A 007. DALLA RUSSIA CON AMORE
Ian Fleming
Parte prima: Il piano
1 La terra delle rose
L’uomo nudo giaceva a faccia in giù vicino alla piscina: poteva essere morto.
Poteva essere un annegato, ripescato dalla piscina e messo ad asciu-gare sull’erba in attesa dell’arrivo della Polizia o dei familiari. Sull’erba vicino alla sua testa i suoi effetti personali erano meticolosamente raggrup-pati in bella vista in modo che nessuno potesse pensare che i soccorritori avevano rubato qualcosa.
A giudicare dallo scintillio di quegli oggetti, l’individuo in questione era stato, o era, un uomo ricco. C’erano i tipici oggetti che contraddistin-guono l’agiatezza: un porta-biglietti a molla, fatto con una moneta da cinque dollari messicana, da cui sporgeva una considerevole quantità di banconote, un accendisigari Dunhill d’oro un po’ usato, un portasigarette ovale pure d’oro, con gli orli ondulati e una discreta turchese a guisa di pulsante che indicava lo stile di Fabergé,(1)e quel tipo di libro che un ricco prenderebbe dalla libreria per portare con sé in giardino — La piccola Nugget — una vecchia storia di P. G. Wodehouse. C’era pure un massiccio orologio d’oro da polso, col cinturino di coccodrillo marrone un po’ logoro. Era un Girard-Perregaux, un modello creato apposta per persone a cui piacciono gli oggetti curiosi, con una grande lancetta dei secondi e due piccole aperture nel quadrante dove si poteva leggere il giorno, il mese e la fase della luna. In quel momento, indicava che erano le due e mezzo del mese di giugno e che la luna aveva raggiunto i tre quarti.
Una libellula azzurra e verde saettò fuori dai cespugli di rose in fondo al giardino e si librò a mezz’aria a pochi centimetri dalla base della spina dorsale dell’uomo. Era stata attratta dal riverbero dorato del sole di giugno sulla peluria bionda che gli ricopriva il coccige. Dal mare soffiò un alito di vento. La fine peluria ondeggiò lievemente. La libellula sfrecciò da un lato, e rimase sospesa sopra la spalla sinistra dell’uomo, guardando in giù. L’erba tenera si agitò sotto la bocca aperta dell’uomo. Una grossa goccia di sudore scivolò lungo il suo naso carnoso e cadde scintillando nell’erba. Era più che sufficiente. La libellula filò via attraverso le rose e sopra i cocci di vetro che orlavano l’alto muro del giardino. Avrebbe potuto essere dell’ottimo cibo, ma si era mosso.
Il giardino dove l’uomo si trovava disteso era un vasto tappeto verde ben curato circondato per tre lati da fitti cespugli di rose dai quali proveniva il persistente ronzio delle api. Al di là di quel soporifero brusio, il mare mormorava dolcemente ai piedi della scogliera in fondo al giardino.
Dal giardino non sì poteva scorgere il mare… non si poteva scorgere altro che il cielo e le nubi al di sopra del muro alto quasi quattro metri. In realtà, si poteva guardare oltre i confini del recinto solo dalle due stanze da letto del piano superiore della villa che costituiva il quarto lato di quella privatissima proprietà. Da lassù apparivano la grande distesa di acqua azzurra che fronteggiava la casa e, a destra e a sinistra, le finestre superiori delle ville adiacenti e le cime degli alberi degli altri giardini, querce sem-preverdi del tipo Mediterraneo, pini marittimi, equiseti, e qualche rara palma.
La villa era una costruzione moderna: uno scatolone tozzo, privo di qualsiasi ornamento. La facciata che dava sul giardino era piatta, dipinta di rosa, con quattro finestre protette da inferriate e una porta a vetri centrale che dava su un piccolo piazzale pavimentato di mattonelle smaltate color verde pallido. Le mattonelle arrivavano fino al tappeto erboso. L’altro lato della villa, che distava pochi metri da una strada polverosa, era pressoché identico. Ma qui le quattro finestre erano sbarrate, e la porta centrale era di quercia.
Al piano superiore c’erano due camere da letto di media ampiezza e al piano terreno un soggiorno e una cucina, in un angolo della quale era stato ricavato il gabinetto. Non c’erano stanze da bagno.
