Con una camicia da bambino, le tempie candide e i pantaloni rappezzati, Ivan Grigor'evič sta seduto nell'angolo di uno scompartimento in un treno che sferraglia verso Mosca. Torna alla città dopo trent'anni di deportazione in Siberia. Avrebbe potuto rimanervi per sempre, e ogni ricordo della sua esistenza si sarebbe subito perso. Ma qualcosa è successo: «senza l'ordine personale dello stesso compagno Stalin», Stalin è morto. Un'immensa macchina di produzione e persecuzione per un momento si blocca. Poi, fra le innumerevoli conseguenze di quel momento, un giorno anche l'oscuro Ivan Grigor'evič si troverà su quel treno.
Vasilij Grossman scrisse fra il 1955 e il 1963 questo libro, che è il suo testamento. Come nel grandioso Vita e destino, non cambiò molto nel suo stile scabro e aspro, che lo aveva reso celebre fra gli scrittori del realismo socialista. Ma vi infuse l'inconfondibile tono della verità. Con lucidità e fermezza, prima di ogni altro parlò qui di argomenti intoccabili: la perenne tortura della vita nei campi, ma anche l'altra tortura, più sottile, di chi ne ritorna e riconosce la bassezza e il terrore negli occhi imbarazzati di parenti e conoscenti; lo sterminio sistematico dei kulaki; la delazione come fondamento della società; il vero ruolo di Lenin e del suo «spregio della libertà» nella costruzione del mondo sovietico. Su tutto questo Ivan Grigor'evič riflette, mentre vaga alla ricerca di un modesto lavoro e si adatta a una nuova vita di servitù, talvolta ripensando a un generale dell'artiglieria zarista, suo compagno nei campi, che diceva: «Non lascerò il lager per nessun altro posto: qui sto al caldo, conosco la gente: del pacco che riceve, chi mi darà un pezzo di zucchero, chi una focaccetta». Ivan Grigor'evič è un uomo senza opere e senza discepoli, totalmente solo. Ma c'è in lui una forza rocciosa, immutabile, che gli permette di nominare ciò che ha vissuto. Per lui, il panta rei eracliteo si traduce nell'immagine di un convoglio diretto verso i lager della Siberia orientale, con la sua vita sordida e disperata che si protrae per sessanta giorni. «Sì, tutto scorre, tutto muta, impossibile salire sullo stesso, immutabile convoglio». Così Grossman scrisse questo libro come una «lettera gettata dall'oscurità del carro merci nell'oscurità dell'immensa cassetta postale della steppa».
Vasilij Grossman (1905-1964) fu per molti anni, sino alla fine della guerra, uno dei più noti scrittori del realismo socialista. Fra il 1950 e il 1960, scrisse Vita e destino, vasto romanzo che rimarrà fra i più importanti del secolo. Qui, con la massima fermezza, diceva già le verità intollerabili per il regime che ritroviamo in Tutto scorre... Attraverso complicate peripezie, i manoscritti di Vita e destino e di Tutto scorre... giunsero in Occidente. Ma Grossman morì ben prima di poterne vedere la pubblicazione.
1
Il treno proveniente da Chabarovsk arrivava a Mosca verso le nove del mattino. Un giovanotto in pigiama si diede una grattatina alla testa arruffata, gettò uno sguardo oltre il finestrino, alla semioscurità del mattino autunnale. Poi sbadigliando si rivolse alla gente che sostava nel corridoio, con l’asciugamano e il portasapone.
«Chi è l’ultimo della fila?».
Gli spiegarono che dietro all’omino col tubetto del dentifricio ormai agli sgoccioli e un pezzetto di sapone avvolto in carta di giornale, c’era una donna grassa.
«Perché hanno aperto un gabinetto solo?» sbottò il giovanotto. «Ci stiamo avvicinando all’ultima stazione, alla capitale, e gli addetti ai vagoni letto d’altro non si occupano che di fare i loro traffici. Di occuparsi come si deve dei passeggeri, gli manca il tempo».
Qualche minuto dopo fece la sua comparsa la donna grassa in vestaglia, e il giovanotto le disse:
«Cittadina, io sono dopo di voi; intanto me ne torno al mio posto, per non restare a far chiacchiere nel corridoio».
Nello scompartimento il giovanotto aprì una valigia arancione e s’incantò a rimirare la sua roba.
Dei suoi vicini, uno – dalla tozza nuca rigonfia – russava; l’altro, carnagione rubiconda, giovane e pelato, metteva ordine nelle carte della sua borsa, mentre il terzo, un vecchio magro, se ne stava seduto, la testa poggiata al pugno brunastro, a guardare dal finestrino.
Il giovanotto si rivolse a quello rubicondo:
«Se non lo leggete più, riporrei il mio libro in valigia».
Aveva una gran voglia che il vicino rimirasse la sua valigia, che conteneva delle camicie di raion e il Breve dizionario filosofico, nonché il costume da bagno e un paio di occhiali da sole con la montatura bianca. Avvolte in un giornale di provincia, di formato ridotto, c’erano in un angolo delle focaccine grigiastre: biscotti fatti in casa, campagnoli.
Il vicino osservò:
«Prego! Quel libro, Eugénie Grandet, l’ho già letto l’anno scorso, in un pensionato di villeggiatura».
«Una cosetta notevole, non c’è che dire» esclamò il giovanotto, e ripose il libro nella valigia.
Durante il viaggio avevano giocato a préférence e, bevendo e mangiucchiando, avevano portato il discorso sui film, i dischi, il mobilio, l’agricoltura socialista, avevano discusso su chi avesse il miglior centravanti, se la Spartak o la Dinamo... Quello pelato e rubicondo lavorava in una cittadina della regione, era ispettore del consiglio centrale dei sindacati dell’URSS, quello arruffato invece rientrava a Mosca – dove lavorava come economista al Gosplan1 per l’RSFSR2 – da una vacanza trascorsa in campagna.
Il terzo viaggiatore – un capocantiere siberiano che in quel momento russava, disteso nella cuccetta inferiore – s’era reso sgradito con i suoi modi rozzi: bestemmiava, ruttava dopo aver mangiato e, saputo che il suo compagno di viaggio lavorava al Gosplan nella sezione scienze economiche, aveva chiesto:
«Economia politica... sarebbe a dire come i kolchoziani devono recarsi dal paese fino in città, a comperare il pane dagli operai?».
A un certo punto si era addirittura ubriacato, al buffet di una stazione dove – com’egli aveva detto – doveva far notare la sua presenza; e poi a lungo aveva impedito ai suoi compagni di viaggio di prender sonno, seguitando a parlare ad alta voce:
«Nei nostri affari, se dai retta alla legge, non ottieni niente, se invece ci tieni a eseguire il piano, bisogna lavorare come la vita comanda: “Io do a te, e tu dai a me”. Al tempo dello zar questo si chiamava iniziativa privata, adesso invece: vivi e lascia vivere. Questa è l’economia! Da me gli operai specializzati per tre mesi interi – finché non mi hanno aperto un nuovo credito – sono andati a registrarsi come maestre d’asilo. La legge va contro la vita, ma la vita ha le sue esigenze! Eseguito il piano, avrai anche un premio, in sovrappiù; però possono anche rifilarti dieci annetti. La legge va contro la vita, e la vita va contro la legge».
I giovani tacevano, ma quando il capocantiere si acquietò o, per essere più esatti, non si acquietò ma cominciò a russare energicamente, loro si misero a biasimarlo.
«Anche da questi tipi bisogna guardarsi. Con quell’aria da brav’uomo...».
«Un affarista. Senza scrupoli. Un imbroglione».
Li incolleriva essere trattati con disprezzo da quell’uomo volgare, che veniva da chissà quale buco di provincia.
«Nel mio cantiere lavoravano dei detenuti; be’, quelli i tipi come voi li chiamano pridurki,3 ma verrà il giorno che si capirà chi ha costruito il comunismo, si saprà che voi non siete che delle mosche cocchiere» gettò lì il capocantiere, e passò nello scompartimento accanto, a giocare a briscola.
Il quarto viaggiatore era evidentemente poco abituato a viaggiare in cuccetta. Era rimasto quasi sempre seduto, le palme sulle ginocchia, quasi a nascondere i rappezzi dei pantaloni. Le maniche della sua camicia di lucida cotonina nera terminavano in un punto impreciso tra gomito e polso, e i bottoni bianchi sul colletto e sul petto facevano pensare a una camicia da bambino, da ragazzo. Quell’associazione, di bianchi bottoni fanciulleschi dell’abito con le tempie canute e lo sguardo dei vecchi occhi sfiniti, era ridicola e insieme commovente.
Quando il capocantiere, con voce abituata al comando, gli aveva detto: «Babbino, lascia libero il posto alla tavoletta, che adesso prendo il té» il vecchio si era alzato di scatto, come un soldato, ed era uscito nel corridoio.
Nella sua valigia di legno dalla vernice scrostata, accanto alla biancheria lavata alla meglio aveva un pezzo di pane mezzo sbriciolato. Fumava tabacco scadente, machorka, e, arrotolata la sigaretta usciva a fumarla in fondo al corridoio, per non disturbare i vicini con la puzza del suo tabacco.
I compagni di viaggio gli avevano offerto a più riprese del salame, e il capocantiere, una volta, un uovo sodo e un bicchierino di vodka. Gli davano del tu anche quelli che avevano la metà dei suoi anni; quanto al capocantiere continuava a prenderlo in giro: arrivato nella capitale il «babbino» si sarebbe fatto passare per scapolo, e avrebbe preso in moglie una giovane.
A un certo punto nello scompartimento si venne a parlare dei kolchoz, e il giovane economista cominciò a fare commenti sui fannulloni di campagna.
«Adesso me ne sono reso conto con i miei occhi: si radunano attorno alla direzione del kolchoz a girare i pollici. Per spingerli al lavoro il presidente e i capisquadra devono sudare sette camicie. E poi i kolchoziani si lamentano che al tempo di Stalin la giornata lavorativa non era pagata affatto, e che oggi li pagano pochissimo».
Mescolando sovrappensiero il mazzo delle carte, l’ispettore sindacale lo appoggiò:
«Perché pagarla, quella brava gente, quando non esegue le consegne. Educarli bisogna, così!» e agitò nell’aria il grosso pugno bianco da contadino non più avvezzo al lavoro.
Il capocantiere si carezzò il grosso torace, con i bisunti nastrini delle decorazioni:
«Il pane, da noi, al fronte, non mancava; era il popolo russo a nutrirci. E nessuno lo aveva educato».
«Esatto» disse l’economista. «Ciò che conta è che siamo russi. Ti par poco: un uomo russo!».
Sorridendo, l’ispettore strizzò l’occhio al suo amico di viaggio:
«Ecco cos’è, un russo: un fratello maggiore, primo fra eguali!».
«È per questo che ti prende la rabbia» proruppe il giovane economista. «Russi siamo! Non tedeschi. Uno se la prese con me: “Per cinque anni, foglie di tiglio abbiamo mangiato, e dal ’47 non ci hanno pagato una giornata lavorativa”. Il fatto è che non gli piace di lavorare. Non vogliono capire che adesso tutto dipende dal popolo».
Gettò un’occhiata al contadino canuto, che ascoltava in silenzio la conversazione, e disse:
«Non prendertela, babbino. Il vostro dovere voi non lo fate, e lo Stato vi ha voltato le spalle».
«Che gliene frega, a loro,» disse il capocantiere «non hanno la minima coscienza, ogni giorno vogliono mangiare».
Il discorso rimase così, senza una conclusione, come la maggior parte dei discorsi fatti in treno. Fece capolino nello scompartimento, scintillando con i suoi denti d’oro, un maggiore dell’aviazione che si rivolse ai giovani in tono di rimprovero:
«Che dite mai, compagni? E poi chi ci va a lavorare?».
Dopodiché si avviarono allo scompartimento vicino, a terminare la partita di préférence.
Ma ecco che il lungo viaggio volge al termine... I passeggeri rimettono in valigia le pantofole, rovesciano sulle tavolette pezzi di pane indurito, ossa di pollo rosicchiate fino a diventare trasparenti, pezzi di salame sbiaditi avvolti nella loro pelle.
Ecco passare tutte immusonite le inservienti, a ritirare la biancheria gualcita delle cuccette.
Presto il mondo dei vagoni si sparpaglierà. Saranno dimenticati gli scherzi, i visi, le risate, e i destini casualmente raccontati, e il dolore casualmente espresso.
Sempre più s’avvicina l’immensa città, la capitale del grande Stato. Già spariscono i pensieri e le ansie del viaggio. Dimenticati i discorsi scambiati con la vicina nella piattaforma in fondo al corridoio dove, dietro i vetri appannati, scorre sotto gli occhi la sterminata pianura russa, mentre alle spalle si ode il sussultare pesante dell’acqua dentro i serbatoi.
Si dissolve il mondo angusto dei vagoni nato pochi giorni addietro, un mondo eguale per le sue leggi a qualsiasi altro mondo creato dagli uomini, che procede in linea retta o curva nello spazio e nel tempo.
Grande è la forza dell’enorme città, capace di comprimere anche i cuori spensierati di coloro che vanno in visita nella capitale, a girare per negozi, a visitare lo zoo e il planetario. Chiunque capiti nel campo di forza dove son tese le linee invisibili dell’energia viva di questa città universale, si sente improvvisamente preso dallo sgomento.
Per poco l’economista non aveva perso il suo turno nella fila dinanzi al gabinetto. Eccolo adesso tornare al suo posto e, pettinandosi, dare un’occhiata ai compagni di viaggio.
Il capocantiere riordinava i fogli dei preventivi con dita tremanti (aveva bevuto non poco, durante il viaggio).
L’ispettore sindacale aveva già indossato la giacca e taceva, intimidito, caduto com’era nel campo di forze delle preoccupazioni umane: la canuta e stizzosa donna che dirige l’ispettorato per la pianificazione avrà certo qualche osservazione da fargli.
Il treno corre lungo casette di travi di legno e fabbriche in mattoni, lungo campi di cavoli color di piombo, lungo i marciapiedi delle stazioni dove la pioggia notturna ha lasciato delle pozzanghere sull’asfalto grigio. Sul marciapiede si vedono tetri abitanti della Mosca periferica, con gli impermeabili di plastica infilati sopra il cappotto. I fili della corrente ad alta tensione s’incurvano sotto le nubi grigie... Sui binari morti sostano grigi, lugubri vagoni: «Stazione Mattatoio, Linea Circonvallazione».
Ma il treno corre, sferragliando, con una sorta di maligna, sempre crescente velocità. Una velocità che appiattisce, schiaccia lo spazio e il tempo.
Il vecchio si teneva seduto alla tavoletta e guardava dal finestrino, le tempie sorrette dai pugni. Molti anni addietro un giovane dai capelli arruffati sedeva, nella stessa posa, al finestrino di un vagone di terza classe. E sebbene la gente che viaggiava con lui nel vagone fosse scomparsa, e i loro volti e i loro discorsi gli fossero usciti dalla memoria, nella testa canuta riviveva ciò che sembrava non dovesse ormai esistere più.
Intanto il treno era già entrato nella cintura verdeggiante dei sobborghi di Mosca. Un fumo grigio e stracciato si attaccava ai rami degli abeti e spinto dalle correnti d’aria si sfilacciava sui recinti delle dacie. Com’erano familiari le sagome di quei severi abeti nordici, com’erano strani, lì accanto, gli steccati azzurri, i tetti aguzzi delle dacie, i vetri multicolori dei poggioli, le aiuole piantate a dalie.
E l’uomo, che per tre lunghi decenni mai aveva ricordato che esistono al mondo arboscelli di lillà, viole del pensiero, viottoli di giardino cosparsi di sabbia, i carretti della gazzosa – emise un pesante sospiro, ancora una volta convincendosi che pur senza di lui la vita era andata avanti, era continuata.
2
Letto il telegramma, Nikolaj Andreevič rimpianse la mancia data al postino; era chiaro che il telegramma non era indirizzato a lui; poi d’un tratto si rammentò, trasalì: quel telegramma era di suo cugino Ivan.
«Maša! Maša!» chiamò sua moglie.
Marija Pavlovna prese il telegramma, esclamando:
«Sai bene che senza occhiali sono cieca! Su, dammi gli occhiali».
«Non credo che gli concederanno la residenza a Mosca» proseguì...
«Ah, lascia correre la residenza!».
Nikolaj Andreevič si strofinò con la mano le sopracciglia e aggiunse: «Pensa un po’, Vanja torna e trova solo tombe, nient’altro che tombe».
Fattasi pensierosa, Marija Pavlovna disse:
«Che cosa imbarazzante, con i Sokolov. Certo, manderemo il regalo, eppure non sta tanto bene; lui compie cinquant’anni, un giorno speciale».
«Non importa, spiegherò io».
«E dopo il pranzo si spargerà per tutta Mosca la novità che Ivan è tornato, e dalla stazione è piombato dritto da te».
Nikolaj Andreevič le sventolò il telegramma sotto il naso:
«Ma lo capisci cosa rappresenta Ivan per la mia anima?».
Era infuriato con la moglie: le sciocchezze che Marija Pavlovna gli aveva detto erano venute in mente a lui ancor prima che lei aprisse bocca. Non era la prima volta che succedeva. Proprio per questo egli montava in collera, scorgendo in lei le proprie debolezze; e non capiva che la sua rabbia non derivava dai difetti di lei, ma dai propri. Gli era però facile chiudere alla svelta quelle discussioni perché si amava: perdonando lei, perdonava se stesso.
Adesso tornava in mente anche a lui, con ostinazione, quella stupida idea dei cinquant’anni di Sokolov, e poiché la notizia dell’arrivo del cugino lo aveva messo in agitazione, disegnandogli la propria esistenza con tutte le sue verità e menzogne, egli si vergognava di provare rincrescimento per il pranzo celebrativo dai Sokolov, per il loro attraente boccale di vodka.
Si vergognava della meschinità delle proprie considerazioni – anche a lui si era affacciata l’idea che bisognava darsi da fare per il permesso di residenza di Ivan, che tutta Mosca sarebbe venuta a sapere del suo ritorno, e che quell’avvenimento avrebbe avuto chissà quali ripercussioni sulle sue possibilità di essere eletto alla Accademia...
Intanto Marija Pavlovna continuava a tormentarlo per il fatto che i pensieri di lui – casuali e immaginari com’erano, senza base reale – venivano da lei espressi ad alta voce, portati alla luce del giorno.
«Sei ben strana» esclamò. «Ho l’impressione che sarebbe stato meglio ricevere questo telegramma quando tu non eri in casa».
Quelle parole erano offensive, ma lei sapeva che Nikolaj Andreevič l’avrebbe subito abbracciata dicendole:
«Maša, Maša, dobbiamo rallegrarci insieme; e con chi, se non con te?».
E così avvenne, lei però rimase con un’espressione di scontentezza e sopportazione, che significava: «le tue amorevoli parole non mi fanno alcun piacere, pazienza».
Solo dopo questo i loro occhi s’incontrarono, e un sentimento affettuoso rimediò a tutto quel che di cattivo c’era stato.
Ventotto anni avevano vissuto insieme, senza mai separarsi. È difficile orientarsi e capire quali rapporti corrano tra persone che hanno trascorso insieme quasi un terzo di secolo.
Adesso, canuta, lei si avvicinava alla finestra, quando egli usciva, a guardare lui che, canuto, prendeva posto nell’automobile. Ma c’era stato un tempo in cui prendevano i loro pasti in una mensa sulla Bronnaja.
«Sai, Kolja,» disse a bassa voce Marija Pavlova «Ivan non ha mai visto il nostro Valja. Quando lo arrestarono, Valja non era ancora nato, e adesso che lui torna, son già otto anni che Valja riposa nella tomba».
Questo pensiero la colpì.
3
Aspettando il cugino, Nikolaj Andreevič pensava alla sua vita, e si preparava a battersi il petto dinanzi a Ivan. Immaginava come gli avrebbe mostrato la casa. Ecco, in sala da pranzo c’è un tappeto turkmeno; diavolo: guarda, è bello, no? Maša ha buon gusto, chi fosse suo padre non è un segreto per Ivan, e nella vecchia Pietroburgo, grazie al cielo, la gente sapeva vivere.
Cosa avrebbe detto a Ivan? Decenni erano passati, era trascorsa una vita. Ma sì, proprio di questo avrebbe parlato: la vita non era trascorsa! Solo ora cominciava!
Questo sì che sarà un incontro! Ivan torna in un momento fantastico, quanti cambiamenti ci sono stati dopo la morte di Stalin. Hanno toccato tutti. Anche gli operai, anche i contadini. È ricomparso il pane! Ed ecco che Ivan torna dal lager. E non solo lui. Anche nella vita di Nikolaj Andreevič sono avvenuti un bel po’ di cambiamenti decisivi.
Fin dagli anni universitari Nikolaj Andreevič aveva sperimentato di persona il peso dell’insuccesso, un insuccesso particolarmente tormentoso, perché secondo lui ingiusto. Era una persona colta, lavorava molto, era considerato un conversatore spiritoso, le donne si innamoravano di lui.
Era fiero della sua reputazione di uomo onesto, di saldi princìpi, ma rifuggiva dalla ipocrisia bigotta; a cena gli piacevano le barzellette allegre, conosceva a menadito la complicata gradazione dei vini secchi e spesso, trascurando il vino, passava alla vodka.
Quando i vicini lodavano il carattere di Nikolaj Andreevič, Marija Pavlovna diceva, guardando il marito con occhi allegramente stizziti:
«Viveste insieme a lui, sotto lo stesso tetto, allora sì che conoscereste uno strano Kol’enka: è un despota, uno psicopatico, e per di più un egoista tale come non se ne vedono al mondo».
Conoscevano così bene tutte le debolezze, tutti i difetti reciproci, che a volte si rendevano la vita intollerabile, e sembrava loro che fosse meglio dividersi. Ma era chiaro: sembrava soltanto, essi non avrebbero potuto vivere l’uno senza l’altro; separati, avrebbero sofferto terribilmente.
Marija Pavlova si era innamorata di Nikolaj Andreevič quando era ancora a scuola. La sua voce, la sua fronte alta, i grossi denti, il sorriso, tutto ciò che trent’anni addietro le era sembrato meraviglioso e bellissimo, col passare del tempo le era diventato ancora più caro.
Anche lui l’amava, ma il suo amore era cambiato, e ciò che nei loro rapporti era allora importante adesso era finito, mentre ciò che non sembrava poi tanto importante aveva preso il primo posto.
Marija Pavlova era stata bella, un tempo: alta, con gli occhi neri, anche adesso era agile nei movimenti, e i suoi occhi non avevano perduto il fascino della giovinezza. Ma fin da giovane, e ancor più adesso, la leggiadria del volto era guastata dal sorriso: sorridendo, metteva in vista i denti grossi, sporgenti, della mascella inferiore.
Sin dagli anni dell’università Nikolaj Andreevič aveva sofferto morbosamente della sua mancanza di successo. Non le sue relazioni accuratamente preparate, ma le affrettate comunicazioni del fulvo Rodionov o di Pyžov, l’ubriaconcello, riuscivano a suscitare l’emozione dei partecipanti ai seminari studenteschi...
Nikolaj Andreevič era diventato collaboratore scientifico in un famoso istituto di ricerca, aveva pubblicato decine di lavori, aveva sostenuto la dissertazione per il dottorato. Ma solo la moglie sapeva quanti tormenti e umiliazioni aveva sofferto Nikolaj Andreevič.
Alcune persone – uno era accademico, due avevano una posizione inferiore a quella di Nikolaj Andreevič, e uno non aveva ancora ottenuto il dottorato di ricerca – avevano dato un contributo serio, vitale, nel suo campo scientifico... Quelle persone apprezzavano Nikolaj Andreevič come buon conversatore, rispettavano la sua probità, ma sinceramente, e con tutta bonarietà, non lo consideravano uno scienziato.
Egli percepiva di continuo l’atmosfera di tensione e di entusiasmo che accompagnava quegli uomini, specialmente lo zoppo Mandel’štam.
Una volta una rivista scientifica londinese aveva scritto di Mandel’štam: «Il grande continuatore dell’opera del fondatore della biologia contemporanea». Quando Nikolaj Andreevič lesse quella frase, un pensiero gli traversò la mente: se parole simili fossero state riferite a lui, egli sarebbe morto dalla felicità.
Mandel’štam si comportava male: ora gli capitava di essere tetro e abbattuto, ora prendeva un arrogante tono professorale; se, invitato, beveva un po’, cominciava a deridere gli scienziati che conosceva definendoli dei mediocri; di alcuni, poi, diceva che erano degli affaristi e dei farabutti. Questo suo tratto infastidiva assai Nikolaj Andreevič – Mandel’štam ingiuriava gente di cui era amico e di cui frequentava la casa. E Nikolaj Andreevič sospettava che, in visita nella casa di qualcun altro, Mandel’štam desse quasi certamente del farabutto e del mediocre anche a Nikolaj Andreevič.
Lo stizziva pure la moglie di Mandel’štam, una ex bella donna, ora cicciuta, che sembrava amare solo il gioco d’azzardo e la fama scientifica del suo zoppo marito.
Nello stesso tempo egli si sentiva attratto da Mandel’štam, diceva che gente così, davvero eccezionale, non s’incontrava facilmente nella vita.
Ma quando, con aria condiscendente, Mandel’štam sdottorava con lui, Nikolaj Andreevič s’irritava, soffriva e, tornato a casa, imprecava contro quell’arrivista.
Marija Pavlova considerava il marito un uomo di grande talento. Nikolaj Andreevič le raccontava della condiscendente noncuranza dei luminari per i suoi lavori, e sempre più impetuosa diventava la sua fede nel marito. A lui quell’entusiasmo, quella fede erano indispensabili, come la vodka all’ubriacone. Pensava che c’era gente che aveva fortuna, ed altra che non ne aveva, ma che, a parte questo, erano tutti eguali. Prendiamo Mandel’štam: lui si segnalava per la sua buona stella, era una specie di Beniamino il Fortunato della biologia; quanto a Rodionov, era attorniato da ammiratori come un tenore d’opera; in realtà non v’era la benché minima somiglianza fra un tenore e Rodionov, dal naso camuso e i larghi zigomi. Perfino Isaak Chavkin sembrava aver fortuna, anche se non aveva ottenuto il titolo di professore candidato; sospettato come era di vitalismo, non lo avevano accettato negli istituti scientifici neppure nei momenti di maggiore tranquillità. Adesso, la testa ormai bianca, egli lavorava in un laboratorio sanitario-batteriologico di provincia, e andava in giro con i pantaloni rattoppati. Però c’erano degli accademici che si recavano a scambiare idee con lui, e nel suo misero laboratorio egli conduceva ricerche scientifiche di cui parlavano e discutevano in molti.
Quando iniziò la campagna per la lotta contro i seguaci di Weismann, Virchov e Mendel, Nikolaj Andreevič restò amareggiato per la severità delle misure adottate contro molti dei suoi compagni di lavoro. Sia lui che Marija Pavlovna rimasero sbalorditi quando Rodionov non volle riconoscere i suoi errori. Rodionov venne allora espulso, e Nikolaj Andreevič, pur infuriato per quel pazzo donchisciottismo, gli procurò delle traduzioni dall’inglese.
Pyžov, accusato di servilismo verso l’Occidente, venne mandato a lavorare in un laboratorio sperimentale nella regione di Čkalov.4 Nikolaj Andreevič gli scrisse, gli mandò dei libri. Marija Pavlova preparò, per la sua famiglia, un pacco che inviò per l’Anno Nuovo.
Cominciarono ad apparire sui giornali dei corsivi che smascheravano i carrieristi, i furfanti che avevano ottenuto diplomi e titoli scientifici ricorrendo agli imbrogli; medici che trattavano bambini malati e partorienti con criminale crudeltà; ingegneri che al posto di scuole e ospedali costruivano villette per i parenti. Quasi tutti quelli smascherati nei corsivi erano ebrei, e i giornali riportavano il loro nome e patronimico con scrupolo particolare: «Srul’ Nachmanovič... Chaim Abramovič... Izrail Mendelevič...». Se in una recensione veniva criticato un libro scritto da un ebreo che portava uno pseudonimo letterario russo, si stampava accanto, tra parentesi, il cognome ebraico dell’autore. Sembrava fossero solo gli ebrei, nell’URSS, a rubare, a prendere soldi sottobanco, ad essere criminosamente indifferenti alle sofferenze dei malati, a scrivere libri riprovevoli e abborracciati.
Nikolaj Andreevič vedeva che a compiacersi di quegli scritti non erano solo i portinai e i pendolari sbronzi. Lui s’indignava per quei corsivi, ma nello stesso tempo era irritato con i propri amici ebrei, che reagivano a quegli articoli di basso conio quasi fossero la fine del mondo. Costoro si lamentavano che la gioventù ebraica, pur dotata com’era, non venisse accettata ai corsi di perfezionamento scientifico, che gli ebrei non potessero accedere alla facoltà di fisica, che non venissero presi a lavorare nei ministeri, nelle industrie sia pesanti che leggere, che terminate le scuole superiori gli ebrei venissero spediti in periferie particolarmente lontane. Dicevano che ad essere licenziati per riduzione di personale erano quasi sempre soltanto gli ebrei.
Certo, v’era in tutto ciò un fondo di verità, ma gli ebrei andavano fantasticando di non so quale grandioso piano statale, che li votava alla fame, alla decadenza, allo sterminio. Nikolaj Andreevič pensava invece che sostanzialmente la cosa si limitasse a semplice malevolenza, nei rapporti con gli ebrei, di una parte degli uomini di partito e della classe lavoratrice sovietica, e che gli uffici personale e le commissioni d’accettazione dell’università non ricevessero alcuna istruzione riguardo agli ebrei. Stalin non era un antisemita e probabilmente ignorava queste cose.
E poi non erano solo gli ebrei a finire così, era toccato anche al vecchio Curkovskij, a Pyžov, a Rodionov.
Mandel’štam, che dirigeva la sezione scientifica dell’istituto, era stato trasferito, come collaboratore, nella medesima sezione in cui lavorava Nikolaj Andreevič. Ciò nonostante era riuscito a proseguire la sua ricerca, e il dottorato gli dava la possibilità di ricevere un buon stipendio.
Ma dopo che apparve sulla «Pravda» un articolo non firmato della redazione, contro i critici teatrali cosmopoliti – Gurvič, Jusovskij e altri, i quali si sarebbero beffati del teatro russo – ebbe inizio una diffusa campagna per smascherare i cosmopoliti in tutti i rami dell’arte e della scienza, per cui Mandel’štam venne dichiarato un antipatriota. La Bratova, che aveva un dottorato di ricerca, scrisse, in un articolo sul giornale murale: «Di ritorno da un viaggio lontano, Mark Samuilovič Mandel’štam ha dato un colpo di spugna ai princìpi della scienza russa sovietica». Nikolaj Andreevič si recò in casa di Mandel’štam, il quale ne fu commosso e insieme accorato; e la sua superba moglie non sembrava più tanto superba. Bevvero della vodka, Mandel’štam bestemmiò contro la Bratova, una sua allieva; cacciandosi le mani nei capelli, si desolava che i suoi allievi, ragazzi ebrei di talento, venissero allontanati dagli studi scientifici.
«Dovranno dunque andare a vendere chincaglierie sulle bancarelle?» domandava.
«Suvvia, non bisogna agitarsi, ci sarà del lavoro per tutti, per voi, per Chavkin, e persino l’analista Anička Zil’berman si arrangerà» disse scherzosamente Nikolaj Andreevič. «Ci sarà pane per tutti, e per giunta col caviale».
«Dio mio!» esclamò Mandel’štam. «Non è questione di caviale, ma della dignità dell’uomo».
Quanto a Chavkin, però, Nikolaj Andreevič si sbagliava. La faccenda per lui si mise male. Subito dopo la pubblicazione sui giornali del comunicato riguardante i medici-assassini, Chavkin fu arrestato.
La notizia che scienziati, medici e l’attore Michoels avevano compiuto mostruosi delitti, sbalordì tutti. Parve che una nube nera si fosse posata su Mosca, insinuandosi dentro le case, le scuole, nel cuore degli uomini. In un trafiletto di «Chronika», in quarta pagina, era detto che, durante l’istruttoria, tutti i medici accusati si erano riconosciuti colpevoli; dunque non c’era dubbio: erano dei criminali.
Tuttavia ciò sembrava incredibile; era difficile respirare, lavorare sapendo che dei professori, degli accademici erano diventati assassini di Ždanov e di Ščerbakov: degli avvelenatori.
Nikolaj Andreevič ricordava bene il caro Vovsi, lo straordinario attore Michoels, e sembrava impossibile, impensabile il delitto di cui venivano accusati.
Eppure avevano confessato! Se non erano colpevoli, si erano però riconosciuti tali; bisognava allora supporre un altro delitto, ancor più orribile di quello di cui venivano accusati: un delitto contro di loro.
Il solo pensarci era spaventoso. Bisognava essere provvisti di grande audacia per dubitare della loro colpevolezza – giacché, allora, criminali sarebbero stati i dirigenti dello Stato socialista, il criminale sarebbe stato, in tal caso, Stalin.
