venerdì 18 marzo 2022

REGNO A VENIRE J.G. Ballard

 


REGNO A VENIRE

J.G. Ballard

Il libro

Richard Pearson, quarantaduenne pubblicitario, si reca a Brooklands, una cittadina come tante tra Londra e l'aeroporto di Heathrow. Alcune settimane prima suo padre, ex aviatore, è stato ucciso da un cecchino in un enorme centro commerciale di Brooklands, il Metro-Center - un complesso di negozi, alberghi, piscine, centri sportivi - con una propria televisione via cavo che trasmette pubblicità, dibattiti e partite di calcio, hochey e rugby. Sperando di capire qualcosa di più sulla tragedia, Richard incontra l'avvocato del padre e la giovane dottoressa Julia Goodwin che ha prestato le prime cure al ferito dopo la sparatoria. Protetto da un'inquietante rete di omertà, il principale indiziato viene rapidamente rilasciato dalla polizia. Richard decide di trovare il vero colpevole. La culla del mistero è il Metro-Center, tempio del consumismo più sfrenato, il cuore di Brooklands, il centro di una diffusa passione ossessiva per gli sport e di un nazionalismo perverso e violento. Sotto l'impulso delle sue campagne di marketing, il consumismo sembra sul punto di mutare in una pericolosa forma di fascismo suburbano. E' proprio questo ciò di cui ha bisogno l'Inghilterra per rivitalizzarsi? La gente è annoiata dalla propria vita e vuole un mondo più vivido e drammatico. Club di tifosi marciano per le strade, sbandierando i loro vessilli e simboli, aspettando un nuovo messia che li guidi verso la terra promessa. Il leader non tarda ad arrivare, in maniera inaspettata. E Richard viene a conoscenza dell'inquietante verità sulla morte del padre...



        REGNO A VENIRE

Parte 1

1. LA CROCE DI SAN GIORGIO

 

 

I quartieri residenziali sognano la violenza. Addormentati nelle loro sonnacchiose villette, protetti dai benevoli centri commerciali, aspettano pazienti l'arrivo di incubi che li facciano risvegliare in un mondo più carico di passione...

 

Pie illusioni, mi dissi, mentre l'aeroporto di Heathrow rimpiccioliva nello specchietto retrovisore. Un atteggiamento a dir poco stupido, come l'inveterata abitudine, tipica di chi fa pubblicità, di assaggiare la confezione invece del prodotto. Ma era difficile accantonare quei pensieri. Mi spostai con la mia Jensen nella corsia per veicoli lenti della M4 e cominciai a leggere i segnali stradali che mi davano il benvenuto nelle cittadine alle porte di Londra. Ashford, Staines, Hillingdon: destinazioni impossibili che appaiono solo sulle mappe mentali di gente disperata che lavora nel mondo del commercio. Oltre Heathrow c'erano gli imperi del consumismo, e il mistero che mi aveva ossessionato fino al giorno in cui avevo lasciato per sempre la mia agenzia. Come si poteva risvegliare un popolo addormentato che possedeva tutto, che aveva comprato anche i sogni che si possono comprare con il denaro, sapendo di aver fatto un affare?

Sul cruscotto lampeggiava fastidioso il segnale della freccia a sinistra, un comando che ero certo di non aver azionato. Ma a cento metri c'era uno svincolo autostradale che in un certo senso sapevo mi stava aspettando. Rallentai e uscii dall'autostrada, immettendomi in un cunicolo con i bordi verdi che si ripiegava su se stesso. Passai accanto a un cartellone che mi invitava a visitare una nuova zona commerciale e un centro conferenze. Frenai di colpo, con l'idea di tornare in autostrada. Ma poi non lo feci. Meglio lasciare sempre che sia la strada a decidere...

 

Come molti di coloro che abitano nel centro di Londra, percepivo sempre un senso d'inquietudine quando mi allontanavo dalla città per avventurarmi nelle zone residenziali dell'hinterland. Anche se, in realtà, nel corso della mia carriera di pubblicitario avevo flirtato a lungo con l'idea di un'esistenza in un posticino tranquillo. Lontane dalla vita febbrile della metropoli, che mette a dura prova le sinapsi umane, le cittadine satellite che sonnecchiavano protette dalla M25 erano praticamente un'invenzione dell'industria pubblicitaria. O almeno così amavano pensare gli account executive come me. Avremmo potuto credere fino all'ultimo giorno della nostra vita che quei posti erano trasfigurati dai prodotti che vendevamo loro, da marchi e loghi che davano un senso alla loro esistenza.

Eppure, in qualche modo si ribellavano, diventavano eleganti e sicuri, il vero centro della nazione, tenendoci per sempre a distanza. Mentre osservavo il placido mare di tetti rossi, piacevoli giardinetti e cortili di scuole, provai un improvviso risentimento, la stessa fitta di dolore che ricordavo di aver avvertito quando mia moglie mi aveva dato un bacio affettuoso, facendo un timido cenno di saluto dalla soglia del nostro appartamento di Chelsea, e mi aveva lasciato. L'affetto a volte si rivela nei momenti più crudeli.

Ma la mia inquietudine aveva una ragione speciale: solo poche settimane prima, quei graziosi sobborghi si erano acquattati ringhiosi in attesa di sferrare l'attacco e uccidere mio padre.

 

Alle nove di quella mattina, due settimane dopo il funerale di mio padre, lasciai Londra per Brooklands, una cittadina tra Weybridge e Woking sviluppatasi negli anni trenta attorno a un circuito automobilistico. Mio padre aveva trascorso l'infanzia a Brooklands e, dopo una vita passata sugli aerei, il vecchio pilota di linea era tornato lì a fare il pensionato. Mi ero rivolto ai suoi legali, per vedere se l'esecuzione del testamento procedeva, per mettere in vendita il suo appartamento, ponendo così formalmente fine a una vita della quale non avevo mai fatto parte. Secondo quanto diceva l'avvocato Geoffrey Fairfax, dall'appartamento si poteva vedere il vecchio autodromo, un sogno di velocità che evidentemente ricordava al vecchio tutte le piste aeree che riempivano ancora i suoi pensieri. Quando misi via le sue uniformi e chiusi la porta, un'ultima barriera si alzò davanti all'ex pilota della British Airways, un padre assente che un tempo avevo adorato come un eroe, ma che non vedevo praticamente mai.

Quando avevo cinque anni, mio padre lasciò mia madre, una donna dalla volontà di ferro, ma con un carattere particolarmente difficile. Aveva fatto milioni di chilometri, atterrando in alcuni tra gli aeroporti più pericolosi del mondo, era sopravvissuto a due tentativi di dirottamento e alla fine era rimasto ucciso da una pallottola vagante in un centro commerciale di una cittadina alle porte di Londra. Quel giorno, un paziente in libera uscita da un ospedale psichiatrico era andato nel Metro-Centre di Brooklands e aveva sparato a caso tra la folla, all'ora di pranzo, uccidendo tre persone e ferendone quindici. Mio padre era stato stroncato da una singola pallottola. Un tipo di morte che uno si aspetterebbe a Manila, a Bogotá o a Los Angeles est, non in una cittadina inglese con tanto verde attorno. Purtroppo tutti i suoi parenti e gran parte dei suoi amici erano morti prima di lui. Mi occupai del funerale ed ebbi modo di dargli l'ultimo saluto.

Mentre l'autostrada si allontanava alle mie spalle, l'idea di girare la chiave nella toppa della porta di casa di mio padre mi appariva sul parabrezza come un visualizzatore "head-up" vagamente inquietante. Lì avrei trovato ancora molto di lui: il suo sudore sugli asciugamani e sui vestiti, il bucato nella cesta della biancheria, quel puzzo tipico dei vecchi bestseller sugli scaffali. Ma la sua presenza sarebbe stata inscindibile dalla mia assenza, quei vuoti che avrei trovato ovunque come cellule vacanti di un alveare, spazi che neanche suo figlio era stato in grado di riempire quando lui aveva abbandonato la famiglia per un universo fatto di cieli.

Quegli spazi erano anche dentro di me. Invece di trascinarmi in giro per Harvey Nichols con mia madre, o sorbirmi un'infinità di tè da Fortnum & Mason, sarei dovuto stare insieme a mio padre, a costruire il mio primo aquilone, a giocare a crichet in giardino, a imparare ad accendere un falò e ad andare sul "dinghy". Avevo deciso di intraprendere una carriera nel mondo della pubblicità; una carriera che sarebbe stata brillante fino al giorno in cui commisi l'errore di sposare una collega, ritrovandomi così con una rivale che non avrei mai potuto sperare di battere.

Arrivai in fondo allo svincolo, davanti a me c'era un enorme camion che trasportava microvetture, così nuove e scintillanti da far venire voglia di mangiarle, o quanto meno leccarle: mele caramellate alla cellulosa che illuminavano il giorno. Al semaforo il camion si fermò - un toro di ferro pronto ad affrontare la corrida della strada. Al verde ripartì fragoroso alla volta di una zona industriale poco distante.

E già mi ero perso. Ero appena entrato in quella che la cartina stradale mi segnalava come un'area di antiche cittadine della Valle del Tamigi - Chertsey, Weybridge, Walton - ma di cittadine nemmeno l'ombra e attorno a me c'erano pochissime tracce di insediamenti urbani permanenti. Stavo attraversando zone cresciute alla rinfusa tra una città e l'altra, una geografia di deprivazione sensoriale, un territorio di strade a doppia carreggiata e stazioni di servizio, aree industriali e segnali stradali per Heathrow, terreni agricoli in disuso pieni di serbatoi per butano, depositi con esotici rivestimenti di lamiera. Passai accanto a un terreno industriale abbandonato, occupato in gran parte da un enorme cartellone che annunciava l'ampliamento della zona sud di Heathrow e da uno spazio illimitato destinato alle merci da trasportare, sebbene si trattasse di un terreno vuoto dove tutto era già stato spedito a destinazione. Lì nulla aveva senso se non nei termini di una cultura transitoria da aeroporto. Segnali di allarme che si allertavano a vicenda; il paesaggio era un susseguirsi di avvisi di pericolo. Acquattate sui cancelli dei depositi, le telecamere a circuito chiuso e le frecce direzionali che indicavano di tenere la sinistra pulsavano instancabilmente, indicando le oasi protette dei centri di ricerca per l'alta sicurezza.

