata nei nervi, sotto la coscienza e la memoria, quando raccolse le forze per la richiesta che mi fece davanti alla clinica. Non posso fare a meno di credere, inoltre, che il crollo del mattino seguente, come quello della prima notte che passò da solo in ospedale, equivalesse a una rinuncia a quella volontà, a un lasciar andare, un abbracciare la follia di fronte a un’emozione insostenibile. Anche se possiamo fissare il punto iniziale (piena consapevolezza e sanità mentale) e il punto finale (oblio e morte) del declino di mio padre, il suo cervello non era soltanto uno strumento di calcolo che impazziva in modo graduale e inesorabile. Laddove il progresso sottrattivo dell’Alzheimer avrebbe previsto un costante andamento verso il basso come questo –
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– il crollo di mio padre mi appariva piuttosto cosí:
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Rimase padrone di sé piú a lungo, credo, di quanto a prima vista sembrasse consentirgli il suo equipaggiamento neurologico. Poi crollò e cadde piú in basso di quanto la patologia gli avrebbe normalmente imposto, e scelse di restare cosí per il novantanove per cento del tempo. Quello che lui voleva (nei primi anni, rimanere lucido; negli ultimi, lasciar andare) era parte integrante di quello che era. E quello che voglio io (storie sul cervello di mio padre che non parlino di carne) è parte integrante di quello che scelgo di ricordare e raccontare.
Una delle storie che intendo raccontare, quindi, mentre cerco di perdonare a me stesso la lunga cecità nei confronti della malattia di mio padre, riguarda la sua propensione a nascondere quella malattia, e il fatto che per parecchio tempo conservò un carattere abbastanza forte da riuscirci. Mia madre giurava che era cosí. Non riusciva a ingannare la donna con cui viveva, per quanto la angariasse, ma riusciva a rimettersi in sesto finché i figli erano in città o c’erano ospiti in casa. Probabilmente la vera soluzione dell’enigma del mio soggiorno con lui durante la degenza di mia madre è piú legata al suo sforzo di volontà che alla mia cecità.
Dopo quel brutto giorno del Ringraziamento, quando ci rendemmo conto che non sarebbe mai piú tornato a casa, aiutai mia madre a riordinare la sua scrivania. (Il genere di libertà che ci si prende con la scrivania di un bambino o di un defunto). In un cassetto trovammo le prove di piccoli, furtivi sforzi per non dimenticare. C’era un mucchio di biglietti su cui aveva scritto l’indirizzo dei suoi figli, un indirizzo su ognuno, ripetuto su parecchi biglietti. Su un altro biglietto aveva scritto la data di nascita dei figli maggiori – «Bob 13/1/48» e «TOM 15/10/50» – e poi, nel tentativo di ricordare la mia (17 agosto 1959), aveva cancellato il mese e il giorno e aveva tirato a indovinare sulla base delle date dei miei fratelli: «JON 13/10/49».
Considerate, inoltre, quelle che credo siano le ultime parole che mi rivolse, tre mesi prima di morire. Da un paio di giorni andavo alla clinica per una doverosa visita di novanta minuti e ascoltavo i suoi borbottii su mia madre e le affabili congetture su certi minuscoli oggetti che si ostinava a vedere sulle maniche del maglione e sulle ginocchia dei pantaloni. Non c’era niente di diverso in lui il mattino della mia ultima visita, niente di diverso quando lo riportai in camera sulla sedia a rotelle e gli dissi che stavo per lasciare la città. Ma a quel punto alzò lo sguardo su di me e – di nuovo, all’improvviso, la sua voce si fece forte e chiara – disse: «Grazie di essere venuto. Ti sono grato di aver trovato il tempo per venire da me».
Frasi fatte? Una finestra sul suo io essenziale? Non mi sembra di avere molta scelta sulla versione a cui credere.
Nel basarmi sulle lettere di mia madre per ricostruire la disintegrazione di mio padre, percepisco l’ombra degli anni non documentati dopo il 1992, quando io e lei cominciammo a raccontarci tutti i particolari per telefono e smettemmo quasi completamente di scriverci. Sono perfettamente d’accordo con Platone quando, nel Fedro, descrive la scrittura come la «stampella della memoria»: il mio racconto non sarebbe completo senza quelle lettere. Ma, laddove Platone lamenta il declino della tradizione orale e l’atrofia della memoria provocata dalla scrittura, io, all’altro capo dell’Era della Parola Scritta, sono impressionato dalla solidità e dall’attendibilità delle parole sulla carta. Le lettere di mia madre sono piú vere e complete dei miei ricordi egocentrici e soggettivi; lei stessa mi appare piú viva nella frase scritta «HA BISOGNO di distrazioni!» che in ore di filmati o cataste di fotografie.