Medici di sua conoscenza raccontavano che lavorare negli ospedali e nei policlinici era diventato difficile, un vero tormento. Influenzati dai terribili comunicati ufficiali, i malati si erano fatti sospettosi. Molti rifiutavano di farsi curare da medici ebrei. I medici curanti raccontavano che perveniva dalla popolazione una quantità di reclami e denunce per cure sbagliate intenzionalmente. Nelle farmacie gli acquirenti sospettavano i farmacisti di tentare di rifilar loro medicinali avvelenati; sui tram, nei mercati, nei ministeri si raccontava che a Mosca alcune farmacie erano chiuse perché farmacisti ebrei – agenti dell’America – vendevano pillole confezionate con polvere di pidocchi disseccati; si raccontava che nei reparti maternità infettavano di sifilide neonati e puerpere, e che negli ambulatori dentistici inoculavano ai malati il cancro della mascella e della lingua. Si raccontava di scatole di fiammiferi contenenti fiammiferi mortalmente velenosi. Alcuni ricordavano le circostanze della morte di parenti deceduti da tempo, scrivevano dichiarazioni agli organi di sicurezza chiedendo indagini e citazioni in giudizio per stabilire la responsabilità degli ebrei medici. Particolarmente penoso era che a quelle voci credessero non solo portinai, facchini e autisti semianalfabeti e semiubriachi, ma anche certi dottori in scienze, scrittori, ingegneri, studenti.
Quella diffusa diffidenza sembrava insopportabile a Nikolaj Andreevič. Anna Naumovna, l’analista dal naso pronunciato, arrivava al lavoro pallida, gli occhi dilatati, da folle; una volta raccontò che la sua vicina di stanza, che lavorava in una farmacia, aveva per distrazione consegnato una medicina diversa, e quando la chiamarono perché si spiegasse, presa dal terrore si era suicidata, lasciando due orfani: la figlia, studentessa alla scuola di musica, e un figlio che frequentava le elementari. Anna Naumovna adesso andava al lavoro a piedi: sul tram gli ubriachi le tenevano discorsi sui medici ebrei che avevano assassinato Ždanov e Ščerbakov.
Nikolaj Andreevič provava un senso di ripugnanza per Rys’kov, il nuovo direttore dell’istituto. Rys’kov diceva che era ora di ripulire la scienza russa dai nomi non russi, e una volta proruppe: «È finita per la sinagoga giudea, sapeste come li odio».
E nello stesso tempo Nikolaj Andreevič non era riuscito a vincere un giubilo involontario quando Rys’kov gli aveva detto: «I compagni del Comitato Centrale apprezzano il vostro lavoro, un lavoro da grande scienziato russo».
Oramai Mandel’štam non veniva più in istituto, era riuscito a farsi assumere come specialista in un gabinetto di ricerche. Nikolaj Andreevič lo invitava a casa sua, esortava la moglie a telefonargli; Mandel’štam era diventato nervoso, sospettoso, e Nikolaj Andreevič fu contento che Mark Samuilovič diradasse i loro incontri, che diventavano sempre più penosi. In tempi simili è più piacevole incontrare gente allegra, che ama la vita.
Quando Nikolaj Andreevič venne a sapere dell’arresto di Chavkin, disse alla moglie in un sussurro, gettando un’occhiata al telefono:
«Sono sicuro che Isaak è innocente, lo conosco da trent’anni».
D’un tratto lei lo abbracciò, gli carezzò la testa.
«Sono fiera di te» disse. «Quanto ti addolori per Chavkin e Mandel’štam, mentre io sola so quanto ti hanno offeso».
Erano invero tempi difficili. Nikolaj Andreevič dovette prendere la parola in un comizio sui medici assassini, parlare di vigilanza, di sventatezza e condiscendenza.
Dopo il comizio Nikolaj Andreevič si mise a discorrere con un collaboratore del settore di chimica fisiologica, il professor Margolin, che era intervenuto con un lungo discorso. Margolin aveva chiesto la pena di morte per i medici assassini e aveva letto al pubblico il saluto di benvenuto inviato da Lidija Timašuk, quella che aveva smascherato i medici assassini. Questo Margolin, un tipo ferrato in filosofia marxista, dirigeva le lezioni sul quarto capitolo del Breve corso.5
«Sì, Samson Abramovič,» aveva detto Nikolaj Andreevič «sono tempi assai brutti. Nemmeno per me è facile. Ma perché mai proprio voi intervenite su questi temi?».
Margolin alzò le sopracciglia sottili e, sporgendo il pallido, esile labbro inferiore, domandò:
«Scusate, non capisco bene, cosa intendete dire, esattamente?».
«Ma così, in genere;» disse Nikolaj Andreevič «be’, sapete: Vovsi, Etinger, Kogan, chi l’avrebbe mai detto, io sono stato ricoverato in clinica da Vovsi, il personale gli voleva bene, quanto ai malati, credevano in lui come in Maometto».
Margolin alzò le magre spalle, le sue pallide esangui narici ebbero un lieve fremito, disse:
«Ah, ho capito: voi pensate che per me, ebreo, sia spiacevole bollare questi scellerati? Al contrario, proprio a me ripugna particolarmente il nazionalismo ebraico. E se gli ebrei, attratti dall’America, diventassero un ostacolo per la marcia verso il comunismo, non risparmierei né me stesso, né la mia propria figlia».
Nikolaj Andreevič capì che era inutile parlare dell’affetto per Vovsi di quegli ammalati perdigiorno: se un uomo è pronto a sacrificare anche sua figlia, non resta che parlargli con frasi fatte.
Allora Nikolaj Andreevič disse:
«Ci mancherebbe altro: l’inevitabile fine del nemico sta nella nostra unione politica e morale».
Sì, erano tempi pesanti, e una cosa sola confortava Nikolaj Andreevič: il suo lavoro procedeva bene.
Come se per la prima volta si fosse strappato dall’angusto spazio della sua professione per irrompere in dominii pieni di vita, dove prima non gli era permesso entrare. C’era chi cominciava a sentirsi attratto da lui, i suoi consigli erano richiesti, si era contenti dei suoi giudizi. Redazioni di riviste, solitamente indifferenti, cominciavano a mostrare interesse per i suoi articoli; una volta gli avevano telefonato dalla Voks6 – istituzione che mai si era rivolta a Nikolaj Andreevič – per chiedergli di mandare il manoscritto di un libro che non aveva ancora terminato: alla Voks volevano esaminare in anticipo la possibilità di farne un’edizione nei Paesi di democrazia popolare.
Nikolaj Andreevič accolse a modo suo, con profonda agitazione, l’arrivo del successo. Marija Pavlovna rimase invece più calma. A suo parere, a Kolen’ka stava solo accadendo ciò che non poteva non accadere.
Intanto, nella vita di Nikolaj Andreevič i cambiamenti aumentavano. Gli uomini nuovi posti a capo dell’istituto, e che agevolavano la sua carriera, seguitavano a non piacergli. Qualcosa lo respingeva – la loro grossolanità, la sconfinata sicurezza di sé, quel loro modo di appiccicare agli avversari scientifici l’etichetta di leccapiedi, cosmopoliti, agenti del capitale, mercenari dell’imperialismo. Ma egli sapeva vedere ciò che v’era d’importante in quegli uomini nuovi: la spregiudicatezza, la forza.
Aveva torto Mandel’štam, a questo proposito, nel definirli idioti senza cultura, «stalloni dogmatici». Non ristrettezza di mente v’era in loro, ma una passione, una perseveranza che andava verso la vita e produceva vita. Per questo appunto essi odiavano i talmudisti, gli astratti teoreti.
Ed essi, i nuovi capi dell’istituto, pur sentendo in Nikolaj Andreevič una persona di vedute diverse, di diverse abitudini, lo guardavano con simpatia, avevano fiducia in lui: un vero russo! Ricevette una lettera calorosa da Lysenko, che aveva assai apprezzato il suo manoscritto e gli proponeva di collaborare con lui.
Nikolaj Andreevič non vedeva di buon occhio le teorie lysenkiane, ma la lettera del famoso accademico e agronomo gli fece piacere. Dopo tutto, i lavori di Lysenko non erano da respingere in blocco. Ed anche le voci correnti – che egli fosse un tipo assai pericoloso per gli avversari scientifici, e che nelle discussioni amasse ricorrere ad argomenti polizieschi e denunce – erano evidentemente esagerate.
Rys’kov aveva proposto a Nikolaj Andreevič di prendere la parola per privare degli allori scientifici i cosmopoliti espulsi dal regno della biologia. Nikolaj Andreevič aveva rifiutato, pur notando il disappunto del direttore; questi avrebbe voluto che l’opinione pubblica udisse l’irata parola di uno scienziato russo non iscritto al partito.
Ora, in quel periodo, correva voce che nella Siberia Orientale stessero costruendo in gran fretta una enorme città di baracche. Si diceva che quelle baracche venivano costruite per gli ebrei. Ce li avrebbero mandati, come già avevano fatto con i calmucchi, i tatari della Crimea, i bulgari, i greci, i tedeschi dell’Oltrevolga, i balkari e i ceceni.
Nikolaj Andreevič capì di avere sbagliato a predire a Mandel’štam crostini imburrati e caviale.
Attendeva, agitato, il processo dei medici assassini. La mattina gettava un’occhiata al giornale: non era mica cominciato? Come tutti, si domandava se sarebbe stato un processo aperto al pubblico. E spesso chiedeva alla moglie:
«Cosa pensi, pubblicheranno l’andamento del processo giorno per giorno, col discorso del Pubblico Ministero, gli interrogatori, con l’ultima parola degli imputati; oppure comunicheranno solo il verdetto del Tribunale militare?».
Una volta raccontarono a Nikolaj Andreevič, in grandissimo segreto, che i medici sarebbero stati giustiziati coram populo, sulla Piazza Rossa, dopodiché il Paese sarebbe stato sicuramente sommerso da un’ondata di pogrom contro gli ebrei, e che quel momento avrebbe coinciso con la loro deportazione nella taigà e nel Karakum,7 alla costruzione del canale del Turkmenistan. Tale deportazione veniva attuata per difendere gli ebrei dalla giusta ma spietata ira del popolo; essa esprimeva il sempre vivo spirito dell’internazionalismo che, pur comprendendo l’ira popolare, non può tuttavia permettere il ricorso alla giustizia sommaria e alle azioni punitive.
Come tutto ciò che avveniva nel Paese, anche questa indignazione spontanea contro i sanguinosi crimini degli ebrei era stata ideata e pianificata in anticipo.
Allo stesso modo Stalin progettava le elezioni al Soviet Supremo: gli obiettivi venivano scelti in anticipo, si designavano i deputati, dopodiché aveva luogo, secondo il piano, la spontanea designazione dei candidati, la propaganda elettorale a loro favore e, infine, si arrivava alle elezioni popolari. Allo stesso modo si indicevano tempestosi comizi di protesta, esplosioni d’ira nel popolo e dimostrazioni di fraterna amicizia; sempre allo stesso modo, varie settimane prima della parata festiva, ne veniva controllata la radiocronaca dalla Piazza Rossa: «Vedo in questo momento sfilare a gran velocità carri armati...». All’identico modo si descriveva in anticipo l’iniziativa personale di Izotov, Stakanov, Dusja Vinogradova, le adesioni in massa ai kolkoz, venivano nominati o rievocati i leggendari eroi della guerra civile, si stabilivano le richieste dei lavoratori di investire il salario in prestiti dello Stato, di lavorare senza giorni di riposo; allo stesso modo si dichiarava l’amore di tutto il popolo per il Capo, in anticipo si indicava quali fossero gli agenti segreti di Paesi stranieri, i sabotatori, le spie; dopodiché, nel corso di complicati interrogatori incrociati si sottoscrivevano protocolli dove ragionieri, ingegneri, giureconsulti – ancor di recente ignari di appartenere alla feccia controrivoluzionaria – confessavano poliedriche attività di spie terroristiche. Allo stesso modo venivano preparate lettere che madri dalla voce priva d’espressione leggevano dinanzi ai microfoni, rivolgendosi ai figli soldati; allo stesso modo veniva pianificato in anticipo l’impeto patriottico di Ferapont Golovatyj;8 così venivano nominati i partecipanti alle libere discussioni, se per qualche ragione occorrevano delle libere discussioni, si preparavano e accordavano in anticipo i discorsi dei partecipanti.
E improvvisamente, il cinque marzo, Stalin morì. Quella morte venne a intrufolarsi nel gigantesco sistema di entusiasmo meccanizzato, d’ira e d’amore popolare, stabiliti su ordine del comitato di rione.
Stalin morì senza che ciò fosse pianificato, senza istruzione degli organi direttivi. Morì senza l’ordine personale dello stesso compagno Stalin. Quella libertà, quella autonomia della morte conteneva qualcosa di esplosivo che contraddiceva la più recondita essenza dello Stato. Lo sconcerto invase le menti e i cuori.
Era morto Stalin! Gli uni furono presi da un sentimento di dolore: in alcune scuole gli insegnanti fecero inginocchiare gli alunni e, postisi loro stessi in ginocchio, spargendo lacrime diedero lettura del comunicato ufficiale sul decesso del Capo. Durante le assemblee funebri, nei ministeri e nelle fabbriche, molti furono presi da attacchi isterici, si udivano pianti convulsi e grida terrificanti di donne, alcune cadevano svenute. Era morto il grande Dio, l’idolo del ventesimo secolo, e le donne singhiozzavano...
Altri vennero presi da un senso di felicità. Le campagne, che soffocavano sotto il peso di piombo del pugno staliniano, tirarono un sospiro di sollievo.
Il giubilo invase milioni e milioni di persone rinchiuse nei lager.
... Colonne di detenuti stavano andando al lavoro nel buio profondo. L’abbaiare dei cani poliziotto copriva il ruggito dell’oceano. E all’improvviso, come la luce dell’aurora boreale, cominciò a filtrare tra i ranghi: «È morto Stalin!». Decine di migliaia di persone sotto scorta si passavano l’un l’altro la notizia, sussurrando: «è crepato... è crepato», e quel sussurrare di migliaia e migliaia cominciò a fischiare come un vento. La nera notte regnava sulla terra polare. Ma il ghiaccio sul mare Artico si era rotto, e l’oceano ruggiva.
Non furono pochi, tra i dotti così come tra gli operai, coloro che a quella notizia mescolarono al dolore il desiderio di ballare dalla gioia.
Un turbamento si produsse nell’attimo in cui la radio trasmise il bollettino della salute di Stalin: «respirazione Cheyne-Stokes9... urine... polso... pressione sanguigna...». Il capo divinizzato svelava d’un tratto la sua vecchia carne impotente.
Stalin è morto! V’era in quella morte un elemento di libertà repentina, infinitamente estranea alla natura dello Stato staliniano.
Quella repentinità fece tremare lo Stato, come lo aveva fatto tremare l’altra, piombatale addosso il 22 giugno 1941.10
Milioni di persone vollero vedere il defunto. Il giorno dei funerali di Stalin non solo Mosca ma anche le province, le regioni, si precipitarono alla Casa dei Sindacati. La fila dei camion provenienti dalla provincia si allungava per molti chilometri. L’ingorgo del traffico raggiunse Serpuchov, dopodiché la paralisi bloccò l’autostrada tra Serpuchov e Tula.11
A milioni si recarono a piedi verso il centro di Mosca. Torrenti di persone, quasi neri fiumi scricchiolanti nel disgelo, si urtavano, si schiacciavano sopra le pietre, torcevano, spaccavano le macchine, scardinavano portoni di ferro. Quel giorno morirono a migliaia. Il giorno dell’incoronazione dello zar sulla Chodynka12 sbiadisce se paragonato al giorno della morte del russo dio terreno: il butterato figlio di un ciabattino della città di Gori.
Sembrava che la gente andasse a morire sotto la spinta di un incantesimo, votata al sacrificio da una mistica cristiana o buddhista. Come se Stalin, il grande pastore, finisse di sterminare le pecorelle – che non gli era riuscito di acciuffare –, postumamente eliminando l’elemento della casualità dal suo minaccioso piano generale.
Radunatisi in seduta, i compagni e collaboratori di Stalin lessero mostruosi comunicati delle milizie moscovite, degli obitori – e si scambiarono occhiate. Il loro smarrimento si fondeva con la sensazione, nuova per loro, di non provare più paura dinanzi all’ira inevitabile del grande Stalin. Il padrone era morto.
Il cinque aprile Nikolaj Andreevič svegliò la moglie, al mattino, con un grido disperato:
«Maša! I medici non sono colpevoli! Maša, li avevano torturati!».
Lo Stato riconosceva la sua orribile colpa, riconosceva che ai medici detenuti erano stati applicati metodi vietati negli interrogatori.
Dopo un primo momento di felicità, l’animo gioiosamente sollevato, Nikolaj Andreevič avvertì inattesa, per la prima volta in vita sua, una sensazione ignota: qualcosa di torbido, di tormentoso.
Una nuova, strana, particolare sensazione di colpa per la propria debolezza d’animo, per quel che aveva detto al comizio, per la propria firma sotto la lettera collettiva che bollava i medici scellerati, per la propria prontezza nel consentire alle menzogne più evidenti, per il fatto che quel consenso era nato in lui volontariamente, dal profondo dell’animo suo.
Era egli vissuto rettamente? Era effettivamente un uomo onesto, come tutti d’attorno lo consideravano?
Cresceva, si rafforzava nella sua anima quel sentimento tormentoso, espiatorio.
Nell’ora in cui l’infallibile Stato divinizzato confessava i propri delitti, Nikolaj Andreevič prendeva cognizione di quella sua terrena carne mortale: come Stalin, anche lo Stato aveva delle crisi cardiache, dell’albumina nelle urine.
È chiaro che l’essenza divina, infallibile, dello Stato immortale non solo opprimeva l’uomo, ma lo difendeva anche, lo consolava della sua debolezza, ne scusava la nullità; lo Stato assumeva sulle sue ferree spalle tutto il peso della responsabilità, liberava gli uomini dalla chimera della coscienza.
E Nikolaj Andreevič si sentiva come svestito. Come se migliaia di sguardi estranei si appuntassero sul suo corpo nudo.
E la cosa più sgradevole era che anche lui si trovava tra la folla, a guardare insieme agli altri la sua nudità: esaminava il suo petto cadente, da donna, il ventre avvizzito, sformato a causa del cibo eccessivo, le pieghe, come rotoli di grasso, sui fianchi.
Proprio così, Stalin aveva le palpitazioni e un polso intermittente, lo Stato – era evidente – perdeva le sue urine, e Nikolaj Andreevič appariva nudo sotto il suo abito buono.
Oh, com’era sgradevole quell’autoispezione: incredibilmente ripugnante era l’elenco delle infamie.
Vi figuravano le assemblee generali e le sedute del consiglio di facoltà, le solenni riunioni festive e le riunioni volanti di laboratorio, gli articoletti e i due libri, i banchetti e le visite a gente importante e spregevole e le votazioni, gli scherzi conviviali, le conversazioni con i responsabili della Sezione Personale, e le firme apposte alle lettere, e l’udienza dal ministro.
Ma nel volgere della sua vita c’erano state non poche lettere d’altro tipo: quelle che non erano state scritte, sebbene Dio comandasse di scriverle. C’era tutto il silenzio, là dove Dio comandava di dire una parola; c’era il telefono, con cui sarebbe stato doveroso chiamare, e non si era chiamato; c’erano visite che era peccato non compiere, e che non erano state fatte; c’erano denari, telegrammi non inviati. Erano molte, troppe le cose che non figuravano nell’inventario della sua vita.
Ed era assurdo adesso, tutto nudo com’era, inorgoglirsi di quello di cui si era sempre inorgoglito: di non aver mai fatto delle denunce; che, convocato alla Lubjanka, si era rifiutato di dare informazioni compromettenti su un collega arrestato; che incontrando per strada la moglie di un compagno deportato, non si era voltato dall’altra parte, ma le aveva stretto la mano, informandosi della salute dei bambini.
Cosa c’era mai da inorgoglirsi...
Tutta la sua vita era stata un unico grande atto di obbedienza, non una volta che avesse disobbedito.
Ecco, anche con Ivan: per tre decenni Ivan era passato da una prigione a un lager; Nikolaj Andreevič, che si era sempre gloriato di non aver rotto i rapporti con lui, in quei decenni mai una volta gli aveva mandato una lettera. Quando Ivan scrisse a Nikolaj Andreevič, Nikolaj Andreevič pregò una vecchia zia di rispondere a quella lettera.
Tutto questo, che prima sembrava naturale, aveva all’improvviso cominciato ad angosciarlo, a roderlo.
Gli tornava in mente che a un comizio, indetto in occasione dei processi del 1937, egli aveva votato per la condanna a morte di Rykov, di Bucharin.
Per diciassette anni non aveva pensato a quei comizi, e all’improvviso gli tornavano in mente.
Era parso strano, insensato, a quel tempo, che un professore dell’istituto d’ingegneria mineraria, di cui aveva dimenticato il cognome, e il poeta Pasternak avessero rifiutato di votare per la condanna a morte di Bucharin. E sì che loro stessi, quei malvagi, avevano confessato, al processo. E ad interrogarli pubblicamente era stato un uomo colto, uno che era stato all’università, Andrej Januar’evič Vyšinskij. Non v’era dubbio sulla loro colpa, neanche l’ombra del dubbio!
Ed ecco, adesso Nikolaj Andreevič ricordava che un dubbio c’era. Lui aveva solo finto che non ci fosse. Il fatto è che, fosse pure convinto nel suo animo dell’innocenza di Bucharin, avrebbe comunque votato per la sua condanna a morte. Gli era più comodo non aver dubbi e votare, così aveva finto dinanzi a se stesso di non avere dubbi. Lui non poteva fare a meno di votare, giacché credeva nei grandiosi obiettivi del partito di Lenin-Stalin. Sì, lui credeva che per la prima volta nella storia fosse stata costruita una società socialista, senza proprietà privata, e che per il socialismo fosse necessaria la dittatura dello Stato. Dubitare della colpevolezza di Bucharin, rifiutarsi di votare, significava dubitare della potenza dello Stato, dei suoi grandi obiettivi.
Ma pur con quella sacra fede, da qualche parte nel profondo del suo animo viveva il dubbio.
Era forse questo il socialismo, con i lager di Kolyma, con il cannibalismo all’epoca della collettivizzazione, con la morte di milioni di persone? A volte nei recessi profondi della coscienza si insinuavano ben altri pensieri: troppo disumano era stato il terrore, troppo grandi le sofferenze degli operai e dei contadini.
Sì, sì, la sua vita era trascorsa nel culto, nella grande ubbidienza, nel terrore della fame, della tortura, dei campi siberiani. Ma c’era anche una paura particolarmente abietta: quella di ricevere caviale rosso invece di caviale nero. E i sogni giovanili dei tempi del comunismo di guerra erano stati sottomessi a quell’abietta paura da caviale: pur di non dubitare, pur di firmare, votare ad occhi chiusi. Sì, sì, la paura per la propria pelle era stato il nutrimento della sua forza ideologica.
E all’improvviso, con un brivido, lo Stato aveva detto, a mezza voce, che i medici erano stati torturati. E forse domani lo Stato riconoscerà che anche Bucharin, Zinov’ev, Kamenev, Rykov, Pjatakov erano stati sottoposti a tortura, che non erano stati i nemici del popolo a uccidere Maksim Gor’kij. E dopodomani lo Stato riconoscerà che milioni di contadini erano stati sterminati invano.
E non sarà l’onnipossente, infallibile Stato ad accollarsi tutto l’operato, ma toccherà a Nikolaj Andreevič risponderne; era ben lui quello che non dubitava, che votava per ogni cosa, che apponeva la sua firma ad ogni richiesta. Egli aveva imparato così bene, così abilmente a fingere con se stesso che nessuno, nessuno, neppure lui stesso si accorgeva di quella finzione. Egli era sinceramente fiero della sua fede, della sua onestà.
La sensazione di tormento, il disprezzo verso se stesso era a momenti così forte da far affiorare in lui un amaro, acuto rimprovero per lo Stato: perché, perché aveva confessato?! Meglio avesse taciuto! Non aveva il diritto di confessare, doveva lasciare tutto come prima!
Chissà cosa doveva provare il professor Margolin, che si era detto pronto a uccidere, per la grande causa dell’internazionalismo, non solo i medici criminali, ma anche quegli ebreucci dei suoi figlioli.
Insopportabile, dover prendere sulla propria coscienza quella pluriennale, abietta sottomissione.
Ma pian piano quella pesante sensazione andò calmandosi. Tutto pareva esser cambiato, e nello stesso tempo tutto sembrava esser rimasto come prima.
All’istituto il lavoro era diventato incomparabilmente più facile, più tranquillo. Ci se ne accorse in particolare quando, avendo Rys’kov suscitato con la sua villania lo scontento delle istanze superiori, venne destituito dal posto di direttore.
Il successo da Nikolaj Andreevič tanto agognato finalmente gli arrise. Non un successo stabilito dal dicastero, ministeriale, ma l’autentico, grande successo. Che si faceva sentire attraverso molte cose: gli articoli delle riviste, le dichiarazioni dei partecipanti alle conferenze scientifiche, gli sguardi ammirati dei collaboratori scientifici e delle analiste, le lettere che cominciava a ricevere.
Nikolaj Andreevič era entrato a far parte del Consiglio Scientifico Superiore, e ben presto la presidenza dell’Accademia lo confermò direttore scientifico dell’istituto.
Nikolaj Andreevič voleva che si riammettessero i cosmopoliti e gli idealisti licenziati, ma risultò impossibile prevalere sul capo dell’ufficio personale, una donna simpatica, graziosa, ma straordinariamente testarda. L’unica cosa che gli riuscì fu di procurare ai licenziati un lavoro non di ruolo.
E adesso, guardando Mandel’štam, Nikolaj Andreevič pensava: era mai possibile che di quest’uomo misero e debole, che portava all’istituto pacchi di traduzioni e di note, si scrivesse anni addietro, all’estero, come del più eminente, se non di un eccelso scienziato? Era mai possibile che Nikolaj Andreevič ne avesse così fortemente bramato l’approvazione?
Prima Mandel’štam si vestiva sciattamente, adesso invece veniva all’istituto col suo abito migliore. A Nikolaj Andreevič, che gli aveva lanciato un frizzo, Mandel’štam aveva risposto: «Un attore senza ingaggio deve essere sempre ben vestito».
Ed ecco che ora, al ricordo della vita passata, gli pareva strano, amaro e insieme gioioso pensare all’incontro con Ivan. Un tempo si era creata in famiglia l’opinione che Vanja superasse per intelligenza e per talento tutti i suoi coetanei; lo stesso Nikolaj Andreevič ne era convinto – ma non completamente, anzi, nel fondo dell’anima, non ne era convinto affatto, però si rassegnava.
Vanja leggeva facilmente, rapidamente grossi volumi di matematica e di fisica, applicandovisi non con sottomissione scolastica, ma sempre in una maniera tutta sua, strana. Possedeva sin dall’infanzia la capacità di modellare, riuscendo a trasporre nella creta con pochi tocchi l’espressione di un viso, un gesto strano, ancor più il movimento, da lui notati. Accanto all’interesse per la matematica viveva in lui, cosa davvero insolita, un’attrazione per l’antico Oriente; conosceva bene le pubblicazioni sui manoscritti e i monumenti dei Parti.
Fin da bambino si notavano in lui, stranamente uniti, tratti che mai si vedevano congiunti in una sola persona.
Giovane collegiale, durante un litigio aveva colpito a sangue la testa del suo avversario, per cui lo avevano trattenuto due giorni al posto di polizia. Con tutto ciò egli era timido, riservato, sensibile; teneva in uno stambugio, sotto casa, un ospedale dove vivevano animali menomati: un cane cui mancava una zampa, un gatto cieco, una malinconica cornacchia con un’ala strappata.
Da studente Ivan riuniva in sé, altrettanto stranamente, delicatezza, bontà, timidezza e una così spietata durezza da costringere anche gli intimi a serbargli rancore.
Erano state forse queste particolarità del suo carattere a far sì che Ivan non confermasse le speranze riposte in lui: la sua vita ne era rimasta spezzata, e lui stesso aveva contribuito a spezzarla fino in fondo.
Negli Anni Venti molti giovani di talento non riuscivano a studiare a causa della loro provenienza sociale: i figli di nobili, di militari zaristi, di preti, di industriali e commercianti non erano ammessi negli istituti superiori.
Ivan era stato accettato all’università: proveniva da una famiglia di lavoratori intellettuali. Superò facilmente la feroce epurazione universitaria basata sull’appartenenza di classe.
Fosse capitato a Ivan di cominciare adesso la vita, le presenti dure difficoltà legate al punto quinto del questionario13 – la nazionalità – non lo avrebbero mai sfiorato.
Ma avesse pur cominciato oggi la sua vita, sarebbe probabilmente di nuovo passato per la strada dell’insuccesso.
Non si trattava, cioè, di circostanze esterne. La sfortunata, amara sorte di Ivan dipendeva da lui stesso.
All’università, durante il seminario di filosofia, aveva avuto discussioni feroci con gli insegnanti di materialismo dialettico. Discussioni che si erano protratte fino a quando il seminario non era stato chiuso.
Allora Ivan prese la parola nell’auditorio contro la dittatura: dichiarò che la libertà è un bene equivalente alla vita, che una sua limitazione mutila l’uomo come un colpo d’ascia che faccia saltar via dita e orecchie; abolire poi la libertà, equivaleva a un assassinio. Dopo quel discorso egli venne espulso dall’università e deportato per tre anni nella regione di Semipalatinsk.
Da allora erano passati trent’anni circa, e in quei decenni Ivan aveva trascorso in libertà non più di un anno. Nikolaj Andreevič lo aveva visto per l’ultima volta nel 1936, poco prima di un nuovo arresto, dopo il quale egli trascorse nel lager, ormai senza interruzione, diciannove anni.
A lungo lo avevano ricordato i compagni d’infanzia e d’università; dicevano: «Ivan sarebbe adesso un accademico». «Sì, era un essere eccezionale, ma non ha certo avuto fortuna». Alcuni invece dicevano: «Era proprio matto».
Anja Zamkovskaja, l’amore di Ivan, deve averlo ricordato più a lungo degli altri.
Ma il tempo compì la sua opera. E anche Anja, l’ormai malaticcia, incanutita Anna Vladimirovna, non chiedeva più di Ivan, quando la incontravano a teatro oppure, in autunno, a Gaspra.14
Egli era scomparso dalla coscienza della gente, dai loro cuori, freddi o ardenti che fossero; esisteva nel segreto, e sempre più difficilmente appariva alla memoria di coloro che lo avevano conosciuto.
Ma intanto il tempo lavorava senza affrettarsi, coscienziosamente: quell’uomo era stato dapprima cancellato dalla vita, migrando nel ricordo della gente, poi aveva perduto il permesso di residenza anche nella memoria, era andato a finire nell’inconscio, da dove saltava su, di tanto in tanto, come un misirizzi, spaventando con quel suo improvviso, inatteso apparire di un attimo.
E sempre più il tempo proseguiva il suo lavoro, così semplice, terreno, e già Ivan aveva tirato fuori una gamba per portarsi dalla buia fossa dell’inconscio dei suoi amici al domicilio perpetuo della non-esistenza, nell’eterno oblio.
Ma era sopraggiunto un tempo nuovo, post-staliniano, e la sorte aveva voluto che Ivan tornasse di nuovo a camminare in quella vita medesima che aveva ormai smarrito, di lui, e la nozione e l’immagine visiva.
4
Arrivò soltanto sul far della sera.
In quell’incontro si mescolarono e la stizza per il ricco pranzo guastatosi a causa del ritardo, e l’ansia, e le esclamazioni per la testa incanutita, per le rughe, per la vita trascorsa. Gli occhi di Nikolaj Andreevič s’inumidirono – così negli aridi burroni cretosi gorgoglia improvvisa l’acqua, dopo un temporale – e Marija Pavlova pianse, tornando di nuovo a seppellire il figlio.
Non s’accordavano con quel mondo di lucidi parquet, di scaffali pieni di libri, di quadri, di lampadari lo scuro viso rugoso, il giaccone imbottito, l’impacciata andatura degli scarponi da soldato dell’uomo giunto dal regno dei lager.
Soffocando l’emozione, guardando il cugino con gli occhi offuscati dalle lacrime, Ivan Grigor’evič disse:
«Nikolaj, prima di tutto voglio dirti questo: non vengo a chiederti nulla, né per il permesso di residenza, né soldi e tutto il resto. A proposito, sono già stato ai bagni pubblici, non porto bestioline feroci».
Asciugandosi le lacrime, Nikolaj Andreevič cominciò a ridere: «Canuto, tutto una ruga, ma il nostro Ivan è sempre lo stesso, sempre lo stesso!».
E disegnò nell’aria un gesto rotondo, dopodiché trafisse col dito quel cerchio immaginario.
«Insopportabile, diritto come una stanga, e nello stesso tempo – sa il diavolo come – è il migliore degli uomini».
Marija Pavlova gettò uno sguardo a Nikolaj Andreevič: quella mattina stessa ella aveva dimostrato al marito che sarebbe stato meglio se Ivan Grigor’evič si fosse lavato ai bagni pubblici: nel bagno di casa non si riesce mai a lavarsi così bene; e poi, dopo le abluzioni di Ivan, non sarebbe riuscita a ripulire la vasca né con l’acido, né con la varichina.
In quella vacua conversazione non c’era solo del vuoto: sorrisi, sguardi, gesti delle mani, colpetti di tosse – tutto aiutava ad aprirsi, spiegare, capirsi nuovamente.