Apparve una schiera di villini, nascosti nell'ombra del terrapieno di un laghetto artificiale; l'unica parvenza di un senso di comunità era data dalle distese di auto usate che lo circondavano. Dirigendomi verso un ipotetico Sud, passai accanto a un take away cinese, un magazzino di mobili all'ingrosso, un allevamento di cani da difesa e un tristissimo complesso residenziale che sembrava un carcere riconvertito. Non c'erano cinema, chiese, né centri di attività amministrative o ricreative, e gli unici indizi di qualcosa di culturale erano la schiera infinita di cartelloni che pubblicizzavano uno stile di vita consumistico.

 

Sulla mia sinistra il traffico scorreva lungo una strada secondaria piena di auto familiari che cercavano un posto dove parcheggiare. Trecento metri più avanti, una fila di vetrine che riflettevano il sole. Dall'intrico di raccordi e autostrade era comparso un piccolo complesso residenziale. Il viaggiatore smarrito trovava finalmente soccorso nell'insegna al neon di un negozio di attrezzi per il giardinaggio e un'agenzia di viaggi che pubblicizzava «vacanze di lusso».

Ero fermo al semaforo in attesa del verde, un'eternità compressa in pochi secondi. Come ottuse divinità, i segnali stradali esercitavano la loro autorità su incroci deserti. Stavo abbassando il piede sull'acceleratore, pronto a passare con il rosso, quando vidi dietro di me una macchina della polizia in attesa. Come la cittadina, anche la macchina si era materializzata dal nulla, allertata dalla fantasia ribelle di un autista smanioso alla guida di una due posti superpotente. Quel paesaggio schierato in difesa aspettava che qualcuno commettesse un crimine.

 

Dieci minuti dopo mi accomodai su una panchetta in un ristorante indiano, nel centro di quella cittadina sull'autostrada che mi era venuta in soccorso. Aprii la mia cartina sul vetusto menu, un libretto plastificato rimasto identico da anni, e cercai di capire dove mi trovassi. Doveva essere più o meno a sudovest di Heathrow, in una di quelle città cresciute incontrollate attorno alle autostrade a partire dagli anni sessanta, abitate da persone che si sentivano a proprio agio solo nei pressi del bacino di utenza di un aeroporto internazionale.

In un luogo come quello, una stazione di servizio su una strada a scorrimento veloce esprimeva un senso di comunità più profondo di quello di una chiesa di qualsivoglia confessione, una maggiore consapevolezza di una cultura condivisa rispetto a quella che poteva comunicare una biblioteca o una galleria municipale. Avevo lasciato la Jensen nell'autosilo, una gigantesca costruzione di cemento a dieci livelli inclinati che dominava la città e, a suo modo, più misteriosa del labirinto del Minotauro di Cnosso, dove mia moglie, con un'uscita alquanto bislacca, aveva proposto che andassimo per la nostra luna di miele. Ma la presenza di quella enorme struttura non fece altro che avvalorare l'idea che il parcheggio stava ormai diventando la più grande esigenza spirituale del popolo britannico.

Chiesi al proprietario del ristorante dove fossimo, cercando di mostrargli la mappa, ma lui non mi rispose perché era tutto preso a guardare qualcos'altro. L'uomo, un bengalese nervoso sulla cinquantina, fissava le macchine che passavano sulla strada principale. Qualcuno aveva lanciato un mattone sul vetro a specchio della finestra e si era formata un'incrinatura gigante, simile a una scimitarra che andava dal soffitto al pavimento. Il proprietario cercò di farmi sedere a un tavolo in fondo al ristorante vuoto, adducendo come scusa che quello vicino alla finestra era prenotato. Ma io lo ignorai e rimasi seduto accanto al vetro rotto, perché ero curioso di osservare la vita quotidiana di quel luogo.

I passanti erano troppo occupati a correre da un negozio all'altro per accorgersi di me. A guardarli apparivano ricchi e contenti mentre si muovevano con passo sicuro in una cittadina che consisteva di negozi e piccoli supermercati. Persino il poliambulatorio aveva un look da esercizio commerciale, con le sue vetrine piene di apparecchi per misurare la pressione e d.v.d. di fitness. Le strade erano ben illuminate, allegre e pulite. Completamente diverse dalle vie del centro di Londra a cui ero abituato. In quella cittadina, di cui non sapevo il nome, non c'erano giornali svolazzanti né marciapiedi tempestati di chewing-gum o occupati da eserciti di scatole di cartone. Un luogo dove era impossibile prendere in prestito un libro, andare a un concerto, dire una preghiera, consultare gli archivi dell'anagrafe o fare beneficenza. In poche parole, l'ultima frontiera del consumismo. Mi piaceva e provavo un certo senso di orgoglio al pensiero che nel mio piccolo avevo contribuito al radicamento di quei valori. La storia e la tradizione, la lenta morte per soffocamento di una Gran Bretagna antichissima non avevano alcun ruolo nell'esistenza di quelle persone, che vivevano in un eterno presente fatto di compere, e le cui decisioni morali più profonde riguardavano l'acquisto di un frigorifero o di una lavatrice. Se non altro, quella gente della Valle del Tamigi, con la sua cultura aeroportuale, non avrebbe mai dichiarato guerra a nessuno.

Una compiaciuta coppia di mezza età passò accanto alla finestra, tenendosi teneramente a braccetto. Felice per loro, bussai sul vetro incrinato e mostrai il pollice per fare i complimenti. Il marito, trasalendo all'apparizione di un uomo sorridente, armato di birra, a pochi centimetri da lui, si parò davanti alla moglie come per proteggerla, e si toccò la spilletta che raffigurava una bandierina sul bavero della giacca.

Prima, entrando in città, avevo notato altre bandiere simili - la croce di san Giorgio su campo bianco - che sventolavano sui complessi residenziali e le aree commerciali. In tutti i giardini c'era quella rossa bandiera dell'epoca delle crociate, che conferiva all'anonima cittadina un'aria di festa. Se non altro si poteva dire che quella gente era orgogliosa di essere inglese, una convinzione che nemmeno un esercito di creativi pubblicitari avrebbe mai potuto strappare loro.

Sorseggiando la mia birra senza additivi - un altro successo dell'agenzia pubblicitaria - studiavo la cartina mentre il proprietario del ristorante si aggirava attorno al mio tavolo. Ma non avevo fretta di ordinare, e non soltanto perché mi ero già fatto perspicacemente un'idea del cibo offerto. L'unico punto fermo della cartina era l'appartamento di mio padre a Brooklands, pochi chilometri a sud rispetto a dove mi trovavo in quel momento. Quasi mi aspettavo di vederlo seduto dietro la scrivania, pronto a sottopormi a un colloquio per un nuovo impiego, il lavoro di essere suo figlio.

Cosa avrebbe visto nei primi decisivi trenta secondi? Candidato: Richard Pearson, quarantadue anni, account executive, al momento disoccupato. Uomo gradevole, ma forse un po’ troppo scaltro. Criptofumatore, ex tennista, da ragazzo ha giocato nei campionati juniores di Wimbledon, con uno sperone osseo al gomito. Marito fallito messo nel sacco dalla ex moglie. Con un discreto senso dell'umorismo e ottimista, ma nel suo intimo abbastanza disperato. Si ritiene una sorta di terrorista, ma in realtà l'unica cosa che riesce a fare è tenere calde le pantofole del tardo capitalismo. Aspira alla posizione di figlio ed erede, pur sapendo molto poco dei suoi doveri e di ciò che gli spetta di diritto...

Mi sentivo molto confuso, e non solo per via di mio padre.

 

Una settimana prima che mio padre morisse, avevo accompagnato una mia cara amica all'aeroporto di Gatwick. Era la fine dei mesi più felici che avessi trascorso da anni. La mia amica era una docente universitaria canadese in anno sabbatico e stava tornando al suo lavoro nel dipartimento di Storia moderna dell'Università di Vancouver. Mi piacevano la sua sicurezza, il suo umorismo e il suo sincero interesse per me. «Andiamo, Dick! Fa questo salto! Lanciati!» Si riferiva alla sua proposta di andare con lei e cercare magari un lavoro nel dipartimento di Scienze della comunicazione. «E' la pattumiera del mondo accademico, ma se non altro puoi fare un po’ di rumore agitando il coperchio.» Sapeva che all'agenzia avevano fatto in modo che io mi licenziassi - la mia ultima campagna pubblicitaria era stata un costosissimo fiasco - e quindi mi aveva incoraggiato a guardare la mia vita con attenzione, una proposta che non mi aveva mai allettato. Avevo cominciato a sentire fortissima la sua mancanza un mese prima che partisse ed ero molto tentato di fare davvero quel salto e andare con lei.

Però, nell'atrio delle partenze dell'aeroporto di Gatwick, lei aveva scoperto che il mio passaporto era rimasto in una tasca laterale della sua borsetta da quando eravamo tornati da un fine settimana a Roma. Confusa, aveva guardato quella foto da ricercato. «Richard?... Chi? Oh Dio, Dick! Ma sei tu!» E aveva gridato tanto da attirare l'attenzione di un agente della sicurezza. Interpretai quella reazione come un forte segnale inconscio: Vancouver e la mia fuga nel mondo accademico potevano aspettare. Se una persona a cui piacevo e che dormiva con me arrivava a dimenticare come mi chiamavo appena messo piede nella sala partenze dell'aeroporto, allora io dovevo a tutti i costi reinventarmi. Forse mio padre poteva essermi d'aiuto.

Finii la mia birra, sempre sotto l'occhio vigile del proprietario, che nel frattempo era venuto alla finestra per guardare con aria preoccupata il cielo sopra l'autosilo. Stavo per chiedergli delucidazioni su quelle spillette con la croce di san Giorgio che vedevo addosso a molti passanti, ma proprio in quel momento lui girò il cartello con la scritta «Chiuso» rivolta verso la strada e tornò di corsa nel retro del ristorante. Si sentì il suono di sirene, e alcuni gruppetti di persone in giro a fare spese alzarono gli occhi per guardare le nuvole di fumo che attraversavano il cielo del centro cittadino. Due macchine della polizia sfrecciarono con i segnalatori luminosi sul tetto.

