L'universalismo mistico di Simone Weil
L'universalismo mistico di Simone Weil, in: <Rivista di Ascetica e Mistica>, 6/ 2003, pp. 405-422. Anche in: <Etica & Politica / Ethics & Politics>, VIII, 2006, 2, pp. 75-88.
ABSTRACT
In the last years of her short life, Simone Weil was deeply interested in non-Christian religions, especially those of ancient India. Since 1941, she began studying the Sanskrit language and reading the Upanishads, some of which she also tried to translate. In the Indian spirituality she found the path to understand some masterpieces of Christian mysticism, such as The mirror of simple souls by Marguerite Porete, which she read in London in an English version, ascribed to “an unknown French mystic”.
Simone Weil recognized that all spiritual traditions, Hindu as well as Christian, agree with the essential mystical experience, the annihilation of the ego, so that the divine Light can enter the void made by man in his own soul (the so-called décreation), and so that everything can show the world’s wonderful beauty. However, she thought that Christianity was the spiritual heir to Heraclitus, of Platonism, and of stoicism, and expresses, in its mystical universalism, the best of every religious tradition.
Di famiglia ebrea ma educata nell’agnosticismo, Simone Weil scoprì autonomamente, guidata solo dalla passione della verità e dall’onestà della ricerca intellettuale, il patrimonio spirituale delle grandi religioni: del cristianesimo, innanzitutto, nel cui àmbito si era formata culturalmente, ma poi anche del buddismo, e soprattutto dell’induismo. A partire dal 1941 intraprese infatti anche lo studio del sanscrito, tentando traduzioni della Bhagavad-Gita e delle Upanishad, le cui citazioni divengono sempre più frequenti nei Quaderni.[1]
Significativamente, fu proprio nell’ultimo periodo della sua vita che la Weil venne a conoscenza di alcuni grandi testi della mistica cristiana: a New York lesse Il libretto della veritàdi Suso; a Londra lo Specchio delle anime semplici di Margherita Porete, allora attribuito a un ignoto mistico francese del Trecento. Possiamo perciò ritenere con sufficiente fondatezza che queste letture furono determinate dall’incontro con la spiritualità dell’India; ovvero fu l’India a farle scoprire il patrimonio della mistica medievale cristiana, giacché ella trovò nell’induismo quello che avrebbe potuto trovare già prima nel cristianesimo. E, detto di passaggio, non risulta che ella, pur leggendo il tedesco, conoscesse il libro di Rudolf Otto, Mistica d’oriente, mistica d’occidente, pubblicato in Germania nel 1927,[2]ove sono elencate con puntuale precisione le straordinarie corrispondenze Eckhart-Sankara.
Opinione di chi scrive è che la Weil - anche grazie proprio alla sua indipendenza, al suo situarsi al crocevia delle tradizioni mistiche dell’umanità, senza legami di appartenenza a questa o a quella - rappresenti non solo un punto elevatissimo di speculazione, ma si ponga anche come figura esemplare di quell’universalismo religioso che appare sempre più vero, e sempre più necessario al momento presente. In effetti troviamo nei Quaderni della Weil, anche se nella forma asistematica propria di quegli scritti, rimasti allo stato appunto di abbozzo, tutti gli elementi fondamentali di una radicale esperienza mistica, intesa nel senso di esperienza piena della vita – anzi, della Vita, come la chiama Panikkar.[3]
Essenzialmente questa esperienza è costituita dal distacco, soprattutto distacco dall’io, che deve scomparire, in modo che compaia l’unico vero io, che è Dio. Allora tutto appare uno, tutto appare buono, con un senso di realtà-bellezza-gioia che indica, per trasparenza, l’eterno nel presente. Viene così sbrogliato il “grande segreto”, cui allude nei Quaderni:
“Identità del reale e del bene. Necessità come criterio del reale. Distanza tra il necessario e il bene. Sbrogliare questo. È della massima importanza. È qui la radice del grande segreto”.[4]
Che il reale, tutto quanto, sia buono e bene, è pensiero della Weil che la accomuna ai grandi mistici di ogni tempo, a partire dal filosofo del logos, Eraclito. In proposito ella scrive ad esempio:
“Il reale è per il pensiero umano la stessa cosa che il bene. È il senso misterioso della proposizione: Dio esiste”.[5]
Che tutto ciò che è sia buono, è implicato necessariamente dal fatto che tutto ciò che è deve essere volontà di Dio – non possiamo pensare infatti che qualcosa avvenga al di fuori di essa, e neppure possiamo pensare che Dio voglia il male. La Weil ripete spesso il pensiero platonico: di Dio noi possiamo sapere solo che è buono, e che da lui derivano solo beni. Perciò:
“Dio vuole tutto ciò che si produce allo stesso titolo, non alcune cose come mezzi e altre come fini. Così pure vuole allo stesso titolo l’insieme e le parti, ogni porzione, ogni traccia che è possibile mettere in opera nella realtà continua. Questo è rappresentabile per l’intelligenza umana solo nei termini seguenti: egli vuole la necessità. La volontà di Dio non può essere per noi un oggetto di ipotesi. Per conoscerla noi dobbiamo solo constatare ciò che accade: ciò che accade è la sua volontà”.