Nikolaj Andreevič aveva una gran voglia di raccontare di sé, assai più che di ricordare l’infanzia, di enumerare i parenti deceduti o di fare domande a Ivan. Ma essendo una persona educata, capace cioè di fare e dire diversamente da ciò che voleva, disse:
«Dovremmo andare da qualche parte, magari in dacia, dove non ci sono telefoni, e ascoltarti per una settimana, un mese, due».
Ivan Grigor’evič immaginò se stesso seduto in una poltrona della dacia mentre, sorseggiando del buon vinello, avrebbe cominciato a raccontare della gente scomparsa nel buio eterno. La sorte di alcuni di loro era d’una tristezza così lancinante che persino la più tenera, la più leggera e affettuosa parola su di loro sarebbe stata come il ruvido contatto di rozze mani su un lacero cuore messo a nudo. Non si poteva toccarlo.
E scrollando la testa disse:
«Sì, sì, sì: la favola delle mille e una notte polari».
Era turbato. Dove mai si trovava lui, Kolja: era quello in logora camicia di cotonina lucida, un libro inglese sotto il braccio, allegro, spiritoso e servizievole, o era quello dalle grosse guance cascanti e la cerea pelata?
Tutta la sua vita Ivan era stato forte. Sempre si erano rivolti a lui per chiedergli di essere illuminati, tranquillizzati. Persino i delinquenti comuni del lager «India» avevano talvolta richiesto la sua parola. Un giorno era riuscito a fermare una rissa a coltellate tra ladri e ‘porci’.15 Gente diversa lo rispettava: ingegneri e sabotatori, e un vecchio, stracciato cavaliere della guardia, e un tenente colonnello di Denikin, maestro della sega ad archetto, e un ginecologo di Minsk accusato di nazionalismo borghese ebraico, e un tartaro della Crimea che si era lagnato perché il suo popolo era stato cacciato dalle rive del tiepido mare, nella taigà, e un kolchoziano che si era appropriato di un sacco di patate, con l’intenzione di non tornare al kolchoz, dopo aver scontato la pena, ma di ottenere, col certificato del lager,16 un passaporto semestrale per la città.
Ma quel giorno egli aveva solo voglia che le mani affettuose di qualcheduno togliessero ogni peso dalle sue spalle, e sapeva che c’era un’unica forza dinanzi alla quale sarebbe stato bello, meraviglioso sentirsi piccolo e debole: la forza della madre. Ma da un pezzo ormai egli non aveva più madre, e non c’era nessuno che potesse togliergli quel peso.
Nikolaj Andreevič sentiva nascere in sé una strana sensazione, del tutto involontaria. Aspettando Ivan, aveva pensato, commosso, che sarebbe stato con lui completamente sincero, come non era mai stato con nessuno in vita sua. Sentiva il desiderio di confessare dinanzi a Ivan tutte le sofferenze della sua coscienza, di raccontare con umiltà la sua amara e abietta debolezza.
Che Ivan sia il suo giudice: lo capisca, se può; se non può, lo perdoni; se poi non lo capirà né lo perdonerà, be’, amen. Agitato, gli occhi velati di lacrime, andava ripetendo tra sé e sé i versi di Nekrasov:
S’inchinò al padre il figlio,
Lavò i piedi al veglio...
Aveva un gran desiderio di dire al cugino: «Vanja, Vanečka, è assurdo, è strano, ma io ti invidio, invidio che nell’orrendo lager tu non dovessi sottoscrivere lettere abiette, né votare a favore della condanna a morte di persone innocenti, né pronunciare discorsi indegni...».
Ma d’un tratto, alla vista di Ivan, inattesa si era risvegliata in lui una sensazione del tutto opposta. Quell’uomo col giaccone imbottito e gli scarponi da soldato, col viso corroso dal gelo e dall’aria irrespirabile delle baracche, gli era parso estraneo, cattivo, ostile.
Una sensazione simile nasceva in lui quando si recava all’estero. Impensabile, impossibile gli sembrava, là, di parlare dei propri dubbi con quegli stranieri ben messi, farli partecipi delle amarezze sofferte. Con gli stranieri egli non parlava delle proprie ansie, ma soltanto di cose importanti e indiscutibili: delle storiche conquiste dello Stato sovietico. Difendeva da loro se stesso, la sua patria.
Poteva mai supporre che Ivan avrebbe risvegliato in lui una sensazione simile? Perché? Per quale ragione? Eppure era successo proprio così.
Adesso gli sembrava che Ivan fosse venuto per tracciare un frego sulla sua vita. Ecco, Ivan lo avrebbe umiliato, gli avrebbe parlato con alterigia, con arroganza.
E lui aveva una voglia pazza di far capire, di spiegare a Ivan che tutto era cambiato, rinnovato, che tutte le vecchie valutazioni andavano cancellate, che Ivan era stato sconfitto, spezzato, la sua amara sorte non era casuale. Sì, sì, uno studente fallito con i capelli bianchi... Cosa aveva alle spalle, cosa l’aspettava nei giorni a venire?
E forse, proprio perché voleva così appassionatamente, ostinatamente dire a Ivan tutte queste cose, Nikolaj Andreevič disse esattamente il contrario:
«È sorprendente come tutto si accordi. Sull’essenziale io e te, Vanja, siamo sullo stesso piano. E anch’io voglio dirti una cosa: se – incontrando gente che ha trascorso questi anni facendo non il tagliaboschi o lo sterratore, ma scrivendo libri eccetera – ti venisse in mente d’aver perduto questi decenni, che la tua vita è andata in fumo, ebbene, io voglio dirti: scaccia queste idee! L’importante, Vanečka, è che tu sei eguale a chi ha fatto progredire la scienza, a chi ha avuto successo nella vita e nel lavoro».
Egli sentiva la propria voce tremare dall’emozione, e il suo cuore stringersi dolcemente.
Vedeva il turbamento di Ivan, vedeva lacrime di emozione offuscare nuovamente gli occhi della moglie.
Perché egli amava Ivan, tutta la vita lo aveva amato. A Marija Pavlovna non era mai parso di percepire con tanta pienezza la forza spirituale del marito, come in quei minuti in cui egli aveva voluto incoraggiare lo sventurato Ivan. Sapeva bene, lei, chi era il vincitore e chi il vinto.
Era veramente strano, ma neanche quella volta, quando la vettura ZIS aveva portato Nikolaj all’aeroporto di Vnukovo per salire sull’aereo per l’India, dove avrebbe presentato al premier Nehru la delegazione di scienziati sovietici, neanche quella volta ella aveva sentito così profondamente il proprio giubilo. Quello d’oggi era un giubilo particolare, unito alle lacrime per il figlio morto, alla compassione, all’amore per quell’uomo canuto dalle rozze scarpe.
«Vanja,» disse «vi ho messo da parte un intero guardaroba, siete alto come Kolja».
Marija Pavlovna aveva tirato fuori il discorso sui vestiti usati alquanto intempestivamente, e Nikolaj Andreevič disse:
«Santo cielo, che bisogno c’è di parlare di queste sciocchezze. Naturalmente, Vanja, con tutta l’anima».
«Non si tratta dell’anima» disse Ivan Grigor’evič. «Il fatto è che tu sei tre volte più largo di me».
Lo sguardo attento e, si sarebbe detto, un po’ compassionevole di Ivan indispettì Marija Pavlovna. Evidentemente, il fatto che suo marito si comportasse con particolare modestia, impediva a Vanja di sbarazzarsi dell’antico tono di condiscendenza che aveva verso Nikolaj Andreevič.
Ivan Grigor’evič bevve un bicchierino di vodka, e un rossore si soffuse sotto la pelle scura del suo viso.
Chiese dei conoscenti di una volta.
Erano decenni che Nikolaj Andreevič non si era incontrato con la maggior parte di loro. Molti non erano più di questo mondo. Tutto ciò che li univa – occupazioni e preoccupazioni comuni – era scomparso; le loro strade si erano separate, la compassione e la pena per coloro che erano partiti senza diritto alla corrispondenza e senza ritorno, si erano involate. Nikolaj Andreevič non aveva voglia di ricordarli, come non si ha voglia di accostarsi a un rinsecchito tronco solitario, attorno al quale non v’è che un polveroso terriccio senza vita.
Lui aveva voglia di parlare di quelli che Ivan Grigor’evič non conosceva: a loro erano collegati gli avvenimenti della sua vita. Raccontando di loro egli sarebbe passato al più importante: a raccontare di sé.
Sì, era quello il momento di liberarsi da quel vermiciattolo intellettuale, il senso di colpa, d’illegittimità per quel che di meraviglioso gli era capitato. Non di pentirsi aveva voglia, ma di affermare se stesso.
Ed egli cominciò a raccontare di persone che gli avevano mostrato bonario disprezzo, senza capirlo né apprezzarlo – persone che oggi egli era pronto ad aiutare con tutta l’anima.
«Kolen’ka,» intervenne ad un tratto Marija Pavlovna «racconta di Anja Zamkovskaja».
Subito moglie e marito percepirono l’agitazione di Ivan Grigor’evič.
Nikolaj Andreevič disse:
«Ma lei ti scriveva, sì?».
«La sua ultima lettera è di diciotto anni fa».
«Già, già; si è sposata. Suo marito è un fisico chimico, insomma sai, roba atomica. Vivono a Leningrado, figurati un po’, nello stesso appartamento dove lei viveva un tempo dai parenti. Noi l’incontriamo di solito quando si va in vacanza, d’autunno... Prima ci chiedeva sempre di te, ma dopo la guerra, a dire il vero, smise».
Ivan Grigor’evič tossicchiò, poi con voce rauca:
«E io che pensavo fosse morta: aveva smesso di scrivermi».
«Già; ma tornando a Mandel’štam» disse Nikolaj Andreevič. «Ricordi il vecchio Zaozerskij? Mandel’štam era il suo allievo prediletto, Zaozerskij crollò nel ’37; quando il brav’uomo si recava all’estero, s’incontrava liberamente, apertamente, con gli emigrati, con quelli che avevano rifiutato di rientrare in patria, sì, tipi come Ipat’ev, come Čičibabin... Dunque, tornando a Mandel’štam, lui dapprima fece carriera, e poi... be’, il finale te l’ho già raccontato: l’accusarono di essere un cosmopolita, e via di seguito... Tutte sciocchezze, naturalmente, ma ad esser sinceri, spinto da Zaozerskij, lui si era effettivamente legato a scienziati europei ed americani».
Nikolaj Andreevič pensava di star raccontando tutto questo non per sé, ma per Ivan: perché Ivan viveva ancora con certe idee ormai sorpassate, infantili; bisognava ben farlo tornare con i piedi sulla terra. Ma lì stesso gli balenò il pensiero: «O Signore, a che punto l’ipocrisia e l’untuosità si sono insediati in me».
Guardò le quiete mani brune di Ivan, e cominciò a spiegare:
«Forse a te non è chiara questa terminologia: cosmopolitismo, nazionalismo borghese, il significato del punto cinque del questionario. Il cosmopolitismo corrisponde pressappoco alla partecipazione al complotto monarchico dell’epoca del primo congresso del Comintern. Del resto tu li hai visti tutti nei lager: chi prendeva il posto di quelli licenziati veniva a sua volta destituito e diventava tuo compagno di tavolaccio. Ma non penso sia cosa che ci minacci, al presente: il processo di sostituzione è terminato. Quanto all’elemento nazionale, esso si è trasferito, in questi decenni, dalla forma della nostra vita ai contenuti; qualcosa di semplice e di grandioso.17 Molta gente, però, non riesce ad afferrarne la semplicità. Vedi, se uno viene messo alla porta, non vuole accettarlo come una normale legge storica, lo vede solo come un’assurdità, un errore. Ma un fatto resta un fatto. I nostri scienziati, i tecnici, hanno creato aerei russi sovietici, reattori ad uranio russi e macchine elettroniche; a questa supremazia doveva corrispondere una supremazia politica: l’elemento russo è penetrato nel campo dei contenuti, nella base, nel fondamento...».
Disse quanto gli erano odiosi i centoneri.18 Ma nello stesso tempo vedeva che Mandel’štam e Chavkin, gente inequivocabilmente dotata, capace, erano accecati; secondo loro tutto quel che succedeva era frutto di antisemitismo, e basta. E persino Pyžov, Rodionov e gli altri non capivano che la faccenda non dipendeva soltanto dalla rozzezza e dall’intolleranza di Lysenko, ma dalla scienza nazionale, che questi uomini nuovi sostenevano.
Ivan Grigor’evič lo fissava con occhi intenti, e Nikolaj Andreevič sentiva agitarsi nell’animo quell’ansia che si prova da bambini quando senti posarsi su di te lo sguardo rattristato degli occhi materni, e percepisci vagamente che non si deve, non è bello parlare così. Nel desiderio di calmare quella sensazione vaga, egli ragionava in modo particolarmente ponderato e affabile.
«Ne ho passate di prove,» disse Nikolaj Andreevič con voce di sincerità e d’afflizione «ho passato tempi difficili, duri! Certo, io non ho risuonato come la “Campana” di Herzen,19 non ho smascherato Berija e gli errori di Stalin; ma sarebbe assurdo anche solo parlare di roba simile».
Ivan Grigor’evič aveva abbassato la testa, e non si riusciva a capire se dormisse, o fantasticasse di qualcosa di remoto, o meditasse sulle parole di Nikolaj Andreevič. Le sue mani erano immobili, la testa infossata nelle spalle. Proprio così era rimasto seduto in treno, il giorno prima, ascoltando i compagni di viaggio.
Nikolaj Andreevič disse:
«Me la passai brutta anche sotto Jagoda e sotto Ežov, adesso invece, che non ci sono né Berija, né Abakumov, né Rjumin, né Merkulov, né Kobulov – comincio effettivamente a rialzare la testa. Prima di tutto dormo tranquillo, senza aspettarmi ospiti notturni. E non soltanto io. Talché involontariamente pensi: dopotutto, non abbiamo sopportato invano quei tempi crudeli. È nata una nuova vita, e vi partecipiamo tutti, ognuno nella misura delle sue forze».
«Kolja, Kolja» disse Ivan Grigor’evič a bassa voce.
Quelle parole irritarono Marija Pavlovna. Insieme al marito, essa aveva notato l’espressione sofferente e cupa sul viso dell’ospite.
Con rimprovero disse al marito:
«Perché hai paura di dire che Mandel’štam e Pyžov sono dei vanitosi. E non c’è da lamentarsi se la vita ha dato loro una lezione. Ringraziamo il cielo che gliel’ha data».
Essa rimproverava il marito, ma il suo rimprovero era diretto all’ospite. Poi, allarmata delle proprie sgarbate parole, disse:
«Adesso vado a preparare il letto. Vanja è molto stanco, non ci avevamo pensato».
Ivan Grigor’evič aveva già capito che la visita al cugino non gli avrebbe procurato sollievo, ma nuova ambascia. Chiese accigliato:
«Di’ un po’, tu l’hai firmata quella lettera di condanna dei medici assassini? Di quella lettera ho inteso nel lager da quelli che si era avuto ancora il tempo di sostituire».
«Sei il solito stravagante...» attaccò a dire Nikolaj Andreevič, ma la parola gli si mozzò in bocca, ed egli tacque.
Si sentiva gelare dentro di sé dall’angoscia, e nello stesso tempo si accorgeva di sudare, di arrossire e che le guance gli ardevano.
«Amico mio caro, amico mio, non solo per voi, laggiù nei lager, anche per noi la vita è stata tutt’altro che facile».
«Dio ne liberi, io non ti giudico,» si affrettò a dire Ivan Grigor’evič «né te, né tutti voi. Qual mai giudice sarei, cosa vai a pensare, cosa vai a pensare. Anzi, al contrario...».
«No, no, non intendevo questo,» disse Nikolaj Andreevič «io intendevo dire com’è importante, in mezzo alle contraddizioni, nella nebbia, nella polvere, non essere ciechi, vedere quanto immensa è la strada; perché a diventar ciechi, si può perdere la ragione».
Ivan Grigor’evič pronunziò, con aria colpevole:
«Il problema è mio, cerca di capire, sono io che evidentemente confondo la vista con la cecità».
«Dove lo mettiamo Vanja?» chiese Marija Pavlova. «Dov’è che starà più comodo?».
Ivan Grigor’evič disse:
«No, no, grazie, non posso restare a dormire da voi».
«Perché mai? Dove andrai, allora? Maša, vieni che lo leghiamo!».
Ivan Grigor’evič esclamò:
«Non bisogna legarmi».
Nikolaj Andreevič tacque, accigliato.
«Scusate, non è mica per quello, semplicemente non posso, ecco... La ragione è un’altra...» disse Ivan Grigor’evič.
«Sai cosa, Vanja...» disse Nikolaj Andreevič, e subito tacque.
Dopo che Ivan Grigor’evič fu uscito, Marija Pavlovna gettò uno sguardo alla tavola, ingombra di buoni bocconcini, alle sedie scostate.
«Lo abbiamo accolto come un re!» disse. «I Nesmejany non li abbiamo accolti meglio».
E invero Marija Pavlovna aveva, stavolta – cosa che avviene di rado alle persone avare –, preparato un ricco pranzo, con una larghezza che superava la splendida generosità delle nature prodighe.
Nikolaj Andreevič si avvicinò alla tavola.
«E sì, se uno è matto, lo è per tutta la vita» disse.
Lei appoggiò le mani alle tempie del marito e, baciatolo sulla fronte, disse:
«Non amareggiarti, non devi, mio incorreggibile idealista».
5
Ivan Grigor’evič si svegliò all’alba, disteso sul ripiano di un vagone senza cuccette riservate; tese l’orecchio al rumore delle ruote, poi, socchiusi gli occhi, prese a scrutare l’oscurità antelucana, che si attardava dietro il finestrino.
Più volte, nei ventinove anni di reclusione, gli era apparsa in sogno la sua infanzia. Una volta aveva sognato una piccola baia: nell’acqua immota, sul fondo ricoperto di sassolini, si muovevano di fianco, con il loro silenzioso incedere subacqueo, alcuni granchietti, che andavano a nascondersi tra le alghe... Lui camminava lentamente sui sassi arrotondati, e avvertiva sotto i piedi il tenero muschio subacqueo, mentre – a mo’ di rivoletti di mercurio – decine di minuscole gocce oblunghe sprizzavano, spargendosi attorno: avannotti di sgombri, di alici... Il sole illuminava i verdi praticelli subacquei: minuscole abetaie; si sarebbe detto che non d’acqua salata, ma di luce fosse colma la graziosa baia.
Aveva fatto quel sogno sul carro merci del convoglio dei carcerati e, sebbene fosse trascorso da allora un quarto di secolo, egli ricordava la disperazione che l’aveva colto al vedere la grigia luce invernale e i grigi visi dei detenuti, all’udire oltre la parete del vagone lo scricchiolio degli stivali sulla neve, il rintronare dei colpi di martello dei sorveglianti sul fondo del vagone.
Talvolta gli tornava in mente la casa dinanzi al mare, i rami del vecchio ciliegio allargati sopra il tetto, il pozzo...
Affinando tormentosamente la memoria, si rammentava il lucido spessore di una foglia di magnolia, una pietra piatta in mezzo al ruscello... Ricordava la calma e il fresco della stanza intonacata di gesso, il disegno della tovaglia. Ricordava quando leggeva, le gambe rannicchiate sul divano – l’incerata di cui il divano era ricoperto dava un piacevole senso di fresco, nelle calde giornate estive. Talvolta cercava di ricordare il viso della madre, e il suo cuore si riempiva di tristezza, allora serrava le palpebre, e dagli occhi chiusi sgorgavano lacrime, come quando da bambini si cerca di fissare il sole.
Ricordava facilmente le montagne, in ogni particolare, quasi sfogliasse un libro noto, che si apre da solo alla pagina desiderata. Aprendosi un varco tra i cespugli di more e i rami curvi degli olmi, scivolando sulla terra screpolata di un sassoso colore giallo-grigio, egli raggiungeva faticosamente il valico e, gettato uno sguardo alle spalle, verso il mare, s’inoltrava nella fresca semioscurità del bosco... Querce possenti innalzavano fino al cielo, sui loro grossi rami, aeree montagnole di foglie digitate, un silenzio umido regnava tutto attorno.
Alla metà del secolo precedente il litorale era popolato dai circassi.
Un vecchietto greco, padre dell’ortolano Mefodij, ricordava ancora i giardini dei popolosi villaggi circassi, veduti da ragazzo.
Dopo la conquista russa della costa, i circassi se ne erano andati, e la vita sulle montagne rivierasche si era spenta. Qua e là, tra le querce, erano cresciuti – inselvatichiti e contorti – alberi di prugne, pere, ciliegie; le pesche e le albicocche, invece, non si trovavano più: la loro breve età era trascorsa.
Sparse nel bosco stavano cupe pietre annerite dal fumo, resti di focolari distrutti; nei cimiteri abbandonati, invece, conficcati fino a metà nella terra, andavano annerendosi i cippi sepolcrali.
Tutto ciò che era inanimato, le pietre, il ferro, veniva, con gli anni, assorbito dalla terra, si scioglieva in essa, mentre ne sprizzava fuori, in senso contrario, la verde vita vegetale. Opprimente pareva al ragazzo il silenzio che gravava sopra i freddi focolari. Tornando a casa, il sentore di fumo della cucina, l’abbaiare dei cani, il chiocciare della gallina, gli erano particolarmente cari. Una volta si era avvicinato alla madre, seduta accanto al tavolo con un libro, e l’aveva abbracciata, premendo la testa contro le sue ginocchia.
«Non stai bene?» gli aveva chiesto lei.
«No, sto bene,» aveva borbottato «sono così contento». E baciando il vestito della madre, le sue mani, era scoppiato a piangere.
Non era riuscito a spiegare alla mamma ciò che sentiva: era come se nella penombra boschiva qualcuno si lamentasse, cercasse la gente scomparsa, spingesse lo sguardo oltre gli alberi, tendendo l’orecchio alle voci dei pastori circassi, al pianto dei fanciulli, annusando l’aria per sentire se odorava di fumo, di frittelle calde...
Era per questo che provava non solo gioia ma anche vergogna nel percepire, tornando dal bosco, l’incanto della casa paterna...
Gli parve che la madre non avesse capito nulla delle sue spiegazioni, perché esclamò:
«Stupidello mio, che vita difficile avrai, con un cuore così sensibile, così vulnerabile».
A cena il padre, scambiata un’occhiata con la madre, disse:
«Vanja, tu certamente sai che la nostra Soči si chiamava, prima, Guardia Dachovskij, e i villaggi sulla montagna si chiamavano “Compagnia prima”, “Compagnia seconda”...».
«Sì» fece lui, e sbuffò capricciosamente.
«Erano gli accampamenti delle truppe russe, quando marciavano portavano non solo le armi, ma anche asce e badili, per aprirsi una strada attraverso la boscaglia, dove vivevano montanari selvatici, feroci».
Il padre si grattò la barba sotto il mento, e aggiunse:
«Scusa i paroloni: essi aprivano la strada alla Russia; e qui noi ci siamo stabiliti... Ecco, io contribuii alla costruzione delle scuole mentre, poniamo, Jakov Jakovlevič piantò vigneti, frutteti, altri ancora costruirono qui ospedali, tracciarono strade. Il progresso esige delle vittime, è inutile piangere sull’inevitabile. Capisci cosa intendo?».
«Sì,» rispose Vanja «ma i frutteti, qui, c’erano anche prima di noi, solo dopo si sono inselvatichiti».
«Sì, sì, mio caro,» aveva detto il padre «quando si taglia il bosco, volano le schegge. E d’altronde i circassi non vennero cacciati via di qui, furono loro stessi ad andarsene in Turchia. Avrebbero potuto restare e far tutt’uno con la cultura russa. In Turchia invece fecero la fame, e molti morirono...».
Il passato gli tornava alla mente: rivedeva nel sogno la terra natia, udiva voci note, e il cane da guardia, dagli occhi rossi e lacrimosi per la vecchiaia, che si alzava per andargli incontro.
Lo aveva risvegliato il rombo dell’oceano della taigà, su cui si scatenava la tempesta invernale.
Ed ecco, trascorrevano adesso i giorni della sua vita da libero, e lui seguitava ad attendere il ritorno di qualcosa di buono, di giovane.
Quella mattina si era svegliato, sul treno, con una sensazione di irrimediabile solitudine. L’incontro del giorno precedente con il cugino lo aveva riempito di amarezza, e Mosca lo aveva assordato, soffocato. La mole degli altissimi edifici, il flusso delle macchine, i semafori, la folla che marciava sui marciapiedi, tutto gli era estraneo, inconsueto. La città gli era parsa un enorme meccanismo ammaestrato che ora s’immobilizzava al segnale rosso, ora ricominciava a muoversi col verde... Quante cose aveva visto la Russia nei mille anni della sua storia. Negli anni sovietici poi, aveva veduto formidabili vittorie militari, grandiosi cantieri, nuove città, dighe che sbarravano il corso del Dnepr e della Volga, un canale che univa i mari, e possenti trattori, e grattacieli... Una cosa sola la Russia non aveva visto in mille anni: la libertà.
Prese un filobus per andare nella parte sud-ovest di Mosca. Là, nel fango dei campi e fra gli stagni non ancora prosciugati, spuntavano enormi costruzioni di otto e dieci piani. Le isbe paesane, gli orticelli, i piccoli depositi vivevano i loro ultimi giorni, stretti dall’avanzata possente delle pietre e dell’asfalto.
Nel caos, tra il frastuono dei camion da cinque tonnellate, si indovinavano le future strade della nuova Mosca. Ivan Grigor’evič vagò per la nascente città, priva ancora di marciapiedi e di pavimentazione, dove la gente tornava a casa per viottoli tortuosi, tra mucchi d’immondizia. Da tutte le parti, sulle case, pendevano le medesime insegne: «Carne» e «Parrucchiere». Nel crepuscolo le insegne verticali, con su scritto «Carne», brillavano d’un fuoco rosso, mentre le insegne «Parrucchiere» lucevano d’un verde intenso.
Quelle insegne, spuntate con i primi abitanti, sembravano rivelare la natura carnale dell’uomo.
Carne, carne, carne... L’uomo divora carne. Senza carne l’uomo non può vivere. Qui non c’erano ancora biblioteche, teatri, cinema, sartorie, mancavano persino ospedali, farmacie, scuole – ma subito, di colpo, tra le pietre, si era acceso un rosso fuoco: carne, carne, carne...
E subito dopo lo smeraldo delle insegne da parrucchiere. L’uomo mangia carne, e si copre di peli.
Arrivò alla stazione che era notte; lo informarono che alle due sarebbe partito l’ultimo treno per Leningrado, comprò il biglietto, ritirò la roba dal deposito bagagli.
Si meravigliò del senso di pace che trovò in uno scompartimento freddo e vuoto.
Il treno attraversò i sobborghi di Mosca; al finestrino balenavano oscuri boschetti e radure autunnali; e Ivan Grigor’evič provò un senso di sollievo per essere riuscito a sfuggire a quella mole di elettricità, di edifici e di automobili che era Mosca, per non dover prestare orecchio alle parole di suo cugino sul corso razionale della storia, che aveva sgombrato un posto per lui, Nikolaj Andreevič. Sul lucido sedile si rifletté, come sull’acqua, il fascio di luce del fanale della donna-controllore.
«Ce l’avete il biglietto, babbino?».
«Sì, l’ho già mostrato».
Per anni aveva pensato al momento in cui, raggiunta la libertà, si sarebbe incontrato col cugino, l’unica persona al mondo che conoscesse la sua infanzia, sua madre e suo padre.
Al mattino si risvegliò con una sensazione di così completa solitudine, da risultare insopportabile a qualsiasi essere vivente di questa terra.
Stava andando nella città dove aveva trascorso i suoi anni universitari, dove viveva il suo amore.
Quando, molti anni addietro, lei aveva smesso di scrivergli, lui l’aveva pianta – sicuro che solo la morte avesse potuto interrompere la loro corrispondenza. Lei invece viveva, era viva...
6
Ivan Grigor’evič restò a Leningrado tre giorni. Due volte diresse i suoi passi verso l’università, si recò all’Ochta,20 al Politecnico, a cercare le vie dove abitavano i suoi conoscenti, ma non trovò né le case né le vie, distrutte al tempo dell’assedio; talvolta però trovava sia la strada, sia la casa, ma sulle tavolette nere appese nell’androne non c’erano cognomi a lui noti.
Andando per quei luoghi conosciuti, talvolta era calmo, svagato, attorniato dalle persone del carcere, dai discorsi del lager; talvolta invece, trafitto dai ricordi di gioventù, si arrestava dinanzi a una casa sconosciuta, a un incrocio a lui noto. Era stato all’Ermitage, e ne era uscito pieno di noia e di freddo. Era mai possibile che i quadri fossero rimasti così belli, mentre lui si trasformava in un vecchio galeotto? Perché non erano cambiati, perché non erano invecchiati i volti delle divine madonne, e i loro occhi non s’erano fatti ciechi dal piangere? Forse, da quel restare immobili, perenni, derivava loro non forza, ma debolezza? Dipendeva forse da questo se l’arte tradiva l’uomo che l’aveva creata?
Una volta la forza di un ricordo improvviso fu particolarmente penetrante. Eppure sembrava un ricordo casuale, senza importanza: un giorno aveva aiutato una donna anziana e zoppicante a portare la borsa della spesa fino al quarto piano e, corso giù per la scala buia, aveva all’improvviso tirato un sospiro di gioia: era primavera, con il suo sole marzolino, le sue pozze d’acqua. Arrivato alla casa dove tuttora viveva Anja Zamkovskaja, gli parve incredibile rivedere le alte finestre e i muri rivestiti di granito, il biancheggiare nell’oscurità dei gradini di marmo, la rete metallica attorno all’ascensore. Quante volte aveva ricordato quella casa. Egli riaccompagnava Anja, dopo le passeggiate notturne, e aspettava finché la sua finestra si illuminava. Lei gli diceva: «Dovessi anche tornare dalla guerra cieco, con un moncone, io sarò sempre felice del mio amore».
Ivan Grigor’evič vide dei fiori alla finestra socchiusa. Per un po’ rimase fermo sotto il portone, poi riprese a camminare. Il suo cuore batteva regolare: laggiù, dietro il filo spinato, quella donna, da lui creduta morta, era più vicina al suo cuore di oggi, quando si era fermato sotto la sua finestra.
Riconosceva e non riconosceva la città, molte cose gli sembrava non fossero affatto cambiate, quasi Ivan Grigor’evič fosse passato per quelle vie non più di qualche ora addietro; molte altre invece erano sorte di recente – case, vie – ma di ciò che era sparito nulla era rinato.
Ivan Grigor’evič non capiva che non soltanto la città era cambiata, era cambiato anche lui. Ivan Grigor’evič – il suo interesse, il suo sguardo indagatore – era diventato un altro.
Adesso egli vedeva nella città ciò che prima non vedeva, quasi avesse traslocato da un piano della vita a un altro. I suoi occhi scoprivano ora mercati di roba vecchia, commissariati della milizia, uffici passaporti,21 bettole, uffici di collocamento, annunci di offerte di lavoro, ospedali, stanze per passeggeri in transito... Mentre il mondo dei cartelloni teatrali, delle sale di concerto, delle librerie artigiane, degli stadi, delle aule universitarie, delle sale di lettura e delle esposizioni si era dileguato per lui, scomparso in una quarta dimensione.
Per un malato cronico esistono in città solo le farmacie e gli ospedali, gli ambulatori e le commissioni di periti di medicina del lavoro. Per l’ubriacone, invece, la città è fatta di mezzi litri di vodka da comperare in tre. Mentre per l’innamorato consiste in lancette di orologi cittadini che segnano l’ora degli appuntamenti, di panchine nei viali, di monete da due copeche per il telefono pubblico.
Un tempo in quelle strade c’era dappertutto gente conosciuta, finestre di compagni illuminate alla sera. Ora invece dalle brande del carcere gli sorridevano occhi noti, e pallide labbra gli sussurravano:
«Salute, Ivan Grigor’evič!».
Qui, in questa città, un tempo egli conosceva di faccia i commessi dei negozi di libri e di generi alimentari, i giornalai dei chioschi, le venditrici di sigarette.
A Vorkuta gli si era avvicinato una volta un sorvegliante e gli aveva detto: «Ma io ti conosco, eri nel carcere di transito, a Omsk».
Oggi, a Leningrado, in una folla di migliaia di persone, non aveva visto un solo conoscente e s’era accorto di non avere niente in comune con quegli sconosciuti. Nella vasta tipologia dei visi si era prodotto un gran cambiamento.
I legami, visibili e invisibili, erano scomparsi, strappati; a strapparli era stato il tempo, le deportazioni di massa dopo l’assassinio di Kirov, le tempeste; la neve e la polvere del Kazachstan li avevano ricoperti, la morte dell’assedio li aveva distrutti: non c’erano più. Egli camminava solo, un estraneo...
Lo spostamento in massa di milioni di persone aveva fatto sì che le vie di Leningrado fossero piene di gente della provincia, dagli occhi chiari e gli zigomi sporgenti, mentre nelle baracche dei lager era capitato spesso a Ivan Grigor’evič d’incontrare mesti pietroburghesi dall’erre moscia.
