giovedì 10 marzo 2022

LA SCONFITTA Estratto da "La Peste" Albert Camus

 


LA SCONFITTA

Estratto da "La Peste" Albert Camus 


[...]Dico soltanto che ci sono sulla terra flagelli e vittime, e che bisogna, per quanto è possibile, rifiutarsi di essere col flagello[...]. 

Trovarono la terrazza deserta, con tre sedie. Da una parte, per quanto lontano potesse spingersi la vista, non si scorgevano che terrazze: finivano con l’addossarsi a una massa oscura e rocciosa, in cui riconobbero la prima collina. Dall’altra parte, al disopra d’alcune strade e del porto invisibile, lo sguardo si tuffava in un orizzonte dove il cielo e il mare si confondevano in un palpito indistinto. Oltre quelle che sapevano essere le scogliere, un bagliore, di cui non scorgevano la fonte, ricompariva regolarmente: il faro di passo, dalla primavera, continuava a girare per i bastimenti che dirottavano verso altri porti. Nel cielo lavato e levigato dal vento brillavano terse stelle, e il bagliore lontano del faro vi univa, di minuto in minuto, una cenere passeggera. La brezza recava odori di spezie e di pietra. Il silenzio era assoluto.

“Si sta bene”, disse Rieux sedendo, è come se la peste non fosse mai salita qui”.

Tarrou, voltandogli le spalle, guardava il mare.

“Sì”, disse dopo un momento, si sta bene”.

Andò a sedere vicino al dottore e lo guardò attentamente. Tre volte il bagliore ricomparve nel cielo. Uno strepito di stoviglie urtate salì sino a loro dalla profondità della strada. Una porta sbattè nella casa.

“Rieux”, disse Tarrou con un tono molto naturale, “lei non ha mai cercato di sapere chi sono io? Lei ha dell’amicizia per me?”

“Si”, rispose il dottore, ho dell’amicizia per lei; ma sinora ci è mancato il tempo”.

“Bene, ciò mi tranquillizza. Vuole che sia questo il momento dell’amicizia?”

Per tutta risposta, Rieux gli sorrise.

“Ebbene, ecco…”

Alcune strade piu lontano, un’automobile sembrò scivolare lungamente sul selciato umido; si allontanò, e poi confuse esclamazioni, venute da lontano, ruppero ancora il silenzio. E il silenzio ricadde sui due uomini con tutto il suo peso di cielo e di stelle. Tarrou si era alzato per issarsi sul parapetto della terrazza, di fronte a Rieux sempre affondato nella sua sedia. Parlò a lungo, ed ecco, press’a poco, ricostituito, il suo discorso.

“Diciamo per semplificare, Rieux, che io soffrivo della peste molto prima di conoscere questa città e questa malattia. Basti dire che io sono come tutti quanti; ma ci sono persone che non lo sanno, o che si trovano bene in tale stato, e persone che lo sanno e vorrebbero uscirne. Io, ho sempre voluto uscirne.

“Quand’ero giovane, vivevo con l’idea della mia innocenza, ossia con nessuna idea, proprio. Non sono il tipo del tormentato, ho cominciato come si conveniva. Tutto mi riusciva, ero a mio agio nell’intelligenza, mi andava per il meglio con le donne, e se avevo qualche inquietudine, passava com’era venuta. Un giorno, ho cominciato a riflettere. Intanto…

“Bisogna dire che non ero povero come lei; mio padre era accusatore pubblico, ed è una posizione. Tuttavia non ne aveva l’aria, essendo l’indole bonaria. Mia madre era semplice e discreta, e non ho mai cessato di amarla; ma preferisco non parlarne. Lui si occupava di me con affetto, e credo persino che cercasse di capirmi. Aveva delle avventure fuori casa, adesso ne sono sicuro, e sono anche ben lontano dall’indignarmene. In tali cose si comportava come si deve, senza urtare nessuno. Per dirla in breve, non era originalissimo, e oggi che è morto mi rendo conto che se non è vissuto come un santo nemmeno è stato un cattivo uomo. Si teneva nel mezzo, ecco tutto; ed è il tipo d’uomo per cui si sente un ragionevole affetto, quello che dura.

