sabato 5 marzo 2022

QUEI CONDOTTIERI DEL NUOVO MONDO Estratto da "Tutto scorre" Vasilij Grossman



 QUEI CONDOTTIERI DEL NUOVO MONDO

Estratto da "Tutto scorre" 

Vasilij Grossman 

[...] Si aveva talvolta l’impressione che la possente energia, l’inflessibile volontà, la crudeltà senza limiti di quei condottieri del nuovo mondo, avessero il solo scopo di costringere l’uomo a lavorare al di sopra delle sue forze[...]

Ivan Grigor’evič ricordava spesso i mesi trascorsi nella prigione interna, e poi alla Butyrka.

Tre volte era stato incarcerato alla Butyrka, ma quella che più spesso gli tornava alla mente era l’estate del ’37, quando si era trovato come avvolto dalla nebbia, in uno stato di semincoscienza; solo adesso, diciassette anni dopo, quella nebbia si era dissipata ed egli aveva cominciato a distinguere quanto era accaduto.

Nel ’37 i cameroni erano stracolmi, là dove i detenuti avrebbero dovuto contarsi a decine ce ne stavano a centinaia. Nell’afa del luglio e dell’agosto, fradicia di sudore, la gente giaceva intontita sui pancacci, gli uni appiccicati agli altri; di notte era possibile voltarsi da un fianco all’altro solo tutti in una volta, dietro comando del capocamerata, un comandante di divisione della cavalleria. Al bugliolo si andava scavalcando i corpi; nell’angolo del bugliolo dormivano sul pavimento i novellini, «paracadutisti»58 li chiamavano. In quell’afa soffocante, spropositata, così allo stretto, il sonno era come un deliquio, un vaneggiamento, il delirio del tifo petecchiale.

Sembrava che i muri della prigione tremassero come le pareti di una caldaia sbuffante, sotto una enorme pressione interna. La vita alla Butyrka ferveva l’intera notte. Nel cortile rombavano le autovetture, sempre in moto per andare a prendere nuovi arrestati che, mortalmente pallidi, guardavano smarriti l’immenso reame carcerario; rumoreggiavano gli enormi «corvi» neri, avviandosi a portare gli inquisiti dalla prigione agli interrogatori della Lubjanka, al transito della prigione Krasnopresnenskaja, alle torture del carcere Lefortovo, all’imbarco sui convogli per la Siberia. A questi le guardie di scorta gridavano: «Con la roba!», e i compagni davano l’ultimo addio. Nei corridoi inondati d’una fortissima luce elettrica scalpicciavano i piedi degli arrestati, tinnivano le armi delle scorte; quando gli arrestati si incontravano, uno di loro veniva cacciato in gran fretta dentro un armadio a muro, un box, e lì aspettava, al buio.

Le finestre della cella erano ostruite da grossi schermi di legno, e la luce esterna filtrava attraverso una stretta fessura, il passaggio delle ore veniva scandito non dal sole e dalle stelle, ma dall’orario del carcere. La luce elettrica ardeva giorno e notte, con spietata intensità, sembrava che fosse l’accecante incandescenza delle lampadine a produrre quella tormentosa mancanza d’aria e quel calore. Giorno e notte ronzava la ventola dell’aria, ma l’afa dell’asfalto di luglio non portava sollievo agli uomini. La notte l’aria imbottiva come feltro ardente i polmoni e il cranio.

Sul far del mattino i prigionieri interrogati durante la notte tornavano nel camerone, si gettavano esausti sul pancaccio, chi singhiozzando, lamentandosi, chi si buttava seduto, immobile, e guardava fisso dinanzi a sé con occhi spalancati, chi si strofinava le gambe tumefatte, raccontando febbrilmente. Alcuni venivano trascinati in cella di peso, dalle guardie di scorta. Certi poi, interrogati ininterrottamente per giorni e giorni, li portavano all’infermeria del carcere, in barella. Nel gabinetto del giudice istruttore l’idea della soffocante, maleolente camerata sembrava dolce, si ricordavano con nostalgia i cari visi sfiniti dei compagni di pancone.