La prospettiva Nevskij e la campagna, le case di legno della provincia, erano andate una incontro all’altra, mescolandosi non solo sugli autobus e negli appartamenti, ma anche sulle pagine dei libri e delle riviste, nelle sale per conferenze degli istituti scientifici. Guardando le finestre della polizia di Leningrado, ascoltando – seduto alla sua opulenta tavola – i discorsi del cugino, osservando l’insegna dell’ufficio passaporti, Ivan Grigor’evič aveva percepito l’odore di caserma dei lager... E aveva confusamente pensato che non occorreva più il filo spinato, che la vita al di qua del filo poteva essere comparata, nella sua essenza più nascosta, a quella delle baracche del lager.
L’enorme caldaia, avvolta da fumo e fiamme, ribolliva, gorgogliava, stronfiava caoticamente e molti pensavano, ognuno per conto proprio, di essere i soli a capire la legge fisica che portava a ebollizione quella grande caldaia, di essere i soli a capire come veniva cotta la kaša, e a chi sarebbe toccato mangiarla.
Ivan Grigor’evič si trovò di nuovo, coi suoi scarponi da soldato, dinanzi al cavaliere cinto d’una corona e scalzo, come un dio. Trent’anni addietro, giovinetto, egli era passato di qui, e il bronzeo Pietro era pieno di possanza. Ecco, finalmente Ivan Grigor’evič aveva incontrato qualcuno di sua conoscenza.
Gli sembrò che né trent’anni addietro, e neppure centotrenta anni fa, quando Puškin aveva portato il suo eroe su questa piazza, il divino Pietro era mai stato così grande come oggi. Non c’era al mondo forza più possente di quella riassunta in lui, e da lui espressa: la forza maestosa di uno Stato eccelso. Essa cresceva, si sollevava, regnava sui campi, sulle fabbriche, sugli scrittoi dei poeti e degli studiosi, sui cantieri dei canali e delle dighe, sulle cave di pietra, sulle imprese per il disboscamento e il taglio del legno – capace, nella sua possanza, di assoggettare anche la vastità dello spazio, e le segrete profondità del cuore dell’uomo che, affascinato, le faceva dono della propria libertà, del desiderio stesso di libertà.
«San-Pietroburgo, san-Passaporto! San-Pietroburgo, san-Passaporto!» ripeté Ivan Grigor’evič.
Quelle parole si erano assurdamente accordate fra di loro, esprimendo il legame tra il grande cavaliere e lo straccione uscito dal lager.
Ivan Grigor’evič pernottò alla stazione, nella sala per i passeggeri in transito. Durante tutta la giornata non aveva speso più di un rublo e mezzo o due, e non aveva fretta di lasciare Leningrado.
Il terzo giorno incontrò uno che conosceva e che aveva spesso ricordato quando viveva nei lager.
Si riconobbero subito, sebbene l’Ivan Grigor’evič di oggi in nulla rassomigliasse allo studente universitario di terz’anno, e il Vitalij Antonovič Pinegin da lui incontrato, col cappello di feltro e l’impermeabile grigio, non rassomigliasse al giovanotto dal consunto giubbotto studentesco.
Vedendo lo stupore di Pinegin, Ivan Grigor’evič esclamò:
«Vedo che mi avevi già annoverato tra i morti!».
Pinegin allargò le braccia.
«Be’, una decina d’anni fa sentii dire che tu...».
Con i suoi occhi vivaci e intelligenti frugava nello sguardo di Ivan Grigor’evič.
«Non agitarti,» disse Ivan Grigor’evič «non sono tornato dall’altro mondo, né sono un evaso, che sarebbe ancor peggio. Ho il passaporto e tutto il resto, proprio come te».
Quelle parole indignarono Pinegin.
«Quando incontro un vecchio compagno, non mi interesso del suo passaporto».
Aveva raggiunto una posizione molto alta, ma nell’animo era rimasto un bravo ragazzo.
Di qualunque cosa parlasse – dei suoi figli, del fatto che «sei ben cambiato, ma egualmente ti ho riconosciuto subito» – i suoi occhi seguivano Ivan Grigor’evič, avidi e affascinati.
«In breve, questo è tutto...» esclamò Pinegin. «Cosa raccontarti ancora?».
«Faresti meglio a raccontarmi...» e per un attimo Pinegin si sentì raggelare; ma naturalmente Ivan Grigor’evič non disse niente del genere.
«Vedi, non so nulla di te» riprese Pinegin.
E di nuovo aspettò, non sia mai Ivan Grigor’evič gli rispondesse: «Ma se tu stesso, al momento buono, hai saputo raccontare tante cose di me; cosa vuoi che io ti dica, adesso?».
Ma Ivan Grigor’evič tacque, limitandosi a fare con la mano un gesto annoiato.
E d’improvviso Pinegin capì: Van’ka non sapeva niente, non poteva sapere. Nervi, nervi a posto... E dire che proprio quel giorno doveva mandare a rivedere la macchina. Poco tempo prima gli era per l’appunto tornato in mente Ivan, ed aveva pensato: chissà che qualche parente non si dia da fare per ottenere la sua riabilitazione postuma. Passare da anima morta ad anima viva! Ed ecco qua, in pieno giorno, Ivan! Vanečka! Ha scontato trent’anni, e adesso avrà in tasca un pezzo di carta: «per non aver commesso il fatto».
Scrutò di nuovo negli occhi Ivan Grigor’evič, e si convinse definitivamente che Ivan non sapeva nulla. Provò vergogna dei battiti violenti del cuore, del sudore freddo; per poco non si era messo a piagnucolare, a battersi il petto.
E un senso di sicurezza, che Ivan non gli avrebbe sputato in faccia, né chiesto di render conto del suo comportamento, illuminò Pinegin. Con una sorta di riconoscenza, a lui stesso non del tutto chiara, disse:
«Ascolta, Ivan, alla buona, come fra operai – mio nonno era fabbro – forse hai bisogno di soldi? Credimi, di tutto cuore, da camerata...».
Senza rimprovero, con viva, rattristata curiosità, Ivan Grigor’evič guardò Pinegin negli occhi, e parve a Pinegin – per un secondo, solo un secondo, neanche due – gli parve che le decorazioni, la dacia, il potere, la forza, la bella moglie, i figli così promettenti che studiavano fisica nucleare – tutto, tutto avrebbe dato, pur di non sentire su di sé quello sguardo.
«Be’, statti bene, Pinegin» disse Ivan Grigor’evič, e si diresse verso la stazione.
7
Chi è colpevole, chi pagherà...
Bisogna riflettere, non bisogna affrettarsi a rispondere.
Eccole, le false perizie di ingegneri e letterati, i discorsi che smascheravano i nemici del popolo, eccole le conversazioni a cuore aperto, le confessioni amichevoli – che diventavano denunce e rapporti di spie, di collaboratori segreti della polizia, degli informatori.
Denunce che precedevano il mandato di cattura, accompagnavano l’inchiesta, influivano sulla sentenza. Quei megaton di denunce menzognere determinavano, a quanto pare, i nomi nelle liste di kulaki da espropriare, delle persone da privare del diritto al voto, al passaporto interno, da deportare, da fucilare.
A un capo della catena due uomini discutevano a un tavolo, sorseggiando il tè; più tardi, alla luce di una lampada, sotto un confortevole paralume, veniva scritta una ben congegnata dichiarazione; oppure in un’assemblea di kolchoz un attivista pronunciava un discorso alla buona, e all’altro capo della catena c’erano occhi dementi, reni fracassate, crani spaccati da una pallottola, cadaveri di morti di scorbuto stesi sulla terra battuta dei miseri obitori dei lager, dita dei piedi congelati nella taigà, purulente di cancrena.
Al principio era il verbo... In verità lo era.
Come comportarsi con gli assassini delatori?
Ecco, è tornato, dopo vent’anni di lager, un uomo dalle mani tremanti e gli occhi infossati del martire: il Giuda numero uno. E tra i suoi amici corre un mormorio, pare che a suo tempo, durante gli interrogatori, si sia comportato male. Alcuni gli tolgono il saluto. I più ragionevoli sono gentili con lui, quando lo incontrano, ma non lo invitano a casa. I più intelligenti – di idee larghe e profonde – pur invitandolo a casa, non lo lasciano però entrare nel loro animo, che resta chiuso dinanzi a lui.
Tutta gente con tanto di dacia, conto in banca, decorazioni, macchina. Certo, lui è magro, mentre loro sono grassi – loro però, in effetti, non si sono comportati male durante gli interrogatori. Più esattamente, non ebbero neanche occasione di comportarsi da vigliacchi durante gli interrogatori, perché non furono interrogati. Ebbero fortuna, non li arrestarono. In cosa dunque consiste effettivamente la vera superiorità spirituale di quei grassi di fronte a questo magro? Fu il caso o la legge a stabilire la loro sorte?
Lui era un uomo qualunque. Beveva il tè, mangiava la frittata, amava discorrere con gli amici dei libri che aveva letto, andava al Teatro dell’Arte, dimostrava talvolta una certa bontà. Bisogna dire che era molto impressionabile, nervoso, insicuro.
Ora quest’uomo venne sottomesso a forti pressioni. Con lui non solo alzarono la voce, ma lo picchiarono, gli impedirono di dormire, non gli diedero da bere mentre gli facevano mangiare aringhe salate, lo terrorizzarono minacciando di condannarlo a morte. Epperò, checché si dica, egli aveva fatto una cosa terribile: aveva calunniato un innocente. A dire la verità, quello, il calunniato, scampò la prigione, mentre lui, che era stato costretto a calunniare, si fece da innocente dodici anni di lavoro forzato nei lager, da cui tornò più morto che vivo, fiaccato, povero: uno straccio. Ma aveva calunniato...
Non affrettiamoci, riflettiamo seriamente su questo delatore.
Ed ecco il Giuda numero due. Questo non ha trascorso in carcere neppure un giorno. Era considerato intelligente, un vero Crisostomo, ed ecco che gente tornata dal lager più morta che viva, racconta che lui è un confidente della polizia. Che ha dato una mano a rovinare molte persone. Per anni ha intrattenuto colloqui confidenziali con i propri amici, per poi correre a buttar giù appunti da consegnare alle autorità. Le sue deposizioni non gli venivano estratte con la tortura, era lui stesso a portare abilmente gli interlocutori su temi pericolosi. Due, da lui calunniati, non fecero più ritorno dal lager; uno venne fucilato dietro sentenza del collegio militare; quelli che tornarono, erano affetti da una serie di malattie, per ognuna delle quali la severissima Commissione Medica del Lavoro riconosce l’invalidità di primo grado.
Lui invece ha messo su pancia, si è creato la fama di buongustaio, di conoscitore di vini georgiani. E ha lavorato in Belle Arti, tra l’altro raccoglie edizioni introvabili di poesia antica...
Ma anche qui non ci affretteremo, rifletteremo prima di emettere la sentenza.
Il fatto è che da bambino egli aveva patito spaventi indicibili: suo padre, un uomo ricco, era morto di tifo petecchiale nel 1919, in un campo di concentramento. Una zia era emigrata a Parigi col marito generale, il fratello maggiore aveva combattuto dalla parte dei bianchi. Sin dall’infanzia egli era vissuto nel terrore. La madre rabbrividiva dalla paura dinanzi alla polizia, al capoalloggio, al capocaseggiato, al segretario del soviet urbano. Ogni giorno e ogni ora lui e i suoi avvertivano i propri limiti di classe, il proprio peccato originale... Frequentando la scuola, egli trepidava dinanzi al segretario di cellula, a Galja, la graziosa capogruppo dei pionieri; gli pareva che lei lo guardasse con ripugnanza, come un verme intoccabile. Aveva il terrore che lei notasse il suo sguardo innamorato.
Adesso si comincia a capire qualcosa. Egli era innamorato della forza del nuovo mondo: come un uccellino, fissava i suoi begli occhietti nei grandi occhi scintillanti della luminosa novità. Aveva una tal voglia di essere tutt’uno con lei. Ed ecco che la novità lo aveva accolto. Il passerotto non aveva ancora aperto il becco, né battuto le alucce, che già quel mondo minaccioso si era trovato ad aver bisogno della sua intelligenza, del fascino che gli era proprio. Tutto egli portò in dono all’altare della patria.
Tutto questo era vero, naturalmente. Ma quale canaglia, quale canaglia si era dimostrato! Facendo l’informatore, egli non dimenticava se stesso: mangiava saporitamente, si trattava bene. Eppure seguitava a sentirsi indifeso – un tipo simile ha bisogno della balia, della mogliettina. Come avrebbe mai potuto venire a capo di quella forza colossale che aveva piegato mezzo mondo, che aveva messo sossopra tutto un impero? Con la sua trepida delicatezza egli era come un ricamino, bastava sfiorarlo appena perché lui si confondesse, gli occhi pieni di una dolente espressione.
Ed ecco, questo mortale serpentello di palude si avvicinava sinuoso, a procurare grandi tormenti alla gente.
Rovinava gente come lui, amici di vecchia data, care persone riservate, intelligenti, timide. Lui solo aveva la chiavetta che apriva i loro cuori. Perché lui capiva tutto: lui piangeva, leggendo Il vescovo di Čechov.
Ma aspettiamo ancora, riflettiamo; non emetteremo la sentenza senza aver prima ponderato.
Ed ecco un nuovo compagno – il Giuda numero tre. Ha una voce scattante, rauca, da uomo di mare. Uno sguardo tranquillo, indagatore. Ha la sicurezza di chi è padrone della propria vita. Ora lo tuffano nel lavoro ideologico, ora nell’ortofrutticolo. I dati del suo questionario biografico sono d’una bianchezza nivea – brillano di luce propria. La parentela: operai d’officina e una poverissima ascendenza contadina.
Nel 1937 quest’uomo scrisse di getto, d’un sol tratto, duecento denunce. Multiforme, il suo sanguinoso elenco: commissari del tempo della guerra civile, un cantautore, il direttore di una fonderia di ghisa, due segretari di comitati rionali, un vecchio ingegnere non iscritto al partito, tre direttori – uno di un giornale, due di una casa editrice –, il responsabile di una mensa riservata, un insegnante di filosofia, il responsabile di un ufficio di partito, un professore di botanica, un fabbro condominiale, due collaboratori della sezione agricola provinciale... Impossibile fare l’elenco completo.
Tutte le sue denunce erano indirizzate contro gente sovietica, non degli ex; le sue vittime erano membri del partito, gente che aveva preso parte alla guerra civile, attivisti. Si era specializzato, in particolare, nei membri del partito più fanatici: li colpiva in piena faccia, brutalmente, con una rasoiata mortale.
Di quei duecento, pochi tornarono; alcuni vennero fucilati, altri indossarono la giubba di legno,22 chi morì di fame, chi venne fucilato in occasione di epurazioni eseguite nei lager; quelli che sono tornati – mutilati nel fisico e nello spirito – trascinano come possono la loro libera esistenza.
Per lui invece il 1937 divenne il tempo della vittoria. Lui, un giovanottello poco istruito e dallo sguardo volpino, aveva l’impressione che tutti, attorno, fossero più forti di lui, sia per cultura, sia per un passato eroico. Meno d’un centesimo egli era considerato, da coloro che avevano intrapreso e compiuto la rivoluzione. Eppure, con quale fantastica facilità, ad un solo suo tocco, decine di persone coperte di gloria rivoluzionaria venivano rovesciate!
A partire dal 1937 egli era dunque bruscamente salito. Per l’appunto in lui si era manifestata la grazia, la preziosissima essenza del nuovo.
Tutto dunque è chiaro, quanto a lui: è sulla pelle, sulle spaventose sofferenze degli altri che costui ha raggiunto il grado di deputato e di membro del Politbjuro.
Ma no, no, non affrettiamoci, dobbiamo capire, riflettere prima di emettere la sentenza. Perché egli non sapeva quel che faceva.
I vecchi maestri gli avevano detto un tempo, a nome del partito:
«Quale sciagura! Siamo attorniati dai nemici! Si fingono fedeli uomini di partito, ex militanti clandestini, dichiarano di aver partecipato alla guerra civile, e invece sono nemici del popolo, collaboratori dei servizi segreti stranieri, provocatori...». Il partito gli diceva: «Tu sei giovane e puro, io credo in te, ragazzo, aiutami o sono finito, aiutami a vincere quella canaglia impura...».
Il partito gli urlava, pestando i piedi nei suoi stivali staliniani: «Se ti mostri indeciso, ti metti allo stesso livello di quei degenerati, e io ti ridurrò in polvere! Ricorda, figlio d’un cane, la buia isba nella quale sei nato, fui io a portarti alla luce: rispetta il voto d’obbedienza; il Grande Stalin, il padre tuo, ti ordina: “morte a loro”».
No, no, egli non ha compiuto vendette personali... Lui, un komsomolec di campagna, non credeva in Dio. Altra era la sua fede: la fede nell’implacabile mano punitrice del grande Stalin. V’era in lui la cieca obbedienza del credente. V’era in lui riconoscenza e timidezza di fronte a quella grandiosa forza, ai geniali condottieri Marx, Engels, Lenin, Stalin. Lui, un soldatino del grande Stalin, si comportava secondo il suo volere.
Ma, naturalmente, c’era in lui anche un’ostilità biologica, un’istintiva avversione per gli uomini della generazione intellettuale, fanatica, rivoluzionaria, contro i quali veniva aizzato.
Lui adempiva il suo dovere, non attuava vendette, ma scriveva denunce per spirito d’autoconservazione. Egli si era guadagnato un capitale più prezioso dell’oro o della proprietà terriera: la fiducia del partito. Lui sapeva che nella vita sovietica la fiducia del partito è tutto: forza, onori, potere. E credeva che la sua menzogna fosse di vantaggio alla suprema verità, attraverso la denuncia egli intravedeva il vero.
Ma si può fargliene una colpa, quando teste ben diverse dalla sua non riuscivano a sbrogliarsela: dov’era la menzogna, e dove la verità? Quando anche i puri di cuore rimanevano perplessi e impotenti: cosa è bene? cosa è male?
Egli credeva o, più esattamente: voleva credere; più esattamente ancora: non poteva non credere.
V’era qualcosa, in questa oscura faccenda, che non gli piaceva, ma che volete: il dovere! E del resto qualche altra cosa in quell’orribile faccenda gli piaceva, lo inebriava, lo attraeva. «Ricorda,» gli dicevano i maestri «tu non hai né padre, né madre, né fratelli, né sorelle: tu hai solo il partito».
E si rafforzava in lui una strana, penosa sensazione: nel suo non pensare con la propria testa, nella sua obbedienza, egli aveva acquisito non debolezza, ma una minacciosa forza.
E nei suoi occhi cattivi di generale, nella sua scattante voce autoritaria, trapelava l’ombra di una natura completamente diversa che viveva segreta in lui, una natura stupefatta, frastornata, nutrita e abbeverata da secoli di schiavitù russa, di arbitrio asiatico...
Sì, sì, anche qui dobbiamo meditare. Ché è terribile condannare anche un essere terribile.
Ma ecco un nuovo compagno – il Giuda numero quattro.
Lui è un inquilino di appartamenti in coabitazione, un impiegato medio-piccolo, un attivista di kolchoz. Ma chiunque egli sia, il suo viso è sempre lo stesso; sia egli giovane o vecchio, brutto o prestante come un bogatyr’23 russo dalla colorita carnagione – lo si riconosce di colpo. È un borghesuccio, un avido accaparratore di oggetti, fanaticamente interessato alle cose materiali. Il suo fanatismo nel procurarsi un divano-letto, del grano saraceno, una credenzina polacca, del materiale da costruzione scarseggiante, manufatti importanti – è paragonabile per la sua intensità al fanatismo di Giordano Bruno e di Andrej Želiabov.24
Egli è il creatore di un imperativo categorico opposto a quello di Kant: l’uomo, l’umanità rappresentano sempre per lui un mezzo nella sua caccia agli oggetti. I suoi occhi – azzurri o neri che siano – hanno un’espressione perpetuamente tesa, offesa e irritata. Qualcuno gli ha sempre pestato i piedi, ed egli ha immancabilmente bisogno di prendersela con qualcuno.
La passione dello Stato, di smascherare i nemici del popolo, è per lui una benedizione. Essa è come un grande aliseo che soffi sull’oceano, venuto a gonfiare d’un gran vento propizio la sua piccola vela gialla. E a prezzo delle sofferenze di quelli che rovina, lui ottiene ciò che gli è necessario: una superficie abitabile supplementare, un aumento di stipendio, l’isba del vicino, mobili polacchi, un garage riscaldato per la sua Moskvič, il giardinetto...
Egli disprezza i libri, la musica, le bellezze della natura, l’amore, la tenerezza materna. Solo oggetti, unicamente e solo oggetti.
Scrive una denuncia contro un collega d’ufficio che ha suscitato la sua gelosia ballando con sua moglie; contro un tipo spiritoso che a tavola lo ha preso in giro; e persino contro un vicino, che lo ha casualmente urtato nella cucina comune.
Due particolarità lo contraddistinguono: egli è un volontario, non lo hanno spaventato, costretto; lui stesso, di propria volontà, fa le denunce – non occorre terrorizzarlo. In secondo luogo egli vede nella denuncia un proprio diretto, evidente vantaggio.
E tuttavia, trattieni il pugno pronto a colpire.
Vedi, la sua passione per gli oggetti nasce dalla povertà. Oh, lui potrebbe raccontare di una stanza di otto metri quadrati, dove dormono undici persone, dove si sente russare un paralitico, mentre accanto frusciano e gemono due giovani sposi, e una vecchina biascica le sue preghiere, e il pupo che si è fatto la pipì addosso attacca a piangere.
Egli potrebbe raccontare del bigio pane campagnolo striato dal verde delle foglie triturate, della minestra alla moscovita – fatta con le patate che costano meno, perché congelate – la quale torna sulla tavola tre volte al giorno.
Potrebbe raccontare della casa senza un solo oggetto bello, delle sedie con il legno compensato al posto del sedile, dei bicchieri di grosso vetro opaco, dei cucchiai di stagno e delle forchette a due denti, della biancheria a toppe sovrapposte, del sudicio impermeabile di gomma, sotto il quale si indossa, a dicembre, una stracciata fodera trapunta.
Egli potrebbe raccontare di come attendeva l’autobus, nell’oscurità dei mattini invernali, dell’implacabile ressa nel tram, dopo la terribile ristrettezza di spazio dell’abitazione...
Non sarà stata magari la sua bestiale esistenza a far nascere in lui quella bestiale passione per gli oggetti, per una tana spaziosa? Non sarà forse a causa della sua vita ferina che egli è diventato una belva?
Sì, sì, è tutto così, naturalmente. Ma va notato che egli viveva non peggio di altri; che, pur vivendo male, egli stava sempre meglio di tanti e tanti.
Eppure quei tanti e tanti altri non fecero quel che fece lui.
Riflettiamoci con calma, la sentenza verrà dopo.
ACCUSATORE. Confermate di avere presentato denunce contro cittadini sovietici?
INFORMATORI E DELATORI. Sì, in certo qual modo.
ACCUSATORE. Vi confessate colpevoli della fine di innocenti cittadini sovietici?
INFORMATORI E DELATORI. No, lo neghiamo categoricamente. Lo Stato aveva già votato quella gente alla rovina; noi abbiamo lavorato, diciamo così, alla cornice esteriore. In realtà, qualsiasi cosa noi scrivessimo, comunque la scrivessimo, che accusassimo o scagionassimo, quella gente era già condannata dallo Stato.
ACCUSATORE. Eppure voi scriveste talvolta di vostra iniziativa. In tali casi foste voi a indicare la vittima.
INFORMATORI E DELATORI. Quella nostra libertà di scelta è apparente. La gente veniva distrutta con metodo statistico. Venivano preparate allo sterminio solo persone appartenenti a determinati strati sociali e ideologici. Noi conoscevamo quei parametri, e anche voi, del resto, li conoscevate. Noi non abbiamo mai segnalato gente che appartenesse a uno strato sano, non passibile di annientamento.
ACCUSATORE. Per esprimersi, diciamo così, evangelicamente: da’ una mano a chi sta per cadere. Eppure ci furono dei casi – persino in quei tempi feroci – in cui lo Stato assolse persone che erano state calunniate.
DIFENSORE. Sì, ci furono effettivamente casi simili, in seguito ad errore. Ma, vedete, solo Dio non sbaglia. Ricorderete però quanto rari fossero i casi di assoluzione, quanto rari cioè fossero gli errori.
ACCUSATORE. Sì, informatori e delatori conoscevano il loro mestiere. Ma tuttavia rispondete: perché facevate la spia?
INFORMATORI E DELATORI (in coro). Mi costrinsero... mi picchiarono... Io, poi, ero ipnotizzato dal terrore, dalla potenza di quell’arbitrio illimitato... Quanto a me: ho eseguito il mio dovere di membro del partito, come lo capivo a quel tempo.
ACCUSATORE. E voi, quarto compagno, perché tacete?
GIUDA NUMERO QUATTRO. Che c’entro io, perché ve la prendete con me? Io sono un ignorante, è più facile offendere me che non gente istruita, cosciente.
DIFENSORE (interrompendo). Permettetemi di spiegare. Il mio cliente ha fatto la spia, in effetti, perseguendo scopi personali. Tuttavia prendete in considerazione che nel caso presente l’interesse personale non contraddice quello dello Stato. Lo Stato non rifiutò le delazioni del mio patrocinato: ne consegue che egli svolgeva un lavoro utile allo Stato, anche se a un primo sguardo superficiale possa apparire che egli ha effettivamente fatto delle denunce solo per un calcolo egoistico, personale. Vi dirò adesso una cosa. Nel periodo staliniano voi stesso, accusatore, sareste stato accusato di sottovalutazione del ruolo dello Stato. Non sapete che i campi di forza creati dal nostro Stato, la sua massa pesante trilioni di tonnellate, il super-terrore e la super-ubbidienza da lui suscitata in questa piuma che è l’uomo, sono tali da rendere assurda qualsivoglia accusa, indirizzata contro un debole essere indifeso? È ridicolo accusare una piuma di cadere a terra.
ACCUSATORE. Il vostro punto di vista mi è chiaro: voi non siete disposto a che i vostri patrocinati prendano su di loro una pur minima parte di colpa. Tutto deve ricadere sullo Stato. Ma ditemi, informatori e delatori, non volete riconoscervi colpevoli neanche in parte?
INFORMATORI E DELATORI (si scambiano occhiate, sussurrano fra di loro, dopodiché prende la parola l’informatore scienziato). Permettetemi di rispondere. La vostra domanda, malgrado l’esteriore semplicità, non è affatto semplice. Innanzi tutto essa è priva di senso, ma questo non ha poi tanta importanza. Difatti, a che pro cercare adesso i colpevoli dei delitti commessi all’epoca di Stalin? È come se, trasferitici dalla terra alla luna, volessimo intentar causa per l’appezzamento individuale di terreno. D’altro lato, se consideriamo che le due epoche non sono poi così distanti una dall’altra e, come dice il poeta:
quell’epoche, nei secoli
non stan così lontano,25
ecco sorgere una quantità di altre complicazioni. Perché volete assolutamente accusare proprio noi, pesci piccolini? Cominciate dallo Stato, giudicate lui. Dopotutto la nostra colpa è la sua, giudicate dunque lui. Senza paura, a voce alta. Voi non avete altro modo: solo senza paura, perché voi agite in nome della verità. Su, coraggio, all’azione! E poi rispondete, per favore: perché vi accorgete di tutto questo proprio adesso? Voi ci conoscevate tutti, quando Stalin era vivo. V’incontravate con noi senza problemi, aspettavate di essere ricevuti alla porta dei nostri uffici e lì talvolta, con voce da passerotto, sussurravate sul nostro conto. E anche noi sussurravamo così, con voce da passero. Voi, come noi, compartecipi dell’epoca staliniana. Perché mai voi, compartecipi, dovete giudicare noi, compartecipi, stabilire le nostre colpe? Capite dov’è la complessità? Magari noi siamo anche colpevoli, ma non v’è giudice che abbia il diritto morale di porre il problema della nostra colpevolezza. Ricordate, in Lev Nikolaevič26 non ci sono colpevoli a questo mondo! Nel nostro Stato invece esiste una nuova formula: tutti al mondo sono colpevoli, non v’è al mondo un solo innocente. Tutto sta nello stabilire la misura, il grado della colpa. Vi si confà, compagno procuratore, di accusarci? Solo i morti, quelli che non sopravvissero, hanno diritto di giudicarci. Ma i morti non fanno domande, i morti tacciono. E allora permettetemi di rispondere con una domanda alla vostra. Da uomo a uomo, alla buona, col cuore in mano, alla russa. Qual è la causa di questa ignobile, comune – vostra e nostra – debolezza, remissività generale?
ACCUSATORE. Voi evitate la domanda.
(Entra il segretario, porge un plico allo scienziato delatore, dicendo: «Comunicazione ufficiale»).
SCIENZIATO DELATORE (dopo aver letto la carta, la porge all’accusatore). Vi prego: in occasione del mio sessantesimo compleanno vengono riconosciuti i modestissimi servigi da me resi alla scienza nazionale.
ACCUSATORE (dopo aver letto la carta). Non posso non rallegrarmi con voi, anche se a malincuore, alla fin fine siamo tutti sovietici.
SCIENZIATO DELATORE. Sì, sì, certo, grazie (borbotta fra sé e sé). Permettete che attraverso il vostro giornale io ringrazi... le istituzioni, l’organizzazione, ed anche i compagni e gli amici...
DIFENSORE (si mette in posa e pronuncia un discorso). Compagno accusatore e voi, signori giurati! Il compagno procuratore ha detto al mio patrocinato di non avere risposto se riconosceva, sia pure in parte, di essere colpevole. Ma neanche voi avete risposto alla sua domanda sulla causa della nostra comune, generale debolezza. Forse è la natura umana stessa a generare spie, delatori, informatori, confidenti? Sono forse le ghiandole a secrezione interna, il rimescolio della poltiglia intestinale, i borborigmi dei gas gastrici, le membrane mucose, l’attività dei reni a generarli, nascono forse dagli istinti dell’alimentazione, della conservazione, della riproduzione – istinti ciechi e senza odorato?
Ah, non è forse la stessa cosa se i confidenti sono colpevoli o no? Siano o non siano colpevoli, ciò che ripugna è che esistano. Ripugnante è il lato animale, vegetale, minerale, fisico-chimico dell’uomo. È appunto questa ignobile parte mucosa, pelosa dell’essere umano a produrre i confidenti. I confidenti germogliano dall’uomo. Il bollente vapore del terrore statale ha irrorato la razza umana, e i sonnolenti granelli si sono enfiati, hanno germogliato. Lo Stato è il terreno. Se nel terreno non fossero nascosti i semi, non germinerebbe né il grano, né il loglio. È a se stesso che l’uomo deve rinfacciare l’umana sozzura.
Sapete voi cosa c’è di più ripugnante nei confidenti e nei delatori? Quel che di cattivo c’è in loro, penserete voi.
No! Il più terribile è ciò che v’è di buono in loro; la cosa più triste è che sono pieni di dignità, che sono gente virtuosa.
Essi sono figli, padri, mariti teneri e amorosi... Gente capace di fare del bene, di avere grande successo nel lavoro.
Essi amano la scienza, la grande letteratura russa, la bella musica, alcuni di loro esprimono con intelligenza e coraggio il loro giudizio sui più complessi fenomeni della filosofia e dell’arte moderne...
E quali devoti, buoni amici si riscontrano fra di loro; è commovente vederli andare a far visita al compagno ricoverato in ospedale.
Quali pazienti, intrepidi soldati fra di loro, pronti a dividere col compagno l’ultima galletta, l’ultima presa di machorka, a portare sulle braccia dal campo di battaglia il commilitone grondante sangue.
E quali poeti, musicisti, fisici, medici di talento vi sono fra di loro, quali abili fabbri, falegnami, di quelli di cui il popolo dice con ammirazione: hanno le mani d’oro.
Questo appunto è il terribile: molto, molto di buono v’è in loro, nella loro stoffa umana.
Chi sottoporre a processo, allora? La natura dell’uomo! È lei, lei a generare questi cumuli di menzogna, di abiezione, di vigliaccheria, di debolezza. Ma è pur sempre lei a generare anche le cose belle, buone e pure.
I confidenti, i delatori, sono uomini pieni di virtù, rimandateli alle loro case; ma fino a che punto essi sono infami, infami malgrado le loro virtù, malgrado l’assoluzione dei loro peccati. Chi mai ha inventato quel brutto scherzo che dice: «Uomo, che suono fiero!»?27
Sì, sì, essi non sono colpevoli, li spingeva una cupa forza opprimente, li schiacciava un peso di trilioni di pud;28 non ci sono innocenti tra i vivi, tutti siamo colpevoli: tu, imputato, e tu, procuratore, ed io, mentre penso all’imputato, al procuratore e al giudice.
Ma perché tanto dolore, tanta vergogna per questa nostra depravazione così umana?
8
«Il diavolo mi ha spinto ad andare a piedi» ripeteva Pinegin. Non aveva voglia di pensare a ciò che di oscuro, di malvagio aveva dormito per decenni, e ora d’un tratto si risvegliava. Non si trattava della sua cattiva azione, ma dello stupido caso che lo aveva fatto incontrare con l’uomo da lui rovinato. Non si fossero incontrati per strada, ciò che dormiva non si sarebbe risvegliato.