“Non si deve dire che Dio vuole la sofferenza di un santo in vista del suo progresso verso la perfezione, ma: egli vuole la sua sofferenza, e vuole il suo progresso, e vuole il legame tra i due – e un’infinità di altri legami ancora. Non devo amare la mia sofferenza perché mi è utile, ma perché essa È.
La necessità è il velo di Dio.
È necessario amare tutti i fatti, non per le loro conseguenze, ma perché in ogni fatto Dio è presente. Ma questo è tautologico. Amare tutti i fatti equivale a leggere Dio in essi. È necessario amare i propri nemici perché esistono”.[6]
“Se pensassi che Dio m’invia il dolore con un atto della sua volontà e per il mio bene, crederei di essere qualcosa, e trascurerei l’uso principale del dolore, che è d’insegnarmi che sono niente. Non si deve dunque pensare nulla di simile. Ma è necessario amare Dio attraverso il dolore (sentire la sua presenza e la sua realtà con l’organo dell’amore soprannaturale, l’unico che ne sia capace, così come si sente la consistenza della carta con la matita).
Debbo amare d’esser niente. Come sarebbe orribile se io fossi qualcosa. Amare il mio nulla, amare d’essere nulla. Amare con la parte dell’anima che si trova dietro il sipario, perché la parte dell’anima che è percettibile alla coscienza non può amare il nulla, ne ha orrore. Se essa crede di amarlo, vuol dire che ama qualcosa di diverso dal nulla”.[7]
“Non si deve mai cercare per un male una compensazione esteriore in un bene, legato o no a questo male da una necessità, che lo bilancia. Perché ci si priva così dell’uso più prezioso del male, quello di amare Dio attraverso il male come tale. Amare Dio attraverso il male come tale. Amare Dio attraverso il male che si odia, odiando questo male. Amare Dio come autore del male che si sta odiando”.[8]
“ ‘Dolore, non confesserò mai che sei un male, qualsiasi cosa tu mi faccia’. Questo detto è molto bello. Ma, ancor meglio: Dolore, tu sei un male, ma hai per autore colui che è solo bene ed è autore solo del bene”.[9]
“Perché tutto ciò che si produce è la volontà di Dio, ad ogni istante così come nell’istante della creazione, se questa espressione ha un senso”.[10]
“Il male produce la distinzione, impedisce che Dio sia equivalente a tutto”.[11]
Come si è detto, il punto essenziale è il distacco dall’io, che deve scomparire, in modo che appaia l’unico vero io, che è Dio. L’operazione di distacco dall’io è ciò che la Weil chiama de-creazione, su cui torna spesso nell’ultimo periodo della sua vita:
“Tutto ciò che io faccio è cattivo, senza eccezione, compreso il bene, perché io è cattivo. Più io sparisco, più Dio è presente in questo mondo”.[12]
“Non sono io a dover amare Dio. Che Dio si ami attraverso me”.[13]
“Il peccato in me dice ‘io’ ”.
“Io sono tutto. Ma questo io è Dio, e non è un io”.
“Io sono assente da tutto ciò che è vero, o bello, o bene”.
