giovedì 9 agosto 2018


PRIMA E DOPO
Carlo Dossi
(tratto da Goccie d’inchiostro, Roma, Stabilimento Tipografico Italiano, 1879;  Luigi Perelli editore, 1870)
I
Infine!... Dieci anni lo avèan bramato. Oh quante volte Antonietta, lasciando cadere con un sospiro il ricamo e fisando sconsolatamente il marito, che di sottocchi la guardava di già, avèa detto:
– Come farèi più volentieri un cuffino! –
Giulio, allora, si avvicinava a lei con la sedia, e baciàvala in fronte. E cominciàvano a dire di que’ bambinelli color mela poppina, succianti alle mamme di un’ampia nutrice. Eccome tenersi dal vezzeggiarli? Dal mangiucchiarli di baci?... Ma, st! il bimbo ha distaccato la bocca dalla sua credenza e allenta le cicciose manine... Il sonno lo accoglie.
E, spesso, Giulio e Antonietta passàvano verso le tre, innanzi alle scuole del pomo; di cui, apèrtasi a un tratto la pìccola porta, rovesciàvasi fuori, come fantocci da un sacco, la melonìa de’ scolaretti, isparpagliàndosi tosto per la contrada, a corsa, dimèntica già della noja sofferta, e saltellante e giojosa; e spesso, di dopo-pranzo, sedèvano tristamente su’na panchetta ai Giardini, Gullìveri nuovi in mezzo alla gentile frugaglia del Lillipùt, che trottolava di su e di giù, vero moto perpetuo, senza fastidi, senza pensieri e tutta amica; là, a fare i grandi occhi intorno al bossolottajo, mago del buon comando; quà, a leccare il cucchiajo, il piattello e le labbra intorno a quel dal sorbetto dell’unghia, o a bevucchiare a due mani la consolina entro un tazzone; in ogni parte, correndo coi cerchi, coi palloncelli, coi draghi-volanti o sui bastoni dei babbi; facendo al signore e al soldato innocentemente, o a rimpiattino dietro le gonne dell’aje; mentre i bebè dalle dande, che incominciàvano a sentirsi i pieducci, con l’agitar delle alette e la voce, credèvano còrrere anch’essi. Oh quanti maluzzi da unguento sputino, tavane da pulci! oh liti, temporali di monte! o dispettini e capricci e cattiverie adoràbili! oh paci! senza riserve, senza capi segreti. E, a volte, Giulio e Antonietta attiràvano a sè qualche putto; se furfantello dagli occhi briosi e dal nasino all’insù, coll’invito di un dolce; se vergognìno, a sorrisi. Ed ella solleticàvane la chiacchierina. Il cìttolo, allora, mettèvasi a spippolare le ragionette sue o ponèa dimande sopra dimande di una ingenuità da imbrogliarne quattòrdici savi... non una donna però. E, Giulio, facea, poi, palpitare i cittelli, loro contando le istorie di Gino e Ginetta e di Barbotta-fagioli stregone, o rìdere a più non posso scoccando loro sul naso la calottina dell’orologio. Così, su quella istessa panchetta, i nostri due infelici almanaccàvano il nome pel loro piccino. E, in quanto a nomi, biseffe! Essi mettèvano a parte i più graziosi e minuti, pur non trovàndone mai uno minuto e grazioso abbastanza; senz’avvertire, che il toso farèbbesi uomo e il nome resterebbe bambino. Poi, pensàvano anche agli abitucci di lui, dopo quello di polpa; sul che, Antonietta, la quale avèane sempre pel capo uno nuovo, lo descriveva al marito mandando giù l’aquolina. Infatti, in questo giro di tempo, se ne vèggono in mostra di sì gentili e sì belli, che la smania ci piglia di spirar loro la vita, e, non farlo, è un peccato.
– Mò guarda quello – Giulio diceva alla moglie, additando una bimba, la quale parèa uscita in quel punto da una vetrina.
– Dio! – esclamava Antonietta, serrando il braccio al marito.
E ritornàvano a casa... ed èrano sempre due. Ma un dì, ella, arrossendo, mormorò all’orecchio di lui una mezzaparola... Fu una fortuna ch’ei fosse in quella seduto.
E, da quel dì, Antonietta lasciò il canovaccio e le lane. Popolossi la casa di fascie e onestine, di camiciole e scarpette e calzettuccie e cuffini, i quali Giulio ridendo s’imponeva sul pugno – a nastri, a pizzi, a stratagli. Nè passava giornata, ch’egli oppure essa, giocato all’indovinello un pochetto, non si facèsser vedere qualche còmpera nuova pel loro ninino. Al quale apparecchiàrono poi una balia (asciutta ben sott’inteso) e una culla in seta celeste e oro, con su un Amorino lì lì per dire «silenzio!» Ma siccome Antonietta non trovò l’Amorino di tutto suo gusto, Giulio, per racconciarle la vista, le tappezzò tosto la stanza con i putti più insigni di Raffaello e Tiziano.