Ma si era risvegliato, e Pinegin, senza accorgersene, pensava sempre meno allo stupido caso, sempre più si allarmava e affliggeva. «Insomma, è un fatto, io, proprio io ho denunciato Vanečka, mentre potevo anche farne a meno, e ho spezzato la spina dorsale a un uomo, che il diavolo se lo prenda! Adesso ci saremmo incontrati, e tutto sarebbe stato in ordine... Razza di cane, mi si è rivoltato dentro l’anima un tale schifo – quasi avessi infilato la mano nella borsetta di una signora, e quella mi avesse afferrato per il braccio, e attorno ci fossero tutti i miei assistenti, i segretari, l’autista: ohi, ohi, che guaio, meglio scomparire dal mondo, dopo un simile schifo. Chissà, tutta la mia vita è stata anch’essa un’unica, continua infamia. Avrei dovuto vivere in maniera completamente diversa».
E in preda a un autentico smarrimento, Pinegin entrò nel ristorante dell’Inturist,29 dove era ben conosciuto sia dal maître che dai camerieri e dal portinaio.
Scorgendolo da lontano, due guardarobieri accorsero dal bancone, borbottando: «Prego, prego» e stronfiando come stalloni si tendevano impazienti verso la ricca bardatura di Pinegin. I loro occhi erano penetranti, buoni occhi di intelligenti ragazzi russi di razza, da guardarobiere di ristorante Inturist, capace di ricordare esattamente di ogni persona chi era, com’era vestita, e cosa aveva detto senza pensarci. Con Pinegin però, col suo distintivo di deputato, essi avevano un’atteggiamento aperto, cordiale, quasi egli fosse un loro diretto superiore.
Senza affrettarsi, percependo sotto i piedi la cedevole e insieme elastica morbidezza del tappeto, Pinegin si diresse verso il salone del ristorante. Una penombra solenne regnava nell’alto e spazioso salone. Pinegin ne respirò lentamente l’aria tranquilla, fresca e tiepida insieme, girò attorno lo sguardo sui tavoli ricoperti dalle tovaglie inamidate; i vasetti sfaccettati con i fiori, i calici e i bicchierini brillavano pacatamente. Egli si avviò verso l’accogliente angolo che ben conosceva, sotto il fogliame frastagliato di un rododendro.
Passando in mezzo ai tavolini ornati dalle bandierine di molte potenze mondiali, ebbe la sensazione di essere un ammiraglio che passa in rivista la sua squadra di corazzate e incrociatori.
E con quella sensazione di ammiragliato, che fece rivivere il suo gusto per la vita, senza fretta si sporse verso il verdeazzurro menu, rigido come un diploma di laurea e, apertolo, affondò lo sguardo nella sezione «antipasti freddi».
Data una scorsa alla lista, stampata nella sua lingua materna e nelle più importanti lingue del mondo, egli voltò la crepitante pagina in cartoncino, gettò uno sguardo alla sezione «minestre», torse le labbra e corse con gli occhi alla sottosezione «piatti di carne... piatti di cacciagione».
E nel momento in cui cominciava quasi a spasimare, indeciso tra la carne e la selvaggina, il cameriere, indovinando la sua indecisione, annunziò:
«Il filetto e l’arista sono eccezionali, oggi».
Pinegin rimase a lungo in silenzio.
«Suvvia, vada per il filetto».
Stava seduto nella penombra e nella quiete, gli occhi socchiusi, e il convincimento che la sua era stata una vita giusta contendeva con il turbamento e l’orrore, quell’orrore sorto in lui improvviso, tra le fiamme e il gelo del pentimento.
Ma ecco, il pesante velluto che drappeggia la porta della cucina comincia ad agitarsi, e Pinegin riconoscendo dalla testa pelata il suo cameriere pensò: «È per me».
Il vassoio veleggiò nella semioscurità fino a Pinegin, ed egli vide il rosa cinereo del salmone tra solicelli di limone, il nero del caviale, il verde di serra dei cetrioli, gli erti fianchi della caraffetta di vodka e della bottiglia di boržom.30
Non ch’egli fosse un tal buongustaio, né aveva poi tanta voglia di mangiare, ma in quel preciso momento il vecchio dal giaccone imbottito cessò nuovamente di mettere in dubbio la sua buona coscienza.
9
Giunto alla stazione, Ivan Grigor’evič sentì che ormai non aveva più senso vagabondare per le vie di Leningrado. Rimase piantato nel mezzo dell’alto e freddo edificio, concentrato in se stesso. E forse, a chi passava accanto a quel vecchio accigliato, gli occhi alla nera lavagna degli orari, sarà capitato di pensare: eccolo là al bivio, l’uomo russo dei lager, ad almanaccare, a scegliere la sua strada. Invece no, lui non stava scegliendo la sua strada.
Decine di giudici istruttori, lungo la sua vita, avevano capito che egli non era né un monarchico, né un esse-erre, né un esse-di,31 che non aveva preso parte alla opposizione trockista né a quella bucharinista. Egli non apparteneva né alla nuova, né alla vecchia chiesa, e neppure agli avventisti del settimo giorno.
Alla stazione, ripensando alle dure giornate trascorse a Mosca e a Leningrado, gli tornò in mente la conversazione con un generale d’artiglieria zarista, disteso al suo fianco, sul tavolaccio del lager. Il vecchio gli aveva detto: «Non lascerò il lager per nessun altro posto: qui sto al caldo, conosco la gente: dal pacco che riceve, chi mi darà un pezzo di zucchero, chi una focaccetta».
Più volte gli era capitato d’incontrare dei vecchi così, che non volevano più andarsene dal lager; la loro casa era là, con il cibo all’ora stabilita, l’elemosina dei buoni vicini, il tepore della stufetta.
E invero, dove volete che andassero: alcuni conservavano nelle profondità calcificate del loro cuore il ricordo del fulgore dei lampadari di Carskoe Selò, del sole invernale di Nizza; altri ricordavano Mendeleev, che arrivava da buon vicino a prendere una tazza di tè da loro, in famiglia; ricordavano il giovane Blok, e Skrjabin e Repin; altri ancora conservavano le ceneri tutte calde del ricordo di Plechanov, di Geršuni, di Trigoni32 – gli amici del grande Zeljabov. Era capitato che dei vecchi, rimessi in libertà, chiedessero di venire riammessi nel lager: il turbine della vita faceva vacillare le loro deboli gambe, le città immense li spaventavano, fredde e senza calore umano com’erano.
Ivan Grigor’evič aveva una gran voglia di oltrepassare nuovamente il filo spinato, alla ricerca di tutti quelli abituati a uno straccio per scaldarsi, alla gamella piena di brodaglia, alla stufa della baracca. Aveva voglia di dir loro: «Effettivamente, si sta proprio male in libertà!».
Avrebbe raccontato ai vecchi senza più forze come fosse arrivato da un parente stretto, come si fosse avvicinato alla casa dove viveva la donna da lui amata, come avesse casualmente incontrato un compagno d’università, che gli aveva offerto soccorso. E poi avrebbe detto ai vecchi del lager che non c’era felicità maggiore dell’uscire dal lager – magari ciechi, senza gambe, strisciando sul ventre –, a morire in libertà, fosse pure soltanto a una decina di metri dal maledetto filo spinato.
10
Un senso di calma e di tristezza si impadronì di Ivan Grigor’evič quando ebbero fine gli affanni per trovare un’abitazione e un lavoro ed egli, ingaggiato come fabbro in un artel’33 per invalidi, si vide apporre sul passaporto il sospirato timbro del permesso di residenza e poté andare ad abitare in un angolo, affittato per quaranta rubli vecchi, presso la vedova del sergente Michalëv, caduto sul fronte.
Da Anna Sergeevna – una donna magra, ancora giovanile malgrado i capelli grigi – abitava un nipote di dodici anni, figlio di una sorella defunta, un ragazzo pallido, chiuso in una giacchetta rammendata e rappezzata, così straordinariamente timido, taciturno eppure pieno di curiosità, come se ne possono vedere solo nelle famiglie di gente veramente povera. Alla parete pendeva la fotografia di Michalëv: un uomo dal viso triste, come se già allora, quando gli avevano scattato la foto, egli avesse previsto la sua sorte. Il figlio di Anna Sergeevna stava facendo il servizio di leva nelle truppe di riserva. La sua fotografia – un giovanotto dalle guance paffute, rapato a zero – era appesa accanto a quella del padre.
Michalëv era stato dato per disperso durante i primi giorni di guerra, quando il reparto in cui egli prestava servizio era stato ridotto in frantumi dai carri armati tedeschi, non lontano dalla frontiera, e nessuno era stato in grado di testimoniare se Michalëv era rimasto lì, insepolto, steso dal tiro dei mitraglieri tedeschi, o se si era arreso al nemico; ragion per cui il commissariato di guerra non aveva concesso la pensione alla vedova.
La Michalëva lavorava come cuoca in una mensa. Ma se la passava male. La sua anziana sorella, che lavorava in un kolchoz, le aveva spedito una volta dalla campagna un pacco per il nipote rimasto orfano: delle focacce di farina mista a crusca, e del miele che la cera rendeva opaco.
Ma anche la Michalëva inviava alla sorella in campagna, se appena riusciva a procurarseli, degli alimenti: farina, olio di girasole e, quando capitava, pane bianco e zucchero.
Ivan Grigor’evič era stupito che, pur lavorando in una cucina, Anna Sergeevna fosse così magra e pallida. Nel lager si riconosceva immediatamente, nella folla dei detenuti, il viso rubicondo del cuoco.
La Michalëva non fece domande a Ivan Grigor’evič sulla vita passata nel lager. Fu piuttosto il responsabile del personale dell’artel’ a porgli dettagliate domande. Anna Sergeevna invece non gli aveva chiesto nulla; i suoi occhi, abituati a capire la vita, avevano scoperto molte cose, osservando Ivan Grigor’evič.
Egli se la dormiva sul tavolato, beveva acqua bollente senza tè né zucchero, masticava pane secco, invece dei calzini portava delle pezze da piedi, non aveva biancheria da letto; ma lei aveva notato che la camicia che indossava, anche se lavata alla meglio, aveva il colletto pulito, e che al mattino egli – tirata fuori una scatola della Montpensier,34 pesta e scorticata – si puliva i denti con lo spazzolino, poi si lavava accuratamente il viso, il collo, e le braccia fino al gomito.
La pace notturna sembrava strana, a Ivan Grigor’evič. Da decenni era abituato al ronfare, all’ansimare collettivo, al borbottio, ai lamenti di centinaia di persone addormentate nelle baracche, al battere delle mazze sulle inferriate, al cigolio delle ruote. Gli era capitato di dormire da solo unicamente in cella di rigore, e quella volta che, durante l’istruttoria, lo avevano tenuto per tre mesi e mezzo in cella d’isolamento.
Aveva trovato lavoro nell’artel’ per un caso fortunato: nel giardino pubblico aveva scambiato qualche parola con un tipo, un tisico così curvo da sembrare un pattino di slitta messo in piedi. Costui gli aveva raccontato che aveva intenzione di abbandonare la contabilità di una cooperativa di invalidi e di partire: partiva perché non voleva essere seppellito in città, dove il cimitero era situato in una località paludosa e le bare, nelle tombe, galleggiavano sull’acqua. Il contabile voleva invece godere d’ogni comodità, dopo morto; aveva messo da parte del denaro per una bara di quercia, per foderarla aveva comperato della buona stoffa rossa e una scorta di chiodi di rame, di quelli che si usano per tappezzare i divani di cuoio delle stazioni. Non sarebbe stato a mollo nell’acqua, con tutti quei beni.
Parlava di tutto questo con la voce di chi si appresta a trasferirsi in un appartamento nuovo, più comodo.
Raccomandato dal «nuovo inquilino», come Ivan Grigor’evič lo definì tra sé e sé, gli era riuscito di aggiustarsi come fabbro nell’artel’, dove fabbricavano serrature, chiavi in serie, eseguivano saldature e acconciavano recipienti. Venne utile a Ivan Grigor’evič la specialità appresa un tempo nel lager, di fabbro in un’officina di riparazioni.
C’erano, tra i lavoranti dei mutilati della seconda guerra mondiale, delle vittime di infortuni sul lavoro e nei trasporti, c’erano tre vecchi invalidi addirittura della guerra del 1914. C’era nell’artel’ perfino un veterano del lager: Mordan’, un operaio della fabbrica Putilov, condannato nel 1936 in base all’articolo 58,35 e liberato solo dopo la fine della guerra. Mordan’ non aveva voluto tornare a Leningrado dove la moglie e la figlia erano morte, durante l’assedio; aveva preferito andare ad abitare dalla sorella, in una città del Sud, dove si era messo a lavorare nell’artel’.
Gli invalidi dell’artel’ erano per lo più gente allegra, propensi a comportarsi con umorismo verso la vita; talvolta però qualcuno di loro era preso da un attacco epilettico, e al frastuono dei martelli, allo stridio delle lime si mescolava l’urlo d’un epilettico che cominciava a dibattersi sul pavimento.
A Pataskovskij, uno stagnaio dai baffi bianchi, fatto prigioniero nel 1914 (si diceva che fosse austriaco, ma lui si dava per polacco), si paralizzavano di colpo le braccia, ed egli restava impietrito sul suo sgabello, il martello alzato, il viso immoto, con un’espressione altezzosa. Per tirarlo fuori da quell’irrigidimento bisognava afferrarlo per la spalla e scuoterlo. Un’altra volta l’attacco epilettico da cui era stato preso un invalido si trasmise d’un tratto a molti altri, sicché per ogni dove, nell’officina, cominciarono a dibattersi sul pavimento e a gridare tutti insieme, giovani e vecchi.
Ivan Grigor’evič provava una sensazione insolita e bellissima nell’eseguire un lavoro di sua scelta, senza scorta, senza sentinelle sulle torrette. Ed era strano che, sebbene il lavoro fosse quasi lo stesso, e gli utensili quelli a lui noti, nessuno lo chiamasse carogna, non ci fosse ladro che alzasse le mani su di lui, nessuna spia lo minacciasse con la misura di legno.36
Ivan Grigor’evič fece presto a scoprire come la gente arrotondasse i propri magri guadagni. Qualcuno acquistava di suo, privatamente, il materiale e fabbricava pentole e bollitori, che poi venivano venduti tramite la cooperativa, al medesimo prezzo di quelli di Stato, né di più, né di meno. Altri si accordavano con i clienti per riparare privatamente carabattole casalinghe, intascando il denaro senza rilasciare la quietanza della cooperativa. Prendevano lo stesso prezzo richiesto dallo Stato: né di più, né di meno.
Mordan’ – uno dalle palme talmente grandi da supporre che avrebbe potuto, d’inverno, spalare la neve dai marciapiedi con le mani – raccontò un giorno, durante l’intervallo del pasto, un caso capitato il giorno prima, in casa sua. Nell’alloggio accanto al suo abitano in cinque: un tornitore, un sarto, l’elettricista di un’officina meccanica, due vedove di cui una lavora in un’azienda di confezioni, l’altra è addetta alle pulizie nel soviet urbano. Ed ecco, nel loro giorno di riposo le due vedove si ritrovano faccia a faccia al commissariato di polizia; le avevano fermate per strada gli addetti alla LFPSS,37 mentre vendevano delle reticelle per la spesa che – in segreto una dall’altra – esse intrecciavano di notte. La polizia era venuta a perquisire l’appartamento, ed era risultato che nottetempo il sarto cuciva soprabiti da donna e da bambino; l’elettricista aveva impiantato sotto il pavimento un piccolo forno elettrico e cuoceva delle cialde che la moglie andava a vendere al mercato, il tornitore della fabbrica «Fiaccola Rossa» faceva di notte il calzolaio e confezionava scarpe di lusso da donna; le vedove non solo intrecciavano borse per la spesa, ma sferruzzavano anche blusette di maglia.
Mordan’ fece ridere gli ascoltatori mostrando come l’elettricista s’era messo a gridare che lui cuoceva le cialde per la sua famiglia, e come l’ispettore dell’LFPSS gli avesse chiesto: «Perbacco, per la vostra famiglia avete preparato due pud di pasta da cialde?». Ogni trasgressore ebbe una multa di 300 rubli, di ognuno venne segnalata l’infrazione al posto di lavoro e fu minacciata la deportazione, onde ripulire la vita sovietica di parassiti ed elementi improduttivi.
Nel parlare, piaceva a Mordan’ l’uso di parole erudite: esaminando una serratura da riparare diceva con importanza: «Sì, la serratura non reagisce minimamente alla chiave». Per la strada, dopo il lavoro, camminando a fianco di Ivan Grigor’evič, gli aveva detto all’improvviso: «Non è solo perché mia moglie e mia figlia sono morte che non sono tornato a Leningrado. È che non posso vedere, con i miei occhi di lavoratore, la sorte del proletariato della Putilov. Neanche scioperare si può. E che razza di lavoratore è, uno che non ha diritto di scioperare?».
La sera tornava a casa la padrona, portando in un borsone il cibo per il nipote: la minestra in un bidoncino e il secondo piatto in una pentoletta di coccio.
«Ne volete un po’?» era solita domandare a Ivan Grigor’evič a bassa voce. «Ce n’è abbastanza».
«Per forza, voi non mangiate» diceva Ivan Grigor’evič.
«Io mangio tutto il giorno, fa parte del mio lavoro» rispondeva lei, e ben comprendendo il suo sguardo, aggiungeva: «Mi stanca talmente, il lavoro».
I primi giorni il pallido viso della padrona di casa era parso cattivo a Ivan Grigor’evič. Poi aveva capito che era buona. Talvolta lei gli raccontava della campagna. Era stata caposquadra di un kolchoz, e una volta, anzi, era stata addirittura presidente. I kolchoz non eseguivano il piano – ora la seminagione era insufficiente, ora v’era siccità, ora la terra veniva troppo sfruttata e quella, esausta, non produceva più, ora tutti gli uomini e i giovani se ne andavano in città... E se il kolchoz non consegnava quanto stabilito, ricevevano sei o sette copeche per giornata lavorativa, più cento grammi di grano a testa; e certi anni non ne ricevevano neanche un grammo. Ora, alla gente non piace lavorare gratis. I kolchoziani non ne potevano più. Soltanto nei giorni di festa mangiavano pane nero genuino, senza patate o ghiande – quasi fosse del panforte. Una volta, aveva portato alla sorella maggiore, al paese, del pane bianco, e i bambini avevano paura di mangiarlo: era la prima volta in vita loro che lo vedevano. Le isbe si facevano cadenti, ma non distribuivano legno per rifarle.
Lui l’ascoltava, e intanto la guardava. Lei emanava una dolce luce di bontà, di femminilità. Per decenni lui non aveva veduto donne, per lunghi anni aveva inteso le storie senza fine raccontate nelle baracche: storie sanguinose, tristi, sporche. In quei racconti la donna era un essere infimo, posto più in basso di una bestia, altre volte era invece pura, elevata ancor più di una santa. Ma per il detenuto quel pensiero che mai lo abbandonava era indispensabile come la razione di pane, lo seguiva nelle conversazioni, nelle fantasticherie e nei sogni, puri o sudici che fossero.
Certo la cosa era strana – perché, dopo la sua liberazione, egli aveva visto belle donne eleganti nelle vie di Mosca e di Leningrado, si era seduto a tavola con Marija Pavlovna, una bella signora dai capelli bianchi – ma né il dolore che l’aveva invaso nel venire a sapere che il suo amore di gioventù l’aveva tradito, né la grazia delle donne eleganti, né l’atmosfera intima e confortevole della casa di Marija Pavlovna avevano suscitato in lui il sentimento che provava ascoltando Anna Sergeevna, guardando i suoi occhi tristi, il suo dolce viso appassito e insieme giovanile.
E nello stesso tempo non v’era in ciò nulla di strano. Non poteva essere strano ciò che avviene sempre, da migliaia d’anni, tra uomo e donna.
Intanto lei spiegava a Ivan Grigor’evič:
«Mandare a lavorare degli affamati ti stringe il cuore. Non certo per me è stato detto: “Saranno le cuoche a governare”.38 Le donne che lavorano alla trebbiatrice si cuciono sotto l’orlo della gonna un calzerotto, apposta per farci scivolare il grano. Si sarebbe dovuto perquisirle, mandarle sotto processo! E per furto di beni di proprietà del kolchoz non danno meno di sette anni. Ma quelle donne avevano dei bambini. Una notte, stesa nel letto, pensai: lo Stato ritira il grano dai kolchoz a sei copeche il chilo, e vende il pane a un rublo il chilo, nel nostro kolchoz, poi, son quattro anni che non ce ne danno neppure un grammo. E qual è il risultato? Che se uno sottrae un pugno di grano – quello stesso che lui, si voglia o no, ha seminato – gli appioppano sette anni. No, io non sono d’accordo. E così i compaesani mi hanno sistemato in città, a far la cuoca, a nutrire la gente. Gli operai dicono: dopotutto in città si sta meglio. Gli operai edili hanno una tariffa: mettono una porta, piazzano una serratura: due rubli e mezzo; per il medesimo lavoro, eseguito in giorno festivo, un privato gliene dà cinquanta; dunque lo Stato lo paga venticinque volte di meno. E tuttavia alla gente di campagna sottraggono ancora di più. Secondo me lo Stato sottrae un po’ troppo sia a quelli di città che a quelli di campagna. Sì, d’accordo, le case di riposo, le scuole, i trattori, e la difesa – capisco tutto, ma prendono troppo, dovrebbero prendere di meno».
Guardò Ivan Grigor’evič.
«Magari è per questo che tutta la vita è impostata male?».
I suoi occhi scivolarono lentamente dal viso di lui a quello del nipote, poi ella disse:
«Lo so, di queste cose non s’ha da parlare. Ma io vedo che persona siete – e allora v’ho domandato. Voi però non sapete minimamente che persona sono io, ecco perché non mi rispondete».
«No, perché mai, vi risponderò» disse Ivan Grigor’evič. «Un tempo pensavo che la libertà fosse la libertà di parola, di stampa, d’opinione. Ma la libertà è tutta la vita di tutta la gente; ecco cos’è: è il diritto di seminare quel che vuoi, di fare scarpe, soprabiti, di cuocere il grano che hai seminato, per venderlo o non venderlo, come vuoi tu; e anche se fai il meccanico, o il fonditore, o l’artista, vivi e lavora come vuoi tu, e non come ti ordinano. Invece non c’è libertà né per chi scrive libri, né per chi coltiva il grano o fa stivali».
Nell’oscurità della notte, steso nel suo letto, Ivan Grigor’evič udiva respirare nel sonno, con respiro così leggero da non riuscire a capire se era il bambino o la donna.
Fu preso da una strana sensazione, come avesse trascorso tutta la sua vita in viaggio, giorno e notte dentro un vagone scricchiolante, e per decine di anni avesse inteso il rumore ritmico delle ruote, e che finalmente fosse arrivato: il convoglio si era fermato.
Ma quei trent’anni di strada, quel trentennale fragore di treno seguitavano a rintronargli nella testa, a risuonargli nelle orecchie, quasi il convoglio andasse, ancora e ancora...
11
Alëša, il nipote di Anna Sergeevna, era così piccolo di statura che sembrava avesse otto anni. Frequentava la sesta e, tornato da scuola, trasportata l’acqua, lavati i piatti, si metteva a fare i compiti.
A volte, alzati gli occhi su Ivan Grigor’evič, gli diceva:
«Interrogatemi in storia, per favore».
Un giorno che Alëša si stava preparando in biologia, per passare il tempo Ivan Grigor’evič si mise a modellare nella creta i vari animali disegnati nel manuale: una giraffa, un rinoceronte, un gorilla. Alëša rimase di sasso, tanto gli parevano ben fatte quelle bestie di creta; le guardava, le trasportava da un punto all’altro; la sera se le mise accanto, su una sedia, vicino al letto. Sul far del giorno, uscendo per andare a fare la fila per il latte, con un sussurro appassionato il ragazzo domandò all’inquilino, che si stava lavando in corridoio:
«Ivan Grigor’evič, posso portarle a scuola, le vostre bestie?».
«Ma certo, portale pure con te» disse Ivan Grigor’evič.
La sera Alëša gli raccontò che la sua insegnante di disegno aveva detto: «Di’ al vostro inquilino che deve assolutamente studiare».
Fu la prima volta che la Michalëva vide ridere Ivan Grigor’evič. Gli disse: «Non ridete, andateci dall’insegnante, chissà che non riusciate a guadagnare qualcosa lavorando in casa la sera; non vedete che vita fate, con trecentosettantacinque rubli al mese!».
«Che importa, a me bastano,» disse Ivan Grigor’evič «quanto a imparare, avrei dovuto farlo trent’anni fa».
E pensò: perché me la prendo tanto? Dunque sono ancora vivo? Dunque non sono morto?
Un giorno Ivan Grigor’evič stava raccontando ad Alëša della spedizione di Tamerlano, e notò che Anna Sergeevna, smesso di cucire, lo ascoltava attentamente.
«Il vostro posto non è in un artel’» disse ridendo.
«Oh,» replicò lui «dove volete che vada? Le mie nozioni vengono da libri con le pagine strappate, senza il principio e senza fine».39
Alëša pensò che forse per questo Ivan Grigor’evič presentava le cose a modo suo, mentre gli insegnanti ricalcavano il manuale dal principio alla fine.
Quella storia da niente, delle figurine di creta, agitò Ivan Grigor’evič. Non ch’egli fosse provvisto di un vero talento. Ma quanti giovani fisici, storici, specialisti in lingue antiche, filosofi, musicisti, giovani Swift ed Erasmi da Rotterdam russi aveva visto morire coi suoi occhi, «avevano indossato la giubba di legno»...
La letteratura prerivoluzionaria ha spesso versato lacrime sulla sorte di attori, musicisti, pittori nati servi della gleba. Ma chi, nei libri d’oggi, ha mai gettato un sospiro su quei giovani e quelle fanciulle cui non è stato dato di dipingere i loro quadri e di scrivere i loro libri? La terra russa dà generosamente alla luce i propri Platoni e i Newton dal vivido intelletto, ma con quale indifferenza fa orrendo pasto dei propri figli.
I teatri, i cinema risvegliavano in Ivan Grigor’evič tristezza e angoscia – gli sembrava che qualcuno lo obbligasse con la forza a fissare la scena, impedendogli di uscire. Molti romanzi e poesie suscitavano in lui un insopportabile senso di fastidio, quasi volessero inculcargli a forza qualcosa nella testa. Gli sembrava che nei libri si descrivesse una vita diversa, a lui ignota, dove non esistevano baracche a regime duro, capisquadra, sorveglianti, nel lager e sul lavoro, sistemi di passaporto interno, nessuna di quelle sensazioni, sofferenze, paure, di cui viveva la gente intorno a lui...
Gli scrittori inventavano la gente, i loro pensieri, i loro sentimenti, inventavano le stanze nelle quali vivevano, i treni sui quali viaggiavano: una letteratura che si autodefiniva realista ma che era convenzionale non meno dei romanzi bucolici del diciottesimo secolo. I kolchoziani, gli operai, le contadine della letteratura erano parenti di quegli snelli e adorni paesani, di quelle ricciolute pastorelle che suonavano la siringa e danzavano sui praticelli in mezzo a bianchi agnelletti infiocchettati di nastri blu.
Durante gli anni trascorsi nei lager Ivan Grigor’evič aveva appreso molte cose sulle debolezze umane, ed ora vedeva quante ce ne fossero da ambedue le parti del filo spinato. Le sofferenze non sono soltanto purificatrici. Feroce era la lotta per una cucchiaiata supplementare di minestra del lager, per una facilitazione sul lavoro, e i deboli si abbassavano fino a un livello pietoso. Adesso, in libertà, Ivan Grigor’evič intuiva come anche qui persone altere e ben vestite raschiassero col cucchiaio i rimasugli delle gamelle altrui, o si aggirassero a guisa di sciacalli nei pressi della cucina, alla ricerca di rifiuti e di foglie di cavolo marce.
La gente maltrattata – oppressa dalla violenza, dalla penuria di cibo, dall’insufficienza di riscaldamento e di tabacco, tramutata in «sciacalli» dei lager, con lo sguardo errante alla ricerca di croste di pane e di cicche sbavate – risvegliava la sua compassione.
La gente del lager aiutava ora Ivan Grigor’evič a capire gli uomini in libertà. Egli vedeva, in libertà, la stessa miserevole debolezza e crudeltà, l’avidità e la paura, esattamente come nelle baracche dei lager. La gente era fatta tutta allo stesso modo, e lui ne aveva compassione.
Nei romanzi e nei poemi, invece, c’erano uomini sovietici che esprimevano, come nell’arte medioevale, l’idea della Chiesa, della divinità, acclamavano il vero dio, l’uomo esisteva non di per sé ma grazie al dio, esisteva per cantare le lodi di quel dio e della sua chiesa. Alcuni scrittori poi, spacciando menzogna per verità, rendevano con particolare accuratezza e in ogni dettaglio il modo di vestire e l’ambiente, popolando le loro realistiche scenografie di personaggi fantastici in cerca del dio.
In libertà o nel lager, gli uomini non volevano riconoscere di essere eguali nel loro diritto alla libertà. Alcuni deviazionisti di destra si consideravano innocenti, ma reputavano giusta la repressione dei deviazionisti di sinistra. Di destra o di sinistra, i deviazionisti non amavano le cosiddette spie, quelli che corrispondevano con i parenti che si trovavano all’estero, quelli i cui genitori ormai russificati portavano tuttavia cognomi polacchi, lettoni, tedeschi.
Avevan voglia, i contadini, a dire d’aver sempre vissuto del lavoro delle loro braccia, i politici non credevano loro: «Sappiamo, sappiamo, foste stati dei poveracci, non vi avrebbero dekulakizzato».40
Ivan Grigor’evič aveva detto una volta ad un ex comandante dell’Armata Rossa, suo vicino di tavolaccio:
«Eppure voi stesso, che per tutta la vita siete stato fedele all’idea del bolscevismo, voi, un eroe della guerra civile, eppure siete qui, detenuto sotto accusa di spionaggio».
Quello aveva risposto:
«Ma è stato un errore; il mio è un caso speciale, neanche da far paragoni».
Quando i detenuti comuni, scelta una vittima, cominciavano a vessarla e derubarla, alcuni politici voltavano la testa, altri se ne stavano seduti, sul volto un’espressione ottusa e immobile, altri ancora si allontanavano, oppure ce n’era che facevano finta di dormire, coprendosi la testa con la coperta.
Centinaia di detenuti, tra cui si trovavano ex militari, eroi della guerra, si dimostravano impotenti contro una manciata di criminali. Questi facevano bravate, consideravano se stessi dei patrioti, trattando i politici da «fascisti», da nemici della patria. Nel lager gli uomini sono come aridi granelli di sabbia, ognuno per conto proprio.
Uno era convinto che solo nel suo caso fosse stato commesso un errore, ma che, in genere, «per niente, non ti mettono dentro».
Altri ragionavano così: quando eravamo in libertà pensavamo che per niente non ti mettono dentro, ma adesso abbiamo capito sulla nostra pelle che ti mettono dentro per niente. Da ciò non traevano alcuna conclusione, si contentavano di sospirare, rassegnati.
Un tale – magro, percorso da continue contrazioni nervose, che lavorava al Comintern della Gioventù, talmudista e dialettico – spiegò a Ivan Grigor’evič che lui non aveva compiuto nulla di criminoso contro il partito, ma che i servizi di sicurezza avevano avuto ragione arrestandolo come spia e doppiogiochista; sì, lui non aveva commesso crimini, ma apparteneva in pratica a un ceto ostile al partito, un ceto che aveva prodotto doppiogiochisti, trockisti, opportunisti, mormoratori e gente di poca fede.
Un tipo intelligente, un ex funzionario regionale di partito finito in lager, conversando un giorno con Ivan Grigor’evič, aveva detto:
«Quando s’abbattono gli alberi, le schegge volano, ma la verità del partito è sempre verità, e sta al di sopra dei miei guai,» e accennando a se stesso con la mano, aveva aggiunto «io sono per l’appunto una di quelle schegge che è volata via abbattendo l’albero».
Restò sconcertato quando Ivan Grigor’evič gli disse:
«Il guaio è proprio questo, che si abbattono gli alberi. Perché mai abbattere gli alberi?».
Ben di rado gli era successo d’incontrare nei lager gente che si fosse effettivamente battuta contro il potere sovietico.
Ex ufficiali zaristi erano finiti nei lager non per aver messo su un’organizzazione monarchica, ma solo in previsione del fatto che avrebbero potuto farlo.
Nei lager scontavano la loro pena socialdemocratici e socialisti rivoluzionari. Molti erano stati arrestati nel momento in cui – da quei piccoli borghesi che erano – si erano mostrati lealisti e politicamente inattivi. Li avevano messi dentro non perché si erano battuti contro lo Stato sovietico, ma solo perché v’era una possibilità che lo facessero.
Contadini venivano spediti nei lager non perché si battevano contro i kolchoz. Ci mandavano quelli che, in determinate condizioni, avrebbero potuto opporsi ai kolchoz.
Certi finivano nei lager per una innocente critica: all’uno non erano piaciuti i libri e le pièces premiati dallo Stato; all’altro la radio nazionale e le penne stilografiche. In determinate condizioni costoro potevano diventare nemici del popolo.