Era successo qualcosa che aveva turbato quel paradiso di consumismo. Il proprietario del ristorante sparì in cucina. Si sentì una donna che gridava spaventata. Lasciai sul tavolo più del necessario per pagare il conto, ripiegai la cartina, aprii la porta e uscii. Arrivò un'autopompa che si fece largo con prepotenza tra la folla. La sirena squarciava l'aria. Io proseguii a piedi, tra i pedoni che guardavano il cielo che si faceva sempre più scuro.

A poche centinaia di metri dal centro, non lontano dalla via che avevo imboccato quando avevo lasciato l'autostrada, c'era una macchina in fiamme, ai bordi di un modesto complesso di case popolari. La gente del posto era uscita in giardino e guardava con le braccia conserte le fiamme che si alzavano dalla Volvo sconquassata. Un poliziotto sparò con l'estintore sul sedile del passeggero mentre un suo collega spingeva indietro la folla che guardava la casupola di uno dei loro vicini, dove una poliziotta, dalla porta d'ingresso, osservava rassegnata il giardino non curato. Sul muro della casa spiccava una scritta con la vernice bianca. Pensai che evidentemente si trattava dell'arrivo di un vicino indesiderato che aveva turbato l'atmosfera del quartiere; forse un assassino uscito di prigione o un pedofilo smascherato dai vigilantes della zona che poi gli avevano anche incendiato la macchina.

Passai tra la folla dei curiosi, molti dei quali ancora con le buste della spesa in mano. Osservavano quella scena come un inatteso filmato pubblicitario nel grigiore di un grande magazzino. Avevano tutti un'espressione ostile ma attenta. Nessuno fece caso all'autopompa che si fermò dietro di loro. Seguivano i segnali di tre uomini che stavano accanto al cancello e che indossavano magliette con la croce di san Giorgio. Erano commessi di un negozio di ferramenta di cui avevano il logo sul taschino. Presenze muscolose e vagamente paranoiche che mi fecero pensare agli addetti alla sicurezza durante una partita di calcio. Ma non c'erano stadi nei paraggi, e l'unico evento sportivo che si stava svolgendo era all'esterno di quella villetta malandata.

«Che cosa è successo? Qualcuno si è barricato lì dentro?» chiesi a una signora tarchiata che parlottava da sola. La figlia mi guardò con occhi sgranati, ma la mia voce fu soffocata da quella della folla. La porta di casa si era aperta ed era comparso un uomo barbuto con una tunica nera e un turbante in testa. Faceva cenno ad alcune persone dall'aria molto preoccupata, ferme all'ingresso alle sue spalle. Sulla porta c'era una piccola targa in ceramica con una scritta in arabo e a quel punto capii che quella modesta abitazione era in realtà una moschea. Avevo assistito a un violento esempio di tentativo di epurazione religiosa.

Obbedendo alle istruzioni della poliziotta, l'imam fece cenno agli altri di andare con lui in giardino. Tre giovani asiatici in jeans e camicia bianca uscirono alla luce del giorno, seguiti da un anziano pachistano e una donna con una "galabeyya" e una valigia in mano. Scortati dai pompieri e dalla polizia, avanzavano a testa bassa tra due ali di folla, ora silenziosa. Quando mi passò davanti, la donna inciampò sul ciglio del marciapiede e io sentii l'odore stantio di sudore che veniva dalla sua tunica, il puzzo della paura.

Mi protesi in avanti per aiutarla, ma fui spinto indietro da una potente spallata che mi fece perdere l'equilibrio. Due dei commessi del negozio di ferramenta mi bloccavano la strada e guardavano torvi qualcosa dietro di me. Caddi in ginocchio accanto alla Volvo e mi aggrappai a un brandello di plastica bruciacchiata di un sedile. Gambe che mi scavalcavano, buste della spesa che mi passavano oscillando a un centimetro dalla faccia. Senza dire nulla, la poliziotta mi aiutò ad alzarmi e mi accompagnò alla sua macchina, dove l'imam era seduto da solo, sul sedile posteriore. Il gruppetto di fedeli era svanito nel fumo.

«State insieme?» La poliziotta mi aprì lo sportello accanto al posto di guida. «Può sedersi davanti...»

«No, no. Sono solo di passaggio. Sono un turista.»

«Un turista? Non se ne vedono molti da queste parti.» Chiuse la portiera e mi diede le spalle. «Magari la prossima volta si faccia un giro al Metro-Centre di Brooklands. Oppure a Heathrow... Lì sono tutti benaccetti.»

 

Tornai al parcheggio, ormai per nulla sorpreso che la poliziotta potesse considerare un centro commerciale e un aeroporto alla stregua di attrazioni turistiche. Avevo appena assistito a una versione di scontro etnico tipicamente borghese che non aveva turbato più di tanto le pacifiche attività commerciali della cittadina. I clienti continuavano a pascolare, come docili bovini. Nessuno aveva alzato la voce, né tirato pietre, nessun segno visibile di violenza, se non nei confronti miei e della vecchia Volvo.

Uscii dal parcheggio e seguii la direzione di un cartello che indicava Shepperton e Weybridge, felice di lasciare finalmente quella strana cittadina. Avevo assistito all'insorgenza di un nuovo tipo di odio, silenzioso e disciplinato, un razzismo stemperato da tessere fedeltà e codici pin. Lo shopping era il modello di tutti i comportamenti umani, totalmente privo di rabbia o emozioni. La decisione degli abitanti di quella zona residenziale di rifiutare la presenza dell'imam rientrava tra le scelte cui i consumatori avevano diritto.

Ovunque sventolavano le bandiere con la croce di san Giorgio - nei giardini delle villette, nelle stazioni di servizio e davanti agli uffici postali - mentre quella cittadina senza nome celebrava la sua ultima vittoria.

 

2. IL RITORNO A CASA

 

Raramente i viaggi finiscono quando mi sembrano finiti. Troppo spesso succede che un bagaglio dimenticato proceda per conto proprio e mi aspetti continuando a girare su un nastro trasportatore vuoto, come la prova raccolta prima di un processo.

Quando un'ora dopo entrai a Brooklands, nella mente avevo aeroporti, arrivi e la partenza di un vecchio pilota. Attorno a me si estendeva una ricca cittadina della Valle del Tamigi, un piacevole terreno occupato da case confortevoli, eleganti uffici e centri commerciali: l'immagine che ogni pubblicitario aveva della Gran Bretagna del ventunesimo secolo. Passai vicino a un nuovo stadio tutto illuminato che sembrava una discoteca all'aperto; sugli schermi un filmato sulla sicurezza stradale seguito senza soluzione di continuità da un elegante spot per una carta di credito platinum. Brooklands si crogiolava. Le tegole dei tetti, la ghiaia dei viali, i labrador dal pelo fulvo e le ragazzine in groppa ai loro puledri ben addestrati trasudavano ricchezza.

Ma io ancora pensavo alla donna musulmana spaventata, scortata fuori dalla piccola moschea, all'odore acido della sua tunica e quella puzza di terrore che nessun profumo avrebbe mai potuto dissimulare. Cominciavano a sorgere seri problemi nella Valle del Tamigi. Quella donna mi fece pensare a mio padre, un'altra vittima di un malessere ancora più profondo dello shopping.

Tre settimane prima, mio padre, il capitano Stuart Pearson, ex pilota della British Airways e della Middle East Airlines, si era recato, come spesso faceva il sabato pomeriggio, al Metro-Centre di Brooklands. Ancora energico a settantacinque anni, aveva percorso a piedi i settecento metri da casa sua al centro commerciale, che poteva considerarsi la risposta dell'estrema periferia occidentale di Londra al Bluewater Mall nei pressi di Dartford. Mescolandosi tra la folla dello shopping, aveva attraversato l'atrio principale, per andare dal tabaccaio che vendeva la sua qualità preferita di Dunhill.

Poco dopo le due, Duncan Christie, un folle armato di mitra, aveva cominciato a sparare sulla folla, uccidendo tre persone e ferendone altre quindici. Inizialmente l'uomo era riuscito a dileguarsi, approfittando della confusione. Ma poco dopo la polizia lo aveva arrestato. Duncan Christie, ricoverato in un ospedale psichiatrico, in libera uscita durante il giorno, con precedenti penali e diverse denunce per disturbo della quiete pubblica, aveva portato a compimento una strampalata campagna contro l'enorme centro commerciale e diversi testimoni l'avevano visto allontanarsi dalla scena del delitto.

Mio padre era stato colpito alla testa da una sola pallottola. Aveva subito perso conoscenza. I clienti del centro commerciale avevano cercato di farlo rinvenire. Era stato portato all'ospedale di Brooklands con gli altri feriti, e poi trasferito con l'elicottero al centro neurologico del Royal Free Hospital, dove era morto il giorno dopo.

Non vedevo mio padre da diversi anni e nell'obitorio dell'ospedale non riconobbi quel viso minuto e invecchiato appeso alle ossa del cranio. Poiché aveva trascorso quindici anni della sua vita a Dubai, praticamente mi aspettavo che non venisse nessuno al funerale nel crematorio nella zona nord di Londra. Ma a dargli l'estremo saluto alla fine si era presentato un gruppo di anziani piloti della British Airways, figure ingrigite ma gagliarde, con milioni di chilometri nei loro occhi fermi. Nessun amico di Brooklands. Ma c'era l'assistente del suo avvocato, Susan Dearing, una donna cordiale, sulla quarantina, che era arrivata quando stava per cominciare il funerale e mi aveva dato le chiavi dell'appartamento di mio padre.

Fui sorpreso nel vedere anche un rappresentante del Metro-Centre. Era poco più che un ragazzo e svolgeva la funzione di responsabile dell'ufficio delle pubbliche relazioni. Si presentò a tutti come Tom Carradine. Carradine sembrava considerare anche un evento macabro come quello l'occasione per farsi pubblicità. Sopprimendo a fatica il suo sorriso professionale, mi aveva invitato a visitare il centro commerciale alla prima occasione, come se da quella tragedia potesse ancora nascere qualcosa di buono. Avevo pensato che probabilmente andare ai funerali dei clienti morti nei loro locali faceva parte dei doveri extracommerciali. Ma ero troppo distratto per decidere di snobbarlo.

Due giovani donne si erano andate a sedere su una panca verso l'uscita mentre una musica d'organo registrata gracchiava in sottofondo, chissà da dove, una musica che solo i morti potevano apprezzare, e il rumore delle bare che avanzavano a fatica come galeoni aggrediti dalla tempesta. Una delle ragazze era scoppiata a ridere quando il cappellano si era lanciato nella sua omelia. Non sapendo nulla di mio padre si era ritrovato a fare un elenco di tutte le rotte che il capitano Pearson aveva percorso. «L'anno successivo Stuart si trovava a volare alla volta di Sydney...» E a quel punto nemmeno io ero riuscito a trattenere una risata.