“Io pecco”.[14]
“Noi non possediamo niente al mondo – perché il caso ha il potere di toglierci tutto – se non il potere di dire io. Questo è ciò che bisogna dare a Dio, cioè distruggere. Non c’è assolutamente nessun altro atto libero che ci sia permesso, se non la distruzione dell’io”.[15]
“Tutto ciò che ci procuriamo con la nostra volontà e i nostri sforzi, e tutto ciò che le circostanze esterne accordano o rifiutano secondo il capriccio della sorte, è assolutamente privo di valore. Può essere cattivo o indifferente, ma giammai buono. Tutto ciò che esiste è sottomesso alla necessità. Ma c’è una necessità carnale in cui l’opposizione del bene e del male non interviene, e una necessità spirituale interamente sottomessa a questa opposizione”.[16]
Qui è evidente il riferimento a Platone, che nel Timeo, 68, parla di due specie di cause, quella necessaria e quella divina. Ma è soprattutto facendo propria la grande lezione degli stoici che Simone Weil distingue finemente la realtà della pesanteur, necessità meccanica, da quella della grâce, libertà:
“L’universo tutto intero non è che una massa compatta di obbedienza. Questa massa compatta è disseminata di punti luminosi. Ciascuno di questi punti è la parte soprannaturale di un’anima di una creatura ragionevole che ama Dio e che consente ad obbedire. Il resto dell’anima è prigioniero della massa compatta. Gli esseri dotati di ragione che non amano Dio sono soltanto frammenti della massa compatta ed oscura. Anch’essi sono tutti interi obbedienza, ma solo al modo di una pietra che cade. Anche la loro anima è materia, materia psichica, sottoposta a un meccanismo altrettanto rigoroso quanto quello della forza di gravità. Anche la loro credenza nel proprio libero arbitrio, le illusioni del loro orgoglio, le loro sfide, le loro rivolte, tutto ciò non sono che fenomeni altrettanto rigorosamente determinati quanto la rifrazione della luce. Considerati in tal modo, come materia inerte, i peggiori criminali fanno parte dell’ordine del mondo e di conseguenza della bellezza del mondo. Tutto obbedisce a Dio, e di conseguenza tutto è perfettamente bello. Sapere questo, saperlo realmente, è essere perfetti come il Padre celeste è perfetto”.[17]
Questa splendida pagina, in cui l’eredità del pensiero classico si salda con Eckhart e Spinoza, è incomprensibile all’insulsa psicologia contemporanea, verso la quale la scrittrice francese ha espressioni feroci, e si comprende solo tenendo presente la natura composita e gerarchicamente tripartita dell’anima. Perciò la Weil prosegue:
“Questo amore universale non appartiene che alla facoltà contemplativa dell’anima. Colui che ama veramente Dio lascia a ogni parte dell’anima la sua funzione propria. Al di sotto della facoltà di contemplazione sovrannaturale si trova una parte dell’anima che è al livello dell’obbligazione, e per la quale l’opposizione del bene e del male deve avere tutta la forza possibile. Al di sotto ancora è la parte animale dell’anima, che deve essere metodicamente addestrata con una sapiente combinazione di frustate e zuccherini.
In coloro che amano Dio, persino in coloro che sono perfetti, la parte naturale dell’anima è sempre interamente sottomessa alla necessità meccanica. Ma la presenza dell’amore soprannaturale nell’anima costituisce un fattore nuovo del meccanismo e lo trasforma”.[18]
Il “grande segreto”, ovvero l’identità del reale e del bene, e, insieme, la distanza infinita tra il necessario e il bene - l’insegnamento platonico fondamentale – è così “sbrogliato”. Non si deve aver paura della contraddizione, perché l’identità dei contrari appare chiara all’anima distaccata, come ben sa la mistica di ogni tempo (ivi compreso quell’Hegel che la Weil poco amava ma, bisogna dire, che poco anche conosceva), ancora una volta a partire da Eraclito:
“L’identità dei contrari subita in modo incosciente è il male. L’identità compresa è il bene”.[19]
“O i contrari vengono sottomessi con la grazia, oppure si è sottomessi ai contrari”.[20]
“Se il bene è l’armonia dei contrari, il male non è il contrario del bene”.[21]
“La sofferenza è un male per chi pensa che la sofferenza è un male”.[22]
“Ciò che il male viola non è il bene, perché il bene è inviolabile; si viola solo un bene degradato.
Ma non è questa la ragione vera. Il bene è essenzialmente diverso dal male. Il male è molteplice e frammentario, il bene è uno; il male è apparente, il bene è misterioso; il male consiste in azioni, il bene in non-azione o azione non agente, ecc. – il bene considerato al livello del male e tale da opporsi ad esso come un contrario a un contrario è un bene da codice penale. Al di sopra si trova un bene che in certo senso somiglia più al male che a questa forma bassa del bene”.[23]
Il male è la distanza tra la creatura e Dio,[24] ma l’intelligenza è in grado di sopprimere il male – l’operazione che la Weil chiama de-creazione, nel distacco, ed allora si ha un profondo senso di realtà, bellezza, gioia nel presente, che appare come l’eterno.