C’era chi veniva spedito nei lager perché era in corrispondenza con zie o fratelli che vivevano all’estero. Per loro la possibilità di diventare una spia era più grande che non per chi era senza parenti oltre frontiera.
Il terrore era rivolto non contro i criminali, ma contro coloro che, secondo gli organi repressivi, avevano una probabilità solo un poco maggiore di diventarlo.
Detenuti cosiffatti erano ben differenti da quelli effettivamente ostili al potere sovietico, che si erano battuti contro di esso, vecchi socialrivoluzionari, menscevichi, anarchici, oppure i sostenitori dell’indipendenza dell’Ucraina, dell’Estonia, della Lituania e, in tempo di guerra, i seguaci di Bendera.41
I detenuti sovietici li consideravano loro nemici, e tuttavia ammiravano quegli uomini, imprigionati per una causa.
Ivan Grigor’evič aveva incontrato in un lager a regime duro Borja Romaškin, un adolescente, uno scolaro condannato a dieci anni di reclusione; questi aveva effettivamente stilato dei volantini che accusavano lo Stato di reprimere persone innocenti, ne aveva effettivamente fatto delle copie scritte a macchina, effettivamente li aveva incollati di notte sui muri delle case di Mosca. Borja aveva raccontato a Ivan Grigor’evič che durante l’inchiesta erano venuti a vederlo decine di collaboratori del Ministero per la Sicurezza dello Stato, tra cui anche alcuni generali – tutti interessati a quel ragazzetto, arrestato per una causa effettiva. Anche nel lager Borja era famoso – tutti lo conoscevano, detenuti dei lager vicini chiedevano di lui. Quando Ivan Grigor’evič, dopo ottocento chilometri percorsi a tappe, arrivò in un nuovo lager, udì fin dalla prima sera raccontare di Borja Romaškin: la sua fama correva per tutta la Kolyma. Ma lo straordinario era che la gente condannata per una causa, per avere effettivamente lottato contro lo Stato sovietico, riteneva che tutti gli zek,42 i detenuti politici, fossero innocenti, tutti senza esclusione meritevoli di essere messi in libertà. Chi invece era detenuto per colpe fasulle, per cose inventate, montate – e ce n’erano milioni – tendeva ad amnistiare solo se stesso e si sforzava di dimostrare l’effettiva colpevolezza di spie, kulaki, parassiti, come lui accusati senza ragione, giustificando la crudeltà dello Stato.
Una sola, profonda differenza divideva lo stato d’animo dei detenuti da quello di coloro che vivevano in libertà. Ivan Grigor’evič vedeva che gli uomini dei lager si conservavano fedeli all’epoca che li aveva generati. Nel carattere e nelle idee di ognuno di loro vivevano le varie epoche della vita russa. Trovavi qui dentro quelli che avevano partecipato alla guerra civile, con i loro canti, i loro eroi, i libri prediletti; vedevi qui i verdi, i seguaci di Petljura,43 con le inconsunte passioni del loro tempo, con le loro canzoni, poesie, usanze; vedevi i funzionari del Comintern degli Anni Venti, con il loro pathos, il loro vocabolario, la loro filosofia, il modo di comportarsi, di pronunciare le parole; vedevi gente ormai vecchia: monarchici, menscevichi, esse-erre, che conservavano dentro di loro un mondo di idee, di comportamenti, di personaggi letterari esistiti quaranta o cinquant’anni prima.
Si poteva immediatamente riconoscere, in quel vecchio tossicchiante e stracciato, il debole, decaduto ma pur sempre nobile cavaliere della guardia, e nel suo vicino di tavolaccio l’altrettanto stracciato ed irsuto ma irremovibile socialdemocratico dai canuti capelli a spazzola, e nell’ingobbito pridurok-infermiere l’ex commissario di un treno blindato.
Invece la gente attempata che viveva in libertà non portava su di sé gli irripetibili connotati del tempo trascorso; in loro il passato si era cancellato, era loro facile assumere l’aspetto del giorno nuovo: essi pensavano e vivevano conformemente al tempo attuale; il vocabolario, i pensieri, le passioni, la sincerità loro si adattavano docili e flessibili al corso degli eventi e alla volontà del potere.
Come si spiegava quella differenza? Forse nel lager la coscienza umana cade in sopore, come sotto anestesia?
Nei lager Ivan Grigor’evič aveva immancabilmente constatato la naturale aspirazione della gente a strapparsi dal filo spinato, a tornare dalla moglie, dai figli. Ma in libertà gli era capitato d’incontrare gente rilasciata dai lager, e la loro ipocrita sottomissione, la paura di esprimere il proprio pensiero, il terrore di un nuovo arresto erano così totali da farli apparire ancor più imprigionati di quando si trovavano nei campi di lavoro forzato.
Uscito dal lager, facendo un lavoro liberamente scelto, vivendo accanto ai suoi cari e ai parenti, quell’uomo si condannava talvolta a una detenzione suprema, più completa e profonda di quella cui lo costringeva il filo spinato.
E sì che nelle sofferenze, nel sudiciume, nella caligine della vita di lager, la libertà era stata la luce, la forza di quelle anime dannate. La libertà era immortale.
Nella piccola città, vivendo in casa della vedova del sergente Michalëv, Ivan Grigor’evič cominciò a percepire più ampio, più forte il concetto di libertà.
Nella lotta per la vita condotta dalla gente, nei sotterfugi dei lavoratori, che si guadagnavano quei quattro soldi supplementari faticando la notte, nella battaglia dei kolchoziani per il pane e per le patate come unico guadagno del loro lavoro, egli non intravedeva solo il desiderio di vivere meglio, di nutrire i figli a sazietà, di vestirli. Nella battaglia per il diritto di confezionare degli stivali, di sferruzzare una blusetta di lana, nell’aspirazione a seminare ciò che il contadino preferiva, si manifestava quel naturale, indistruttibile desiderio di libertà insito nella natura umana – una identica aspirazione egli vedeva e riconosceva nella gente dei lager. La libertà pareva immortale da ambedue i lati del filo spinato.
Una sera, dopo il lavoro, egli cominciò a ripassare nella memoria le parole dei lager. Dio mio, ad ogni lettera dell’alfabeto compariva una parola concentrazionaria... E su ognuna si sarebbero potuti scrivere articoli, poemi, romanzi...
Arresto... Baracca... Clr44... Documenti... Enkavedista45... Fame... Guardiano del convoglio..., e così via sino in fondo all’alfabeto. Un mondo immenso, con una sua lingua, una sua economia, un suo codice morale. Di libri cosiffatti si potrebbero riempire interi ripiani di scaffali: occuperebbero più spazio della Storia delle fabbriche e delle officine intrapresa da Gor’kij.
Ecco un soggetto: storia di un convoglio. Sua formazione, il convoglio in marcia, sorveglianza del convoglio... Come sembrano ingenui, domestici – se paragonati agli attuali convogli a tappe – quelli degli Anni Venti: il politico viaggiava allora in uno scompartimento riservato d’un vagone passeggeri, in compagnia di un agente della polizia segreta dello zar, che filosofeggiava e gli offriva pasticcetti ripieni di carne. Timidi embrioni della civiltà del lager, canuta età della pietra, pulcino appena uscito dal guscio.
Adesso invece un convoglio di sessanta vagoni diretto verso la regione di Krasnojarsk: una città carceraria semovente, carri merci a quattro assi, le finestrelle con l’inferriata, il tavolaccio a tre ripiani, i vagoni magazzino, i vagoni del comando pieni di sorveglianti, i vagoni-cucina, i vagoni con i cani poliziotto che durante le fermate vanno braccando lungo il convoglio; il capo del convoglio circondato, come il pascià delle favole, dall’adulazione dei cuochi, delle odalische-prostitute; i controlli, quando un sorvegliante s’introduce nel vagone e le altre guardie con le armi automatiche puntate sulle porte spalancate del carro merci tengono sotto mira i detenuti: gli uomini si stringono in un fitto mucchio, ma il sorvegliante spinge abilmente i detenuti segnati sulla lista verso l’altra parte del vagone, e per quanto il prigioniero si precipiti, il guardiano riesce sempre ad appioppargli un colpo di bastone sul sedere o sulla zucca.
Non molto tempo addietro, subito dopo la Grande Guerra Patriottica, hanno collocato, sotto il fondo delle vetture di coda, dei rastrelli d’acciaio. Se durante il viaggio un detenuto sfonda il pavimento e si getta lungo disteso tra le rotaie, il rastrello lo afferra, lo strappa, lo scaglia sotto le ruote, e chi s’è visto s’è visto; per quelli che, spaccato il soffitto, si arrampicano sul tetto del vagone, hanno piazzato lassù dei fari che a sciabolate squarciano le tenebre, dalla locomotiva fino al vagone di coda; e la mitragliatrice puntata lungo l’asse del convoglio sa cosa deve fare se un uomo corre sul tetto. Sì, tutto progredisce. L’economia del convoglio si è cristallizzata: il prodotto aggiunto, la solita beatitudine degli ufficiali di scorta nel vagone del comando, la cresta fatta sul pasto dei detenuti e dei cani, i soldi della trasferta calcolati in base ai sessanta giorni di marcia del convoglio diretto verso i lager della Siberia orientale, il traffico di merci all’interno dei vagoni, la feroce accumulazione primitiva e la parallela depauperazione all’interno dei vagoni. Sì, tutto scorre, tutto muta, impossibile salire sullo stesso, immutabile convoglio.
Ma chi descriverà la disperazione di quell’andare che porta lontano dalle mogli, quelle confessioni notturne tra lo sferragliare delle ruote e il cigolio dei vagoni, la rassegnazione, la credula fiducia, quell’affondare nel baratro del lager, la lettera gettata dall’oscurità del carro merci nell’oscurità dell’immensa cassetta postale della steppa? Eppure arrivavano a destinazione!
Nel convoglio manca ancora l’assuefazione al lager, alla stanchezza, alla testa frastornata dalle preoccupazioni del lager; per il cuore sanguinante tutto è inconsueto, tutto è orribile: la semioscurità, gli scricchiolii, le assi ruvide, il contorcersi dei ladri, lo sguardo opaco delle guardie di scorta.
Ecco, hanno issato sulle spalle, fino alla finestrella, un giovanotto, e quello grida:
«Nonno, nonno, dove ci stanno portando?».
E tutti nel carro merci sentono la voce incrinata, strascicata del vecchio:
«In Siberia, caro, ai lavori forzati...».
D’un tratto Ivan Grigor’evič rifletté: chissà, era quella magari la mia strada, il mio destino. Sì, con quei carri merci mi sono messo per via. Ed ecco, adesso il viaggio è finito.
Quei ricordi del lager, che spesso si risvegliavano in lui senza un nesso specifico, lo tormentavano con la loro caoticità. Egli sentiva, ricordava che si può venire a capo del caos, che esistevano in lui le forze per farlo e che adesso, finita la strada del lager, era venuto il momento di vedere l’evidenza, di distinguere quali erano le regole in quel caos di sofferenze, quali le contraddizioni fra colpa e santa innocenza, tra il falso riconoscimento dei propri delitti e la devozione fanatica, tra l’assurdità dell’assassinio di milioni di persone innocenti e di gente devota al partito, e il ferreo significato di quegli assassinii.
12
Ultimamente Ivan Grigor’evič si era fatto taciturno, parlava appena, con Anna Sergeevna. Ma spesso, sul lavoro, il suo pensiero andava a lei, ad Anna, e seguitava a sbirciare la pendola, al muro dell’officina meccanica: quanto manca per tornare a casa?
E chissà perché, in quelle taciturne giornate, egli andava pensando alla vita del lager; per lo più gli tornava in mente la sorte delle donne, nel lager... Gli sembrava di non aver mai pensato tanto alle donne.
... La parità della donna con l’uomo è stata affermata non sulle cattedre e nei lavori dei sociologi... La sua parità non è dimostrata solo nel lavoro in fabbrica, nei voli nel cosmo, nel fuoco della rivoluzione – essa è affermata in tutta la storia della Russia, ora e sempre e per omnia saecula saeculorum, dalla sofferenza di chi ha conosciuto la servitù della gleba, i lager, i convogli, le prigioni.
Se si pensa ai tanti secoli di servitù, alla Kolyma, a Noril’sk, a Vorkuta, la donna ha raggiunto la parità con l’uomo.
E una seconda verità ha confermato il lager, semplice come un precetto: la vita degli uomini e delle donne è indivisibile.
C’è una forza satanica nell’interdire, nel porre dighe. Rattenuta da una diga, l’acqua dei torrenti e dei fiumi sviluppa una sua forza segreta, oscura. Quella forza segreta, nascosta nella tenera sabbia, nei riflessi del sole, nell’ondeggiare delle ninfee, svela d’un tratto la spietata perfidia dell’acqua: scardina i massi, sospinge a folle velocità le pale della turbina.
Disumana è la potenza della fame, se appena un impedimento separa l’uomo dal suo pane. La buona e naturale esigenza di nutrirsi si trasforma in una forza che distrugge milioni di vite, costringe le madri a mangiare i propri figli: la forza della barbarie, dell’abbrutimento.
L’interdizione che nei lager separa gli uomini dalle donne, contorce i loro corpi e le loro anime.
Tutto nella donna – la sua tenerezza, la sua premura, la sua passione, il suo istinto materno – è il pane e l’acqua della vita. Tutto ciò nasce nella donna perché a questo mondo ci sono mariti, figli, padri, fratelli. E ciò che colma la vita dell’uomo è l’esistenza di mogli, madri, figlie, sorelle.
Ma ecco introdursi nella vita la forza della proibizione. E tutto quel che v’è di semplice, di buono – il pane e l’acqua pura della vita – rivela improvvisamente il suo abietto livore e la sua tenebrosità.
Come in un sortilegio, la costrizione, il divieto, trasformano inesorabilmente, all’interno dell’uomo, il buono in cattivo.
... Tra il lager femminile e quello maschile correva una striscia di terra disabitata; la chiamavano la zona del fuoco: le mitragliatrici aprivano il fuoco non appena una persona appariva sulla terra di nessuno. Strisciando sul ventre, i criminali attraversavano la zona del fuoco, si scavavano un passaggio scivolando sotto il ferro spinato, oppure lo scavalcavano, e chi non aveva fortuna restava steso lì, con la testa perforata da una pallottola o le gambe fracassate. Tutto ciò ricordava il folle, tragico cammino dei pesci in fregola risalenti il corso dei fiumi, sbarrati dalla diga.
Nei lager a regime durissimo – dove per lunghi anni le donne non vedevano la faccia di un uomo, non sentivano una voce maschile – quando capitavano per qualche lavoro dei fabbri, degli autisti, dei falegnami, quelle li molestavano, li martirizzavano, li torturavano, li uccidevano. I criminali avevano paura di quei lager, dove le donne consideravano una fortuna sfiorare con la mano la spalla di un uomo morto; avevano paura di andarci anche se protetti da una scorta armata.
Un cupo e tetro male snaturava la gente dei lager, cancellandone l’umanità.
All’ergastolo le donne costringevano altre donne a innaturali convivenze. Nelle baracche dei lager femminili si formavano personaggi assurdi: donne-maschio dalle voci arrochite, l’andatura pesante, i modi mascolini, coi pantaloni infilati in stivali da soldato. E al loro fianco spuntavano poveri esseri sperduti, le lesbiche passive.
Le donne-maschio bevevano čifir,46 fumavano tabacco forte, quando erano ubriache percuotevano le loro bugiarde, sventate amiche, ma nello stesso tempo le proteggevano a pugni e a coltellate dalle offese e dalle brutali pretese delle altre. Questo tragico, mostruoso mondo di rapporti è ciò che nei lavori forzati a vita viene chiamato amore. Qualcosa di terribile, che non suscitava riso, né discorsi salaci, ma soltanto orrore nell’animo di ladri e assassini.
Nella galera la frenesia amorosa non teneva conto delle distanze della taigà, dei fili spinati, delle mura di pietra, delle sentinelle, dei chiavistelli, delle baracche di punizione – essa la vinceva sui cani lupo, sulle lame dei coltelli, sulle pallottole dei sorveglianti. Allo stesso modo, gli occhi fuori dalle orbite, la spina dorsale spezzata, si gettano avanti in fregola i pesci dell’oceano, risalendo la corrente, fracassandosi contro le rocce e i ciottoli delle rapide e delle cascate montane.
Eppure, in quegli stessi lager, gli uomini conservano il loro amore per le mogli, per le madri; mentre le fidanzate «per corrispondenza» – che mai avevano visto né mai avrebbero veduto il loro fidanzato, scelto per lettera in un altro lager – erano pronte a qualsiasi tortura pur di restare fedeli al misero promesso sposo del lager, pur di credere a quella immaginaria finzione.
Qualcosa si può ben perdonare all’uomo se, nel fango e nel fetore della violenza concentrazionaria, egli resta pur sempre un uomo.
13
Mite Mašen’ka... Ormai non porta più le sue calze sottili e il golfino di lana blu. È difficile mantenersi puliti nel vagone merci; tutta tesa, ella presta orecchio alla strana parlata – ma parlano russo? – delle ladre sue compagne di giaciglio. Guarda con terrore la regina del convoglio: un’isterica dalle labbra pallide, amante di un famoso ladro di Rostov.
Maša ha lavato il fazzolettino nella ciotola, e con l’acqua rimasta ha dato una passatina alla pianta dei piedi, e adesso, mentre fa asciugare il fazzoletto su un ginocchio, si guarda attorno, nella semioscurità.
Gli ultimi mesi si confondono in una nebbia: il pianto della piccola Jul’ka, di tre anni, che ha fatto indigestione il giorno del suo compleanno, le facce degli uomini venuti a perquisire, la biancheria, i grafici, le bambole, i piatti sul pavimento, il ficus – regalo di nozze della mamma – estratto dal vaso, l’ultimo sorriso del marito, dalla porta di camera, un povero sorriso che supplicava fedeltà – al ricordo di quel sorriso lei gridava, si afferrava la testa; poi le folli settimane, in cui tutto era come prima, ma accanto ai pentolini con la kaša per Jul’ka c’era il raggelante terrore della Lubjanka; le file nell’androne della prigione interna, la voce dallo sportello: «si rifiuta la consegna», le corse da un parente all’altro, il ritenere a memoria gli indirizzi delle persone care, la vendita affrettata, da inesperta, dell’armadio a specchi e dei libri edizione Academia,47 il dolore perché la sua amica più cara aveva smesso di telefonarle, e daccapo visite notturne, con la perquisizione fino all’alba, la separazione da Jul’ka, che non sarà stata certo affidata alla nonna, l’avranno messa in un orfanotrofio; la prigione della Butyrka, dove parlavano in un sussurro, dove si adoperavano come aghi per cucire i fiammiferi o le spine di pesce ripescate nella brodaglia; il variopinto balenare di decine di fazzoletti, mutandine, reggiseni lavati, che le recluse facevano asciugare sventolandoli nell’aria; l’interrogatorio di notte: ed ecco, per la prima volta nella sua vita le alzano il pugno addosso, le danno del tu, la chiamano puttana, prostituta. L’accusavano di non aver denunciato il marito, lui era stato condannato a dieci anni senza diritto alla corrispondenza, per mancata denuncia di atti terroristici.
Maša non capiva perché lei, e decine di altre come lei, dovevano denunciare il marito, perché Andrej, e centinaia di altri come lui, dovessero denunciare i compagni di lavoro, gli amici d’infanzia. Il giudice istruttore l’aveva convocata una sola volta. Poi erano passati otto mesi di carcere: giorno e notte, notte e giorno. La disperazione si era tramutata nell’attesa passiva della sorte; e d’improvviso, come da un’onda marina, veniva avvolta dalla speranza, dalla certezza di un prossimo incontro con il marito e la figlia.
Infine, il carceriere le aveva messo in mano una strisciolina di carta da sigarette, e lei aveva letto: 58-6-12.48
Ma neppure dopo questo aveva smesso di sperare: chissà che tutto non venga cassato, mio marito è prosciolto, Julja sta a casa – e noi c’incontriamo, per non separarci mai più. E all’idea di quell’incontro sentiva ondate calde e fredde di felicità.
Una notte la svegliarono: «Ljubimova, con la roba!». Nel nero cellulare, senza neanche passare per la prigione di transito della Krasnaja Presnja, la trasportarono alla stazione merci della ferrovia e la caricarono su un convoglio...
Le tornava vivida alla memoria, in particolare, la mattina dopo l’arresto del marito, quasi quella giornata non fosse ancora finita.
La porta d’ingresso era stata sbattuta, il rombo del motore si era allontanato, tutto era tornato silenzioso. Il suo animo fu invaso dal terrore. Squillò il telefono nel corridoio, l’ascensore si fermò improvvisamente sul pianerottolo, dinanzi alla sua porta, una vicina uscì ciabattando dalla cucina, poi il ciabattio si fermò, di colpo.
Lei aveva ripulito con uno straccio i libri sparsi sul pavimento, li aveva rimessi sulla scansia, aveva fatto un fagotto della biancheria gettata per terra – voleva farla bollire, la roba della camera le sembrava fosse stata insozzata. Rimise il ficus nel portavaso e accarezzò il suo fogliame di cuoio: Andrjuša rideva di quel ficus, lo aveva definito il simbolo del piccolo-borghese, e lei era d’accordo, nel suo intimo. Maša però non aveva mai permesso che si offendesse quel ficus, e aveva proibito ad Andrej di portarlo in cucina: le rincresceva per la mamma. Era così vecchia, ormai, la mamma, e glielo aveva portato in regalo attraversando tutta Mosca, trascinandolo su per cinque piani – in quei giorni l’ascensore era in riparazione.
Tutto era silenzioso! I vicini però non dormivano, la compiangevano, ma avevano paura di lei; tutti in sollucchero dalla felicità che non fosse per loro quel mandato di perquisizione e d’arresto. Julen’ka dormiva, e lei metteva in ordine la stanza. Non era solita occuparsi con tanta accuratezza delle pulizie. In genere lei era indifferente alle cose; i lampadari, il bel vasellame non avevano mai risvegliato il suo interesse. C’era chi la reputava una cattiva padrona di casa, una sciattona. Ma ad Andrej piaceva l’indifferenza di Maša verso gli oggetti, e il disordine della stanza. Adesso però le sembrava che se ogni cosa fosse stata al suo posto, si sarebbe sentita meglio, più calma.
Si guardò allo specchio, gettò uno sguardo alla stanza riordinata. Ecco là I viaggi di Gulliver sulla scansia, dove stava ieri, prima della perquisizione; il ficus era tornato sul tavolino. E Julja, che fino alle quattro del mattino aveva pianto, avvinghiata alla madre, adesso dormiva. Il corridoio era silenzioso, i vicini non facevano ancora chiasso, in cucina.
E nella sua stanza, decorosamente rassettata, Mašen’ka provò una disperazione ancor più lancinante. Fu avvolta da un impeto di tenerezza, d’amore per Andrej, e insieme – nel silenzio della casa, attorniata dai soliti oggetti – essa percepì come non mai la forza implacabile, capace di piegare l’asse terrestre: quella forza si era impossessata di lei, di Jul’ka, della piccola camera della quale lei diceva:
«A me non occorrono neppure venti metri quadri con balcone, perché qui io sono felice».
Julja! Andrjuša! La portano via da loro! Il rumore cadenzato delle ruote le spezza il cuore. Si sta allontanando sempre più da Julja, ogni ora che passa l’avvicina a quella Siberia datale in cambio della vita con quelli che lei ama.
Mašen’ka non indossa più la sua gonna a quadretti, la ladra dalle pallide labbra sottili si ravvia i capelli elettrizzati e crepitanti con il pettine di Maša.
Non c’è dubbio che solo in un giovane cuore di donna possano convivere questi due tormenti: l’appassionato desiderio di salvare il proprio inerme bambino, e nello stesso tempo sentirsi infantilmente indifesa dinanzi alla collera dello Stato, la voglia di nascondere la testa nel seno della mamma.
Quelle unghie sudicie e spezzate erano curate, un tempo, la loro tinta affascinava Jul’ka, e una volta il papà aveva detto alla bambina: «Mamma ha le unghiette come le scaglie dei pesciolini». Ecco, neppure un po’ della sua permanente si è salvata; era stata dal parrucchiere un mese prima dell’arresto di Andrjuša, quella volta che doveva andare con lui al compleanno di un’amica, la stessa che aveva smesso di telefonarle.
Julen’ka, la sua Julen’ka – così timida, così nervosa: in un orfanotrofio. Maša soffoca un lamento doloroso, gli occhi le si annebbiano: come proteggere la sua figlioletta dalle crudeli sorveglianti, dai bambini cattivi, dagli abiti rozzi e stracciati dell’ospizio, dalle coperte militari, dal pungente cuscino di paglia. Intanto il vagone scricchiola, le ruote battono insistenti – Mosca e Julja sempre più lontane, la Siberia sempre più vicina.
Dio mio, ma tutto questo è successo veramente? Per un attimo tutto quel che accade adesso le pare un sogno: questa soffocante semioscurità, la gamella di alluminio, le ladre che fumano machorka stese sui ruvidi giacigli, la biancheria sudicia, il corpo che prude, e l’angoscia nel cuore: «Speriamo che arrivi presto la fermata, almeno la guardia mi proteggerà dalle detenute comuni»; poi, alla fermata, il terrore dinanzi ai calci di fucile sollevati, alle bestemmie e alle parolacce della scorta, e il pensiero: «purché si riparta alla svelta»; perfino le ladre dicono: «Il convoglio per Vologda è peggio della morte».
Ma la sua sciagura non risiede nei giacigli scricchiolanti, o nel ghiaccio alle pareti dei vagoni non appena la stufa accenna a spegnersi, né sta nella crudeltà della scorta o nell’indecenza delle ladre. La sciagura sta nel fatto che, nel vagone, si è attenuato l’istupidimento in cui il suo spirito si era racchiuso come in un bozzolo durante gli otto mesi trascorsi nella cella della prigione.
Ella percepisce con tutto il suo essere i novemila chilometri in cui sprofonda, fino al sepolcro della notte siberiana.
Qui non c’è, come in prigione, quella speranza insensata di vedere aprirsi la porta della cella, mentre il carceriere urla: «Ljubimova, in libertà, con la roba»; e allora lei esce sulla Novoslobodskaja, prende l’autobus per andare a casa, e trova Andrej e Julja che l’aspettano.
Nel vagone non c’è più intontimento, né c’è ancora la smemorata stanchezza del lager; c’è solo e unicamente un cuore che sanguina.
E se Julja bagna le mutandine? Si laverà le mani, si soffierà il naso? Lei ha bisogno di verdure, e di notte si scopre sempre, dorme mezzo nuda.
Oramai Mašen’ka non ha più le scarpe, porta degli scarponi da soldato, e uno ha la suola staccata. Ma è proprio lei? Quella Marija Konstantinovna che leggeva Blok, aveva frequentato l’istituto di filologia, che di nascosto da Andrej scriveva versi? Quella Maša che correva sull’Arbat a prendere appuntamento dal parrucchiere Ivan Afanas’evič – Jean –, quella Mašen’ka che sapeva non solo leggere i libri, ma anche fare il boršč e la torta Napoleone, e cucire, e che aveva allattato la figlia? Quella Maša sempre in ammirazione di Andrjuša, della sua operosità, della sua modestia? Quella che tutti elogiavano, perché amava Julja e Andrjuša con tanta devozione, quella Maša capace di piangere e di fare la mattacchiona, e di risparmiare il centesimo?
Il convoglio avanza sempre più, mentre Maša sente i primi segni del tifo: la testa confusa, ingarbugliata, pesante. Ma no, niente tifo, lei sta bene. E qui, nel convoglio, la speranza ha di nuovo trovato una stradina verso il suo cuore. Eccoli arrivati al lager, e le gridano: «Ljubimova, fuori dalla fila, c’è un telegramma che ti riguarda: sei libera» – e così di seguito e via dicendo: viaggia verso Mosca su un treno passeggeri, ecco Sofrino, Puškino, ecco la stazione Jaroslavskaja, vede Andrej e prende Julja in braccio.
E la speranza la fa spasimare: che si arrivi alla svelta al terminale siberiano, dove le consegneranno il telegramma che la dichiara libera. Come si affrettano le magre gambette di Julja, ella corre accanto al vagone, mentre il treno rallenta.
Ed eccola invece, derubata dalle ladre, eccola scendere dal convoglio, le dita gelate nascoste nelle maniche del bisunto giaccone imbottito, un lurido asciugamano di spugna legato alla testa. E, accanto, il vetrigno scricchiolio della neve sotto le scarpe di centinaia di donne moscovite, condannate a dieci anni di lager per non avere denunciato i propri mariti.
Vengono avanti passo passo con le gambe calzate di seta, incespicando sulle scarpe con i tacchi alti. Invidiano Maša, sì, lei ha viaggiato nel vagone insieme alle ladre, non con le «mogli», lei è stata derubata, ma ora indossa un giaccone imbottito, e anche gli scarponi potrà imbottire di carta e di stracci.
Inciampano, si affrettano, cadono, le mogli dei nemici del popolo, raccolgono in fretta i fagottini e il loro contenuto che si è sparso sulla neve, ma di piangere hanno paura.
Maša si guarda attorno: alle sue spalle c’è il deposito ferroviario, i vagoni merci sono come una collana rossa su un corpo niveo, dinanzi invece si contorce un serpente nerastro: sono le deportate in traduzione che girano attorno a una catasta di legname cosparsa di neve, la scorta in pellicciotti favolosamente caldi, latrano i cani da pastore nel loro caldo, folto pelame. È pura da ubriacarsene, l’aria, dopo due mesi di convoglio, e ferisce più della lama d’un rasoio. S’è alzato il vento, sulla terra non dissodata corre un’asciutta polvere di neve, la testa della colonna scompare in una bianca caligine. Il gelo sferza la faccia, le gambe. Maša si sente girare la testa.
E d’improvviso – oltre la stanchezza, oltre la paura di congelarsi e ritrovarsi con una cancrena, oltre il sogno di arrivare infine al caldo e prendere un bagno, oltre lo smarrimento dinanzi a una vecchia corpulenta dagli occhiali a pince-nez distesa sulla neve con un viso dall’espressione stranamente capricciosa – la ventiseienne Maša vide, avvolto in una nebbia nevosa, il suo destino dentro il lager... Intanto, alle sue spalle, a migliaia di verste, nel vicolo Spasopeskovskij, sul suo precedente destino pende e ciondola il sigillo di ceralacca apposto dalla polizia. Nella nebbia cominciano ad apparire le torri con le guardie armate avvolte nei loro tulup,49 il cancello spalancato. E in quell’attimo Maša vide con chiarezza le sue due vite: quella scomparsa e quella sopraggiunta.
Ella corre, inciampa, soffia sulle dita ghiacciate, e quell’insensata speranza non l’abbandona: ecco, arriveranno al lager, e là le comunicheranno che è giunto per lei l’ordine di liberazione. Per questo corre a quel modo, precipitandosi, col fiato corto.
Che lavoro pesante era il suo! Come le doleva il ventre, come le si spezzavano le reni sotto il peso esorbitante, impari alle forze di una donna, dei grumi di calce da trasportare, anche vuota la carriola sembrava di piombo. Come pesavano le pale, i picchetti, le assi, le travi, i mastelli d’acqua sporca, i buglioli ricolmi di escrementi, le montagne di gocciolante biancheria lavata, pesanti decine e decine di chili.
Come pesava la strada nella nebbia antelucana, nell’oscurità, verso il posto di lavoro, come pesavano gli appelli in mezzo al fango e al gelo; come nauseante eppure quanto desiderata la sbobba di granturco con un pezzo di trippa, con le esecrabili scaglie del pesce che si appiccicavano al palato; come rubavano perfidamente, crudelmente nelle baracche, che brutti discorsi facevano, la notte, sui pancacci, quale infame tramenio, con bisbigli e fruscii; che continuo desiderio si aveva di quel pane nero raffermo toccato dalla canizie della muffa.
Mucha, un «comune» che lavorava alle caldaie del riscaldamento, si era messo con la sedicenne Lena Rudol’f, la vicina di pancaccio di Maša. Lena aveva contratto la sifilide, stava perdendo le unghie delle mani e i capelli. Il reparto sanitario l’aveva trasferita in un lager per invalidi, mentre la madre di Lena, la buona e servizievole Sjuzanna Karlovna – dagli occhi luminosi, che nel lager aveva conservato la sua eleganza – continuava a lavorare, pur avendo i capelli bianchi. Prima dell’alba Sjuzanna Karlovna faceva ginnastica, si sfregava con la neve.
Maša lavorava fino a buio come una cavalla, una cammella, un’asina. Il suo era un lager a regime duro, lei non aveva diritto alla corrispondenza, non sapeva se il marito era vivo, o se l’avevano giustiziato, dov’era la sua Jul’ka, se era andata a finire nell’orfanotrofio, se si era sperduta come una bestiola senza nome, o se la mamma di Maša l’aveva rintracciata, ma era poi viva la sua mamma, era vivo suo fratello Volodja? Quasi fosse abituata a non avere notizie dei suoi, non sembrava neanche sognarsela una lettera, desiderava soltanto un lavoro più leggero, non al gelo, non nella taigà dove gli insetti ti divorano, ma nella cucina, nell’infermeria.
