martedì 8 marzo 2022

SCIASCIA E DOSTOEVSKIJ METAFISICA DEL SOTTOSUOLO Antonina Nocera



METAFISICA DEL SOTTOSUOLO
Antonina Nocera

Il filo rosso tra Sciascia e Dostoevskij
Intervista a Antonina Nocera
Da La Sicilia del 30 luglio 2020
Non sono molte le donne che hanno scandagliato il pensiero di Leonardo Sciascia dal punto di vista critico, tanto da sembrare quasi che sia un mondo “maschile”. Ci ha pensato l’ardita Antonina Nocera, per molti Antonella, a pubblicare un saggio di confronto, dal titolo ‘Metafisica del sottosuolo‘ con la prefazione dell’italianista Antonio Di Grado, tra lo scrittore siciliano e il russo Dostoevskij. Pubblicato nella collana ‘(ec)citazioni‘ dell’editore Divergenze, l’autrice riesce a comparare i due dove sempre non si è stati certi, proprio per quelle distanze che prese il siciliano dal russo: «La comparatistica – afferma l’autrice – è una disciplina avventurosa e creativa, tanto che si può rischiare di sbagliare prendendo strade impervie. I grandi scrittori possono dialogare su grandi temi dell’esistenza: ne hanno capacità. Sono precisi nell’analisi della psiche, sanno che l’uomo è un abisso senza fine». 
Fabio Pigola inaugura una nuova collana con te prima autrice: emozione? «Tanta. Sapeva che avevo scritto di Sciascia e Dostoevskij per il convegno di Racalmuto; la ricerca è sembrata interessante a tal punto da poter pensare di farne un saggio. Eccolo!». 
Un saggio con sembianze romanzate che svela quel sottile filo tra i due autori, come è nata l’idea? «Il mio saggio è un esperimento metaletterario: ho costruito l’impalcatura come se fosse un giallo; sono partita da un indizio (il libro dei Fratelli Karamazov sul comodino di uno degli indiziati) e da lì ho cercato le ragioni profonde di quel gesto. Sciascia non lasciava nulla al caso nella sua scrittura e l’intertestualità, come in questo caso, ha rivelato profonde e inedite connessioni che via via, come in un’indagine che incalza, andavano emergendo. Sciascia e Dostoevskij come due elementi chimici hanno trovato la loro connessione, e il tema del delitto in chiave metafisica è il filo conduttore».
Il lettore ha bisogno di conoscere le opere trattate nella tua ‘metafisica’? «La conoscenza dei romanzi può essere necessaria, ma certamente chiunque vi si può approcciare senza che vi sia una formazione accademica, anzi credo che un semplice lettore munito di curiosità sia molto più aperto a questo tipo di confronto».
Emerge un quid filosofico che, vox populi, direbbero non fruibile a tutti. «Il saggio affronta questioni filosofiche anche piuttosto articolate, ma chiunque legga i due autori credo sia avvezzo a questo approccio. Ti svelo che diversi mi hanno confessato di non avere letto uno o addirittura nessuno dei romanzi che cito e che proprio dal saggio sono stati incuriositi».
La finzione: necessaria nel romanzo disturbante nel saggio: ne convieni? «Il saggio “puro” deve essere strutturato “scientificamente”, è un genere di scrittura che ha delle sue precise leggi interne. Ma non di rado il saggio si è ibridato in altri generi. Se pensiamo alle opere di retorica come, il De oratore di Cicerone, in cui i precetti erano snocciolati in forma di dialogo, si capisce come vi sia stata sin dall’antichità una necessità di conferire agilità e “drammaticità” a un discorso teorico».
Una retroazione che ad oggi qualche autore pratica, annovererei te. Non credi? «Il saggio romanzato o il romanzo con inserti filosofici ebbe fortuna nell’Ottocento, ma anche oggi la ritroviamo con Coetzee, Houellebecq o Kundera. Lo stesso Dostoevskij scrisse pagine memorabili che potrebbero da sole, essere utilizzate per i corsi di filosofia morale. Il mio stile? Piuttosto classico».
Un classico ex-novo?
«Probabilmente c’è una vena passionale, come mi hanno detto, nel linguaggio, che va di pari passo con un incedere incalzante».
Scrittura fatta da donne ma ‘non al femminile’ ha più volte dichiarato: chiariresti?
«Mi piacciono Roth, Houellebecq, Bernhard e sto cercando Cioran. Sono uomini, di contro però, sono molto legata alla scrittura fatta da donne – leggo e recensisco molte autrici contemporanee -“non al femminile” appunto, che è una definizione orrenda. Per me è necessario sempre un confronto reciproco».