Le ragazze erano scappate appena finita la funzione, ma nel parcheggio avevo sorpreso una delle due a guardarmi mentre la sua amica cercava le chiavi della macchina. Capelli scuri, quel tipo di bellezza scarmigliata che fa impazzire gli uomini, era troppo giovane per essere una delle amichette di mio padre. Comunque non sapevo nulla degli ultimi giorni del vecchio lupo dei cieli. La ragazza aveva aspettato impaziente mentre l'altra armeggiava con la chiave nella serratura della portiera, e aveva cercato di nascondersi sul sedile del passeggero. La macchina mi era passata davanti, e lei mi aveva guardato annuendo fra sé, chiedendosi palesemente se fossi troppo ambiguo o troppo frivolo per essere all'altezza di mio padre. Non so perché, ero sicuro che ci saremmo rivisti.

 

Il traffico di Brooklands stava rallentando, e le macchine cominciavano a riempire l'autostrada a sei corsie costruita apposta per incanalare la popolazione dell'Inghilterra sudorientale verso il Metro-Centre. Quella vasta struttura di alluminio a forma di cupola, che dominava il paesaggio circostante, ospitava il più grande centro commerciale del territorio della Grande Londra, una cattedrale consacrata al consumismo i cui fedeli erano di gran lunga più numerosi di quelli delle chiese cristiane. Il tetto argentato si ergeva sugli uffici e gli hotel circostanti come lo scafo di un'enorme aeronave. Il suo aspetto riecheggiava visivamente quello del Millennium Dome di Greenwich e rendeva in tutto e per tutto giustizia al suo nome: era il centro di una nuova metropoli che circondava Londra, una città satellite che seguiva il percorso delle grandi autostrade. Il consumismo dominava la vita dei suoi abitanti, i quali - qualsiasi cosa facessero - sembravano sempre impegnati a comprare.

Eppure c'erano stati diversi segnali da cui si evinceva la presenza di serpi che avevano scelto quel paradiso commerciale come dimora. Brooklands era una vecchia cittadina di contea, ma in alcune tra le zone più povere della periferia vidi anche negozi asiatici presi d'assalto dai teppisti, giornalai con le vetrine sprangate e tappezzate di adesivi con la croce di san Giorgio. Gli slogan e i graffiti avevano qualcosa di inquietante: c'erano troppi simboli del British National Party e del Ku Klux Klan scarabocchiati sulle finestre rotte, troppe bandiere con la croce di san Giorgio che sventolavano davanti alle villette di gente benestante. Nei pressi delle mura protettive dell'autostrada c'era sempre un tangibile elemento di paranoia, come se quegli abitanti della città-negozio fossero in attesa di qualcosa di violento.

 

Nella bassissima Jensen mi mancava l'aria. Aprii il finestrino per respirare le esalazioni di benzina e diesel di cui era composto il microclima stradale. Alla fine il traffico cominciò a dipanarsi. Girai a sinistra, all'altezza delle indicazioni per il «Museo automobilistico di Brooklands». Percorsi un viale di villette nascoste dietro alte mura di cinta. Come ultima dimora mio padre aveva scelto un appartamento in un complesso residenziale di palazzine di tre piani circondate da un giardino ben curato attraversato da un vialetto che portava alla strada principale. Mentre procedevo tra due pareti di ligustro ero ancora intento a preparare alcune risposte per il «colloquio» nel quale si sarebbero decise le mie sorti come candidato alla posizione di figlio, colloquio già andato male ormai quasi quarant'anni prima.

Inconsciamente, ogni volta che avevo rivisto mio padre, avevo rinnovato la domanda per quella posizione. Lui era sempre stato affettuoso, ma distante, come se avesse a che fare con un giovane assistente di volo incontrato per caso. Mia madre lo informava dei miei voti a scuola. Gli mandò anche la foto di quando mi ero laureato alla London School of Economics, ma solo per innervosirlo. Per fortuna, fin dall'adolescenza avevo perso qualsiasi interesse nei suoi confronti e l'ultima volta che l'avevo visto era stato al funerale della mia matrigna, un'occasione in cui lui era troppo sconvolto per poter parlare.

Ma avevo sempre desiderato piacergli; ripensai all'immagine del bagaglio solitario sul nastro trasportatore deserto. Come avrei reagito se sulla mensola del suo caminetto avessi trovato la mia fotografia incorniciata, e un album amorevolmente riempito di articoli e trafiletti presi da «Campaign», in cui si parlava dei miei successi?

Con le chiavi in mano, scesi dalla macchina e percorsi il mare di ghiaia del vialetto che portava all'entrata principale, aspettandomi quasi che i vicini uscissero di casa per salutarmi. Fui sorpreso di non vedere il minimo movimento di finestre e tendine quando salii le rampe di scale che mi portarono al pianerottolo dell'ultimo piano. Contai fino a cinque, girai la chiave nella toppa ed entrai in casa.

 

Le tendine erano tirate per metà, e la luce fioca che penetrava sembrava illuminare quello che appariva come una scenografia teatrale. Era l'appartamento di un uomo anziano, con tanto di poltrona di pelle e lampada da tavolo, portapipe e cofanetto per il tabacco. Mi aspettavo quasi che mio padre comparisse da un momento all'altro, andasse al mobile bar di palissandro per versarsi un po’ di whisky e soda, prendesse uno dei suoi volumi preferiti da uno scaffale della libreria e cominciasse a sfogliarlo attentamente. Mancava solo lo squillo del telefono e poi la recita sarebbe potuta cominciare.

Ma purtroppo la commedia era finita e il telefono non avrebbe mai più squillato, perlomeno non per mio padre. Cercai di scacciare dalla mente quella scena, arrabbiato con me stesso per quell'insolenza che mi derivava dall'abitudine professionale a banalizzare la vita in una serie di cliché da spot televisivo. Il mucchietto di posta da aprire sul tavolino dell'ingresso contribuì a dare un tono ancora più cupo alla visita. C'erano, stranamente, diverse buste listate a lutto indirizzate a mio padre, come se lui avesse potuto leggerle.

Entrai in soggiorno e tirai le tende. La luce vivida del giardino si incuneò tra l'odore stantio di tabacco e quello ancora più stantio dei ricordi. Davanti a me svettava la cupola argentata del Metro-Centre, che si stagliava sopra i tetti delle case e degli uffici dominando il paesaggio di quella zona a ovest di Londra. Per la prima volta mi resi conto che quella presenza aveva quasi qualcosa di rassicurante.

 

Nell'ora successiva girai per l'appartamento, aprendo cassetti e credenze, come un ladro che cerca di stabilire una relazione con la persona cui sta svaligiando la casa. Mi stavo presentando a mio padre, anche se quella visita arrivava decisamente in ritardo. Scossi la testa con una certa tristezza alla vista della sua spartana camera da letto: un lettino striminzito, la tipica sobrietà del vedovo. In quella stanza un vecchio aveva fatto i suoi ultimi sogni di volo, fantasie di ali che volteggiavano sopra deserti ed estuari tropicali. Aprii l'armadio e contai sei uniformi appese tutte in fila come un equipaggio di capitani di volo. Sulla specchiera c'era un kit di spazzole argentate che immaginai fossero state un regalo per la mia matrigna, ricordi di quella donna magrissima ma sempre elegante, che salutavano mio padre ogni mattina. Un'altra reminiscenza della vita di coppia era un vecchio flacone di Chanel il cui contenuto era evaporato da tempo. Premetti il vaporizzatore e sentii un vago profumo, echi di una pelle un tempo tanto amata.

Nel bagno aprii l'armadietto delle medicine, aspettandomi di trovare una collezione di integratori vitaminici. Ma sui ripiani c'erano soltanto un prodotto per lavare la dentiera e un pacchetto di lassativi. Il vecchio si teneva in forma con il vogatore e la cyclette che stavano nella sua spoglia camera da letto. Nel ripostiglio dietro la cucina c'erano un asse da stiro e un tavolo con il bollitore elettrico e una scatola di biscotti della donna delle pulizie. Dietro una pila di indumenti da stirare e una pila di magliette stirate c'era una piccola scrivania con un computer, una stampante e alcuni libri accatastati.

Tornai in soggiorno e guardai gli scaffali con file e file di romanzi popolari, almanacchi del crichet e guide di ristoranti di città che erano state altrettante destinazioni di voli: Hong Kong, Ginevra, Miami. Prima o poi avrei dovuto frugare sulla sua scrivania, alla ricerca di certificati azionari, estratti conto, dichiarazioni dei redditi per farmi un quadro del patrimonio che mio padre mi aveva lasciato e che in quel momento mi tornava più utile che mai, visto che ero disoccupato e probabilmente lo sarei rimasto a lungo.

Ma non aprii quei cassetti. Avevo capito abbastanza per rendermi conto che conoscevo pochissimo quell'uomo e che forse non avrei mai potuto conoscerlo meglio. Stavo cercando me stesso, ma era chiaro che non avevo mai avuto nessun peso nella sua vita.

Al centro della mensola del caminetto c'era una cornice con la foto di un giovane capitano con il suo equipaggio, accanto a un "comet" della Boac, probabilmente il primo volo di mio padre come pilota. Maestoso e sicuro di sé, sembrava di dieci anni più giovane del resto dell'equipaggio e avrebbe potuto benissimo essere un mio fratello minore.

A destra e a sinistra della fotografia c'erano cornici più piccole con foto di donne scattate in vacanza. In una c'era una bionda tutta sorridente che usciva da una due posti. Nell'altra, ancora una bionda, in tenuta da tennis, davanti a un albergo del Cairo; una terza bionda sorrideva felice davanti al Taj Mahal. Altre sorridevano da tavoli di locali notturni o distese ai bordi di piscine. Tutte le donne di quella sfilza di trofei erano sorridenti e spensierate, compresa la trentenne in pelliccia, in cui riconobbi mia madre. Sembrava riprendere vita davanti all'obiettivo di mio padre. Quella serie di foto comunicava uno strano senso di tenerezza. Il vecchio pilota mi fece subito simpatia e capii che volevo conoscerlo meglio.