“Lo spirito non è forzato a credere all’esistenza di niente. (Soggettivismo, idealismo assoluto, solipsismo, scetticismo. Si vedano le Upanishad, i taoisti e Platone, che usano tutti questa attitudine filosofica a titolo di purificazione). Per questo l’unico organo di contatto con l’esistenza è l’accettazione, l’amore. Per questo bellezza e realtà sono identiche. Per questo la gioia pura e il sentimento di realtà sono identici.
Tutto ciò che è colto con le facoltà naturali è ipotetico. Solo l’amore soprannaturale afferma. In tal modo noi siamo co-creatori. Noi partecipiamo alla creazione del mondo de-creando noi stessi”.[25]
È infatti l’attaccamento, il desiderio, ad uccidere lo spirito:
“Coloro che assassinano l’atman. Chiunque desideri che ciò che è non sia (Marco Aurelio). Che altro? – Ogni desiderio uccide l’atman”.[26]
“L’attaccamento non è altro che l’insufficienza nel sentimento della realtà”.
“Dal momento in cui si sa che qualcosa è reale, non ci si può più attaccare ad esso”.[27]
Significativamente, il testo appena citato prosegue ripetendo una delle tesi più care alla mistica: quella dell’assoluto nel presente che si mostra distaccandosi anche dal desiderio della salvezza:
“Coloro che desiderano la propria salvezza non credono veramente alla realtà della gioia in Dio”.
“La gioia è il sentimento della realtà.
Più l’opposizione del caso e del bene è sensibile, più la bellezza e la gioia sono profonde.
La tristezza è l’indebolimento del sentimento della realtà. È una cattiva de-creazione, a livello dell’immaginazione”.[28]
“La gioia accresce il sentimento di realtà, il dolore lo diminuisce. Si tratta solo di riconoscere la stessa pienezza di realtà nei dolori e nelle gioie. La sensibilità dice:
“Questo non è possibile”. Si deve rispondere: Questo è. Essa dice: “Perché questo?” Si deve rispondere: Perché è; se è, ha una causa”.[29]
“Se in questo mondo non ci fosse sventura, potremmo crederci in paradiso. Orribile possibilità”.[30]
“Il pensiero della morte dà agli eventi della vita il colore dell’eternità. Se ci fosse data quaggiù la vita perenne, guadagnando la perennità la nostra vita perderebbe l’eternità che la illumina per trasparenza. “Di questo tutto, mediante il distacco, gioisci” [Isa Upanishad, 1].
È il distacco a rendere eterne tutte le cose”.[31]
È significativo che la Weil citi qui le Upanishad. Infatti, come si è accennato sopra, è stata soprattutto la lettura della letteratura sacra dell’India a portarla a quella comprensione che, alla fine della sua vita, ritrovò anche nella mistica cristiana. Perciò ella pensò a un’unica verità religiosa, che i diversi popoli avevano espresso in vari modi, dal folklore alla mitologia, fino alla più pura delle filosofie – quella platonica – sottolineando ciascuno un aspetto della medesima verità. Pur riconoscendo come vocazione tipica di Israele quella di sostenere l’unicità di Dio, non v’è dubbio che la Weil attribuisca un valore particolare all’induismo, da un lato, e al cristianesimo, dall’altro.
Nel primo, infatti, riconosce la peculiarità di sostenere l’assimilazione tra Dio e l’anima attraverso il distacco; nel secondo il rilievo dato all’umanità di un Dio sofferente, in Cristo, con la comprensione piena del significato della sventura, della sofferenza, dell’infelicità. Nei Quaderni scrive infatti:
“In tutte le nazioni dell’antichità vi è come l’ossessione per un aspetto delle cose divine. Israele: Dio unico. India: assimilazione dell’anima a Dio mediante l’unione mistica. Cina: passività, assenza di Dio, azione non-agente. Egitto: salvezza e vita eterna mediante l’assimilazione a un Dio sofferente, morto e resuscitato. Grecia: trascendenza, distanza dal divino e dal soprannaturale, miseria dell’uomo, ricerca di ponti (mediazione).
(La missione d’Israele è stata continuata dai musulmani. L’India e la Cina sono rimaste. Il cristianesimo ha raccolto l’eredità soprattutto dell’Egitto, ma anche della Grecia)”[32]
Il legame Israele-islamismo, con la comune concezione di un Dio-forza, è ribadito spesso dalla Weil, con una conseguente valutazione negativa di quelle teologie e religioni:
“Nessuno va a Dio creatore e sovrano senza passare per Dio SVUOTATO DELLA SUA DIVINITA’. Se si va a Dio direttamente si tratta di Yahweh (o Allah, quello del Corano)”.[33])
Qui la divinità significa appunto le caratteristiche di forza, potenza, che l’idolatria attribuisce a Dio, per potersene servire. Invece:
“Dobbiamo svuotare Dio della sua divinità per amarlo.