 
Quel misterioso filo rosso che lega Sciascia e Dostoevskij
Recensione di Giulia Ciarapica
29 Marzo, 2020
IL FOGLIO

E’ dai tempi della scuola che sentiamo parlare di interdisciplinarietà o, per farla semplice, di collegamenti, di rimandi. Ci hanno insegnato che, anche a distanza di decenni, certe situazioni – soprattutto storiche, ce lo ricorda Vico – possono ripresentarsi, e che talvolta le tendenze letterarie subiscono gli influssi di ciò che è già stato. Insomma, ci ritroviamo spesso alla ricerca di un fil rouge, o semmai di qualcuno che ci narri di un’indagine – umana, esistenziale, filosofica, dunque letteraria. E di quest’indagine cosa potremmo dire? Che è compiuta da un soggetto scrivente, che è quasi sempre instancabile, talvolta vana, ma soprattutto che rincorre una qualche idea di verità – o anche un surrogato della stessa.
Proprio di verità e della sua investigazione (uso questo termine non a caso) potremo parlare in riferimento al ruolo dello scrittore. Cosa dovrebbe fare lo scrittore? E che ruolo ha la scrittura? “I romanzi mentono – non possono fare altrimenti – ma questa è solo una parte della storia. L’altra è che, mentendo, esprimono una strana verità, che può essere espressa solo se mascherata da quello che non è”, scrive Vargas Llosa, e dunque va da sé che una verità, da qualche parte, dovrà pur esserci. Se su Sciascia e sul nesso “letteratura-verità-realtà” ha disquisito parecchio – con la solita comprovata acutezza – Massimo Onofri, Antonina Nocera, autrice di un saggio mirabile dal titolo “Metafisica del sottosuolo” (Divergenze Edizioni), in un certo senso si spinge oltre muovendo proprio dalla scrittura.
“I fili che uniscono scritture anche molto lontane possono essere sorprendentemente sottili e al contempo resistenti come quelli di seta” scrive la Nocera, “uno su tutti la naturale attitudine a considerare la scrittura come metodo di indagine sull’uomo, inteso come unità misteriosa su cui è impossibile mettere un punto definitivo”: ecco che l’autrice, per delineare un sorprendente legame tra l’italiano Sciascia e il russo Dostoevskij, parte dalla scrittura. Cosa lega i due scrittori? A questa domanda cruciale occorre anticipare una premessa ancor più cruciale: Sciascia ha sempre sostenuto di non amare Dostoevskij. Iniziamo restringendo il campo di azione: “Il contesto” per Sciascia (romanzo del 1971) e “I fratelli Karamazov” per Dostoevskij (più “Delitto e castigo”).
Ad un certo punto de “Il contesto” Sciascia cita il terzo volume de “I fratelli Karamazov”, che si trova sul comodino di Cres, ex condannato per uxoricidio assolto dopo cinque anni, e ora uno dei maggiori indiziati (irrintracciabile) del delitto del giudice. Tanto l’opera sciasciana quanto quella dostoevskiana sono di matrice poliziesca ma del poliziesco non hanno le fattezze classiche, o non del tutto, perché lo scopo principale è la riflessione sulle dinamiche psicologiche e interiori che agitano il colpevole, tanto che, in entrambi i casi, è la “sciarada giudiziaria” a prendere la scena, ossia la ricerca del capro espiatorio che va a vuoto innescando un sistema di domande e interrogativi assai vorticoso. Ma, a parte la citazione de “I fratelli Karamazov”, Sciascia e Dostoevskij hanno un legame più stretto a livello ontologico, anzi, di “crimine ontologico”, come si intuisce dall’analisi de “Il contesto” in relazione a “Delitto e castigo”. Per entrambi, il nucleo generatore è quello del delitto che, tanto nello scrittore italiano quanto in quello russo, occupa un posto centrale: qual è il destino di colui che oltrepassa il limite consentito, dunque di chi uccide? Quali sono le conseguenze ontologiche? Raskol’nikov e l’ispettore Rogas, ad un certo punto, si ritrovano sul medesimo piano. Ma c’è di più.
A parte la questione dell’errore giudiziario, il punto di giuntura è da scovare nella struttura dei casi di coscienza: le tappe dostoevskiane del male, come dice Nocera, vengono acquisite e messe in discussione dai personaggi di Sciascia in un viaggio nel “sottosuolo” innescato dal meccanismo della rivelazione: la questione della libertà originaria perseguita fino alle estreme conseguenze (il delitto), la svolta nichilista (di Riches in Sciascia, del Grande Inquisitore in Dostoevskij) ed infine la ribellione interiore (di Nocio, lo scrittore sciasciano, e di Ivan Karamazov). Il cammino è, a conti fatti, molto simile, perché ad accomunare i personaggi nella loro diversità di azione e luoghi è il rovello interiore, la parabola nichilista e la demolizione dell’ordinamento razionale della vita.
Insomma, per dirla con Wim Wenders: così lontano così vicino.