Il pigro e denso silenzio del primo pomeriggio fu interrotto dal rumore di una macchina che avanzava lungo la strada e che si fermò davanti alla villa. Si udì lo sbattere di una portiera e poi la macchina si allontanò. Il campanello della porta suonò due volte. L’uomo nudo allungato vicino alla piscina non si mosse, ma al suono del campanello e al rumore della macchina che ripartiva aveva spalancato per un attimo gli occhi. Fu come se le palpebre si fossero rizzate a somiglianza delle orecchie di un animale.
L’uomo si era immediatamente ricordato dove si trovava, e il giorno della settimana, e l’ora. I rumori erano stati identificati. Le palpebre dalle corte ciglia color sabbia ricaddero pigramente sugli occhi azzurro slavato, opachi, impenetrabili. La piccola bocca crudele si spalancò in uno smisu-rato sbadiglio che la riempì di saliva. L’uomo sputò la saliva sull’erba e attese.
Dalla porta a vetri uscì una giovane donna con una borsa a rete.
Indossava una camicia bianca di cotone e una gonna azzurra, corta e trasandata. La donna avanzò con andatura maschile sulle lucide mattonelle e sul tratto di prato che la separavano dall’uomo nudo. Giunta a pochi passi da lui, posò la borsa a rete sull’erba, si sedette e si tolse le scarpe di tipo economico, piuttosto polverose. Quindi si rialzò, si sbottonò la camicia e, dopo averla accuratamente piegata, la mise accanto alla borsa a rete.
La ragazza non portava nulla sotto la camicia. La pelle del suo corpo era gradevolmente abbronzata e le spalle e i bei seni irradiavano salute.
Quando piegò le braccia per slacciare i bottoni laterali della gonna, piccoli ciuffi di pelo biondo fecero capolino dalle sue ascelle. L’aspetto di ragazza di campagna piena di salute era accentuato dai fianchi massicci fasciati in un paio di mutandine da bagno di tessuto elastico color azzurro sbiadito, e dalle cosce e dalle gambe, corte e grosse, che lei mise in mostra quando si fu spogliata.
La ragazza piegò ordinatamente la gonna vicino alla camicia, tolse dalla borsa a rete una vecchia bottiglietta da bibita che conteneva un liquido denso e incolore, e andò a inginocchiarsi vicino al corpo dell’uomo. Gli versò un po’ del liquido — olio di oliva profumato alla rosa, come qualsiasi cosa, da quelle parti — tra le scapole e, dopo aver articolato le dita come una pianista, cominciò a massag-giargli lo sterno-mastoide e i muscoli trapezio della nuca.
Era un lavoro duro. L’uomo era straordinariamente forte e i muscoli rigonfi che erano alla base del collo cedevano a fatica alla pressione dei pollici della ragazza, anche quando lei faceva leva col peso delle spalle. Al termine del massaggio, di certo sarebbe stata in un bagno di sudore e così esausta da desiderare soltanto un tuffo nella piscina e un lungo sonno all’ombra, finché la macchina non fosse venuta a riprenderla. Ma non pensava a questo, mentre le sue mani lavoravano meccanicamente sulla schiena dell’uomo. Pensava piuttosto al proprio istintivo disgusto per il più bel corpo che lei avesse mai visto.
Nulla di quel disgusto traspariva dalla faccia piatta e impassibile della massaggiatrice, e gli occhi a mandorla neri, sotto la frangia dei capelli corti, ruvidi e neri, erano vuoti come una macchia d’olio sull’acqua; ma, il suo subcosciente gemeva e si contorceva, e — se la ragazza si fosse presa la briga di misurarle — si sarebbe sorpresa del rapido ritmo delle sue pulsazioni.
Ancora una volta, come tanto spesso negli ultimi due anni, la ragazza si chiese perché detestasse quello splendido corpo, e ancora una volta cercò vagamente di analizzare la sua repulsione. Forse sarebbe riuscita a liberarsi da quei sentimenti di colpa che considerava certamente molto più contrari all’etica professionale del desiderio sessuale che alcuni dei suoi pazienti risvegliavano in lei.
Cominciò dai piccoli particolari: i suoi capelli. Osservò la testa, rotonda e piuttosto piccola, piantata sul collo vigoroso. Era ricoperta da folte ciocche rosso-oro che le avrebbero dovuto piacevolmente ricordare i capelli convenzionali che aveva visto nelle riproduzioni delle statue classiche.