Chiusi le tendine del soggiorno, pronto ad andare al mio appuntamento con il sergente Falconer alla centrale di polizia di Brooklands. Mi avrebbe aggiornato sulle ultime novità investigative riguardanti la tragica mattanza. Cercando di non pensare al giovane squilibrato che aveva sparato tra la folla dei clienti del centro commerciale, guardai in direzione dell'autodromo di Brooklands a poco meno di un chilometro dalla casa di mio padre. Una parte del terrapieno era stata conservata come monumento in onore degli anni trenta, la stagione eroica della velocità, l'era delle gare di idrovolanti per il Trofeo Schneider e delle traversate da record, quando donne pilota in tute eleganti accendevano le sigarette Craven A appoggiate agli apparecchi. La gente in quegli anni era completamente immersa in un sogno di rapidità che nessuna agenzia pubblicitaria sarebbe mai riuscita a battere.

 

Nella stanza si sentì un vago odore, una colonia costosa, ma sgradevole. Al riparo dell'ombra delle tendine chiuse vidi un uomo massiccio in abito scuro che si fermava davanti alla porta d'ingresso, cercando con la mano destra l'interruttore della luce sul muro. Nella sinistra portava qualcosa che sembrava un tozzo manganello di metallo e che sollevò per saggiare l'oscurità.

Sforzandomi in tutti i modi di mantenere i nervi saldi e di fare respiri regolari, piano piano mi allontanai dalla finestra, nascosto alla vista dell'intruso dalla porta del soggiorno. Nella luce riflessa dalle cornici sul caminetto vidi la stazza imponente di quell'uomo che rimaneva in corridoio, indeciso se entrare nella stanza. A un certo punto inciampai in un paio di scarpe da golf di mio padre e feci cadere il paralume della piantana accanto alla scrivania. L'intruso fece un passo indietro e alzò il manganello, in cerca di un obiettivo da colpire. Io mi lanciai verso la porta, caricando con le spalle come un giocatore di rugby, e sentii che la mano dell'uomo andava a sbattere contro il muro frantumando il quadrante del suo orologio da polso. Il tizio si girò agitando le braccia in un effluvio di sudore e brillantina per capelli, ma io gli chiusi la porta sulle mani, per costringere quelle dita tozze a lasciar andare il manganello.

Persi l'equilibrio e caddi oltre la poltrona di pelle. Quando mi alzai e aprii la porta, respirando boccate di aria infestata di profumo, quell'uomo non c'era più. Rumore di passi irregolari che rimbombavano giù per le scale, l'andatura zoppicante di una persona con una frattura al ginocchio. Sentii un'altra porta che sbatteva, ma quando mi affacciai alla finestra del soggiorno vidi il parcheggio e il giardino immersi nel silenzio.

Aprii le tendine e mi sedetti in poltrona aspettando che il profumo dell'intruso abbandonasse la stanza. Evidentemente ero stato sopraffatto dal fascino dell'appartamento di mio padre e avevo dimenticato la porta aperta. Il comportamento del tizio con il manganello era più simile a quello di un ladro o di un detective privato che a quello di un vicino che veniva a farmi le condoglianze.

Quando uscii per andare all'appuntamento con il sergente Falconer, trovai il «manganello» per terra, accanto alla porta. Lo presi, lo srotolai, e vidi che era un numero del «Journal of Pediatric Surgery».

 

3. LA SOMMOSSA

 

«Ci ho pensato,» dissi al sergente Mary Falconer. «Ciclope...»

«Si chiama così?» Parlava lentamente, come se cercasse di calmare un carcerato irragionevole. «Quell'uomo nell'appartamento di suo padre?»

«No.» Indicai fuori dalla finestra della mensa, in direzione del tetto del Metro-Centre. «Sto parlando del centro commerciale. E' un mostro che ci fa sembrare tutti piccolissimi.»

Senza alzare gli occhi dagli appunti disse: «Forse è una cosa voluta»

«Davvero? E perché, sergente?»

«Per farci comprare delle cose che ci fanno sentire più grandi.»

«Un punto di vista interessante. E' quasi uno slogan. Dovrebbe lavorare per il Metro-Centre.»

«Neanche per scherzo.»

«Mi sembra di capire che lei non è tra i suoi clienti.»

«Cerco di evitarlo.» Il sergente Falconer gettò un'occhiata al suo specchietto sempre a portata di mano, accanto ai documenti che stava consultando e si infilò un capello ribelle nella treccia bionda. «Se fossi in lei mi terrei alla larga da quel posto, signor Pearson.»

«Certo. Ed è un peccato che mio padre non abbia fatto altrettanto.»

«Davvero, un peccato. E' stata una tragedia terribile. Il sovrintendente Leighton mi ha chiesto di farle le sue...»

Aspettai che il sergente completasse la frase, ma all'improvviso fu distratta da qualcosa. Si girò verso la finestra, evitando di guardare il Metro-Centre. Entrata in polizia subito dopo la laurea, era chiaramente destinata a ben altro che consolare i parenti dei defunti. Non era certo quello il ruolo ideale per una donna d'acciaio, ma stranamente vulnerabile come lei. Sembrava non essersi fatta un'idea chiara di me, e appariva nervosa, perché si guardava in continuazione le unghie e controllava il trucco nello specchietto, come se rischiasse di perdere i pezzi di un elaborato travestimento. Gran parte del suo look era palesemente non autentico: quel trucco perfetto da estetista, quell'accento da annunciatrice televisiva. Era forse tutto parte di un doppio bluff? Nella stanza per gli interrogatori le avevo spiegato che sapevo molto poco di mio padre, e lei mi aveva ascoltato con aria comprensiva, anche se sembrava non aver molta voglia di parlare di quella morte. Cercando di ridurre la tensione aveva aperto la bocca per farmi un sorriso che era quasi un invito erotico. Poi era tornata a ripararsi dietro un atteggiamento più formale.

Picchiettò sul suo quaderno con una matita accuratamente mangiucchiata. «Quell'uomo che l'avrebbe aggredita...»

«No. Non mi ha aggredito. Sono stato io ad aggredire lui. In realtà, forse gli ho fatto anche male. Potrebbe trattarsi di un medico. Si potrebbe fare un controllo all'ospedale di Brooklands.»

«Ma cosa è successo esattamente?»

«Stavo chiudendo le tende, mi sono girato e me lo sono ritrovato lì con questa specie di bastone in mano.» Arrotolai la rivista di pediatria e la sollevai come per colpire il sergente Falconer sulla testa. Lasciai che lei, seduta di fronte, me la togliesse di mano. «Probabilmente ho avuto una reazione esagerata. Ho commesso un errore.

«Perché dice così?» Il sergente mi fissò per qualche secondo. «Come fa a saperlo?»

«Lo immagino.» Qualcosa in quella poliziotta attraente, per quanto stramba, mi faceva venire voglia di parlare. «Mia madre non si è mai risposata. Ho sempre sentito il dovere di prendere le sue difese. Se il medico dovesse lamentarsi, diciamo che è stato un periodo molto stressante per me.»

«E' la verità. E purtroppo non è ancora finita. Si prepari, signor Pearson.» Poi, con un tono molto prosaico, come se stesse leggendo l'orario degli autobus, aggiunse: «Oggi pomeriggio l'imputato verrà trasferito dalla centrale di polizia di Richmond di nuovo a Brooklands. Trascorrerà qui la notte e apparirà domani davanti alla corte».

«Be, complimenti vivissimi alla polizia. E di chi si tratta?»

«Duncan Christie. Venticinque anni, bianco, residente a Brooklands. E' già stato formalmente accusato dell'omicidio di suo padre e di altre due persone. Probabilmente il processo si terrà nel tribunale di Guildford.» Con aria severa, il sergente Falconer indicò i lividi sulle mie mani. «Signor Pearson, è importante che niente pregiudichi l'udienza. Domani lei verrà in tribunale?»

«Non ne sono sicuro. Non so se me la sento.»

«Capisco. Comunque per il processo ci vorranno minimo sei mesi e a quel punto...»

«Mi sarò calmato? Il tribunale di Guildford... Immagino che verrà giudicato colpevole, no?»

«Non si sa. Ho interrogato tre testimoni che sono sicuri di aver visto Christie con l'arma in mano.»

«Ed è riuscito a tagliare la corda lo stesso. Nessuno lo ha fermato.»

«Ma c'era il panico, un fuggi fuggi generale. Quelli che hanno prestato i primi soccorsi si sono dovuti far largo con la forza. C'erano ben quattromila persone che scappavano per raggiungere le varie uscite. E centinaia sono rimaste ferite. C'è di che riflettere, signor Pearson.»

«E mio padre ne ha pagato il prezzo.» Senza rendermi conto di quello che facevo, le presi una mano e rimasi sorpreso dal calore del suo palmo. «Che senso ha sparare a un vecchio?»

«Ma, signor Pearson, il bersaglio non era suo padre.» Ritrasse con garbo la mano e la posò fiaccamente sul tavolo, come se si trattasse di una prova. «Quell'uomo ha sparato a caso tra la folla.»

«Pazzesco... Ma questo Christie, cos'è? Un tizio ricoverato in un ospedale psichiatrico? Perché aveva il permesso di uscire?»

«Aveva il permesso di uscire dal Northfield Hospital durante il giorno. Secondo i dottori era pronto per incontrare la sua famiglia. Almeno era quello che sostenevano.»

«Lei sembra nutrire dei dubbi in proposito.»

«Non siamo psichiatri, signor Pearson. Christie è un uomo conosciuto a Brooklands. Inscena da sempre proteste contro il Metro-Centre.»

«Si è scelto proprio un bel bersaglio.»

Il sergente Falconer chiuse le cartelline che aveva davanti a sé. Mi aspettavo da parte sua una manifestazione di impeto passionale, una denuncia contro questo folle misfatto, ma il tono della sua voce era neutro e glaciale. «La figlia di Christie è rimasta ferita dal camion di un fornitore. Durante una delle manifestazioni sono scivolate delle sbarre d'acciaio. La compagnia gli ha offerto un indennizzo, ma lui lo ha rifiutato. Continuava a non rispettare i termini del regime di semilibertà ed è stato internato.»

«Bene, almeno qualcosa di buono lo hanno fatto.»

«Era un modo per tenerlo fuori di prigione. All'epoca c'era tanta gente che lo appoggiava.»