“Aveva tuttavia una particolarità: l’Orario generale Chaix era il suo libro prediletto. Non che viaggiasse, se non durante le vacanze, per andare in Bretagna dove aveva una piccola proprietà; ma era in grado di dire esattamente le ore di partenza e d’arrivo del Parigi-Berlino, le combinazioni d’orario usufruibili per andare da Lione a Varsavia, la distanza chilometrica precisa da una qualsiasi capitale all’altra. Lei mi sa dire come si va da Briancon a Chamonix? Anche un capostazione si perderebbe; mio padre non ci si perdeva. Si esercitava quasi tutte le sere ad arricchire le sue conoscenze in argomento, e n’era piuttosto fiero. Questo mi divertiva molto, e io lo interrogavo sovente, estasiato di controllare le sue risposte nello Chaix e di riconoscere che non si era sbagliato. Questi esercizietti ci hanno molto legati l’uno all’altro: io gli offrivo un uditorio di cui egli apprezzava la buona volontà. Quanto a me, trovavo che questa superiorità relativa alle ferrovie ne valeva un’altra.

“Ma io mi lascio andare, e corro rischio di dare troppa importanza a questo brav’uomo; infatti, per finirla, egli non ha avuto che un influsso indiretto sulle mie decisioni. Al massimo, egli mi ha offerto un’occasione. Quando ebbi diciassett’anni, mio padre m’invitò ad andarlo a sentire. Si trattava d’una causa importante, in Corte d’assise, e lui aveva pensato di figurarvi sotto la luce migliore. Credo, inoltre, che contasse su tale cerimonia, atta a colpire le fantasie giovanili, per spingermi a entrare nella carriera che lui stesso si era scelta. Avevo accettato, perché facesse piacere a mio padre, e perché, anche, ero curioso di vederlo e di ascoltarlo in una parte diversa da quella che recitava tra noi. Non pensavo a nient’altro. Quanto accadeva in un tribunale mi era sempre sembrato naturale e inevitabile come una rivista del 14 luglio o una premiazione. Ne avevo un’idea molto astratta, che non mi disturbava.

“Di quel giorno, tuttavia, non ho serbato che una sola immagine, quella del colpevole. Credo che fosse colpevole davvero, importa poco di che; ma quell’ometto di pel rosso e povero, d’una trentina d’anni, pareva sì deciso a tutto ammettere, sì spaventato di quello che aveva fatto e che stavano per fargli, che dopo alcuni minuti io non ebbi occhi se non per lui. Aveva l’aria d’un gufo intontito da una luce troppo viva; il nodo della cravatta non gli si adattava con precisione al giro del collo; si rosicchiava le unghie di una sola mano, la destra… In breve (non voglio insistere), lei ha capito ch’era un uomo vivo.

“Ma io me n’accorgevo improvvisamente, mentre, sino ad allora, non avevo pensato a lui che traverso la comoda categoria dell’imputato. Non posso dire che dimenticassi allora mio padre, ma qualcosa, prendendomi allo stomaco, mi toglieva ogni altra attenzione che non fosse rivolta al prevenuto. Non ascoltavo quasi niente, e sentivo che si voleva uccidere quell’uomo vivo, e un istinto formidabile come un’onda mi portava al suo fianco con una sorta di ostinato accecamento. Non mi risvegliai veramente che con la requisitoria di mio padre.

“Trasformato dalla toga rossa, né bonario né affettuoso, la sua bocca gorgogliava di frasi immense, che senza tregua ne uscivano come serpenti. E capii che chiedeva la morte di quell’uomo in nome della società e che inoltre chiedeva il taglio del suo collo. Diceva soltanto, è vero: ‘Quella testa deve cadere'; ma, insomma, la differenza non era grande. E venne a esser lo stesso, infatti, in quanto egli ottenne quella testa. Semplicemente, non è lui che fece allora il lavoro. E io che seguii poi la cosa sino alla conclusione, io ebbi con quello sciagurato una intimità ben piu vertiginosa di quella che mai ebbi con mio padre. Questi doveva intanto, secondo il costume, assistere a quelli che si chiamavano elegantemente gli ultimi momenti, ma che bisogna definire il più abbietto degli assassinii.

“Da quel momento in poi, non potei guardare l’Orario Chaix che con un abominevole disgusto. Da quel momento in poi, m’interessai con orrore alla giustizia, alle condanne a morte, alle esecuzioni, e constatai, con una impressione di vertigine, che mio padre aveva dovuto assistere parecchie volte all’assassinio, e ch’era proprio nei giorni in cui si alzava prestissimo. Sì, egli caricava la sveglia in quelle occasioni. Non osai parlarne a mia madre ma la osservai meglio, allora, e capii che non c’era piu nulla tra di loro e che lei menava una vita di rinuncia. Questo mi aiuta a perdonarle, come dicevo allora; in seguito seppi che non c’era nulla da perdonarle, in quanto essa era stata povera tutta la vita, sino al matrimonio, e la povertà le aveva insegnato la rassegnazione.