Egli si è svuotato della sua divinità diventando uomo, poi della sua umanità diventando cadavere (pane e vino), materia”.[34]
Come la Weil ripete, Dio si offre all’uomo o in quanto potenza o in quanto perfezione: bisogna scegliere. Anzi, proprio per questo motivo, induismo e cristianesimo sono vicini, e lontani da ebraismo (e islamismo):
“Il contatto con la forza, da qualunque parte si venga a contatto (impugnatura o punta della spada), priva per un momento di Dio. Di qui la Bhagavad Gita. La Bhagavad Gita e il Vangelo si completano. Così vi è qualcosa di essenzialmente falso nell’Antico Testamento (alcune parti), come pure nella storia di Giovanna d’Arco; quelle voci fanno parte del prestigio. Anche Yahweh”.[35]
Israele, che pure aveva vissuto a lungo accanto agli Egiziani, ha sostituito alla nozione di bene quella di onnipotenza, e ha fatto di Dio uno strumento di potenza nazionale. Purtroppo, il modello di santità elaborato da Israele è passato nella Chiesa, la cui “idolatria sociale” ripete quella giudaica.[36] Sotto questo profilo non c’è dubbio che abbia ragione Lévinas, quando sostiene che la Weil non è ebrea e neppure cristiana, bensì “pagana”, in quanto rifiuta il dogma dell’elezione divina di Israele[37]: solo che il paganesimo della Weil significa in realtà la sua classicità, la sua fedeltà alla “fonte greca”, ovvero all’universalità della ragione, all’onestà della verità, nel rifiuto di menzogne colmatrici di vuoti:
“Non si può percepire la presenza di Dio in uomo, ma solo il riflesso di questa luce nel modo in cui egli concepisce la vita terrestre. Così il vero Dio è presente nell’Iliade e non nel Libro di Giosuè. L’autore dell’Iliadedipinge la vita umana come solo può vederla chi ama Dio. L’autore di Giosuè, come solo può vederla chi non ama Dio”.[38]
Ai nostri tempi c’è bisogno di un tipo nuovo di santità, una santità che porti il segno dell’universalità in modo esplicito, come la Weil afferma nell’ultima lettera inviata a padre Perrin, ove ribadisce la decisione di restare fuori dalla Chiesa.[39]Accanto alle religioni poco sopra citate, sottolineiamo che in questa universalità rientra anche il pensiero buddista, che la Weil ha studiato soprattutto attraverso l’opera di Daisetz Teitaro Suzuki,[40] e quella di Alexandra David-Neel,[41] ove si sottolineano i passi relativi allo sradicamento dell’io. Nel buddismo ella vede un pensiero eracliteo, fondato sul rapporto, per cui le cose non hanno altro essere che il rapporto e “la verità si produce al contatto di due proposizioni, nessuna della quali è vera; è vero il loro rapporto”.[42] Soprattutto, vede nel buddismo il cammino di estinzione del desiderio, che conduce all’annichilimento:
“L’estinzione del desiderio (buddismo), o il distacco, o l’amor fati, o il desiderio del bene assoluto, sono sempre la stessa cosa: vuotare il desiderio, la finalità, di ogni contenuto, desiderare a vuoto, desiderare senza augurarsi. Distaccare il nostro desiderio da tutti i beni e attendere. L’esperienza dimostra allora che questa attesa è esaudita. Allora si tocca il bene assoluto”.[43]
Come abbiamo già detto, sono però le Upanishad e la Bhagavad Gita a risultare più congeniali alla Weil e a fornirle le chiavi di comprensione dell’esperienza spirituale. Proprio con la parola Upanishad, e con una lunga citazione riassuntiva, spesso implicita, della Chandogya e della Brhadaranyaka Upanishad, si apre il suo Quaderno III:
“Upanishad.
L’atman – che l’anima di un uomo prenda per corpo l’universo intero [...].
L’anima si trasferisce, fuori del proprio corpo, in un’altra cosa. Che dunque si trasferisca in tutto l’universo.
Questo non è solamente il suo dovere, ma la sua natura. Dimostrazione: si ama una cosa qualsiasi solamente per se stessi (l’ioè l’unico valore). Quindi l’io non dovrebbe essere finito, esso ha la dimensione del mondo [...)