Ma le ciocche erano troppo aderenti, in un certo senso, troppo incollate l’una all’altra e al cranio. Le facevano allegare i denti; era come affondare le unghie delle dita in un tappeto folto. E le ciocche d’oro scendevano molto basse sulla nuca — fino alla quinta vertebra cervicale, pensò professional-mente la donna. A quel punto, le ciocche terminavano brusca-mente in una linea orizzontale di brevi peli duri e dorati.
La ragazza si fermò un attimo per riposare le mani e si accoccolò sull’erba. Il suo busto scultoreo riluceva già di sudore. Si passò l’avambraccio sulla fronte e si allungò per prendere la bottiglia dell’olio. Ne versò circa un cucchiaio da tavola sulla piccola superficie pelosa alla base della spina dorsale dell’uomo, articolò le dita e si curvò di nuovo in avanti.
Quell’appendice dorata del coccige, che sporgeva leggermente sulla fenditura delle natiche, sarebbe stata un particolare curioso, eccitante, in un uomo amato; ma in quell’uomo era qualcosa di bestiale. No, di serpigno.
Ma le serpi non hanno peli. Be’, lei non poteva farci nulla. A lei sembrava serpigno. Spostò le mani sulle prominenze dei glutei. Era arrivata al momento in cui molti dei suoi clienti, e in modo particolare i ragazzi della squadra di calcio, cominciavano a scherzare. Poi, se non fosse stata attenta, sarebbero seguite le proposte. Certe volte lei riusciva a tacitarle premendo duramente in giù, verso il nervo sciatico. Altre volte, e particolarmente quando l’uomo le piaceva, ci sarebbe stata qualche schermaglia, una breve lotta, e una rapida, deliziosa capitolazione.
Con quell’uomo era diverso, chiaramente diverso. Fin dalla prima volta, lui si era comportato come un mucchio di carne inanimata. In due anni, non le aveva mai rivolto la parola. Una volta terminata la schiena, quando per l’uomo era giunto il momento di stendersi supino, nè i suoi occhi nè il suo corpo avevano mai dimostrato il minimo interesse per la ragazza. Lei gli batteva sulla spalla, e lui non faceva altro che rigirarsi e fissare il cielo attraverso le palpebre socchiuse; di tanto in tanto spalancava la bocca per uno di quei lunghi e spaventosi sbadigli che erano l’unico segno delle sue reazioni umane.
La ragazza cambiò posizione e massaggiò lentamente la gamba destra, scendendo verso il tendine di Achille. Quando lo raggiunse, alzò lo sguardo e osservò ancora una volta quel magnifico corpo. La sua repulsione era dunque soltanto fisica? Era forse l’abbronzatura rossastra della pelle che per natura era di colore bianco-latte; un richiamo all’aspetto della carne arrostita? O era la struttura stessa della pelle, i pori profondi e spaziati sulla superficie liscia? O le innumerevoli lentiggini color arancio che erano sparse sulle spalle? Oppure era la sessualità dell’uomo? L’indifferenza di quei grossi muscoli, splendidi e insolenti? O era invece una repulsione spirituale… un istinto animalesco che le suggeriva la presenza di qualcosa di demoniaco dentro quel magnifico involucro?
La massaggiatrice si alzò in piedi e cominciò a ruotare lentamente il capo e a flettere le spalle. Poi allungò le braccia di fianco e in alto e le tenne così per qualche tempo per permettere al sangue di defluire. Quindi si avvicinò alla borsa a rete, ne tolse un asciugamano e si asciugò il sudore dalla faccia e dal corpo.
Quando si rivolse verso l’uomo, questi si era già messo supino ed ora stava fissando distrattamente il cielo, col capo appoggiato a una mano aperta. Il braccio libero era allungato in fuori e attendeva lei. La ragazza andò a inginocchiarsi sull’erba, dietro la testa dell’uomo. Versò un po’ d’olio sulle palme, afferrò la mano inerte e semichiusa e cominciò a frizionare le dita tozze e grosse.