“Di certo lei si aspetta che io le dica di essermene andato subito. No, sono rimasto parecchi mesi, quasi un anno. Ma avevo la nausea. Una sera mio padre mi domandò la sveglia: doveva alzarsi presto. La notte, non dormii; quando lui tornò, il giorno dopo, ero partito. Diciamo subito che mio padre mi fece cercare, che andai a trovarlo, che senza spiegar nulla gli dissi con calma che mi sarei ucciso se mi avesse costretto a tornare. Egli finì con l’accettare, era d’indole piuttosto mite; mi fece un discorso sulla stupidità che c’era nel voler vivere la propria vita (in tal modo lui si spiegava il mio gesto, ne io lo dissuasi), mille raccomandazioni, e trattenne le sincere lacrime che gli venivano. In seguito, ma molto tempo dopo, tornai regolarmente a trovare mio padre, e allora lo incontrai. Tali rapporti gli bastarono, io credo. Per me, io non avevo animosità contro di lui, soltanto un po’ di tristezza al cuore. Quando morì, presi mia madre con me, e ancora ci sarebbe, se non fosse morta anche lei.

“Ho insistito molto su questo inizio perché fu, effettivamente, l’inizio di tutto. Ho conosciuto la poverta a diciott’anni, uscendo dall’agiatezza; ho fatto mille mestieri per guadagnarmi la vita, e non mi è riuscito troppo male. Ma quello che m’interessava, era la condanna a morte, volevo regolare un conto col gufo rosso. Di conseguenza, ho fatto della politica, come si dice. Non volevo essere un appestato, insomma.

Ho creduto che la società in cui vivevo fosse fondata sulla condanna a morte e che, combattendola, avrei combattuto l’assassinio. Io l’ho creduto, altri me lo hanno detto e, infine, è vero in gran parte. Mi sono quindi messo con gli altri che amavo, e che, non ho cessato di amare. Ci sono rimasto a lungo e non vi è paese in Europa alle cui lotte non abbia partecipato. Andiamo avanti.

“Beninteso, sapevo che anche noi, all’occasione. pronunciamo condanne; ma mi dicevano che quei pochi morti erano necessari per portare a un mondo in cui non si sarebbe più ucciso nessuno. Era vero, in un certo modo, e, dopo tutto, forse io non sono capace di fermarmi su questo genere di verità. Di ben sicuro, so che esitavo. Ma pensavo al gufo, e potevo continuare. Sino al giorno in cui ho veduto un’esecuzione (era in Ungheria) e la stessa vertigine che aveva colto il ragazzo che io ero oscuro i miei occhi d’uomo.

“Lei non ha mai veduto fucilare un uomo? No certo, sono cose che si fanno generalmente su invito, e il pubblico è scelto prima. Il risultato è che lei è rimasto alle stampe e ai libri: una benda, un palo e a distanza alcuni soldati. Ebbene, no! Lei sa che il plotone d’esecuzione si mette invece a un metro e mezzo dal condannato? Sa che se il condannato facesse due passi avanti urterebbe col petto nei fucili? Sa che a questa distanza gli sparatori concentrano il tiro sulla regione del cuore e che tutti, coi grossi proiettili, fanno un buco dove si potrebbe mettere un pugno? No, lei non lo sa: sono particolari di cui non si parla. Il sonno degli uomini è piu sacro che la vita per gli appestati; non si deve impedire alla brava gente di dormire. Ci vorrebbe del cattivo gusto, e il buon gusto consiste nel non insistere, è cosa che tutti sanno. Il cattivo gusto mi è rimasto in bocca e io non ho cessato d’insistere, ossia di pensarvi.

“Ho capito allora che io, almeno, non avevo finito di essere un appestato durante i lunghi anni in cui, tuttavia, con tutta la mia anima, credevo appunto di lottare contro la peste. Ho saputo di aver indirettamente firmato Ia morte di migliaia d’uomini, che avevo persino provocato tale morte, trovando buoni i principii e le azioni che l’avevano fatalmente determinata. Gli altri non ne sembravano urtati, o almeno non ne parlavano mai spontaneamente. Io avevo un nodo alla gola. Quando mi capitava di esprimere i miei scrupoli, mi dicevano che bisogna riflettere a quanto era in gioco e mi davano ragioni sovente impressionanti, per farmi mandar giù quello che non riuscivo a inghiottire. Ma io rispondevo che i grandi appestati, coloro che mettono le toghe rosse, anche essi hanno eccellenti ragioni in quei casi, e che se ammettevo le cause di forza maggiore e le necessità invocate dai piccoli appestati, non avrei potuto respingere quelle dei grandi. Mi facevano notare che la maniera buona di dar ragione alle toghe rosse era di lasciargli l’esclusivita della condanna. Ma io mi dicevo allora che se si cedeva una volta, non c’era ragione di fermarsi. Mi sembra che la storia mi abbia dato ragione, oggi si fa a chi uccide di più. Sono tutti nel furore del delitto, e non possono fare altrimenti.