«Lo appoggiava?» Metabolizzai quel concetto molto lentamente, cercando di non guardare il sergente negli occhi. Nonostante il tono neutrale che adottava, sentivo che stava cercando di dirmi qualcosa e mi aveva invitato a prendere un caffè nella mensa della polizia per poter finalmente parlare del vero motivo del nostro incontro. Con molta calma le dissi: «Sergente, la prego, continui».

«Ci sono diverse persone a cui il Metro-Centre non piace. Non le posso fare dei nomi, ma c'è gente che pensa che quel posto eserciti un'influenza negativa perché le persone cominciano a volere sempre di più e, se non riescono a ottenere qualcosa, sono pronte anche a ricorrere...»

«Alla violenza? Qui nel verdissimo Surrey? Questo paradiso del consumismo? Difficile da credere. Eppure c'è da dire che ovunque si vedono queste bandiere, questi uomini con le magliette con la croce di san Giorgio.»

«Sono dei capisquadra. Ci aiutano a tenere la gente sotto controllo. O almeno così piace pensare al sovrintendente Leighton.» Il sergente alzò gli occhi verso il soffitto, con aria preoccupata. «Faccia attenzione se esce di sera, signor Pearson.»

Si appoggiò allo schienale della sedia mostrandomi il suo profilo. La maschera da poliziotta era scomparsa, rivelando la scarsa forza emotiva di una donna laureata, dalla volontà di ferro, ma insicura. In modo alquanto ambiguo mi stava chiedendo di aiutarla. Mi resi conto che non aveva mai mosso nessuna critica contro Duncan Christie, nemmeno una volta, nonostante il dolore e la tragedia di cui si era reso responsabile.

Le dissi: «D'accordo... Lei però odia il Metro-Centre, vero, sergente?».

«Direi di no. E' più un sentimento da ventisei del mese. Ma non si può dire che lo odi.»

«E l'area di Brooklands?»

Rilassò le spalle e rimise a posto lo specchietto, come se si fosse improvvisamente resa conto che la sua vigilanza non sarebbe mai stata sufficiente. «Ho chiesto il trasferimento.»

«Troppa violenza?»

«Una concreta minaccia.»

Mi venne voglia di riprenderle la mano, ma mi sembrò di vederla arrossire. Mentre il pomeriggio volgeva al termine una luce fulva illuminava lo specchio della cupola del Metro-Centre, come un sole che brillava dall'interno.

Io dissi: «Sembra quasi si stia svegliando»

«Non va mai a dormire. Mi creda, è sveglissimo. Ha addirittura un canale via cavo, sa? Rubriche di consigli su varie faccende domestiche, rivolte soprattutto a quelle persone che sanno quando è il caso di accettare consigli.»

«Incitamento al razzismo?»

«Qualcosa del genere. C'è gente che crede alla necessità di prepararci tutti per l'avvento di un mondo nuovo.»

«E chi c'è dietro?»

«Nessuno. Questo è il bello...»

Si alzò, prese le sue cartelline e capii che aveva deciso di chiudere le comunicazioni. Mi parlava come se fossi un bambino, e immaginavo che il suo compito fosse quello di far sbollire la mia rabbia e rispedirmi a Londra. Ma aveva approfittato di quell'incontro per comunicarmi un messaggio tutto suo. E in un certo senso era lei stessa il messaggio. Inquietudine e disagio racchiusi in quel bell'involucro biondo ed elegante... Aveva sciolto alcuni lacci per poi riannodarli in tutta fretta.

Mentre camminavamo tra i tavoli, diretti verso l'uscita, le chiesi: «Avete trovato l'arma usata da Christie? Cos'era? Un kalashnikov ordinato per posta?»

«L'arma non è ancora stata trovata. Ma è una Heckler & Koch semiautomatica.»

«Heckler & Koch? Ma non è un mitra dato in dotazione alla polizia? Potrebbe essere stato rubato da una centrale.»

«Infatti è così. «Il sergente Falconer osservò la mensa vuota come se la vedesse per la prima volta. «Stanno facendo delle indagini. La terremo informata, signor Pearson.»

«Mi fa piacere. E mi dica: da quale centrale di polizia è stato rubato?»

«Da quella di Brooklands.» Parlava con voluta nonchalance. «Proprio questa in cui ci troviamo.»

«Qui? Incredibile...»

Ma il sergente Falconer non mi stava più ascoltando. Era andata alla finestra per guardare il viale accanto all'entrata che portava al parcheggio della centrale di polizia. Si stava radunando una piccola folla, residenti di Brooklands con i loro impermeabili buoni, molti con in mano le buste della spesa del Metro-Centre. Occuparono il marciapiede davanti alla stazione, mentre cinque o sei agenti cercavano di trattenerli.

C'erano diversi uomini robusti, con le loro magliette con la croce di san Giorgio. Si comportavano come membri del servizio d'ordine. Cercavano di non far avvicinare la folla a una ragazza nera ferma al centro della strada, che teneva per mano una bambina piccola. Quella giovane madre appariva esausta. Cercava di coprirsi il labbro superiore e la guancia tumefatti. Ma ignorava la folla ostile. Guardò al di sopra di quei visi truci, verso le finestre della centrale di polizia.

«Quella è la signora Christie, con la pupetta. Ma doveva proprio portarsela dietro?» Il sergente diede un'occhiata all'orologio e aggrottò la fronte. «Le chiedo scusa, signor Pearson. Mi dispiace che lei sia costretto ad assistere a tutto questo...»

«Non si preoccupi.» Mi avvicinai a lei, davanti alla finestra, e respirai il suo profumo, una potente mistura di Caleche ed estrogeni. Guardai la ragazza di colore, sola con la sua rabbia e la sua fiera intelligenza. «C'è da dire che ha del fegato.»

«Non la compatisca più di tanto. Andiamo, la faccio uscire da una strada secondaria.»

Le luci intermittenti lampeggiavano all'ingresso del parcheggio. La gente gettava fiori spezzati alla signora Christie. Mentre lei scostava quei petali rosso sangue, i riflettori della televisione le illuminarono il viso stanco.

«Sergente... La folla sta cominciando a riscaldarsi un po’ troppo. Ci sarà una sommossa.»

«Una sommossa?» Mi fece cenno di seguirla giù per le scale fuori dalla mensa. «Signor Pearson, nel Surrey non ci sono sommosse. La gente è molto più calma, molto più pericolosa...»

 

Attraversammo gli uffici vuoti della sezione investigativa criminale occupati da computer i cui schermi si lampeggiavano a vicenda da una scrivania disordinata all'altra. La finestra delle scale dava sul parcheggio dove la folla cominciava ad ammassarsi contro il cordone di poliziotti. L'atrio sotto di noi era pieno di agenti in divisa pronti per l'arrivo dell'arrestato.

C'erano già degli spettatori che attraversavano di corsa il parcheggio. Una macchina della polizia si fece largo con la forza, con la sirena che intonava il suo lamento funebre, seguita da un furgoncino bianco con una rete metallica a proteggere il parabrezza come una sorta di visiera. Una bottiglia d'acqua minerale si andò a frantumare contro la rete cospargendo il vetro di schiumosa Perrier.

Gli spettatori che erano già oltre i cancelli lanciarono un boato, il latrato viscerale della folla che sente avvicinarsi la lama della ghigliottina. Gli agenti di polizia che erano all'interno uscirono nel cortile a coprire il retro del cellulare per quando ne sarebbe venuto fuori Christie.

La giovane donna di colore, con la figlia stretta tra le braccia, fu sospinta al centro della calca. Speravo che qualcuno andasse in suo soccorso, ma i miei occhi erano fissi sull'uomo che stava uscendo dal furgone. Un agente gli buttò addosso una coperta grigia, ma per qualche secondo riuscii a vedere quella faccia giallognola e con la barba lunga, il mento segnato dall'acne e la fronte rossa per i pugni recenti. Non si rendeva conto della folla e dei poliziotti che lo spintonavano. Guardava le antenne radio sopra la centrale come se aspettasse un messaggio da una stella lontana. Ciondolava la testa come se fosse ubriaco, e quella vacuità mentale era accompagnata da una fame viscerale che aveva quasi qualcosa di messianico. Guardandolo vedevo anni di malnutrizione, trascuratezza e arroganza, il volto degli assassini nel corso dei secoli, uomini metropolitani senza radici, di un'era ormai andata, che erano sopravvissuti fino a raggiungere il ventunesimo secolo, fuori posto tra le auto familiari e le madri che portano i figli a scuola nei ricchi quartieri residenziali come lo sarebbe un uomo di Neandertal rinvenuto su una sdraio accanto a una piscina della Costa blanca. Anni prima quel folle disadattato era riuscito in qualche modo a evitare il carcere minorile e gli ispettori dei servizi sociali, e gli era venuta una fissazione talmente forte contro quel centro commerciale che era riuscito persino a rubare un'arma della polizia e a sparare a casaccio tra la folla, all'ora di pranzo, uccidendo un pilota in pensione che stava andando a comprare il suo tabacco preferito.

Era circondato da una mischia di agenti che, tenendosi a braccetto, spingevano il prigioniero verso la centrale di polizia. Al lato c'era il sergente Falconer, che con le braccia allargate cercava di calmare gli spettatori urlanti. Mi guardava, io stavo accanto alla finestra delle scale ed ero sicuro che mi aveva lasciato lì per permettermi di vedere chiaramente l'uomo che aveva ucciso mio padre.

L'atrio era vuoto adesso, c'erano solo due dattilografe che avevano lasciato le scrivanie. Passai accanto a loro e mi fermai sulla soglia a guardare la polizia che si preparava a spingere Christie di corsa nell'edificio. Mi frugai nelle tasche in cerca di un'arma e trovai le chiavi della macchina. Le strinsi nel pugno della mano sinistra con quella più grande tra l'indice e il medio. Un colpo ben assestato sulla tempia di Christie avrebbe liberato il mondo da quel pazzo pericoloso.

Stringevo le chiavi, e mi preparavo a colpire mentre Duncan Christie si avvicinava con la testa piena di lividi che spuntava da sotto la coperta. Vedendolo così lontano, la folla si spinse in avanti e cominciò a tirare pugni ai lati della camionetta. Nella calca di agenti senza cappello che cercavano di evitare i colpi delle buste della spesa, vidi la moglie di Christie insultare una poliziotta che cercava di riunirla con sua figlia.