Continuava però a provare angoscia per il marito, per la figlia; non era morta la speranza: sembrava, ma era soltanto sopita. E Maša ne sentiva il sonno come si sente sulle braccia un bambino addormentato e, quando la speranza si risvegliava, il cuore della giovane donna si riempiva di felicità, di luce e di afflizione.
Avrebbe ancora riveduto Julja e il marito. Certo non oggi, non domani. Passeranno anni, ma lei li rivedrà: come sei incanutito, che occhi tristi hai... Julen’ka, Julen’ka! Questa fanciulla pallida e sottile è sua figlia. E Maša si agita: la riconoscerà, Julja, si ricorderà di lei, della sua mamma del lager, non le volgerà le spalle?
Il caposorvegliante, Semisotov, l’aveva costretta a diventare sua concubina, le aveva rotto due denti, l’aveva colpita alla tempia; questo era successo nel suo primo autunno di lager. Lei aveva provato a impiccarsi, ma non le era riuscito, la corda era marcia. Di contro, alcune delle donne la invidiavano. Sopravvenne in lei una mesta indifferenza; due volte la settimana si trascinava da Semisotov, in un locale adibito a magazzino, dove c’erano dei tavolacci di legno ricoperti di pelle di pecora. Semisotov era sempre cupo, taceva, e lei ne aveva una paura da matti, le venivano addirittura conati di vomito quando lui, ubriaco, s’infuriava. Ma una volta che lui le diede cinque caramelle, lei pensò: «Poterle mandare a Julja, in orfanotrofio!». E non le aveva mangiate, le aveva nascoste dentro il pagliericcio del suo giaciglio. Poi gliele rubarono. Una volta Semisotov aveva detto: «Siete sporca; una prostituta, una contadinaccia non arriverebbe a tanto lerciume». Le dava sempre del voi, anche quando era completamente ubriaco. Le parole di Semisotov la rallegrarono, e tuttavia pensò: se mi scaccia, mi toccherà nuovamente lavorare all’impasto della calce.
Una sera Semisotov lasciò il lager senza fare ritorno. Più tardi lei venne a sapere che era stato trasferito. Fu contenta di potersene stare sul pancaccio della baracca, la sera, di non dover andare, a testa bassa, al magazzino. Ma poi la cacciarono dall’ufficio dove, quando c’era Semisotov, lavava i pavimenti e accendeva le stufe: il fatto è che lei non aveva mance da dare, e il suo posto lo ottenne una ladra, quella che nel convoglio le aveva rubato la blusa di lana. Ne fu contenta e nello stesso tempo offesa: se ne era andato senza dirle neanche mezza parola di addio, peggio d’un cane l’aveva trattata. E sì che un tempo lei aveva il permesso di risiedere permanentemente a Mosca, viveva in una camera indipendente, insieme al marito e a Julja, si lavava in un bagno, mangiava in un piatto.
Il lavoro del lager nei mesi invernali era pesante, ma anche nei mesi estivi era pesante lavorare, e nei giorni di primavera e d’autunno lavorare era egualmente pesante; ormai lei non ricordava più né l’Arbat né Andrej, ma solo che al tempo di Semisotov lavava i pavimenti negli uffici. Proprio a lei era capitata quella cuccagna?
E tuttavia dentro di lei si celava la speranza. Si sarebbero riveduti... Certo, lei sarebbe stata ormai vecchia, completamente canuta. Julja avrebbe avuto dei bambini – ma si sarebbero pur sempre riveduti, non potevano non rivedersi.
Intanto la sua mente era piena d’angoscia, d’inquietudine, di preoccupazione. Ora le si strappava la camicia, ora le capitava un ascesso, ora le doleva la pancia e non si poteva ottenere il permesso per il reparto sanitario, ora le si spaccava improvvisamente la pelle dei talloni, e lei zoppicava, e le fasce dei piedi diventavano nere dalle macchie di sangue, ora si rompeva uno dei valenki,50 ora bisognava a tutti i costi, senza aspettare il turno del bagno, lavarsi almeno un poco, lavare almeno un po’ di biancheria, ora bisognava far asciugare il giaccone imbottito, zuppo di pioggia... E per ottenere qualsiasi cosa bisognava combattere: un pentolino di acqua calda, il filo per rammendare, l’ago da noleggiare, il cucchiaio col manico intero, una pezza per fare un rattoppo. Come salvarsi dai moscerini, come salvare la faccia, le mani dal gelo, perfido come la scorta del lager?
Ma gli alterchi punteggiati di bestemmie, le zuffe delle detenute non erano più facili da sopportare dei lavori del lager.
E intanto la vita di baracca continuava.
Zia Tanja, una donna di Orël addetta alle pulizie, sussurra: «disgraziato chi vive su questa terra...». Ha un viso rozzo, da contadina, che sembra duro, fanatico. Ma in zia Tanja non v’è durezza né fanatismo: solo e unicamente bontà. Perché è finita nel lager questa santa? Con quale incredibile mitezza ella è pronta a lavare il pavimento al posto di qualsiasi altra, ad eseguire servizi di turno che non toccano a lei.
Le vecchie monache Varvara e Ksenja parlano in rapido bisbiglio, ma tacciono appena mondane peccatrici si avvicinano a loro. Esse vivono in un mondo a parte: apporre la loro firma su una carta, è peccato; pronunziare il proprio nome secolare, è peccato; bere nel medesimo bicchiere usato da gente profana, è peccato; indossare il grosso saio di tela grezza del lager, è peccato. Le puoi ammazzare, tanto sono ostinate nella loro santità. Santità visibile nel loro abbigliamento, nelle bianche pezzuole da collo, nelle labbra serrate; ma nei loro occhi c’è freddezza e disprezzo per le sofferenze del lager, per il peccato. Ripugnano alla loro santa verginità le passioni, i dolori delle donne, le sofferenze delle madri, delle mogli – tutto ciò sembra loro impuro. L’importante è mantenere il nitore della pezzuola, del bicchiere, tenersi distaccate, a labbra strette, dall’impura vita del lager. Le ladre le odiano, le «mogli» le vedono con poca simpatia, le scansano.
Mogli, mogli moscovite, leningradesi, kievite, char’koviane, di Rostov, donne dolenti, donne pratiche o lontane dalle cose del mondo, peccatrici, deboli, miti, cattive, irridenti, russe e non russe, donne insaccate nel grossolano saio del lager. Mogli di medici, ingegneri, artisti e agronomi, mogli di marescialli e di chimici, mogli di procuratori e di dekulakizzati proprietari d’un poderuccio, di agricoltori russi e bielorussi. Hanno tutte seguito i loro uomini nelle remote, selvagge oscurità sciitiche delle baracche-kurgan.51
Quanto più famoso era il nemico del popolo fatto sparire, tanto più larga era la cerchia delle donne che dietro a lui prendevano la via del lager: la moglie, la ex moglie, la primissima moglie, le sorelle, le segretarie, la figlia, l’amica della moglie, la figlia nata dal primo matrimonio.
Di alcune si diceva: «È straordinariamente semplice, modesta...», di altre: «Oh, è proprio insopportabile, una dama arrogante, come se anche qui godesse della protezione del Cremlino». Queste ultime hanno anche qui le loro mangia-a-ufo, le loro leccapiedi, sono circondate dall’aureola del potere e del loro fatale destino. Di loro si dice, sussurrando: «No, quelle non usciranno vive di qui».
C’erano delle vecchie dallo sguardo stanco, tranquillo, finite in carcere già al tempo di Lenin, che contavano a decine gli anni di prigione e di lager. Erano le populiste, le socialrivoluzionarie, le socialdemocratiche. Le guardie le stimavano, le ladre ne avevano rispetto, esse non si alzavano dal tavolaccio neppure quando entrava nella baracca il capo in persona. Si raccontava che una di loro, Ol’ga Nikolaevna, un’esile vecchina dai capelli bianchi, prima della rivoluzione fosse una anarchica. Aveva buttato una bomba nella carrozza del governatore di Varsavia, aveva sparato su un generale della gendarmeria. Adesso se ne sta seduta sul pancaccio del lager e legge un libriccino, bevendo acqua calda dalla tazza di metallo. Una volta Maša era tornata di notte dal magazzino di Semisotov, quella vecchia le si era avvicinata, le aveva accarezzato la testa, e le aveva detto: «Povera bambina mia». Ah, come aveva pianto Maša, allora.
Non lontano da Maša è distesa sul pancaccio Sjuzanna Karlovna Rudol’f. Suo marito, un professore tedesco emigrato in America, era un socialcristiano; venuto poi nell’Unione Sovietica con la famiglia, aveva preso la cittadinanza sovietica. Il professor Rudol’f era stato condannato a dieci anni senza diritto alla corrispondenza: venne fucilato alla Lubjanka. Sjuzanna Karlovna e le tre figlie – Agnessa, Luiza e Lena – finirono in un lager a regime duro. Sjuzanna Karlovna non sa niente delle figlie; neanche la più giovane, Lena, è rimasta con lei, è stata trasferita al lager per gli invalidi. Sjuzanna Karlovna non saluta Ol’ga Nikolaevna, ché la vecchia dava a Stalin del fascista, e chiamava Lenin assassino della libertà russa. Sjuzanna Karlovna dice che lei contribuisce col suo lavoro alla costruzione di un mondo nuovo, e ciò le dà la forza di sopportare la separazione dal marito e dalle figlie. Sjuzanna Karlovna raccontava che quando abitavano a Londra avevano fatto amicizia con Herbert G. Wells, e che a Washington s’incontravano con Roosevelt, al presidente piaceva far conversazione con suo marito. Lei accetta tutto, tutto le è chiaro, una cosa sola le rimane incomprensibile: aveva veduto la persona venuta ad arrestare il professor Rudol’f farsi scivolare in tasca una grossa moneta d’oro, un pezzo da collezione, grande come il palmo della mano d’un bambino, che valeva un centinaio di dollari. Sulla moneta era raffigurato il profilo di un indiano con le penne; nell’eseguire la perquisizione, costui aveva preso la moneta per portarla al suo bambino, senza neanche pensare che fosse d’oro.
Tutte queste donne – pure o cadute, esauste o con sette spiriti – vivevano nel mondo della speranza. Una speranza ora sveglia, ora sopita, ma che non le abbandonava mai.
Anche Maša sperava – d’una speranza tormentosa; ma la speranza permette di respirare anche quando tormenta.
Dopo il regime duro dell’inverno siberiano, lungo come una condanna al lager, era arrivata una pallida primavera, e Maša era stata mandata, insieme ad altre due donne, a riparare la strada che portava alla «cittadina socialista» dove abitavano, in villette di legno, i comandanti del lager e il personale salariato.
Da lontano le era parso di scorgere, alle alte finestre, le sue tendine di quando abitava sull’Arbat, e la sagoma del ficus. Vide una fanciullina con la cartella di scuola salire i gradini del ballatoio esterno ed entrare nella casa del dirigente amministrativo del lager a regime duro.
La guardia di scorta aveva detto: «Ehi tu, sei venuta a vedere il cinema?». Quando poi, alla luce del crepuscolo, tornarono al lager, verso il deposito della segheria, la radio di Magadan prese a suonare.
Maša e le due donne che con lei si trascinavano, scalpicciando nel fango, misero giù le pale e si fermarono.
Sullo sfondo del cielo scolorito si rizzavano le torri di vedetta, e in esse, come mosconi intirizziti, stavano le sentinelle nei loro neri pellicciotti a vita, mentre le tozze baracche sembravano essere spuntate dalla terra, incerte se rientrarvi nuovamente.
La musica non era triste, era una musica allegra, da ballo, e Maša cominciò a piangere, ascoltandola, come le pareva di non avere mai pianto in vita sua. Anche le due donne al suo fianco – una di loro era una dekulakizzata, la seconda invece era una di Leningrado, anziana, con gli occhiali dalle lenti screpolate – piangevano, ritte accanto a Maša. E sembrava che le screpolature sulle lenti degli occhiali fossero segni lasciati dalle lacrime.
L’uomo di scorta rimase interdetto: le detenute piangevano di rado, i loro cuori erano rappresi dal gelo, come la tundra.
Con una spinta alla schiena l’uomo le sollecitò:
«Basta adesso, piantatela, andate a farvi fottere, donnacce, ve lo chiedo come un favore».
Seguitava a guardarsi attorno, mai gli sarebbe venuto in mente che le donne piangevano a causa della radio.
Maša stessa, del resto, non capiva perché il suo cuore si fosse improvvisamente riempito d’angoscia e disperazione; come se tutto ciò che era accaduto nella sua vita si fosse unito in un solo groppo: l’amore della mamma, l’abito di lana a quadretti che le stava così bene, Andrjuša, i bei versi, il grugno del giudice istruttore, l’aurora con l’improvviso scintillio del sole sul mare azzurro, a Kelasuri, vicino a Suchum, il chiacchiericcio di Jul’ka, Semisotov, le vecchie monache, gli sfrenati litigi delle donne-uomo, l’angoscia che le veniva dal fatto che la caposquadra, socchiudendo gli occhi, aveva preso a fissare lo sguardo su Maša, allo stesso modo con cui la guardava Semisotov. Perché mai, d’un tratto, al suono allegro di quella musica da ballo ella aveva cominciato a sentire così intensamente sulla pelle la sporcizia della camicia, e le scarpe pesanti come rozzi ferri da stiro, il puzzo di sudore della giubba; perché all’improvviso, fendendole il cuore come un rasoio, quella domanda: perché, perché era capitato a lei, Maša, perché proprio a lei quel freddo gelido, quella depravazione spirituale, quella progressiva accettazione del suo destino di ergastolana?
La speranza, che sempre le era gravata sul cuore con il suo vivo peso, era scomparsa, morta.
Al gaio suono di quella musica da ballo Maša aveva perduto per sempre la speranza di rivedere Julja, smarrita tra gli orfanotrofi, gli istituti per l’infanzia abbandonata, le colonie, gli asili, nell’immensa Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Al gaio suono di quella musica ballavano i ragazzi, nelle case dello studente e nei club studenteschi. E Maša capì che suo marito non si trovava in nessun posto, che era stato fucilato, e che lei non l’avrebbe rivisto mai più.
Ed ella rimase senza speranza, assolutamente sola... Mai avrebbe riveduto Julja, né oggi, né da vecchia con i capelli bianchi, mai.
Dio, Dio, abbi misericordia di lei; Signore, abbine pietà, proteggila Tu.
Un anno dopo Maša uscì dal lager. Prima di tornare in libertà essa giacque sull’assito di legno d’abete di una gelida baracca seminterrata; nessuno la sollecitava perché andasse al lavoro, nessuno la insultava; gli inservienti della baracca sanitaria distesero Maša Ljubimova in una cassa rettangolare fatta di assi inchiodate, di quelle che il reparto tecnico di controllo aveva scartato, gettarono un ultimo sguardo al suo viso – v’era in esso un’espressione di dolce estasi infantile e di sbigottimento, quella stessa con cui aveva ascoltato, nei pressi della segheria, quella gaia musica, dapprima rallegrandosi, e poi comprendendo di non avere più speranza.
E Ivan Grigor’evič pensò che ai lavori forzati della Kolyma non c’era parità di diritti fra uomini e donne – che per gli uomini il destino era, malgrado tutto meno penoso.
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Ivan Grigor’evič vide in sogno sua madre. Lei camminava sulla carrozzabile; si teneva da parte, evitando il flusso dei trattori, degli autocarri ribaltabili; e non riusciva a vedere il figlio. Lui le gridava: «Mamma, mamma, mamma...», ma il cupo frastuono dei trattori soffocava la sua voce.
Egli non aveva dubbi: nel via vai della strada lei avrebbe riconosciuto nel canuto galeotto del lager il suo figliolo – solo che lo avesse udito, solo che gli avesse gettato uno sguardo.
Disperato, spalancò gli occhi: china su di lui stava una donna semivestita – nel sonno egli aveva chiamato la madre, e la donna gli si era avvicinata.
Gli stava accanto. Subito, con tutto il suo essere, egli percepì che era bellissima. Sentendolo gridare nel sonno, gli si era avvicinata, provando per lui tenerezza e pietà. Gli occhi della donna non piangevano, ma egli vide in essi qualcosa di più che lacrime di compassione – vide quel che non aveva mai visto negli occhi della gente.
Era bellissima perché era buona. Le prese la mano. Lei gli si stese accanto, e lui sentì il suo tepore, sentì il suo tenero seno, le sue spalle, i suoi capelli. Gli sembrava di sentire quelle cose non da sveglio, ma in sogno: da sveglio non gli succedeva mai di essere felice.
Tutto in lei era bontà, e lui capiva con ogni fibra del suo corpo che la sua tenerezza, il suo tepore, il suo sussurrare erano bellissimi perché il suo cuore era pieno di bontà verso di lui, perché l’amore è bontà.
Prima notte d’amore.
Non s’ha voglia di ricordare, è così pesante, ma non riesci a dimenticare. È qualcosa di vivo che ora si assopisce, ora si sveglia. È come lo spezzone di un proiettile rimasto conficcato nel cuore. Non riesci a liberartene. Come dimenticare... Ero già perfettamente adulta.
Mio caro, l’ho molto amato, mio marito. Ero bella, e tuttavia ero cattiva, non ero buona. Avevo allora ventidue anni. Tu non mi avresti amato, allora, anche se ero bella. Lo so, in quanto donna lo sento: per te io non sono soltanto una con cui sei stato a letto. E quanto a me – non prendertela – io ti guardo come fossi Cristo. Ho sempre voglia di pentirmi dei miei peccati, dinanzi a te, come dinanzi a Dio. Mio bene, mio amato, voglio raccontartelo, voglio ricordare tutto quello che è stato.
No, quando espropriarono e liquidarono i kulaki, non ci fu fame, solo i cavalli morirono. La fame arrivò invece nel ’32, un anno dopo.
Io lavavo i pavimenti al CED,52 e una mia amica li lavava al reparto agrario, sicché sapevamo un mucchio di cose, io posso raccontare tutto quello che accadde. Il contabile mi diceva: «Ministro dovrebbero farti». Effettivamente, io capisco al volo, e ho un’ottima memoria.
La dekulakizzazione cominciò nel ’29, alla fine dell’anno, ma la svolta decisiva fu nel febbraio e marzo del ’30.
Ricordo bene: prima di arrestarli, imposero loro una tassazione. Loro la pagarono, una prima volta ce la fecero, la seconda volta ognuno vendé quel che poteva, pur di pagarla. Gli sembrava che, se pagavano, lo Stato avrebbe avuto pietà. Alcuni abbatterono le bestie, dal grano distillarono vodka – e giù a bere, a mangiare, non gl’importava di niente, tanto la nostra vita è finita, dicevano.
Forse in altre regioni le cose sono andate diversamente, ma nella nostra andò proprio così. Cominciarono coll’arrestare soltanto i capifamiglia. Per lo più prendevano quelli che sotto Denikin avevano prestato servizio nelle formazioni cosacche. A eseguire gli arresti era solo la GPU, gli attivisti qui non intervennero. Quelli della prima retata li fucilarono al completo, non rimase vivo nessuno. Quelli invece arrestati alla fine di dicembre li trattennero in prigione per due o tre mesi e poi li mandarono in «trasferimento speciale». Quando arrestavano i padri, le famiglie non le toccavano, facevano solo un inventario dei beni, che oramai non appartenevano più alla famiglia: le erano solo affidati.
La regione stendeva il piano: quanti kulaki eliminare in ogni distretto; i distretti dividevano la cifra per i soviet di villaggio, e infine i soviet di villaggio preparavano le liste. E secondo quelle liste li prendevano. Ma chi le preparava quelle liste? Una troika.53 Gente tutt’altro che limpida decideva chi dovesse vivere, chi morire. È evidente che capitava di tutto: e bustarelle, e storie di donne, e antiche offese. Ed erano sempre i poveracci a finire tra i kulaki, i più ricchi se la cavavano con i soldi.
Ora però mi avvedo che il malanno non veniva da lì, dal fatto che le liste le preparassero a volte dei farabutti. Tra gli attivisti c’era più gente onesta che farabutti; ma fossero gli uni o gli altri a compierlo, era pur sempre un delitto. L’essenziale è che tutte quelle liste erano ingiuste, erano un misfatto, metterci il nome dell’uno o dell’altro non era forse lo stesso? Ivan era innocente, ma anche Pëtr. Chi ha stabilito quella cifra per tutta la Russia? Chi ha predisposto quel piano per l’intera massa contadina? Chi l’ha firmato?
Messi in prigione i padri, all’inizio del 1930 cominciarono a prendere le famiglie. A questo punto la sola GPU non bastò, furono mobilitati gli attivisti, tutta gente come noi, che conoscevamo; a questi però cominciò a dar di volta il cervello: come affatturati, minacciano con i cannoni, chiamano i bambini dei kulaki «figli di puttana», gridano loro «sanguisughe!» – e intanto quelle sanguisughe restavano loro stesse senza una goccia di sangue nelle vene, pallide come un cencio dalla paura. Gli occhi degli attivisti erano di vetro, come quelli dei gatti. E sì che, per lo più, era proprio gente del paese. Un vero sortilegio: così montati erano, da non poter toccare niente: una salvietta era cosa immonda, non parliamo poi di sedersi alla tavola di un parassita, perfino un bambino di kulaki gli faceva ribrezzo, una ragazza poi era peggio di un pidocchio. Guardano quella gente da dekulakizzare come fosse del bestiame, dei porci, per loro tutto nei kulaki è repellente: non hanno personalità né anima, e puzzano, e sono tutti sifilitici, e – quel che più conta – sono nemici del popolo e sfruttano il lavoro altrui. La povera gente invece, e il komsomol, e la milizia – sono tutti dei Čapaev,54 degli eroi; ma se andavi a guardarli, quegli attivisti erano gente qualsiasi, trovavi fra loro anche dei mocciosi, anche la canaglia prendevano con loro.
Quelle parole cominciarono a fare effetto anche su di me, che ero proprio una ragazzetta; allora – e assemblee, e corsi sociali d’istruzione, e trasmettono per radio, e proiettano al cinema, e scrittori che scrivono, e Stalin in persona – tutti a battere sullo stesso tasto: i kulaki sono dei parassiti, bruciano il grano, ammazzano i bambini. Ce lo dichiaravano apertamente: bisognava sollevare contro di loro la collera delle masse, distruggerli tutti in quanto classe, i maledetti... Anch’io cominciai a restarne affascinata; mi convincevo sempre più che tutti i guai provenissero dai kulaki, e che se li avessimo distrutti, per i contadini sarebbero subito giunti tempi felici.
Niente pietà per loro: non erano degli uomini, non capivi neppure che razza di esseri fossero. Così entrai fra gli attivisti; ce n’erano di tutti i tipi: di quelli che ci credevano e odiavano i parassiti e stavano dalla parte dei contadini poveri; e c’erano di quelli che facevano i loro affari; ma per lo più c’erano quelli che eseguivano gli ordini – tipi che avrebbero ammazzato madre e padre, pur di eseguire le istruzioni. E non erano neppure i più cattivi, ché credevano in una vita felice, qualora si fossero eliminati i kulaki. Persino le bestie feroci, neanche quelle erano le più terribili. I più perfidi erano quelli che facevano i loro affari spargendo del sangue, quelli che parlavano a gran voce di coscienza, e intanto si facevano i loro calcoli e depredavano. Pronti a rovinarti per interesse, per delle cianfrusaglie, per un paio di stivali; rovinare uno era facile: scrivi su di lui, senza neanche firmare, scrivi che dei braccianti lavorano per lui, e che possiede tre mucche – ed è bell’e pronto un kulak. Tutte queste cose io le vedevo, mi agitavano, ma in fondo non ne soffrivo – se in fattoria non avessero abbattuto il bestiame secondo le regole, naturalmente mi sarei grandemente agitata, ma non ci avrei perso il sonno.
... Ma come, non ti ricordi come mi rispondesti? Io invece non dimentico nessuna delle tue parole. Sono illuminanti, solari. Ti avevo chiesto come avevano potuto, i tedeschi, nelle camere a gas, uccidere i bambini ebrei. Come potevano vivere, dopo questo? Quasi che gli uomini, e Dio, non li avrebbero giudicati. E tu dicesti: «Uno è il castigo del carnefice: lui, che non considera la sua vittima un uomo, cessa di essere uomo lui stesso; egli uccide l’uomo che è in lui, è il suo proprio carnefice; la vittima, invece, resterà un uomo nei secoli, per quanto tu lo distrugga». Ti ricordi?
Ora capisco perché andai a fare la cuoca, non volli più essere presidente del kolchoz. Ma di questo ti ho già parlato altra volta.
Adesso, quando ricordo l’abolizione dei kulaki, vedo tutto in modo diverso, l’incantamento è passato. Vedo in loro degli uomini. Perché mi ero tanto indurita? Come soffriva la gente, quante gliene facevano! E io a dire: non sono uomini, questi, è solo kulakaglia. E poi rivango, rivango e penso: chi ha inventato quella parola: kulakaglia? Che sia stato Lenin? Quale tormento si è addossato! Per ucciderli, si è dovuto spiegare che i kulaki non erano uomini. Sì, come quando i tedeschi dicevano: i giudei non sono uomini. Allo stesso modo Lenin e Stalin: i kulaki non sono uomini. Ma questa è una menzogna! Uomini! Uomini erano. Ecco ciò che principiai a capire. Tutti uomini!
E così, agli inizi del 1930 cominciarono a prendersela con le famiglie dei kulaki. Il peggio della furia si scatenò in febbraio e marzo. Le autorità distrettuali mettevano fretta perché, al momento della semina, di kulaki già non ce ne fossero più, e la vita potesse prendere un giro tutto diverso. Noi dicevamo così: sarà la prima primavera kolchoziana.
Di trasferirli furono incaricati naturalmente gli attivisti. Mancavano però istruzioni sul come. Un presidente di kolchoz radunò tanti carri, ma tanti che le masserizie non bastarono a riempirli; li chiamavano kulaki, ma i carri partirono semivuoti. Dal nostro villaggio, invece, li scacciarono a piedi. Tutto quello che presero con loro fu di che dormire e di che vestirsi. C’era tanto di quel fango, che strappava gli stivali dai piedi. Faceva pena guardarli: camminavano incolonnati, voltandosi a gettare un ultimo sguardo alle isbe, portando ancora addosso il tepore della stufa; come soffrivano: in quelle case erano nati, in quelle case avevano dato in spose le figlie. Li avevan fatti partire di furia, lasciando la stufa accesa, con la minestra di cavoli cotta a metà, senza poter finire di bere la loro tazza di latte; e i comignoli ancora fumanti. Le donne piangono, ma di lamentarsi forte hanno paura. Noi ce ne infischiavamo. Avevamo una sola idea in testa: essere degli attivisti. Li incalziamo, neanche fossero branchi di oche. Dietro viene una carretta, con sopra Pelageja la cieca, il vecchio Dmitrij Ivanovič, che da una decina d’anni non metteva piede fuori della sua capanna, e Marusja-la-scema, una figlia di kulak paralizzata, da bambina un cavallo l’aveva colpita alla tempia con lo zoccolo, e da allora è rimasta idiota.
Intanto al centro di zona le prigioni traboccano. E poi, che prigione è, quella di zona? Una gattabuia. Il fatto è che là c’è troppa gente: da ogni paese arriva una colonna di popolo. Il cinema, il teatro, i club, le scuole, tutto è stato occupato dagli arrestati. Però ce li tenevano per poco. Li hanno spinti alla stazione e là, sui binari morti, c’erano ad aspettarli convogli di carri merci. Ce li hanno spinti sotto scorta – la polizia, la GPU – neanche fossero degli assassini: nonnette e nonnetti, donne con bambini, i padri non c’erano, li avevano portati via già nell’inverno. E la gente a mormorare: «cacciano via la kulakaglia», neanche fossero lupi. E ce n’erano che gli gridavano: «maledetti!», quelli rimanevano impietriti, neanche più lacrime avevano...
Io non ho visto di persona come li portarono via, ma l’ho inteso dalla gente perché i nostri andarono fin oltre gli Urali, dai kulaki, per salvarsi dalla fame; io stessa ricevetti una lettera da un’amica; poi certi scapparono dal «trasferimento speciale», io parlai con due di loro...
Li fecero viaggiare dentro carri merci sigillati, le loro cose viaggiavano a parte, presero con sé soltanto da mangiare, quello che avevano a portata di mano. A una delle stazioni di transito, scriveva la mia amica, erano stati fatti salire sul convoglio i padri. Quel giorno ci fu gran gioia, e grandi lacrime, in quei carri merci... Più di un mese viaggiarono: le linee ferroviarie traboccavano di convogli, pieni di contadini da tutta la Russia. Giacevano uno appiccicato all’altro, come le acciughe, neanche i pancacci c’erano, nei vagoni bestiame. I malati morirono durante il viaggio, non arrivarono a destinazione, si capisce. Ma l’importante è che gli davano da mangiare: ai nodi ferroviari, un secchio di brodaglia per tutti e duecento grammi di pane per uno.
C’era una scorta militare. Gli uomini di scorta non sono cattivi, ci considerano come bestiame, così mi scriveva la mia amica.
Come si stava là, me lo hanno raccontato i fuggiaschi: le autorità regionali li avevano collocati nella taigà. Dove c’era un paesello, nella foresta, là riempivano le isbe di inabili al lavoro, allo stretto come nel convoglio. E dove non c’erano villaggi nelle vicinanze, scaricavano la gente direttamente sulla neve. Le persone deboli morivano. Quelle in grado di lavorare cominciavano ad abbattere gli alberi, dice che i ceppi neppure li sradicavano, non davano fastidio. Facevano rotolare i tronchi e costruivano capanne e baracche; lavoravano senza concedersi un’ora di sonno, perché la famiglia non morisse congelata, poi cominciarono a costruire delle piccole isbe: due camerette, in ognuna una famiglia. Le costruivano sul muschio, col muschio le stoppavano.
Di quelli abili al lavoro facevano incetta presso l’Enkavedé le aziende industriali forestali, che provvedevano a loro. Quelli a carico godevano del rancio. La chiamavano borgata lavorativa, con il suo comandante, i soprastanti. Dice che venivano pagati come quelli del luogo, ma il guadagno non glielo consegnavano, veniva annotato sui loro libretti. È un gran popolo il nostro: presto cominciarono a guadagnare più della gente del luogo. Non avevano diritto di oltrepassare i limiti territoriali: o nella borgata, o a disboscare. Ho inteso dire che più tardi, durante la guerra, ebbero il permesso di muoversi anche entro i limiti della circoscrizione e, dopo la guerra, agli eroi del lavoro permisero di andare persino fuori del distretto; a qualcuno diedero il passaporto.
La mia amica mi scriveva intanto che avevano formato delle colonie di kulaki inabili al lavoro, perché si rendessero autosufficienti. Gli avevano però dato a credito le sementi, e fino al primo raccolto l’Enkavedé gli passò il rancio. Anche da loro c’era un comandante e le guardie di scorta, come nelle borgate lavorative. Più tardi li trasformarono in una cooperativa, e là, oltre il comandante, c’erano dei capi eletti da loro.
Da noi intanto, senza i kulaki, era cominciata la nuova vita. Cominciarono a mandare tutti nei kolchoz: riunioni fin dal mattino, grida, bestemmie. C’è chi urla: non ci andiamo! Altri: e va bene, ci andiamo, ma le mucche non ve le diamo! Poi arrivò l’articolo di Stalin: La vertigine del successo. Di nuovo confusione, gridano: «Stalin non ha ordinato di farci entrare nei kolchoz a forza». Cominciarono a scrivere dichiarazioni su pezzetti di giornale: lascio il kolchoz, torno alla conduzione individuale. Poi di nuovo cominciarono a forzarli ad entrare nei kolchoz. Intanto la roba lasciata dai kulaki spossessati veniva, per la maggior parte, rubata.
Noi si pensava: non c’è sorte peggiore di quella dei kulaki. Ci sbagliavamo! La scure si abbatté su tutti quelli della campagna, dal piccolo al grande, chiunque fosse.
Arrivò il castigo della fame.
Io non pulivo più i pavimenti, allora, facevo la ragioniera. Avevano mandato anche me in Ucraina, come attivista, a dare una mano in un kolchoz. Da loro, ci avevano spiegato, lo spirito della proprietà privata è più forte che nell’Eresefeser.55 E davvero le faccende andavano peggio da loro che da noi. Mi mandarono abbastanza vicino: neanche tre ore di viaggio per arrivare fin lì, perché noi siamo al confine con l’Ucraina. Era un bel posto. Arrivai là: erano gente del tutto normale. E mi affidarono la contabilità.
Mi pare che avessi afferrato la situazione. Non per niente, si vede, quel vecchio mi aveva chiamato ministro. Questo lo dico solo a te, perché quando parlo con te è come se parlassi con me stessa, con un estraneo non starei mai a vantarmi. Tutta la contabilità la tenevo in testa, senza bisogno di carte. E al corso d’istruzione, e alle sedute della nostra troika, e quando i dirigenti bevevano la vodka, io ascoltavo tutti i discorsi.