Il desiderio di registrare le storie in maniera indelebile, di annotarle con parole permanenti, mi sembra imparentato con la nostra convinzione di non essere fatti di sola biologia. Mi chiedo se l’attuale sensibilità culturale al fascino del materialismo – la crescente propensione a considerare la psicologia come una questione chimica, l’identità come una questione genetica, e il comportamento come il prodotto di antiche esigenze dell’evoluzione umana – non sia intimamente connessa alla rinascita dell’oralità e al declino della parola scritta tipici dell’era postmoderna: le nostre continue telefonate, le nostre effimere e-mail, la nostra tenace devozione al luccichio del televisore.
Ho già detto che anche mio padre scriveva lettere? Generalmente scritte a macchina, generalmente introdotte da un paragrafo di scuse per gli errori di ortografia, le sue lettere erano molto meno frequenti di quelle di mia madre. Una delle ultime risale al dicembre del 1987:
Questo periodo dell’anno è sempre difficile per me. Non sono a mio agio con tutta questa storia dei regali, perché mi piacerebbe comprare qualcosa per gli altri ma mi manca l’immaginazione per comprare le cose giuste. Temo di prendere oggetti della taglia sbagliata o del colore sbagliato o inutili, e immagino in anticipo i problemi per restituirli o cambiarli. Mi piace regalare attrezzi, ma Bob mi ha fatto notare il problema di questa categoria di oggetti, quando in una certa occasione gli ho regalato un piccolo martello ben bilanciato, e il suo commento è stato che quello era il secondo o terzo martello e non me ne servono altri, grazie. E poi c’è il problema dei regali per tua madre. È cosí sentimentale che mi addolora non prenderle qualcosa di carino, ma lei ha accesso illimitato al mio conto corrente. Le ho detto di comprare qualcosa per sé e di dire che gliel’ho regalato io, cosí potrà competere con il commento post-natalizio: «Guarda cosa mi ha regalato mio marito!» Ma lei non vuole prendere parte a questo inganno. Cosí io soffro per tutto il periodo delle feste.
Nel 1989, mentre le sue capacità di concentrazione diminuivano con l’aumentare di «nervosismo & depressione», mio padre smise del tutto di scrivere lettere. Io e mia madre fummo perciò stupiti di trovare, nello stesso cassetto in cui aveva lasciato quegli indirizzi e quelle date di nascita, una lettera non spedita datata 22 gennaio 1993 – incredibilmente tardi, poche settimane prima del crollo finale. La lettera era in una busta indirizzata a mio nipote Nick, di sei anni, che a sua volta aveva appena cominciato a scrivere lettere. Forse mio padre si vergognava di spedire una lettera che sapeva non essere del tutto coerente; piú probabilmente, dato lo stato di salute del suo ippocampo, se ne era semplicemente dimenticato. La lettera, che per me è diventata l’emblema di uno sforzo di volontà eroico e invisibile, è scritta a matita, con una calligrafia minuscola che non riesce a mantenere un andamento orizzontale:
Caro Nick,
abbiamo ricevuto la tua lettera un paio di giorni fa e siamo contenti di vedere che vai bene a scuola, soprattutto in matematica. Scrivere bene è importante, perché la capacità di scambiare idee regolerà l’uso che una nazione può fare delle idee di un’altra nazione.
Molti dei tuoi parenti piú prossimi sono bravi scrittori, e quindi mi hanno tolto un peso. Avrei dovuto imparare a scrivere meglio, ma è cosí facile dire: Lasciamo fare alla mamma.
So che la mia scrittura non sarà facile da leggere, ma ho un problema con i nervi delle gambe e mi tremano le mani. Guardando quello che ho scritto prevedo che avrai difficoltà a capire, ma con un po’ di fortuna riuscirò a essere alla tua altezza.
Il tempo è cambiato da freddo e umido a secco con un bel cielo azzurro. Spero che rimanga cosí. Continua a impegnarti.
Con affetto,
il Nonno
P.S. Grazie dei regali.
Mio padre aveva cuore e polmoni molto forti, e mia madre si stava preparando a un finale di partita della durata di due o tre anni quando, un giorno di aprile del 1995, mio padre smise di mangiare. Forse non riusciva a deglutire, o forse, con gli ultimi brandelli di volontà, aveva deciso di mettere fine alla sua indesiderata seconda infanzia.
Quando arrivai in città, la sua pressione era scesa a settanta di massima, con la minima appena percettibile. Di nuovo, mia madre mi portò direttamente dall’aeroporto alla clinica. Lo trovai rannicchiato su un fianco sotto un lenzuolo leggero, con il respiro corto e gli occhi semichiusi. I suoi muscoli avevano perso vigore, ma la faccia era liscia e calma e quasi completamente priva di rughe, e le mani, che non erano affatto cambiate, sembravano stranamente grandi in confronto al resto del corpo. Non c’è modo di sapere se riconobbe la mia voce, ma pochi minuti dopo il mio arrivo la sua pressione salí a 120/90. Allora temetti, e temo tuttora, che il mio arrivo gli avesse reso le cose piú difficili: che fosse ormai pronto a morire ma si vergognasse a compiere un atto cosí privato o spiacevole di fronte a uno dei suoi figli.