Identificarsi con l’universo stesso. Tutto ciò che è minore dell’universo è sottomesso alla sofferenza [essendo parziale e quindi sottomesso alle forze esterne]. Anche se muoio, l’universo continua. Questo non mi consola se sono diverso dall’universo. Ma se l’universo è per la mia anima come un altro corpo, la mia morte cessa di avere per me più importanza di quella di uno sconosciuto. Così pure le mie sofferenze[...)
Ma allora, come si continua ad agire in quanto uomo singolo? Tema della Gita”.
“Trovare l’atman “impigliato nelle tenebrose complessità del corpo”.[44]
“La pluralità non è;
Corre di morte in morte,
Chi crede di vedere la pluralità nell’universo”.[45]
“Questo spazio che è all’interno del cuore, qui egli dimora, padrone di tutto, sovrano di tutto, signore di tutto. Egli non cresce con le buone azioni né diminuisce con le cattive”.[46]
“Al di là del bene e del male. Bisogna senz’altro interpretarlo come la formula taoista: Colui che ha la virtù somma non ha virtù, e perciò egli ha la virtù. Colui che ha una virtù ordinaria ha la virtù, e perciò non ha virtù”.
“Distaccarsi anche dalla virtù – Perderne coscienza”.
“Supremo bene negativo”.
Ancor più delle Upanishad, è però la Gita ad attrarre la Weil, che si dedicò con passione a tradurla e che la cita innumerevoli volte nei suoi Quaderni. Del capolavoro indiano ella studia in particolare la tipologia che noi diremmo psicologica (i tre guna : sattva, rajas, tamas), ovvero l’analisi delle diverse componenti dell’anima e dei loro rapporti, sempre per sbrogliare il “grande segreto” della necessità e libertà, ovvero del bene e del male.
Ci limitiamo, per brevità, a riportare qui alcune delle citazioni più esplicite:
“Gita. Notare che il dharma, dipendendo dalla casta, dunque dalla nascita, dunque dall’incarnazione precedente, dipende da una scelta anteriore. Non è che non si abbia scelta, bensì che, se ci si colloca in un dato momento, non si ha più scelta. Non si può fare diversamente; è vano sognare di fare diversamente; ma è bene elevarsi al di sopra di ciò che si fa”.[47]
“Non cercare il bene nell’azione. È questo l’insegnamento della Gita”.[48]
“Gita. Coloro che si sono spinti sino in fondo al male sono liberi dallo smarrimento prodotto dai contrari. Letteralmente vero. Anche prima di essere giunti fino in fondo, quando, dal piano spirituale, si vede che c’è un fondo”.[49])
“Bhagavad Gita VI, 20. Quando il pensiero (cit) si arresta sospeso grazie allo yoga, e l’uomo scopre l’atman, egli trova la sua soddisfazione in sé”.[50])
“Gita. ‘Senza turbamento nella sofferenza, senza attrazione per il piacere’ II,56”.[51]
“L’albero del mondo, il fico eterno di cui è necessario tagliare le radici con la scure del distacco (Gita).
È l’energia vegetativa.
La croce è di legno, ma è fatta con un albero tagliato.
Adamo ha mangiato il frutto dell’albero. (Due uccelli...uno mangia il frutto...)[52]
È necessario tagliare l’albero e il proprio corpo morto deve essere il frutto.
Strappare l’energia vegetativa”.[53]
Passo, quest’ultimo, veramente tipico della lettura e dell’indagine weiliana. La Gita e il Vangelo sono infatti letti l’uno accanto all’altro, per così dire, nella persuasione che i significati profondi, veri, siano presenti in modo armonico in tutte le grandi religioni.