Tutte queste decine, migliaia, decine di migliaia di persone – segretari di comitati di distretto e di regione, commissari militari, capi di sezioni politiche, direttori di fabbriche e di sovchoz, comandanti di reggimento, di divisione, d’armata, capitani di navi, agronomi, scrittori, zootecnici, addetti al commercio estero, ingegneri, ambasciatori, partigiani rossi, procuratori, presidenti di comitati di fabbrica, professori universitari – erano espressione dei più diversi strati sociali toccati dalla rivoluzione. Accanto ai russi trovavi qui bielorussi, ucraini, ebrei della Lituania e dell’Ucraina, armeni, georgiani, flemmatici lettoni, polacchi, abitanti delle repubbliche dell’Asia Centrale. Tutti costoro avevano partecipato alla rivoluzione e alla guerra civile come soldati, operai, contadini, studenti universitari e liceali che avevano piantato i loro studi, artigiani che avevano abbandonato il loro mestiere. Gente che aveva sgominato gli eserciti di Kornilov e di Kaledin, di Kolčak, Denikin, Judenič, Vrangel’, e in ampie fiumane era confluita dalla periferia al cuore del deserto russo. La rivoluzione aveva abolito la «quota percentuale»,59 il «censo patrimoniale»60 e i privilegi nobiliari, aveva spazzato via la zona di residenza obbligata,61 e centinaia di migliaia di persone – contadini, operai, artigiani, studenti, gioventù delle campagne di Vologda e dei sobborghi ebraici – erano diventati dirigenti di comitati rivoluzionari, di commissioni straordinarie distrettuali e provinciali, di comitati di distretto del partito, di consigli economici, dei servizi combustibili, dei comitati di approvvigionamento, di sezioni d’istruzione pubblica, di kombinat. Era cominciata la costruzione di un nuovo Stato, mai visto prima al mondo. Sacrifici, crudeltà, privazioni – non contavano; tutto veniva compiuto in nome della Russia e dell’umanità lavoratrice, in nome della felicità della gente che lavorava.

Arrivarono gli Anni Trenta, i giovani, i combattenti della guerra civile si erano fatti uomini quarantenni, dai capelli inargentati. Per loro il tempo della rivoluzione, dei kombed,62 del primo e del secondo congresso del Comintern, era stato il tempo giovane, felice, romantico della loro vita. Stavano in uffici forniti di telefoni e segretarie, portavano giacca e cravatta in luogo dei giubbotti, andavano in automobile, avevano imparato ad apprezzare il buon vino, le vacanze a Kislovodsk, i medici famosi; e purtuttavia la stagione della budënovka,63 delle giacche di cuoio, della polenta di miglio, degli stivali sfondati, delle idee planetarie e della comune mondiale, restava la stagione sublime della loro vita. Non per amore delle auto, delle dacie essi costruivano un nuovo Stato. Lo costruivano per amore della rivoluzione. E per amore della rivoluzione e di un nuovo mondo, senza proprietari terrieri e capitalisti, avevano immolato vittime, compiuto crudeltà e violenze.

Certo, la generazione degli uomini sovietici spariti dalla circolazione nel 1936 e nel 1939, non era monolitica.

I primi a cadere sotto il colpo furono i fanatici, i distruttori del vecchio mondo. Il loro entusiasmo, il loro fanatismo, la loro dedizione alla rivoluzione suscitava l’odio dei nemici di quella.

Avevano odiato la borghesia, la nobiltà, i piccoli borghesi, i filistei, i traditori della classe operaia – menscevichi e socialrivoluzionari –, i contadini benestanti, gli opportunisti, i voenspec,64 la prezzolata arte borghese, i professori universitari venduti alla borghesia, i bellimbusti in cravatta che esercitavano le libere professioni, le donne che si incipriavano il naso e si pavoneggiavano in calze di seta, gli studenti avvolti nella pretenziosa mantella foderata di bianco, i popi, i rabbini, gli ingegneri con la coccarda sulla visiera del berretto, i poeti come Fet che scrivevano perversi versucoli sulla bellezza della natura. Essi odiavano Kautsky, McDonald; non avevano letto Bernstein, ma lo giudicavano orribile, sebbene il loro destino riecheggiasse le sue parole: lo scopo è nulla, il movimento è tutto.