Alzai il pugno, pronto a sferrare un colpo a Christie che si avvicinava barcollando in uno stato di trance intontita. Ma la mia mano fu afferrata da un braccio fortissimo che me la bloccò dietro le spalle. Dita forti mi strapparono abilmente le chiavi dalla mano. Mi girai e vidi un omone dall'aspetto militare con dei baffoni rossicci un po’ troppo lunghi e con una giacca di tweed, strettissima per lui, che gli strizzava le spalle e il petto.

«Signor Pearson?» Mi agitò le chiavi davanti agli occhi e mi tenne fermo mentre entravano dei poliziotti con uno dei dimostranti arrestati. «Sono Geoffrey Fairfax, l'avvocato di suo padre. Ci siamo sentiti telefonicamente. Se non mi sbaglio, abbiamo un appuntamento tra dieci minuti. A guardarla si direbbe che non vede l'ora di andare via di qui...»

 

4. IL MOVIMENTO DI RESISTENZA

 

«Come può vedere, signor Pearson, il grosso del patrimonio di suo padre va al fondo di assistenza per piloti. Un po’ ingiusto nei suoi confronti, forse, e anche una scelta un po’ estrema, per i miei gusti. «Con un gesto di rassegnazione, Geoffrey Fairfax lasciò cadere la copertina dell'antico raccoglitore di legno come il coperchio di una bara. «Ma è una buona causa: i soldi vanno alle vedove dei piloti morti in incidenti aerei. In quarant'anni ne avrà conosciute diverse. Se questa può essere una consolazione per lei.»

«Lo è. Ha fatto la cosa giusta. «Finii il mio whisky e posai il bicchiere al centro esatto del sottobicchiere. E pensai: ecco il primo rifiuto da parte del vecchio, un ammonimento dall'aldilà. «Non ho alcuna intenzione di impugnare il testamento.»

«Bene. L'ho capito da subito. Naturalmente l'appartamento è suo.» Fairfax mi offrì un sorriso furbetto. «Certe volte la gente ha dei sorprendenti sprazzi di bontà quando fa testamento. Ci sono medici che lasciano il corpo a istituti di anatomia, sapendo che verranno tagliati a fettine. Ci sono mogli che perdonano tutte le scappatelle dei mariti. Mi fa piacere che suo padre non abbia cambiato le sue volontà.»

«Aveva detto che l'avrebbe fatto?»

«No. Suo padre non era una persona impulsiva. Forse solo un po’ verso la fine... Ma in realtà non saprei.»

Aspettai che Fairfax finisse, consapevole che stavo assistendo a una performance provata e riprovata da parte di uno degli ultimi capocomici di Brooklands. Il grosso dei suoi spettatori era costituito soprattutto dai parenti dei defunti, addolorati per il morto ma avidi, e si vedeva che l'avvocato si divertiva molto in quella sua esibizione. Guardai il suo ufficio rivestito di legno di rovere e mi chiesi come i modi bruschi di Fairfax si conciliassero con quella nuova Brooklands. Studi notarili immersi in un'economia da fast food, registratori di cassa automatici e centri commerciali non erano l'ambiente naturale di Geoffrey Fairfax. Il suo era un mondo nato prima dell'avvento della M25.

C'erano alcune foto su un tavolino che lo ritraevano in divisa da vicecolonnello della Milizia territoriale, e un'altra a cavallo durante una battuta di caccia alla volpe, prima che le volpi del Surrey occidentale abbandonassero la loro terra natia alla volta di un mondo migliore fatto di piazzali di stazioni di servizio e patii di case lussuose. Come tanti dirigenti di aziende vecchio stampo che mi era capitato di conoscere, Fairfax era arrogante, vagamente minaccioso e inefficiente. Uno dei documenti della cartellina di mio padre era caduto per terra ai suoi piedi, ma lui continuava a ignorarlo, sicuro che la donna delle pulizie lo avrebbe rimesso sulla sua scrivania. E se invece l'avesse buttato nel cestino, chi mai l'avrebbe saputo? E a chi sarebbe mai interessato? Quel faccione rosa aveva un'aria intelligente, ma anche un po’ perfida. Quando sedeva dietro la scrivania, sulla sua poltrona da socio di circoli esclusivi, la sua testa era a malapena visibile e i clienti dovevano sforzarsi per guardarlo.

Aveva mostrato di avere ottimi riflessi per un cinquantenne della sua stazza, quando mi aveva salvato dalla sommossa alla centrale di polizia spingendomi con la sua manona verso l'entrata posteriore del parcheggio, dove c'era un passaggio coperto che portava alla caserma e a una stradina secondaria. Mi fece sedere sul posto del passeggero della sua Range Rover e guardò nello specchietto laterale la folla che si disperdeva. Aveva un modo di guidare battagliero, e per poco non investì due donne anziane che attraversavano la strada con troppa lentezza. Geoffrey Fairfax era un esemplare di una specie rara: un teppista borghese. Aveva una brutalità che non derivava tanto dalle botte sui campi da rugby, quanto dal desiderio di dare una bella lezione agli indigeni.

«Mio padre...» lo incoraggiai. «Cosa stava dicendo?»

«Era un uomo eccezionale. A dire la verità erano mesi che non lo vedevamo al club. Purtroppo era cambiato, negli ultimi tempi. Aveva cominciato a frequentare persone un po’ strane...»

«Chi per l'esattezza?»

«Mah, è difficile dirlo. Personalmente non avrei mai pensato che potessero essere il suo tipo di amici. Gli piaceva molto giocare a bridge, intrattenere le signore. A squash aveva un colpo di polso notevole.» Fairfax posò le mani con forza contro il coperchio del raccoglitore, come se temesse che il fantasma di mio padre potesse scappare dalla bara. «Comunque è una cosa terribile, spero che trovino il responsabile.»

«Pensavo l'avessero già trovato. «Mi avvicinai, percependo uno strano tono nella voce dell'avvocato. «Quel tizio arrestato dalla polizia, quel folle disadattato di Brooklands?...»

«Duncan Christie? Disadattato sì. Ma folle no. Due ore in una camionetta della polizia possono essere un vero e proprio percorso di guerra. Domani andrà dal giudice.»

«A me è sembrato uno squilibrato. Mi pare di aver capito che sia lui il colpevole, no?»

«Sì, a quanto pare. Ma stia tranquillo, signor Pearson. Credo proprio che Christie dovrà subire un processo e che verrà incarcerato. Ironia della sorte, un tempo il nostro studio legale lo difendeva.»

«Non è un po’ strano? Uno studio legale come il vostro che ha a che fare con gente fuori di testa?»

«Non è strano per nulla. Non potremmo sopravvivere senza quelli come lui. Christie ci ha dato lavoro per anni. Danni a beni pubblici, comportamenti antisociali, diversi tentativi di farlo internare da parte dei ficcanaso di turno. Uno dei miei colleghi più giovani ha rappresentato Christie quando ha fatto causa al Metro-Centre.»

«Christie odia quel centro commerciale.»

«E chi non lo odia? E' una mostruosità.» La voce di Fairfax era diventata improvvisamente più cupa, come se stesse rimproverando dei soldati che battono la fiacca. «Il giorno in cui iniziarono i lavori diverse persone cominciarono a temere per l'avvenire. E avevamo ragione. Questa era una zona graziosa del Surrey. Tutto è cambiato, è quasi come se vivessimo dentro quella cupola spaventosa. A volte penso che in realtà già lo facciamo senza rendercene conto.»

«D'accordo.» Cercavo di calmarlo in qualche modo. «Ma è soltanto un centro commerciale.»

«Soltanto? Ma santo cielo! Non c'è nulla di peggio sulla faccia della Terra!»

Preso da un improvviso fervore, Fairfax si alzò di scatto dalla sedia facendo tremare la scrivania con un poderoso colpo di coscia. Aprì le tendine di broccato con le sue manone. Oltre la piazza alberata e il modesto edificio del comune c'era l'involucro illuminato del Metro-Centre. Rimasi sorpreso da quel moto di rabbia da parte di un legale del ceto medio. Mi resi conto improvvisamente del motivo per cui le tende fossero chiuse quando eravamo arrivati, e pensai che probabilmente rimanevano così tutto il giorno. L'interno della cupola brillava come un reattore nucleare, una scodella rovesciata che emanava luce riflessa dai pannelli di vetro del tetto. Tra il centro commerciale e la figura muscolosa di Fairfax c'era un edificio di dieci piani. Ma le luci del Metro-Centre sembravano penetrare dentro le mura come se quell'intensa luminosità riuscisse ad attraversare la materia solida per raggiungere quell'ostile avvocato dalle spalle quadrate.

Impavido, Fairfax si girò verso di me con il suo tozzo indice puntato in segno di ammonimento. Mi guardava con l'aria di chi la sa lunga e indicò con la testa le mie scarpe consumate.

«Forse lei non sa che quel posto è aperto ventiquattro ore su ventiquattro, ogni giorno. E' una cosa straordinaria, se ci pensa, signor Pearson. Un esperto di tecnica delle costruzioni che frequenta il club mi ha detto che quell'edificio è destinato a durare almeno cento anni. Posso chiederle di cosa si occupa? Suo padre me l'aveva detto.»

«Pubblicità. Ma sto pensando di cambiare lavoro.»

«Meno male. Comunque credo che lei si renda conto della fortuna che ha a non vivere da queste parti. «

«Da come parla sembra quasi che sia un inferno.»