E così siamo giunti alla conclusione del nostro discorso. Perché la Weil pensò che il cristianesimo, se inteso secondo verità, e non secondo i fraintendimenti e le mistificazioni cui è andato incontro, comprenda in se stesso l’insegnamento spirituale di tutte le grandi tradizioni religiose e filosofiche. C’è una sua pagina, che parte ancora una volta dal tema cruciale necessità-libertà per approdare al Cristo, veramente riassuntiva:
“La necessità è una nemica per l’uomo finché egli pensa in prima persona [...] Effettivamente la volontà umana, per quanto un certo sentimento di scelta vi sia irriducibilmente legato, è semplicemente un fenomeno fra tutti quelli che sono sottoposti alla necessità [...] nell’universo, l’uomo non prova la necessità se non, contemporaneamente, come un ostacolo e una condizione di compimento per il suo volere; di conseguenza questa prova non è mai interamente pura dalle illusioni irriducibilmente legate all’esercizio della volontà [...] Il rapporto tra la necessità e l’intelligenza non è il rapporto tra il padrone e lo schiavo. Non è neppure il rapporto inverso, né il rapporto tra due uomini liberi. È il rapporto tra l’oggetto contemplato e lo sguardo. La facoltà che nell’uomo guarda la forza più brutale come si guarda un quadro, chiamandola necessità, quella facoltà non è ciò che nell’uomo appartiene all’altro mondo. Essa è all’intersezione dei due mondi. La facoltà che non appartiene a questo mondo è quella del consenso. L’uomo è libero di consentire o no alla necessità. Questa libertà non è attuale per lui se non quando concepisca la forza come necessità, vale a dire quando la contempli [...] Il consenso alla necessità è puro amore ed anche, in qualche modo, eccesso d’amore. Questo amore non ha per oggetto la necessità in sé, né il mondo visibile di cui essa costituisce la stoffa [...] Neppure per amore degli altri uomini noi consentiamo alla necessità. L’amore degli altri uomini è in certo senso un ostacolo a questo consenso, perché la necessità schiaccia gli altri come noi stessi. È per amore di qualcosa che non è una persona umana, e che tuttavia è qualcosa come una persona. Perché ciò che non è qualcosa come una persona non è oggetto d’amore. Qualunque sia la credenza professata a proposito delle cose religiose, compreso l’ateismo, là dove c’è consenso completo, autentico e incondizionato alla necessità, v’è la pienezza dell’amore di Dio, e in nessun altro luogo. Questo consenso costituisce la partecipazione alla croce del Cristo.
Chiamando Logos quell’essere umano e divino che egli amava sopra tutto e da cui era teneramente amato, san Giovanni ha racchiuso in una parola, fra molti altri pensieri, infinitamente preziosi, tutta la dottrina stoica dell’amor fati. Questa parola, Logos, presa dagli stoici greci che l’avevano a loro volta ricevuto da Eraclito, ha diversi significati, ma il principale è questa legge quantitativa di variazione che costituisce la necessità. Fatum e logos sono d’altronde apparentati semanticamente. Il fatum è la necessità, e la necessità è il logos, e logos è il nome stesso dell’oggetto del nostro più ardente amore. L’amore che san Giovanni portava a colui che era il suo amico e il suo signore, quando stava reclinato sul suo petto durante la Cena, è quell’amore stesso che noi dobbiamo portare alla concatenazione matematica di cause ed effetti che, di tanto in tanto, fa di noi una specie di poltiglia informe. Manifestamente, ciò è folle.
Una delle parole più profonde e più oscure del Cristo rivela questa assurdità. Il rimprovero più amaro che gli uomini facciano a questa necessità, è la sua indifferenza assoluta ai valori morali. Giusti e criminali ricevono ugualmente i benefici del sole e della pioggia; giusti e criminali sono ugualmente colpiti d’insolazione, annegano nelle inondazioni. Precisamente questa indifferenza il Cristo ci invita a considerare come l’espressione stessa della perfezione del nostro Padre celeste (cfr. Mt 5,45). Imitare questa indifferenza è semplicemente consentirvi, è accettare l’esistenza di tutto ciò che esiste, compreso il male, eccettuata soltanto quella porzione di male che noi abbiamo la possibilità e l’obbligo di impedire. Con questa semplice parola il Cristo si è annesso tutto il pensiero stoico, e insieme Eraclito e Platone”.[54]
Eraclito, Platone, lo stoicismo – dunque l’eredità classica, la “fonte greca”. Ma, come si è visto, nell’essenziale essa coincide con l’insegnamento spirituale dell’ India e della Cina. Dunque il cristianesimo, nel suo universalismo mistico, riassume in se stesso il meglio di ogni tradizione religiosa. Questa la “cattolicità”, reale e non solo dichiarata, che Simone Weil ritiene necessaria per il futuro dell’umanità, se essa vuole uscire dal miserabile tempo presente.
Note
[1] Simone Weil iniziò lo studio del sanscrito all’inizio del 1941, con l’aiuto di René Daumal, che le prestò una grammatica e il testo della Bhagavad Gita. Durante l’estate lesse con Daumal le Upanishad.. Cfr. Simone Weil, Quaderni I, a cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi, Milano 1982, p. 225, nota 1.
[2] Rudolf Otto, West-östliche Mystik. Vergleich und Untersuchung zur Wesensdeutung, Klotz, Gotha 1927. La traduzione francese è del 1951 (Payot, Paris); quella italiana, a cura dello scrivente, è del 1985: Mistica orientale, mistica occidentale, Marietti, Casale Monferrato.