Metafisica del sottosuolo
Recensione  di Ivana Rinaldi

Un recente libro di Antonina Nocera mette a fuoco le poetiche di Dostoevskij e Sciascia: apparentemente distanti per stili e contenuti, rivelano una comune passione metafisica per i "sottostrati" dell'anima umana.


Metafisica del sottosuolo (Divergenze, 2020) è un libro prezioso, a cominciare dai materiali usati per confezionarlo, dalla copertina di pura cellulosa ecologica, dalla carta. E anche per questo, è stato un piacere venirne a contatto. Quando poi, scorrendo le pagine, si scopre la materia trattata da Antonina Nocera, già autrice della monografia Angeli sigillati. I bambini e la sofferenza nell’opera di F.M. Dostoevskij (Franco Angeli, 2010),  la sorpresa e il gusto della lettura si rafforzano a cominciare dal titolo intrigante. L’azzardo della ricerca, ovvero unire i fili che legano la scrittura di Leonardo Sciascia e di Fëdor Dostoevskij, così apparentemente lontane e al contempo così vicine, e «resistenti come quelli di seta» ha dato vita a un lavoro originale e interessante.
Sappiamo che Sciascia ha sempre riconosciuto il suo debito per grandi autori come Borges, Savinio, Gadda, e ammirazione e amore per Tolstoj;  meno invece per l’altro grande autore russo dell’800.  Eppure, come già ci dice Antonio Di Grado, direttore letterario della Fondazione Sciascia, tra lo scrittore racalmutese e il grande abitante delle notti bianche , vi sono molte affinità: prima fra tutte «l’attitudine a considerare la scrittura un metodo di indagine a tutto tondo sull’uomo, inteso come singolarità misteriosa su cui è impossibile mettere un punto definitivo». Da qui la propensione di entrambi a riflettere sull’apparentemente ferrea, eppure così evanescente e sfilacciata, concatenazione delitto-castigo, a dibattere sulla Legge, sull’umana sete di giustizia. In definitiva, a interrogarsi sui massimi sistemi attraverso la voce dei protagonisti delle loro opere. Un’ansia metafisica che mette a riposo il primato della Ragione illuministica, accantonata da Sciascia, e messa a giacere accanto alle spoglie di Voltaire,  definitivamente sepolta da Dostoevskij in La Leggenda del Grande Inquisitore.
L’autrice si è avvicinata in maniera suggestiva, ma non infondata, a un’indagine che si avvale di indizi per rintracciare quei fili che uniscono i due grandi scrittori. Lo ha fatto restringendo il campo al romanzo poliziesco di Sciascia, in particolare Il Contesto, e a I fratelli Karamazov, con alcune incursioni  in Delitto e castigo. Nonostante il suo dichiarato “non amore” per lo scrittore russo, Sciascia nel suo racconto cita I fratelli Karamazov, offrendo il suo primo indizio di debito. L’ispettore Rogas, uomo colto e rispettoso della Legge, indaga su una serie di delitti che hanno sconvolto una cittadina di provincia e tra gli indiziati vi è Cres, condannato per uxoricidio e rilasciato dopo qualche anno.  