Avevano distrutto il vecchio mondo e ne bramavano uno nuovo, che non avevano costruito. I cuori di questi uomini, che avevano inondato la terra di tanto sangue, che avevano odiato tanto e con tanto ardore, erano infantilmente privi di rancore: cuori di fanatici, forse di dementi. Essi odiavano per amore.

Erano stati la dinamite con cui il partito aveva distrutto la vecchia Russia, scavando le fondamenta per le nuove costruzioni, per il granito di un grandioso ordinamento statale.

E accanto ai dinamitardi erano sorti i primi costruttori. Tutto il loro ardore era rivolto alla costruzione di un apparato partitico statale, alla costruzione di fabbriche e officine, di strade e ferrovie, allo scavo di canali, alla meccanizzazione dell’agricoltura.

Erano i primi commercianti rossi, i pionieri del cotone, degli aeroplani e della ghisa sovietici. Fosse giorno o notte, al gelo siberiano o nell’afa del Karakum – costoro gettarono le fondamenta e alzarono i muri dei grattacieli.

Gvacharija, Frankfurt, Zavenjagin, Gugel’...

Si contano sulle dita quelli di loro che morirono di morte naturale.

Al loro fianco lavorarono i leader del partito, i fondatori e i dirigenti delle repubbliche nazionali sovietiche, dei territori e delle regioni: Postyšev, Kirov, Varejkis, Betal Kalmykov, Fajzula Chodžaev, Mendel’ Chataevič, Ejche...

Non uno di loro morì di morte naturale.

Erano uomini brillanti: oratori, bibliofili, esperti di filosofia, amanti della poesia, gente cui piaceva andare a caccia, far baldoria.

I loro telefoni squillavano ventiquattr’ore su ventiquattro, i loro segretari si davano il cambio in tre turni, ma a differenza dei fanatici e dei sognatori, essi erano capaci di riposare: apprezzavano le ampie e luminose dacie, la caccia ai cinghiali e alle capre selvatiche, gli allegri pranzi domenicali che duravano ore, il cognac armeno e i vini georgiani. D’inverno essi non andavano più in lacere giubbe di pelle, la gabardine delle loro giacche di taglio militare, alla Stalin, costava più cara del panno inglese.

Tutti si distinguevano per energia, volontà e completa disumanità. Tutti – appassionati della natura o amanti della poesia e della musica, o gaudenti che fossero – erano disumani.

Era chiaro, per loro, che un nuovo mondo andava costruito per il popolo. Né li turbava che tra gli ostacoli che impedivano la costruzione di quel mondo nuovo i più duri da sormontare si trovassero fra gli stessi operai, contadini, intellettuali.

Si aveva talvolta l’impressione che la possente energia, l’inflessibile volontà, la crudeltà senza limiti di quei condottieri del nuovo mondo, avessero il solo scopo di costringere l’uomo a lavorare al di sopra delle sue forze, senza rispettare l’orario e i giorni di riposo, a vivere mangiando a stecchetto, a dormire entro baracche, a ricevere una paga miserabile su cui doveva oltretutto pagare incredibili imposte indirette, nonché sottoscrizioni, tributi, tassazioni mai visti ancora nella storia.

Ma l’uomo costruiva cose di cui non aveva bisogno: di nessuna utilità gli erano il canale Mar Bianco-Baltico, le miniere artiche, le ferrovie al di là del circolo polare, le industrie ultrapesanti e le ultrapotenti centrali idroelettriche sorte nella deserta taigà. Si aveva spesso l’impressione che anche per lo Stato (e non solo per gli uomini) fossero inutili quelle fabbriche, quei mari e canali nel deserto. Sembrava a volte che quei possenti cantieri servissero solo a mettere in ceppi, con un pesante lavoro, masse di milioni di uomini.

Marx e Lenin, il più grande dei marxisti, e Stalin, il grandioso prosecutore della prima autentica teoria rivoluzionaria, avevano affermato il primato dell’economia sulla politica. E nessuno dei costruttori del nuovo mondo aveva riflettuto sul fatto che, costruendo quelle enormi, pesanti fabbriche, inutili agli uomini e spesso anche allo Stato, essi ribaltavano la tesi di Marx.