[3] Ci riferiamo qui in particolare a Raimon Panikkar, De la mìstica. Experiencia plena de la Vida (2004) ; tr. it. Jaca Book, Milano 2005, col titolo: L’esperienza della vita. La mistica.
[4] Cfr. Quaderni II, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1985, p. 330.
[5] Ibidem.
[6]) Ibid., p. 205.
[7] Ibid., p. 198.
[8]) Ibid., p. 300.
[9] Ibid., p. 301-302. Il detto citato appartiene allo stoicismo.
[10] Ibid., p. 263.
[11] Cfr. Quaderni I, cit., p. 372.
[12] Cfr. Quaderni II, cit, p. 324.
[13] Ibid., p. 327.
[14]) Cfr. Quaderni I, cit., pp. 371-372.
[15] Cfr. Quaderni II, cit., pp. 295-296.
[16] Cfr. Quaderni IV, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1993, p. 180.
[17] Cfr. S. Weil, Discesa di Dio, in La Grecia e le intuizioni precristiane, ed. it. Borla, Torino 1967, pp. 249-250.
[18] Ibid., p. 250.
[19] Cfr. Quaderni III, a cura di G. Gaeta, Adelphi, 1988, p. 182.
[20] Ibid., p. 53.
[21] Ibid., p. 154.
[22] Cfr. Quaderni II, cit., p. 281.
[23] Cfr. Quaderni I, cit., p. 373.
[24] Cfr. Quaderni II, p. 301.
[25] Ibid., p. 262. Questo rapporto co-creazione/de-creazione nella Weil apre una prospettiva di confronto con Eckhart, che, peraltro, ella poco conosceva.
[26] Cfr. Quaderni I, cit., p. 281.
[27] Cfr. Quaderni II, cit., p. 329.
[28] Ibid., p. 204.
[29] Ibid., p. 234.
[30] Ibid., p. 245.
[31] Cfr. Quaderni IV, cit., p. 322.
[32] Cfr. Quaderni II, cit., p. 197.
[33] Ibid., p. 226.
[34] Ibidem.
[35] Cfr. Quaderni I, cit., p. 233.
[36] Cfr. ibid., p. 73.
[37] Cfr. E. Lévinas, Simone Weil contro la Bibbia, in “Nuovi Argomenti”, n. 15, 1985, pp. 51-56.
[38] Cfr. Quaderni IV, cit., p. 181.
[39] Cfr. S. Weil, Attesa di Dio, Rusconi, Milano 1972, p. 62.
[40] Essays in Zen Buddhism, Luzac & Co., London 1933, ampiamente citato nei Quaderni III, pp. 53 ss.
[41] Mystiques et magiciens du Thibet, Plon, Paris, 1929, ampiamente citato in Quaderni II, pp. 267 ss.
[42] Cfr. Quaderni III, cit., p. 75.
[43] Cfr. S. Weil, La pesanteur et la grâce, p. 131, Plon, Paris 1948. Quanto il pensiero della Weil sia vicino al buddismo zen, è stato sottolineato da Gaston Kempfner, La philosophie mystique de Simone Weil, Nataraj, Falicon 1996.
[44] Cfr. Brhadaranyaka Upanishad, IV, 4, 3.
[45] Ibid., IV, 4, 9.
[46] Ibid., IV, 4, 22.
[47] Cfr. Quaderni I, cit., p. 274.
[48] Cfr. Quaderni II, cit., p. 235.
[49] Ibid., p. 261.
[50] Cfr. Quaderni I, cit., p. 192.
[51] Ibid., p. 323.
[52] La Weil si riferisce qui a un passo della Mundaka Upanishad, II, I, 1 che ella cita spesso: “Due uccelli, compagni inseparabilmente uniti, si trovano sullo stesso albero. L’uno mangia il frutto dell’albero, l’altro guarda senza mangiare”. Cfr. ad es. Quaderni II, cit., p. 339, nella Appendice, “Traduzione di testi indù”, pp. 335- 359.
[53]) Ibid., p. 249.
[54] Cfr. S. Weil, Discesa di Dio, in La Grecia e le intuizioni precristiane, cit., pp. 234-240. A completamento di quanto qui accennato, rimando al mio saggio Simone Weil. L’amore implicito di Cristo, in: Cristo nella filosofia contemporanea, a cura di Silvano Zucal, San Paolo, Cinisello Balsamo 2002; vol. II, Il Novecento, pp. 945-967.