«Infatti è l'inferno...» Fairfax si ingobbì sulla caraffa del whisky e rimise a posto il tappo, un chiaro segnale che il nostro incontro era giunto al termine. Quando mi alzai, si girò con fare aggressivo verso di me, come se volesse stendermi al tappeto. Faticava a trovare le parole per via di un confuso senso di orgoglio. «Lei è di Londra, signor Pearson. Londra è un grande mercato delle pulci, lo è sempre stato. Merci a buon mercato e sogni ancora più a buon mercato. Ma qui a Brooklands avevamo una vera comunità, non solo una popolazione di registratori di cassa. E adesso è finita, tutto svanito nel giro di una notte, quando ha aperto la fabbrica di soldi. Siamo stati invasi da intrusi che pensano soltanto a guadagnare. Per loro Brooklands è poco più di un parcheggio. Le nostre scuole sono state colpite da un'epidemia, centinaia di ragazzi saltano le lezioni ogni giorno per andare al Metro-Centre. L'unico ospedale che dovrebbe prendersi cura della gente del luogo è pieno di vittime di incidenti stradali causati da automobilisti di passaggio. Guai ad ammalarsi nei pressi della M25. Un tempo la gente frequentava un sacco di corsi - conversazione di francese, storia locale, bridge. Non ci sono più: la gente preferisce farsi un giro nel centro commerciale. Nessuno va più in chiesa. A che serve? Le persone trovano il proprio appagamento spirituale nel centro New Age, il primo negozio a sinistra dopo il fast food. Avevamo decine e decine di club e circoli di musica, di teatro amatoriale, di archeologia. Da tempo non esistono più organizzazioni di beneficenza, partiti politici. Nessuno va alle riunioni. A dicembre il Metro-Centre prende un esercito di Babbi Natale motorizzati che girano per le strade suonando a tutto volume canzoncine natalizie della Disney. Le cassiere sono vestite come Campanellino, tutte scosciate. Un esercito di panzer che mette in scena un grazioso spettacolino...»

«Sembra terribile.» E intanto pensavo alla strada più breve per tornare a Londra. «Un po’ come nel resto dell'Inghilterra. Ma che importanza ha?»

«Importa eccome!» Fairfax fece il giro della scrivania, aprì un armadietto con le ante di vetro, dietro le tende, e prese un fucile da caccia. Con mano esperta aprì la culatta, per vedere se era carico. Aveva il viso rosso per qualcosa che era molto più che semplice rabbia, un odio tribale nei confronti della gente di pianura che si era stanziata attorno a lui. «Importa eccome...»

«Signor Fairfax...» Mi dispiaceva un po’ per lui che agitava ancora la bandierina rossa davanti al primo veicolo di passaggio, ma io dovevo proprio andare. «Le dispiace se chiamo un taxi? Devo tornare alla mia macchina.»

«La sua macchina?» Con un gesto Fairfax escluse questa possibilità. Abbassò la voce come se le ombre nella piazza deserta potessero sentirlo. «Si guardi attorno, signor Pearson. Abbiamo a che fare con un nuovo esempio di uomo e di donna: occhi stretti, passivi, che stringono in mano le loro carte di credito dei grandi magazzini. Credono a qualsiasi cosa che la gente come lei gli dice. Vogliono essere presi in giro, vogliono essere convinti a comprare delle emerite schifezze. La loro istruzione si basa sugli spot televisivi. Sanno che le uniche cose che valgono sono quelle che possono mettere nella busta della spesa. Questa è una zona infestata, signor Pearson, e la peste si chiama consumismo.»

Sempre con il fucile in mano, improvvisamente si rese conto che stavo aspettando vicino alla porta. Fece una breve pausa, cancellando mentalmente l'ultimo grano del suo rosario, e poi mi accompagnò nel corridoio. Gli uffici erano vuoti ma si sentivano delle voci che provenivano dalla sala riunioni, di fronte.

«Una zona infestata,» ripetei. «Posso chiederle qual è la cura? Mi sembra di aver capito che lei ha intenzione di contrattaccare, o sbaglio?»

«Ebbene sì, mi creda. Contrattaccheremo. E posso assicurarle che abbiamo già cominciato...»

Fairfax abbassò la voce ma quando passammo accanto alla sala riunioni si aprì la porta e ne uscì la sua assistente, Susan Dearing, che ci guardò. Le avevo parlato al funerale, e in quell'occasione mi era sembrata un po’ in imbarazzo. Stava per dire qualcosa a Fairfax, ma questi la zittì brandendo il fucile.

Dalla porta aperta nella sala riunioni vidi cinque persone sedute attorno al tavolo, con le sedie distanti, come se avessero paura le une delle altre. Non riconobbi nessuno, anche se i capelli scarmigliati di una ragazza di cui vedevo solo le spalle avevano qualcosa di familiare. Indossava un camice bianco da medico, come una tirocinante che assiste alle visite, ma continuava a battere per terra il piede destro.

Attraversammo l'atrio. Non c'era nessuno alla scrivania, ma su una panca stava seduta una giovane donna di colore con la figlia che dormiva con la testa poggiata sulle sue ginocchia. La signora Christie quasi non si rendeva conto della presenza della bambina, gli occhi, sopra le guance piene di lividi, fissavano le scene di caccia appese alle pareti. Uno dei risvolti della giacca era tutto scucito e lei lo reggeva con una mano, cercando di tenerlo insieme. Aveva un'aria abbattuta, ma allo stesso tempo determinata. La gente l'aveva presa a pugni e le aveva sputato addosso, ma lei aveva dentro di sé una ferma convinzione che la teneva in piedi. La guardai e capii che era certa dell'innocenza del marito.

Dietro la scrivania c'era uno stretto corridoio che portava a un cucinino. Il sergente Mary Falconer stava davanti a un fornelletto e versava del latte caldo da un pentolino in due tazze.

«Signor Pearson...» Fairfax mi fece cenno di andare verso la porta, non vedeva l'ora che uscissi. «Torna a Londra stasera?»

«Se riesco a trovare la strada. Brooklands sembra non essere segnata su nessuna mappa...» Lanciai un'ultima occhiata al sergente Falconer, che puliva il latte versato sul fornelletto, e cercai di capire che posto occupasse nell'insieme più grande di eventi che mi avevano portato in quella strana cittadina e in quell'ancora più strano studio legale. Feci cenno a un taxi di fermarsi e, prima di salire, strinsi la mano di Fairfax. Quando lui stava per andarsene gli chiesi: «La signora Christie? E' lei la donna seduta lì dentro».

«Chi?»

«La signora Christie. La moglie dell'uomo che ha ucciso mio padre. Non rappresenterete mica anche lei?»

«No, no.» Fairfax fece un cenno al tassista. «Qualcuno doveva prendersi cura di lei. Quella donna e la sua bambina sono vittime degli eventi proprio come lei.»

«Giusto.» Scesi i gradini e poi mi girai verso Fairfax. «Un'ultima domanda. E' stato Duncan Christie a sparare a mio padre?»

Fairfax evitò di guardarmi negli occhi e fissò la cupola. «Purtroppo credo proprio di sì. Almeno così sembrerebbe...»

Fra tutte le cose che Geoffrey Fairfax mi aveva detto quella fu l'unica che presi veramente sul serio.

 

Il Metro-Centre si ritraeva alle mie spalle man mano che proseguivo tra le strade buie, cercando segnali stradali che mi indicassero la via per Londra. Ma lì nei pressi della M25, nel cuore di autostradilandia, tutti i segnali indicavano verso l'interno, indirizzando il viaggiatore al punto di partenza. «Metro-Centre - Ingresso sud... Centro commerciale - West Surrey... Brooklands Centro Congressi. Metro-Centre - Ingresso est...»

Mi ero perso, e la guida dell'Automobile Club, che consultai fermo a un incrocio deserto, contribuì a confondermi ancora di più. Attraversai tratti di strada costeggiati da abitazioni di gente dal reddito medio, supermercati aperti tutta la notte circondati da chilometri quadrati di parcheggi illuminati a giorno. Ripensai alla mia confusa giornata trascorsa a Brooklands, una serie di anelli mancanti. Un padre che conoscevo a malapena era morto e il luogo dove aveva trascorso gli ultimi giorni nascondeva le sue stesse tracce e cambiava disposizione trasformandosi in un labirinto.

Percorsi il perimetro del vecchio autodromo di Brooklands. Dal buio emergevano giganteschi blocchi di cemento - banchi di ghiaccio galleggianti - che facevano parte del vecchio terrapieno, una geometria di ombre e ricordi, un sogno di pietra che non si sarebbe mai più risvegliato. Mi sembrava quasi di sentire l'odore dei gas di scarico aleggiare nella nebbia e di udire il rombo baritonale dei motori, una visione di velocità che precedeva di molto il fucile e le fantasie da cacciatore di Geoffrey Fairfax e del suo squadrone di bracconieri.

Aprii il finestrino per afferrare i suoni nella mia testa, il mormorio e il borbottio dei gas di scarico. Ma c'era un altro rumore che martellava l'aria della sera. Veniva dallo stadio di calcio a poco meno di un chilometro di distanza. Luci ad arco nel cielo della notte, confuse dal calore e dal vapore del fiato della folla.

Presi la prima strada laterale e mi allontanai dall'autodromo immettendomi nel traffico che passava davanti allo stadio. La partita era finita e la gente si riversava nelle strade adiacenti. Dalle varie uscite spuntavano uomini e donne con magliette con la croce di san Giorgio alla ricerca delle loro auto parcheggiate. In alto sopra lo stadio i maxischermi elettronici si guardavano da un capo all'altro del terreno da gioco; l'immagine gigante di un commentatore parlava a se stessa da sopra gli spalti vuoti. Frammenti della sua voce riecheggiavano sul traffico e sulle grida di vittoria dei tifosi della squadra ospite. Era un bell'uomo, alquanto robusto, dai modi disinvolti da venditore, un tipo di persona che conoscevo bene dopo aver lanciato centinaia di prodotti, uno di quelli con la parlantina sciolta, un sorriso e una promessa per ogni frase elegante che pronunciava.

Un pugno colpì il tetto sopra la mia testa. I tifosi che attraversavano la strada colpivano le macchine, come un rullo di tamburi tribale. Tre uomini con magliette con la croce di san Giorgio mi si pararono davanti, costringendomi a fermare la Jensen mentre tiravano manate sul cofano. Due donne li seguirono, anche loro con le stesse magliette bianche e rosse, a braccetto come vecchie amiche. Sembravano allegre, ma stranamente minacciose, come se celebrare una vittoria calcistica fosse l'ultima speranza di violenza di una società. Camminarono seguendo la fila delle auto parcheggiate e poi salirono su una grossa B.M.W. Con i fari della macchina che lampeggiavano al ritmo del tamtam della giungla, tagliarono il flusso del traffico e si allontanarono a tutta velocità.

Il commentatore sui maxischermi fluttuava nella notte, e la sua voce riecheggiava tra gli spalti vuoti. Montaggi incrociati di azioni calcistiche e showroom di arredi da bagno e forni a microonde. Mi diressi verso nord e lui era ancora lì che parlava, il suo sorriso svaniva confuso nel bagliore delle luci ad arco, autentico nella sua insincerità.

 

5. IL METRO-CENTRE