Nel momento della perquisizione della sua casa e in sua assenza, l’ispettore rintraccia, tra bottiglie, bicchieri, bicarbonato, un’edizione popolare di I fratelli Karamazov. La presenza del terzo volume in casa di Cres suggerisce che il suo interesse verso il romanzo va oltre la passione letteraria. Ed è proprio in questo volume che emergono i caratteri definitivi dei tre fratelli: il trasgressore,  il mistico, il dubbioso. È qui che emergono le loro rivalità, i loro eccessi, i conflitti di eredità e di amore. Le domande senza risposta che preludono alla “cascata metafisica” delle parole di Ivàn nella Leggenda del Grande Inquisitore, pagine nelle quali vengono rielaborati temi che investono la filosofia morale, politica, della storia e della religione. Ricordiamone brevemente il contenuto. Ivàn espone al fratello Aleskej (Alëša) un racconto allegorico di sua invenzione: dopo secoli dalla sua morte, Gesù riappare sulla terra, a Siviglia, nelle vesti di predicatore. Acclamato salvatore, viene riconosciuto dal Grande Inquisitore, il quale si reca da lui nella notte . È un vecchio di quasi novanta anni, alto e dritto con il volto scarno, gli occhi infossati in cui riluce uno sguardo di fuoco con cui apostrofa lungamente Gesù sul problema della libertà per l’uomo. Alla libertà, dono terribile che Dio ha donato all’uomo, il Grande Inquisitore oppone il miracolo, il mistero e l’autorità. Una “correzione” dell’opera divina più compassionevole verso gli uomini deboli, i non “eletti”, quelli che non hanno la forza di disprezzare il pane terreno per quello celeste. Paradossalmente, il Grande Inquisitore denuncia una mancanza d’amore nel dono di questa terribile libertà. Il racconto termina con Gesù che, dopo aver ascoltato il suo accusatore, lo bacia. Nonostante grandi studiosi come Berdjaev, abbiano rintracciato nella Leggenda la vetta dell’opera di Dostoevskij, il coronamento della sua dialettica, tuttavia restano irrisolte questioni che riguardano la forza, l’autorità, il mistero, il miracolo; il rapporto tra giustizia divina e giustizia terrestre. Come osserva D.S. Mirskij, nell’opera di Dostoevskij è impossibile separare la sua concezione ideologica da quella artistica. Si tratta di romanzi di idee in cui i personaggi nella loro enorme vitalità sono atomi caricati di significati e di simboli metafisici, e “meravigliosamente personalizzati”. Anche nei più immondi e sensuali dei peccati, la loro carnalità non consiste solo nei loro corpi, ma anche nella loro essenza spirituale. Così credo, i personaggi di Sciascia, non solo di Il Contesto, ma anche di Todo modo, Il cavaliere e la morte, Una storia semplice. Mentre in Dostoevskij, sottolinea l’autrice, emerge l’idea dell’ateismo radicale al cospetto dell’ingiustizia divina, l’idea di sofferenza come occasione di espiazione e di rigenerazione, allo stesso modo, per Sciascia, la scrittura è l’occasione per riflettere sulle dinamiche psicologiche e interiori che agitano i colpevoli. A un livello più profondo, questo scandaglio tocca tasti e questioni che sottendono le scelte morali dei suoi personaggi, le fughe, le scappatoie, i loro rovelli psicologici.
 