Io e mia madre stabilimmo un ritmo di osservazione e attesa, in cui uno dei due dormiva mentre l’altro vegliava. Un’ora dopo l’altra, mio padre giaceva immobile e si faceva strada verso la morte; ma quando sbadigliava, lo sbadiglio era il suo. E anche quel corpo, per quanto deperito, era ancora meravigliosamente il suo corpo.
Proprio mentre le parti superstiti del suo io diventavano sempre piú piccole e frammentarie, io mi ostinavo a vederlo nella sua interezza. Continuavo ad amare, in maniera specifica e personale, l’uomo che sbadigliava in quel letto. E come avrei potuto non ricavare storie da quell’amore – storie di un uomo con una volontà ancora cosí intatta da distogliere la faccia quando cercai di pulirgli la bocca con un tampone di spugna bagnata? Andrò nella tomba sostenendo che mio padre era deciso a morire, e a morire, per quanto possibile, a modo suo.
Noi, da parte nostra, eravamo decisi a non lasciare che la morte lo cogliesse da solo. Forse ci sbagliavamo di grosso, forse aspettava soltanto di essere lasciato solo. Tuttavia, durante la mia sesta notte in città, rimasi sveglio a leggere un romanzo facile dalla prima all’ultima pagina mentre lui respirava ed emetteva i suoi grandi sbadigli. Passò un’infermiera, gli auscultò i polmoni e mi disse che di sicuro non era mai stato un fumatore. Mi suggerí di andare a casa a dormire, e si offrí di mandare una certa infermiera del piano di sotto a visitarlo. Evidentemente, la clinica aveva un proprio angelo della morte con un dono speciale per convincere i moribondi, quando i loro parenti erano andati a casa, che potevano morire tranquilli. Rifiutai l’offerta dell’infermiera e svolsi io stesso quella funzione. Mi chinai su mio padre, che odorava leggermente di acido acetico ma per il resto era pulito e caldo. Mi feci riconoscere e gli dissi che qualunque cosa dovesse fare, io ero d’accordo, che poteva lasciar andare e fare quello che doveva.
Nel tardo pomeriggio si alzò un forte vento, come spesso capita a St Louis all’inizio dell’estate. Stavo strapazzando le uova quando mia madre chiamò dalla clinica e mi disse di raggiungerla di corsa. Non so perché pensai che non ci fosse fretta, ma prima di uscire mangiai qualche toast con le uova, e nel parcheggio della clinica restai seduto in macchina e alzai il volume della radio, che trasmetteva la canzone dei Blues Traveler tanto in voga in quel periodo. Nessuna canzone mi ha mai reso cosí felice. Tutt’intorno alla clinica le grandi querce bianche ondeggiavano e impallidivano sotto le raffiche di vento. Sentivo che avrei potuto volare via per la felicità.
Ma non era ancora morto. A metà della serata un temporale investí la clinica, facendo saltare tutte le luci tranne quelle di emergenza, e io e mia madre restammo seduti al buio. Non mi piace ricordare quanto fossi impaziente che mio padre smettesse di respirare, quanto fossi pronto a fare a meno di lui. Non mi piace immaginare quello che provava mentre giaceva in quel letto, quali forme, confuse o vivide, sensoriali o emotive, quella lotta assunse nella sua testa. Ma non mi piace nemmeno credere che non ci fosse niente.
Verso le dieci, io e mia madre stavamo discutendo con un’infermiera sulla soglia della stanza, non molto tempo dopo che era tornata la luce, quando mi accorsi che mio padre si stava portando le mani alla gola. Dissi: «Credo che stia succedendo qualcosa». Era il respiro agonico: il mento si sollevava per far entrare l’aria nei polmoni dopo che il cuore aveva smesso di battere. Sembrava che annuisse molto lentamente e profondamente, come per dire di sí. E poi piú nulla.
Dopo averlo baciato per l’ultima volta e aver firmato i moduli che autorizzavano l’autopsia cerebrale, dopo aver guidato lungo le strade allagate, mia madre si sedette in cucina e, cosa per lei insolita, accettò la mia offerta di un Jack Daniel’s liscio. «Adesso capisco – disse – che quando sei morto sei morto sul serio». Questo era verissimo. Ma, nella modalità rallentata dell’Alzheimer, mio padre non era molto piú morto adesso di quanto non fosse due ore o due settimane o due mesi prima. Avevamo semplicemente perso l’ultima delle parti da cui potevamo ricavare un essere intero e vivente. Non ci avrebbe lasciato nessun nuovo ricordo di sé. Adesso le uniche storie che potevamo raccontare erano quelle che avevamo già.
(2001).
1 American Association of Retired Persons: Associazione pensionati d’America [N. d. T.].
2 Legge per la ricerca sui fenomeni di invecchiamento [N. d. T.].
3 Istituto nazionale per la ricerca sull’invecchiamento [N. d. T.].