La politica, e non l’economia, stava alla base dello Stato di cui Lenin aveva posto le fondamenta e che Stalin aveva costruito.

Era la politica a determinare il contenuto dei piani quinquennali di Stalin. Era la politica a trionfare incontrastata sull’economia, in tutte le imprese di Stalin, del suo Sovnarkom,65 del suo Gosplan,66 del suo Narkomtjažprom,67 del suo commissariato del popolo all’agricoltura, del suo comitato agli approvvigionamenti, il suo Narkomtorg.68

Non che i costruttori pensassero, come al tempo della guerra civile, che si sarebbe arrivati alla Rivoluzione Mondiale, alla Comune Universale. Ma credevano che il socialismo costruito in un solo Paese, nella giovane nuova Russia, fosse l’aurora del giorno socialista universale.

Invece era arrivato il 1937, e le prigioni si erano riempite di centinaia di migliaia di uomini appartenenti alla generazione della rivoluzione e della guerra civile. Erano stati loro a difendere lo Stato sovietico, di cui erano i padri e nello stesso tempo i figli. Ma le prigioni da loro costruite per i nemici della nuova Russia si aprivano adesso dinanzi a loro, la minacciosa potenza del regime da loro creato si scatenava contro loro stessi, la forza punitrice della dittatura, la spada della rivoluzione da loro forgiata, calava sulla loro testa. A molti di loro parve arrivato il tempo del caos, della follia.

Perché gli estorcevano confessioni di crimini non compiuti, li dichiaravano nemici del popolo, li isolavano dalla vita che loro stessi avevano costruito e difeso in più d’una battaglia?

Sembrava loro pazzesco vedersi equiparati a quelli che essi avevano odiato e disprezzato, da loro stessi annientati con feroce fanatismo, come cani arrabbiati.

Erano andati a finire nelle celle delle carceri e nelle baracche dei lager, insieme ai superstiti menscevichi, industriali e proprietari terrieri.

Ci fu chi pensò fosse avvenuto un colpo di Stato, che i nemici, preso il potere, usassero il linguaggio e i concetti sovietici per liquidare chi aveva ideato e costruito lo Stato sovietico.

Capitava che sui pancacci della prigione giacessero fianco a fianco il segretario del comitato distrettuale, smascherato come nemico del popolo, e il nuovo segretario del comitato distrettuale che lo aveva smascherato, dimostratosi in breve lui stesso nemico del popolo, e trascorso un mese, ecco capitare nella cella il terzo segretario del comitato distrettuale, quello che aveva smascherato il secondo, e adesso smascherato lui stesso come nemico.

Tutto si confondeva: il frastuono e il cigolio delle ruote dei convogli diretti al Nord, il latrato dei cani poliziotto, lo scricchiolio sulla neve gelata della taigà degli stivali e delle scarpette femminili, lo scricchiolio delle penne dei giudici istruttori, lo scricchiolio delle pale sulla terra congelata quando si scavavano le fosse per seppellire i morti di scorbuto, di infarto, di congelamento; i discorsi di pentimento di quelli che, nelle riunioni di partito, chiedevano indulgenza e con labbra sbiancate, da morto, ripetevano appresso al giudice istruttore: «Riconosco che, divenuto agente prezzolato dello spionaggio straniero e mosso da un odio feroce per tutto ciò che è sovietico, mi apprestavo a commettere atti terroristici contro i dirigenti dello Stato sovietico; che ho dato informazioni spionistiche...».

Pur attutito dalla pietra della Butyrka e di Lefortovo, giungeva l’ininterrotto crepitare degli spari delle pistole e dei fucili: nove grammi di piombo nel petto o nella nuca di quelle migliaia e decine di migliaia di innocenti – smascherati e accusati di spionaggio e di atti di terrorismo particolarmente efferati.

I costruttori del nuovo mondo ancora in libertà almanaccavano: «Verranno a prendermi? Non verranno?». Tutti si aspettavano lo squillo notturno, il rumore degli pneumatici bruscamente inchiodati sotto il portone di casa.

Nel caos, nell’assurdità, nella follia delle false accuse scomparve la generazione della guerra civile; era sopraggiunto il tempo nuovo, uomini nuovi si erano fatti strada...