Il secondo indizio di cui si avvale Antonina Nocera riguarda la concezione del processo in entrambi gli scrittori: fallace e fallimentare sia nei confronti di Dimitrj Karamazov, sia in molti dei protagonisti dei romanzi di Sciascia. L’errore giudiziario è sempre in agguato e rivela la fragilità del sistema razionale della Legge che commina punizioni e castighi, ma spesso incappa nel fatale errore. Una falla che compare sia ne I Fratelli Karamazov che ne Il Contesto. Dostoevskij è impressionato dalla storia di Dimitrij Ilinskj, compagno di prigione a Omsk. La storia dell’uomo imprigionato per parricidio, poi riconosciuto innocente e rilasciato a distanza di dieci anni, colpisce lo scrittore a tal punto che nel suo romanzo, le deposizioni contro Dimitrj sembrano una trascrizione di quelle raccontate nel caso di Ilinskj. Non è sufficiente trovare il colpevole, il servo Smerdjakov, per quietare gli animi. Quel ragazzo, figlio illegittimo di Fëdor Karamazov, non soddisfa l’orizzonte d’attesa del colpevole che ci si aspettava di trovare: è un povero diseredato, un Karamazov a metà, un corpo estraneo che non chiude il cerchio, ma lo puntella di perplessità. Il vero mandante morale, diremmo oggi, è Ivàn Karamazov, consapevole del proposito del fratellastro, e non intervenuto a fermarlo. Così i grovigli istruttori, i garbugli giudiziari, le conclusioni nebulose di entrambi i romanzi, si intrecciano con le riflessioni filosofiche, che troviamo anche nell’ultimo Sciascia. “Il pasticciaccio” dell’ultima scena de Il Contesto è, di fatto, una resa alla ragione investigativa e in generale alla giustizia e alla verità. Non bastano più  le prove oggettive, i resoconti e le perizie a dipanare la matassa. Rogas ucciso, è già il simbolo di una quȇte vuota, una ricerca della verità che si arrotola su di sé. La morte di Rogas, come quella di Fëdor Karamazov, rappresenta l’esito di un delitto filosofico, espressione che Rolland applicò al delitto per eccellenza, ossia quello del giovane Raskal’nikov verso l’usuraia in Delitto e castigo.
Arriviamo alla metafisica del sottosuolo. Per Dostoevskij il male ruota intorno al discorso metafisico-teologico e il problema è quello della libertà, che per ogni personaggio diviene un problema di coscienza, affrontato con voci, accenti e toni diversi: Dimitrj, condannato ai lavori forzati, ricomincia a maturare in sé un «uomo nuovo che può risorgere anche attraverso la punizione». Tutti sono colpevoli per tutti, e può accettare il suo destino: «E allora noi, uomini del sottosuolo, intoneremo dalle viscere della terra un tragico inno a Dio che dà la gioia». Per Sciascia il fulcro del discorso si rintraccia nel potere corrotto, come forza ineludibile, quasi normalizzato e parte dell’ordine costituito, una forza che esiste, ma di cui nessuno deve svelare la natura ambigua. Lo scrittore siciliano dichiara, nel 1987, di avere una vita morale, ma non moralista, fa professione di libero arbitrio attraverso i suoi personaggi, il tutto giocato su un campo terreno, mentre fa appello a un nichilismo “parodizzato”, mancando di un appiglio religioso; mentre in Dostoevskij, la metafisica, l’ansia di ricerca, emergono in tutta la loro potenza e non smettono di interrogarci.
A concludere questo percorso di ricerca di Antonina Nocera, Federico Fiore, nella postfazione, si interroga sulla poetica della perplessità, che io oso definire del dubbio. A partire dalla concezione che i romanzi sono specchi. Un’espressione del sé, un modo di sottoporre alla coscienza una questione reale, prima di sottoporla agli altri. Lo scrittore russo, per quanto soggettivo fino all’estremo, parte da poli opposti rispetto a quelli di Sciascia, ma da presupposti identici. L’uomo, questo animale «divino e senza Dio» è perduto già dalla nascita, «sbattuto come una ragnatela nel vento delle passioni, umiliato e esaltato dalla passione della morte». Anche in Sciascia non vi sono anime incolpevoli, sebbene entrambi indugino sull’innocenza di qualche figura. La differenza sta in come i due autori maneggino la dinamica emotiva delle proposte. La pratica interiore, però, coincide: ognuna delle percezioni dell’uomo si rivela, e l’uomo è il mezzo mediante il quale gli eventi si generano e si manifestano, senza che vengano modificati dal singolo. Per ciascuno degli atti umani, la realtà rivela paesaggi nuovi, così i personaggi come Rogas, Cres, Riches, i fratelli Karamazov, sono metafore di un mondo che è tutti i mondi possibili, dove il sé nulla può mutare. Le figure dostoevkiane sono dense e segrete, come i Nocio e i Rogas svelano quella poetica della perplessità che gli autori “hanno scolpite addosso” e nella propria esistenza. È la passione di entrambi per l’indagine dei sottostrati, spinta fino alla morte, a creare un legame poco notato, ma profondo.
27 marzo 2020