“La faccenda mia, in ogni caso, non era il ragionamento; era il gufo rosso, quella sudicia avventura in cui sudice bocche appestate annunciavano a un uomo in catene che doveva morire e regolavano tutte le cose per farlo morire, infatti, dopo notti e notti d’agonia durante le quali egli si aspettava di essere assassinato a occhi aperti. La faccenda mia era il buco nel petto. E mi dicevo che almeno da parte mia, mi sarei rifiutato di dar mai una sola ragione, una sola, lei capisce, a quella disgustosa macelleria. Sì, ho scelto quest’accecamento ostinato in attesa di vederci piu chiaro.

“Poi, non ho cambiato. Da tanto tempo ho vergogna vergogna da morirne, di esser stato, sebbene da lontano sebbene in buona fede, anch’io un assassino. Col tempo, mi sono semplicemente accorto che anche i migliori d’altri non potevano, oggi, fare a meno di uccidere o di lasciar uccidere: era nella logica in cui vivevano, e noi non possiamo fare un gesto in questo mondo senza correre il rischio di far morire. Sì, ho continuato ad aver vergogna, e ho capito questo, che tutti eravamo nella peste; e ho perduto la pace. Ancor oggi la cerco, tentando di capirli tutti e di non essere il nemico mortale di nessuno. So soltanto che bisogna fare quello che occorre per non esser più un appestato, e che questo soltanto ci può far sperare nella pace o, al suo posto, in una buona morte. Questo può dar sollievo agli uomini e, se non salvarli, almeno fargli il minor male possibile e persino, talvolta, un po’ di bene. E per questo ho deciso di rifiutare tutto quello che, da vicino o da lontano, per buone o per cattive ragioni, faccia morire o giustifichi che si faccia morire.

“Di qui, so che io non valgo piu nulla per questo mondo in se stesso, e che dal momento in cui ho rinunciato a uccidere mi sono condannato a un definitivo esilio. Saranno gli altri a fare la storia. So, inoltre, che non posso apparentemente giudicare questi altri; mi manca una qualità per essere un assassino ragionevole; non è quindi una superiorità. Ma ora, acconsento a essere quel che sono, ho imparato la modestia. Dico soltanto che ci sono sulla terra flagelli e vittime, e che bisogna, per quanto è possibile, rifiutarsi di essere col flagello. Questo le sembrerà forse un po’ semplice, e io non so se è semplice, ma so che è vero. Ho sentito tanti ragionamenti da farmi girar la testa, e che hanno fatto girare abbastanza altre teste da farle consentire all’assassinio, che ho capito come tutte le disgrazie degli uomini derivino dal non tenere un linguaggio chiaro. Allora ho preso il partito di agire chiaramente, per mettermi sulla buona strada. Di conseguenza, ho detto che ci sono flagelli e vittime, e nient’altro. Se, dicendo questo, divento flagello io stesso, almeno non lo è col mio consenso. Cerco di essere un assassino innocente; lei vede che non è una grande ambizione.

“Bisognerebbe di certo che ci fosse una terza categoria, quella dei veri medici, ma è un fatto che non si trova sovente, dev’essere difficile. Per questo ho deciso di mettermi dalla parte delle vittime, in ogni occasione, per limitare il male. In mezzo a loro, posso almeno cercare come si giunga alla terza categoria, ossia alla pace”.

Terminando, Tarrou faceva oscillare una gamba, sì che il piede batteva piano contro la terrazza. Dopo un silenzio, il dottore, sollevandosi un poco, domandò se Tarrou avesse una idea della strada da prendere per arrivare alla pace. “Sì, la simpatia”.

Due campane d’ambulanza risuonarono lontano. Le esclamazioni, confuse poco prima, si unirono ai confini della città, presso la collina rocciosa. Nello stesso tempo si udì qualcosa che somigliava a una detonazione; poi tornò il silenzio, Rieux contò due ammicchi del faro. La brezza sembrò rinvigorirsi, e insieme un soffio venuto dal mare portò un odor di salso, ora si sentiva distintamente la sorda respirazione delle onde contro la scogliera.

“Insomma”, disse Tarrou con semplicità, “quello che m’interessa è sapere come si diventa un santo”.

“Ma lei non crede in Dio”.

“Appunto: se si può essere un santo senza Dio, è il solo problema concreto che io oggi conosca”

Bompiani, Milano, 1994