II

È nato.
Giulio, tremando, alza il velo alla culla e guarda il suo bimbo...
Brutto! Gli è un di que’ còsi falliti, aborti maturi, cinesi magoghi. Floscio, di un colore ulivigno, tien già le rughe della vecchiaja, e Dio sa quanto vivrà! Non solo. È di un brutto volgare; niuna favilla di quella fiamma divina, che sublimò la bruttezza di Sòcrate; ed è di un brutto neppure, che possa, strada facendo, aggiustarsi. Veramente, si dice: «maschi e tortelli son sempre belli,» ma! – ma quì non si tratta di un maschio. O poverina, quale avvenire ti attende? Dopo un’infanzia, lunga, durata in un canto, gli occhi gravi di duolo, nascosta da’ tuòi genitori, che arròssan di tè; dopo un’infanzia, buja, quà e là serenata da baci, che non làsciano succio – baci di compassione – èccoti giovinetta, e lo «spirto di amore» risvègliasi in tè con violenza morbosa. Ma, nessuno ti guarda; se sì, è per rìdere; non per sorrìdere mai. Cangia il mondo di scorza, non di midollo; gli è ancora quello, quellìssimo, che diè la causa vinta a Frine. Sei brutta, e le belle ragazze non ti vòglion con loro; brutta, e sgradisci alle mamme. Cave a signatis! le ti crèdon cattiva, e, credendo, ti fanno. Ma, come i tuòi occhi non sono costretti vèr terra da quelli degli altri, così ognora tu guardi.Ed ecco, il tuo «desìo amoroso» ha incontrato una faccia soave, di uno, che a tè, alle maniere leggiadre non usa, raccolse il fazzoletto caduto, e, con parola cortese, l’offrì. Oh nascondi l’amore! nascondi. Ecchè? quel gentile or ti passa vicino e non ti saluta. Sai? Hanno scoccato di tè e di lui male cose; come si dice, bons mots; ed egli più non, s’intriga con gobbe; e, in prova, sposa Paolina, un angioletto senz’ali. Oh baci! oh strida! Così, il caràttere tuo, siccome la voce, inasprisce. Babbo e mamma, al pari della speranza, ti hanno lasciato da un pezzo. Essi rimpròverano a tè la lor morte; tu, a loro, la vita. Pàssano gli anni e più non ti resta che il calor della ciecia. E tu diventi una vecchia borbottona e stizzosa, che fà morir gli augelletti con il sistema Filadelfiano, che rompe i tèneri arbusti amici a tèneri cuori, che, tutta piena di spilli, si tira in collo i bambini a intabaccarli di baci; e tu diventi una dama, che, lumacando col biscottino e gli scrùpoli per gli ospedali, raddoppia la febbre ai malati – e nelle case attizza discordie, fà la chierca ai ragazzi, e a Dio prostituisce le tose – e i matrimoni attraversa, e turba i riusciti. Ma quì, il povero padre, aggricciando, abbandona su quella cuna di tanti dolori il velo, e fugge. Fugge impaurito la brama di soffocarli a una stretta; fugge un reato pietoso.