La ragazza guardò nervosa-mente di traverso il viso arrossato sotto la corona dei riccioletti d’oro. Apparentemente era un bel viso: una bellezza fanciullesca e un poco volgare, con quelle gote piene e rosee, il naso all’insù e il mento arrotondato. Ma, osservandolo bene, c’era qualcosa di crudele in quella bocca un po’ contratta e dalle labbra sottili, un che di por-cino nelle larghe narici di quel naso rivolto all’insù, e l’assenza di espressione di quegli occhi color azzurro slavato si comunicava a tutto il viso, rendendolo simile a quello di un annegato portato all’obitorio. Era come se qualcuno avesse ridipinto il viso di una bambola di porcellana, rendendolo terrifi-cante.
La massaggiatrice risalì con le mani lungo il braccio verso i bicipiti smisurati. Come aveva fatto quell’uomo a sviluppare una muscolatura così eccezionale? Era forse un pugilatore? In che modo impiegava il suo corpo formidabile? Si diceva che quella fosse una villa della polizia. I due uomini che fungevano da servitori erano senza dubbio guardie, sebbene prov-vedessero alla cucina e alle faccende di casa. Regolarmente ogni mese l’uomo si assentava per qualche giorno: in quelle occasioni le comunica-vano di non venire. Di quando in quando le dicevano di non venire per una settimana, o per due, o per un mese. Una volta, dopo una di quelle assenze, lei aveva notato che il collo e la parte superiore del corpo dell’uomo erano coperti di contusioni. In un’altra occasione, aveva visto l’angolo rosso di una ferita semi-rimarginata spuntar fuori da un lungo cerotto chirurgico applicato sulla cassa toracica all’altezza del cuore. La ragazza non aveva mai osato informarsi sul conto dell’uomo, nè all’ospedale nè in città.
Quando era stata mandata per la prima volta alla villa, uno dei servitori le aveva consigliato di non parlare di quanto avrebbe visto, se non voleva finire in prigione. Tornando all’ospedale, il direttore capo, che non l’aveva mai notata prima di allora, l’aveva fatta chiamare e le aveva detto la stessa cosa. Sarebbe finita in prigione. Le forti dita della ragazza penetrarono nervosamente nel grande muscolo deltoide all’inizio della spalla. Aveva sempre saputo che doveva trattarsi di qualcosa riguardante la Sicurezza di Stato. Forse era per questa ragione che lo splendido corpo la disgustava.
Forse era soltanto la paura dell’organizzazione che custo-diva quel corpo.
Chiuse fortemente gli occhi, al pensiero di chi potesse essere l’uomo. Li riaprì immediata-mente. L’uomo avrebbe potuto notarlo. Ma lui aveva gli occhi rivolti in su a fissare distrattamente il cielo.
Ora ,la ragazza allungò la mano per prendere l’olio, bisognava fare la faccia.
I pollici della massaggiatrice avevano appena cominciato a premere nelle orbite dell’uomo, quando dall’interno della casa venne il trillo di un telefono. Il trillo risuonò con insistenza nella pace del giardino. Immediatamente l’uomo si alzò su un ginocchio come un atleta in attesa del via. Il trillo del telefono si interruppe. Si udì il mormorio di una voce. La ragazza non poteva sentire quello che stava dicendo, ma il tono era umile, come di chi ricevesse degli ordini. La voce cessò e uno dei servitori apparve per un attimo sulla porta, fece un cenno di richiamo e rientrò in casa. Il gesto era ancora a mezz’aria e già l’uomo nudo si era messo a correre. La donna osservò la schiena abbronzata che spariva al di là della porta a vetri. Era meglio non farsi sorprendere senza far nulla, magari in ascolto, quando l’uomo fosse tornato. Così si alzò in piedi, fece due passi verso il bordo di cemento della piscina ed eseguì un abile tuffo.
Sapere chi era l’uomo di cui maneggiava il corpo sarebbe senza dubbio servito alla ragazza a spiegare i suoi impulsi di disgusto, ma per la sua tranquillità era meglio che lei lo ignorasse.
Il suo vero nome era Donovan Grant, o «Red» Grant. Ma, negli ultimi dieci anni, egli era noto come Krassno Granitski; in codice «Granit».
Era il primo esecutore della SMERSH, l’ apparat per gli omicidi della MGB,(2) e in quel momento stava ricevendo delle istruzioni sulla linea diretta della MGB di Mosca.
(1)Fabergé (1846-1920), celebre orefice russo. ( N. d. t. )
(2)MGB(Ministerstvo Gosudarstvennoi Bezopasnosti): Ministero per la Sicurezza dello Stato Sovietico. ( N. d. t.)