Cos’era successo? Dopo la liquidazione dei kulaki la superficie coltivata si era assai ridotta e il rendimento s’era abbassato; dai bilanci risultava invece che senza i kulaki la nostra vita era fiorita di colpo. Il soviet di villaggio mentiva col distretto, il distretto con la regione, la regione con Mosca. Tutto come si deve: il centro fissava allora le quote alla regione, la regione ai distretti. E a noi, al nostro villaggio, fissarono una quota che neanche in dieci anni avremmo potuto raggiungere! Al soviet del villaggio anche quelli che non erano usi a bere andavano a ubriacarsi, per vincere la paura. Si vede che Mosca sperava soprattutto nell’Ucraina. E fu più di tutto con l’Ucraina che se la presero, più tardi. Lo conosci il discorso: se non hai eseguito il piano, vuol dire che sei tu stesso un kulak non abbastanza punito.
Le quote non potevano essere raggiunte, è naturale: la superficie coltivata era diminuita, il rendimento pure, dove mai andavi a prenderlo quel mare di grano kolchoziano? Dunque, l’avevano nascosto! I kulaki scampati, i mangia-a-ufo. Sì, i kulaki erano stati eliminati, ma il loro spirito era rimasto. Nella testa degli ucraini la proprietà privata seguitava a restare padrona.
Chi firmò quell’assassinio di massa? Spesso io penso: che non sia stato Stalin? Penso: un ordine simile, da quando esiste la Russia, non è stato mai dato. Un ordine così non l’aveva firmato mai né lo zar, né i tartari, né gli occupanti tedeschi. Un ordine che diceva: uccidere per fame i contadini dell’Ucraina, del Don, del Kuban’, uccidere loro e i loro bambini. Un’ordinanza che diceva di requisire anche tutto il grano riservato alla semina. Lo cercavano come se non fosse grano, ma bombe, mitragliatrici. Saggiavano la terra con le baionette, con le canne dei fucili, misero sossopra, scavarono in tutte le cantine, scassarono tutti i pavimenti, cercarono negli orti. A certuni sequestrarono il grano che tenevano in casa, dentro un vaso, una tinozza. A una donna sequestrarono il pane che aveva cotto, lo caricarono sul carro e portarono al distretto anche quello. I carri cigolavano giorno e notte, la terra sembrava avvolta dalla polvere. In mancanza di sili, versavano il grano per terra, e attorno mettevano sentinelle. Con l’avvicinarsi dell’inverno il grano s’imbevve di pioggia, cominciò a marcire: il potere sovietico non aveva abbastanza tela incatramata per ricoprire il grano dei contadini.
Quando poi trasportavano il grano dai villaggi, tutto attorno si alzava un polverone, tutto era immerso in una foschia: il villaggio, i campi e, di notte, la luna. Uno diventò pazzo: brucia, il cielo brucia, la terra brucia! Gridava! No, non era il cielo a bruciare, bruciava la vita.
Fu allora che capii: per il potere sovietico, prima di tutto viene il piano. Esegui il piano! Consegna la quota prescritta, la fornitura! In primo luogo, lo Stato. La gente: zero, meno di zero.
I padri, le madri, volevano salvare i bambini, nascondere almeno un po’ di grano, ma gli dicevano: voi avete un odio feroce per il Paese del socialismo, voi volete far fallire il piano, parassiti, fiancheggiatori dei kulaki, canaglie. Non vogliamo far fallire il piano, vogliamo salvare i bambini, noi stessi. La gente ha pur bisogno di mangiare.
Tutto posso raccontare, solamente che nel racconto sono parole, mentre lì era vita, sofferenze, morte per fame. Tra l’altro, al momento di requisire il grano spiegavano agli attivisti che avrebbero nutrito la gente con le riserve. Era una menzogna, neanche un granello diedero, agli affamati.
Chi requisiva il grano? Per lo più i nostri, quelli del comitato esecutivo di distretto o del partito, be’, il komsomol, i nostri ragazzi, i giovanotti, e naturalmente la polizia, l’Enkavedé,da qualche parte persino i militari, io ne vidi uno di Mosca, un richiamato, lui però non è che si sforzasse gran che, cercava sempre di tagliare la corda. E di nuovo, come durante la repressione dei kulaki, la gente sembrava fosse uscita di senno, delle belve diventarono.
Griša Saenko era un poliziotto che aveva sposato una contadina del luogo, e la domenica veniva qui a trascorrere la festa; era un tipo allegro, ballava bene il tango e il valzer, e cantava le canzoni ucraine campagnole. Gli si avvicinò un giorno un nonnetto dai capelli completamente bianchi, e cominciò a dirgli: «Griša, ci state riducendo tutti in povertà, è peggio d’un assassinio, questo. Perché il potere degli operai e dei contadini si comporta così con i contadini, come neanche lo zar faceva?...». Griša gli diede uno spintone, e poi andò al pozzo, a lavarsi le mani; disse alla gente: «Come farò a prendere in mano il cucchiaio dopo aver toccato questo grugno di parassita?».
E tutta quella polvere; notte e giorno, quanta polvere, mentre portavano via il grano. La luna era una pietra, in mezzo al cielo, e sotto quella luna tutto prendeva un aspetto selvaggio; di notte il caldo era tale, come dormire sotto una pelle di pecora, e il campo tante volte attraversato era tremendo, una condanna a morte.
E la gente non sapeva più cosa fare, e il bestiame s’era inselvatichito, si spaventava, muggiva, si lamentava, e i cani ululavano forte, la notte. E la terra era tutta screpolata.
E poi, figurati, sopraggiunse un autunno senza pioggia, e poi un inverno nevoso. E niente pane.
Né si trovava da comperarlo al centro distrettuale, perché c’era il sistema della tessera. E neppure alla stazione si poteva comprare, o allo spaccio, perché avevano messo dei militari di guardia, e non lasciavano avvicinare. Neppure al mercato nero se ne trovava.
Coll’autunno attaccarono le patate, ma senza pane fecero presto a finire. Sotto Natale cominciarono a macellare il bestiame. Ma anche quella carne era tutta pelle e ossa, poco consistente. Al pollame avevano già tirato il collo, naturalmente. Ben presto, finito quel po’ di carne, non rimase un sorso di latte, in tutto il villaggio non si trovava un uovo. E, quel che è peggio, niente grano. Nelle campagne lo avevano requisito fino all’ultimo chicco. Non c’era di che seminare il grano primaverile, avevano sequestrato fino all’ultimo granello di riserva, per la seminagione. Tutte le speranze stavano nei cereali vernini. Ma quelli erano ancora sotto la neve, la primavera non si vedeva, il villaggio era ormai alla fame. La carne l’avevan mangiata, il miglio spolverato in un battibaleno, e anche le patate, nelle famiglie dove erano in tanti, le avevano mangiate tutte.
Sopravvenne il terrore. Le madri guardano i figli e cominciano a gridare dalla paura. Gridano come fosse penetrato in casa un serpente. E quel serpente è la morte, la fame. Che fare? I contadini non pensavano ad altro: mangiare. Succhi, contrai le mandibole, la saliva scorre, la inghiotti, ma non è con la saliva che ti sazi. Se di notte ti svegli, tutto attorno c’è silenzio, non una conversazione, non un’armonica. Come in una tomba. Solo la fame s’aggira, non dorme. I bambini, nelle capanne, piangono sin dal mattino: chiedono pane. E la madre, cosa vuoi che gli dia, la neve? E nessuno che ti porga aiuto. Da quelli del partito una sola risposta: dovevate lavorare, non starvene con le mani in mano. Oppure rispondevano: andate a cercare in casa vostra, nel vostro villaggio avete imboscato tanto di quel grano, da bastare per tre anni.
Ma quella dell’inverno non fu ancora vera fame. Certo, si sentivano fiacchi, con le pance gonfie a furia di mangiare bucce di patate, ma non si arrivò fino all’edema. Cominciarono ad estrarre da sotto la neve le ghiande. Le fecero seccare, il mugnaio allargò un poco le ganasce della macina, e ridusse le ghiande in farina. Con quella farina facevano il pane o, più esattamente, delle schiacciate. Erano molto scure, più scure del pane di segala. Qualcuno ci aggiungeva della crusca e delle bucce di patate. Ma le ghiande fecero presto a finire: era un piccolo boschetto di querce, e tre villaggi ci si erano buttati sopra tutti in una volta. Arrivò dalla città un delegato, va al soviet del villaggio e dice: guardateli, quei parassiti, pur di non lavorare, a mani nude scavano dalla neve le ghiande.
Gli alunni delle classi superiori andarono a scuola fin verso la primavera, ma i più piccoli smisero di frequentarla dall’inverno. A primavera la scuola venne chiusa: la maestra se n’era andata in città. Anche l’infermiera se ne andò dal centro medico: non si trovava più niente da mangiare. E poi, non la curi mica con le medicine, la fame. Il villaggio rimase solo, tutto attorno il deserto, e nelle isbe gente affamata. Anche i vari rappresentanti smisero di arrivare dalla città: a che pro venire? Dagli affamati non c’era niente da ricavare, dunque non occorreva andarci. Né c’era bisogno di curarli, e neppure di fargli scuola. Quando lo Stato non può ricavare nulla da una persona, essa diventa inutile. A che pro istruirla, o curarla?
Gli affamati rimasero soli, lo Stato li aveva abbandonati. La gente cominciò allora ad andare da un villaggio all’altro, ognuno chiedendo l’elemosina all’altro, i poveri ai poveri, gli affamati agli affamati. Quelli con meno bambini, o che erano soli, qualcosa avevano ancora, per arrivare fino alla primavera; e quelli con tanti figli andavano da loro, a chiedere. E qualche volta ricevevano un pugnetto di crusca e un paio di patate. Quelli del partito, invece, non davano niente – non per avidità o per cattiveria – è che avevano troppa paura. Lo Stato non diede un granello agli affamati, e dire che proprio sul grano dei contadini si reggeva. Stalin lo sapeva, tutto questo? Raccontavano i vecchi: sotto Nicola ci furono delle carestie, però tutti aiutavano, davano a prestito, i contadini potevano andare in città, a chiedere l’elemosina in nome di Cristo, avevano aperto delle mense, e gli studenti raccoglievano offerte. Invece sotto lo Stato degli operai e dei contadini non hanno dato un granellino, in tutte le strade che portavano in città, barriere con truppa, polizia, Enkavedé: gli affamati che arrivano dalla campagna non li lasciano entrare, non possono avvicinarsi alla città, le stazioni sono attorniate dalle guardie, anche quelle piccolissime, intermedie. Non c’è pane per voi, che nutrite la nazione. In città, invece, con la tessera del pane agli operai ne davano ottocento grammi a testa. Dio mio, è mai pensabile tanto pane: ottocento grammi! E ai bambini delle campagne, neanche un grammo. Proprio come i tedeschi, che soffocavano i bambini ebrei col gas: non avete diritto di vivere, siete ebrei. Ma qui? Non riesci a capire: di qua sono sovietici, e di là pure sovietici, di qua russi e di là russi; e il potere è degli operai e dei contadini. Perché mai, allora, quello sterminio?
E quando la neve cominciò a sciogliersi, il paese si trovò sommerso nella fame fino al collo.
Bambini che urlano, non riescono a dormire: anche di notte chiedono pane. La gente ha la faccia terrea, gli occhi torbidi, ubriachi. Camminano come sonnambuli, tastano la terra col piede, con la mano si sostengono ai muri. La fame fa barcollare. La gente cominciò a camminare meno, a star sempre più sdraiata. E tutto il tempo sembra di sentire il cigolio di una fila di carri: è Stalin che dal centro distrettuale manda la farina per salvare i bambini.
Le donne si dimostrarono più forti degli uomini, si attaccavano alla vita con più rabbia. Eppure toccava loro il peggio: è alle madri che i bambini domandano da mangiare. Alcune donne li tranquillizzavano con le buone, li baciavano: «Suvvia, non strillate, sopportate, dove volete che vada a prendere il pane?». Altre diventavano come furie, «non piagnucolare, ti ammazzo!», e li picchiavano con la prima cosa che capitava, purché non chiedessero. Certe invece scappavano di casa, si trattenevano dai vicini, per non sentire gli urli dei loro bimbi.
In quel periodo non trovavi un gatto né un cane: se l’erano battuta. E dar loro la caccia era difficile: avevano paura degli uomini, i loro occhi si erano fatti selvaggi. Li facevano lessi, ché erano tutto un tendine, rinsecchiti; con le teste facevano la gelatina.
La neve si era ormai sciolta, quando gli uomini cominciarono a gonfiare, era sopraggiunto l’edema da fame: visi gonfi, gambe come cuscini, acqua nelle budella, tutto il tempo a pisciarsi addosso, non avevano neppure il tempo di andare in cortile. E i loro bambini! Hai mai visto sui giornali i bambini nei lager tedeschi? Identici: teste pesanti come palle di cannone, colli sottili come quelli delle cicogne, nelle mani e nei piedi potevi vedere il movimento di ogni ossicino, sotto la pelle, come sono congiunti quelli doppi; lo scheletro era tutto fasciato dalla pelle, tesa come una garza gialla. Bambini con un viso da vecchietto, tormentato, quasi fossero al mondo da settant’anni, e verso primavera non fu neanche più un viso, somigliava ora a una testolina d’uccello col suo beccuccio, ora al musetto di una ranocchia, con quelle labbra larghe e sottili, altri ancora a dei piccoli ghiozzi, con la bocca spalancata. Non erano più visi umani. E gli occhi, o Signore! Compagno Stalin, Dio mio, li hai mai visti quegli occhi? Può darsi che effettivamente lui non sapesse, lui che aveva scritto quell’articolo sulla vertigine del successo.
Cosa non mangiavano: acchiappavano i topi, i ratti, le vipere, i passeri, le formiche, estraevano i lombrichi dal terreno, cominciarono a macinare gli ossi per farne farina, a ridurre a strisce pelli, suole, vecchie pellicce puzzolenti per cuocerle e mangiarle, facevano bollire la colla di pesce. E quando l’erba cominciò a spuntare, si misero a estrarre le radici, a cuocere le foglie, i bocci – tutto faceva brodo: i denti di leone, le lappole, le campanelle, il mirtillo, l’erba angelica, l’acanto, l’ortica, la lupinella. Lasciavano seccare le foglie del tiglio e ne facevano farina, ma da noi ce n’è pochi di tigli. Le schiacciatine di tiglio sono verdi, peggiori di quelle di ghianda.
E niente aiuti! Del resto, neanche ne chiedevano più, ormai! Ancora adesso, se mi metto a pensarci, mi sento impazzire: possibile che Stalin avesse ripudiato quella gente? Fosse arrivato a un così orrendo sterminio? Il fatto è che Stalin di grano ne aveva. Fu dunque premeditatamente che quella gente venne condannata a morire per fame. Che non si vollero soccorrere i bambini. Possibile che Stalin fosse peggiore di Erode? È, possibile, mi viene da pensare, che abbiano sottratto pane e grano per far morire la gente di fame? No, una cosa simile non può essere. Ma poi penso: è stato, è stato! E subito: no, non può essere...
Be’ continuiamo: sinché ne ebbero la forza, andavano per i campi fino alla strada ferrata, non alla stazione, là c’erano le guardie che non lasciavano avvicinare, ma direttamente alla strada ferrata. Quando passa il rapido Kiev-Odessa, si buttano in ginocchio e gridano: pane, pane! Alcuni sollevano in alto i loro orribili bambini. E succedeva che la gente buttasse pezzi di pane, rimasugli vari. Finito il rombo del treno, posatasi la polvere, il villaggio si trascinava lungo la linea ferroviaria, alla ricerca di quelle croste. Ma poi giunse l’ordine: quando il treno passava attraverso le regioni affamate, le guardie di servizio al convoglio dovevano chiudere i finestrini e abbassare le cortine. Non permettevano che i passeggeri si avvicinassero ai finestrini. Del resto loro stessi, i contadini, avevano smesso di andare, gli mancava la forza non dico per arrivare alla strada ferrata, ma di trascinarsi fuori di casa.
Ricordo un vecchio che portò al presidente del kolchoz un pezzo di giornale, lo aveva raccolto sulla strada ferrata. E là c’era una breve notizia: era arrivato un francese, un famoso ministro, e lo avevano portato nella regione di Dnepropetrovsk, dove c’era la carestia più terribile, peggio che nella nostra: la gente, lì, si mangiava l’un l’altro. E così portarono il ministro in un villaggio, nel piccolo giardino infantile del kolchoz, e lui domanda: «Cosa avete mangiato oggi, a pranzo?». E i bambini rispondono: «Brodo di pollo con i tortellini e crocchette di riso». Io stessa l’ho letto. Vedo come fosse ora quel pezzo di giornale. Ma come? Fanno dunque morire alla chetichella milioni di persone, e ingannano il mondo intero! Brodo di pollo, scrivono! Crocchette! Quando lì han mangiato fino all’ultimo verme! E il vecchio disse al presidente: «Sotto lo zar Nicola i giornali si rivolsero a tutto il mondo, parlando della carestia: “aiutateci, i contadini muoiono!”. E voi, mostri, fate il teatrino».
Il villaggio cominciò a gemere, ché vedeva la propria morte. Tutti si lamentavano non col pensiero, non col cuore, ma come le foglie che stormiscono al vento, o la paglia che fruscia. Fu allora che mi prese la rabbia: perché gemono così lamentosamente, non sono più uomini, ed emettono quel grido lamentoso. Bisogna avere il cuore di pietra, per mangiare la propria razione di pane con quel lamento nelle orecchie. Me ne vado nei campi, con la mia razione, tendo l’orecchio, e ancora quel lamento. Vado un po’ più in là, ecco, pare proprio che abbiano smesso; avanzo ancora, e si sente di nuovo: è il villaggio vicino che piange e si lamenta. Sembra che tutta la terra gema, insieme alla gente. Ma se Dio non esiste, chi mai darà loro ascolto?
Uno dell’Enkavedé mi disse: «Sai come li chiamano, i vostri villaggi, nella regione? Il cimitero della rude scuola». Dapprima non compresi quelle parole.
E intanto, come s’era fatto bello, il tempo! Al principio dell’estate avevamo avuto piogge improvvise, leggere, intramezzate da sole caldo, per cui il grano era venuto fitto da sembrare una muraglia, che per tagliarlo ci volesse l’ascia, e alto, superava l’altezza d’un uomo. Quanti arcobaleni ho veduto, quell’estate, e acquazzoni, e pioggerelline tiepide: zigane, come le chiamano.
Tutti, durante l’inverno, si erano chiesti: avremo un raccolto? Chiedevano ai vecchi, si portavano esempi, tutte le speranze erano riposte nel frumento vernino. E le speranze si avverarono, ma non riuscirono a falciarlo. Io entrai in un’isba: chi respirava appena, chi non respirava ormai più; gente distesa, chi sul letto, chi sulla stufa; e la figlia del padrone, una che conoscevo, era stesa sull’impiantito in una sorta di delirio, coi denti rosicchiando il piede d’uno sgabello. E il tremendo fu che, avendomi intesa entrare, non si voltò a guardare, ma emise un brontolio, come fa un cane se ti avvicini mentre sta rosicchiando un osso.
Cominciò nel villaggio una moria generale. Prima i bambini, i vecchi, poi quelli d’età mediana. Dapprincipio li sotterravano, poi smisero. Sicché i morti stavano buttati per le strade, nei cortili, e gli ultimi sono rimasti stesi dentro le isbe. Sopravvenne un gran silenzio. Tutto il villaggio era morto. Non so chi morì per ultimo. Noi, che lavoravamo alla direzione del kolchoz, ci riportarono in città.
Dapprima capitai a Kiev. Neanche a farlo apposta, proprio in quei giorni cominciavano a vendere il pane a mercato libero, al di fuori della tessera. Cosa non successe! File di mezzo chilometro si formavano già dalla sera. Di file, lo sai, ce n’è d’ogni tipo: c’è quella dove, mentre aspettano, ridono, rosicchiando semini, in un’altra ti danno un pezzo di carta con un numero, nella terza, dove nessuno scherza, ti scrivono il numero col gesso sul palmo della mano o sulla schiena. Là, però, erano speciali, file così non ne ho mai più viste: si tengono stretti alla vita, e così stanno, uno dietro l’altro. Se qualcuno si ritira, tutta la fila avanza d’un passo, come percorsa da un’onda. Sembra che stia per cominciare un ballo – un passo di qua, uno di là. E ognuno ondeggia più forte. Ognuno teme che non gli bastino le forze per tenersi afferrato a chi gli sta davanti, e che le mani gli si disserrino; per quella paura, le donne cominciano a gemere, sicché tutta la fila si lamenta. Sembrano diventati matti che cantino e ballino. Oppure della gentaglia irrompe a forza nella fila, dopo aver osservato dove è più facile spezzare la catena. E quando quella gentaglia si avvicina, tutti cominciano di nuovo a gemere dalla paura, ma sembra che cantino. A fare la fila per il pane al mercato libero era gente di città: quelli privi dei diritti civili, i senza partito, gli artigiani, oppure gente della periferia.
Dalla campagna poi arrivano, trascinandosi, i contadini. Le stazioni sono sbarrate, piene di picchetti che perquisiscono. Dappertutto, sulle strade, picchetti: militari, dell’Enkavedé; ma i contadini riescono lo stesso a raggiungere Kiev: si trascinano per prati, terreni bradi, paludi, boschi, pur di evitare i controlli sulle strade. Non si può mica mettere picchetti su tutta la terra. A camminare, oramai, non ce la fanno più, riescono solo a trascinarsi. La gente della città si affretta, ognuno ha le sue faccende: chi va al lavoro, chi al cinema, tram che passano, ma gli affamati si trascinano fra la gente: bimbi, adulti, ragazze – non sembrano neanche esseri umani, li diresti una specie di sordidi cagnetti o gattini, così carponi. Eppure vogliono ancora comportarsi da esseri umani, provano vergogna: una ragazza tutta gonfia striscia, sembra una scimmia: guaisce, ma si accomoda la gonna, si vergogna, nasconde i capelli sotto il fazzoletto: è una contadina, venuta a Kiev per la prima volta. Ma solo i fortunati riescono a trascinarsi fin lì: uno su diecimila. E tuttavia non c’è salvezza per lui – giace a terra affamato, chiede con un filo di voce, ma non riesce a mangiare, ha lì accanto un cantuccio di pane, ma ormai è agli estremi.
Al mattino passavano i carri a piattaforma, dai pesanti cavalli da tiro, a raccogliere quelli morti durante la notte. Ho visto una piattaforma dov’erano ammucchiati dei bambini. Proprio come ho detto: magri magri, lunghi lunghi, le faccine da uccelletti morti, il beccuccio appuntito. Fino a Kiev erano riusciti a volare, quegli uccellini – ma a che pro. Fra di loro ce n’era che ancora pigolavano, le testoline ciondoloni, appesantite. Io chiesi al vetturale, lui fece un gesto con la mano: prima ch’io arrivi a destinazione, s’azzittiranno per sempre.
Ho veduto una fanciulla traversare strisciando un marciapiede, il portinaio le diede un calcio e lei rotolò sul selciato. Non si voltò neppure, si trascinò rapida, affannata; da dove prendeva la forza, chissà. E ancora, diede una scossa alla veste, che s’era impolverata, figurati un po’. Quella mattina avevo comperato il giornale, avevo letto un articolo di Maksim Gor’kij, su come i bambini hanno bisogno di giocattoli istruttivi. Possibile che Maksim Gor’kij non fosse al corrente di quei bimbi che grossi cavalli portavano alla discarica? Per loro dovevano essere, quei giocattoli? O forse sapeva? E anche lui taceva, come tutti gli altri. E scriveva allo stesso modo, come quegli altri avevano scritto che quei bambini morti mangiavano brodo di pollo. Il vetturale mi disse che il maggior numero di morti li trovava nei paraggi delle rivendite di pane a mercato libero: basta che quel poveraccio rigonfio ne ingoi un pezzetto, ed è fatta. Mi si è impressa nella mente, la Kiev di allora, anche se ci rimasi tre giorni in tutto.
E ho capito questo: dapprima la fame scaccia di casa, perché in un primo tempo ti brucia, ti strazia come il fuoco, ti strappa le budella e l’anima – allora l’uomo scappa di casa. La gente estrae i vermi dalla terra, raccoglie l’erba; hai ben visto, fino a Kiev strariparono. Tutti si allontanano da casa, se ne vanno tutti. Ma poi arriva il giorno che l’affamato torna indietro, trascinandosi alla sua capanna. Questo significa che la fame lo ha sopraffatto, ormai quell’uomo non si salva più: si mette a letto e là giace. Una volta che la fame lo ha sopraffatto, quell’uomo non lo rialzi più, non solo perché non ne ha la forza: è che gli manca l’interesse, non ha più voglia di vivere; sta lì steso, zitto zitto, e non si muove, e non ti venga in mente di toccarlo. L’affamato non vuole mangiare, piscia ogni momento, ha la diarrea; diventa sonnolento; non vuole essere disturbato: vuole che lo lascino in pace. Così distesi, si avviano alla morte. Anche i prigionieri di guerra raccontavano che quando un prigioniero va a distendersi sulla branda e rifiuta la razione, significa che la sua fine è prossima. A certi invece dava di volta il cervello, non si calmavano fino alla fine. Li riconoscevi dagli occhi, lucidi. Erano loro quelli che facevano a pezzi i morti e li cuocevano, uccidevano i propri figli e li mangiavano. Si risvegliava in loro la belva, quando l’uomo moriva, in loro. Ho veduto una donna, l’avevano portata sotto scorta al centro distrettuale. Il suo viso era di un essere umano, ma aveva gli occhi d’un lupo. Dicono che questi li han fucilati tutti quanti. Ma non erano loro i colpevoli, colpevoli erano quelli che riducevano una madre al punto di mangiare i propri figli. Ma credi che si trovasse, il colpevole? Hai voglia a cercarlo... È per fare il bene, il bene dell’umanità che loro hanno ridotto le madri a quel punto.
L’ho visto allora: ogni affamato è, in un certo senso, un antropofago. Mangia la propria carne, solo gli ossi rimangono, succhia il suo grasso fino all’ultima briciola. Poi gli si oscura la ragione: anche il cervello si è mangiato. Ha divorato tutto se stesso.
Pensavo inoltre che ogni affamato muore a modo suo. In una capanna c’è guerra, si sorvegliano reciprocamente, l’uno strappa il tozzo all’altro. La moglie è contro il marito, il marito contro la moglie. La madre odia i figli. In un’altra capanna invece l’amore è inalterabile. Ho conosciuto una donna, aveva quattro bambini. Gli raccontava le favole, perché dimenticassero la fame, eppure faceva fatica a muovere la lingua; li prendeva in braccio, pur non avendo la forza di alzarle, le braccia. È che l’amore era vivo in lei. Ci si è accorti che dove c’era odio, morivano più presto. Eh! Ma è forse servito, l’amore? Egualmente non si salvò nessuno, uno alla volta, il villaggio intero morì. La vita scomparve.
Venni a sapere dopo, che sul nostro villaggio era calato il silenzio. Neanche i bambini si sentivano. Laggiù non occorrevano giocattoli, né brodo di gallina. Non un grido, finiti tutti. Ho saputo che il raccolto lo falciarono i militari, solo che agli uomini dell’Armata Rossa non era permesso di entrare nel villaggio, stavano nelle tende. Gli spiegarono che c’era stata un’epidemia. Loro però si lamentavano che dal villaggio venisse un puzzo tremendo. Anche il grano vernino lo seminarono i militari. L’anno seguente portarono nella zona alcuni coloni della regione di Orël; capirai, la terra ucraina è terra nera, mentre dalle parti di Orël le annate erano sempre cattive. Le donne con i bambini le lasciarono in certe baracche vicino alla stazione, mentre gli uomini li portarono al villaggio. Gli han dato dei forconi con l’ordine di andare per le capanne, a tirar fuori i corpi; i morti, uomini e donne, giacevano chi per terra, chi sul letto. Il puzzo nelle isbe era terribile. Copertisi naso e bocca con i fazzoletti, gli uomini cominciarono a trascinare fuori i corpi; ma quelli si disfacevano a pezzi. Poi sotterrarono quei pezzi fuori del villaggio. Ecco, ho capito allora cos’era «il cimitero della rude scuola». Quando le isbe furono ripulite dei morti, portarono le donne a lavare i pavimenti, a dare il bianco alle pareti. Fecero tutto come si doveva, ma il puzzo restò. Diedero una seconda mano di calce, e stesero sul pavimento un nuovo strato di argilla, ma il puzzo non se ne andò. In quelle capanne non riuscirono a mangiare né a dormire, per cui se ne tornarono nella regione di Orël. Ma la terra non rimase abbandonata, naturalmente: una terra simile!
Fu come non fossero vissuti. E invece ne erano successe di cose. E amori, e mogli che avevano piantato i mariti, e figlie maritate, e baruffe di ubriachi, e ospiti che arrivavano, e pane messo in forno... E quanto lavoro, e quante canzoni avevano cantato. E i bambini che andavano a scuola... Persino il cinemobile era arrivato, anche i più vecchi andavano a vedere i film.
Niente è rimasto. Dov’è andata a finire quella vita? Dove quelle orribili sofferenze? Possibile che non sia rimasto nulla? Possibile che nessuno paghi per tutto ciò? Ma allora tutto sarà dimenticato, senza una parola? L’erba ha ricoperto tutto.
Ora io ti chiedo: come ha potuto accadere tutto questo?
Ecco, vedi, la nostra notte è bell’e passata. Sta facendo giorno, ormai. È ora di prepararsi per andare al lavoro.
15
Vasilij Timofeevič aveva la voce flebile, i movimenti indecisi. Quando lui e Hanna parlavano, lei abbassava gli occhi castani e rispondeva in maniera appena percettibile.
Dopo le nozze la loro timidezza crebbe a dismisura: lui, un uomo di sessant’anni, che i figli dei vicini chiamavano «zio», si sentiva imbarazzato, si vergognava di avere – con le sue rughe, con i suoi capelli grigi e l’incipiente calvizie – sposato una ragazza giovane, d’esser felice del proprio amore; la guardava sussurrando: «Mia cara, cuoricino mio». Un tempo, da fanciulla, lei si figurava che il suo futuro marito sarebbe stato un tipo alla ščors,56 che sarebbe stato il miglior suonatore di fisarmonica del villaggio, che avrebbe scritto versi ispirati, come Taras Ševčenko.57 Ma il suo mite cuore aveva capito la forza dell’amore che nutriva per lei quello sfortunato, povero, timido uomo anziano, che non aveva mai vissuto la sua propria vita, ma quella degli altri. Ma anche lui aveva saputo capire le giovanili speranze di lei: ecco, sarebbe arrivato un rustico cavaliere che l’avrebbe portata via dall’angusta capanna del patrigno... Invece era arrivato a chiederla lui, gli stivali consunti, le grosse mani scure da contadino, tossicchiando con aria colpevole. Lui la guarda adesso con adorazione, felicità, con un senso di colpa, di afflizione. E lei pure, così mansueta e silenziosa, si sente colpevole dinanzi a lui.
Anche il loro figlio, Griša, era nato quieto, non piangeva mai; talvolta la madre, che dopo il parto somigliava piuttosto a una magra fanciullina, si avvicinava alla culla e, vedendo il bambino steso ad occhi aperti, diceva:
«Ma piangi, se vuoi, piangi un poco, Grišenka; perché stai sempre zitto zitto?».
Anche nella capanna moglie e marito conversavano a bassa voce, tanto che i vicini si meravigliavano:
«Ma perché parlate così piano?».
Cosa strana, lei, una donna giovane, e lui, un uomo anziano e non bello, avevano in comune la mitezza del cuore, la loro timidezza.
Ambedue lavoravano senza risparmiarsi, e non osavano neppure tirare un sospiro quando il caposquadra li mandava a lavorare sul campo fuori del loro turno.
Una volta ordinarono a Vasilij Timofeevič di recarsi dalla scuderia del kolchoz al centro distrettuale insieme con il presidente, e mentre il presidente andava dalla sezione agraria a quella finanziaria, lui, legati i cavalli a un paracarro, andò allo spaccio del distretto, a comprare un regalino per la moglie: pasticcetti con semi di papavero, zuccherini, tarallucci, nocelle; di ognuno all’incirca centocinquanta grammi. Tornato alla capanna, aprì il bianco involtino e la moglie, battendo le mani dalla gioia, esclamò, come una bambina: «Ohi, mamma!». E Vasilij Timofeevič, tutto vergognoso, uscì sul poggiolo d’ingresso, perché lei non vedesse i suoi occhi inumidirsi di lacrime di gioia.
Mentre si trovava alla maternità, lei gli aveva fatto un bel ricamo su una camicia, e non seppe mai che Vasilij Timofeevič Karpenko non aveva quasi dormito, quella notte; a piedi nudi si avvicinava al cassettoncino sul quale si trovava la camicia, col palmo della mano la lisciava, tastava l’ingenuo ornamento ricamato a punto croce. Andò a prendere la moglie al reparto maternità dell’ospedale distrettuale per riportarla a casa; lei teneva in braccio il bambino, e a lui sembrava che, fosse vissuto mille anni, mai avrebbe dimenticato quel giorno.
Talvolta si sentiva prendere dalla paura: era mai possibile che gli fosse capitata in vita una simile felicità: era mai pensabile che lui si svegliasse così, nel bel mezzo della notte, a tendere l’orecchio al respiro della moglie e del figlio?
Eppure era proprio così. Tornava a casa dal lavoro, e vedeva un pannolino sulla siepe, steso ad asciugare, e un filo di fumo uscire dal comignolo. Guardava la moglie curvarsi sulla culla, posare sul tavolo un piatto di boršč, sorridendo tra sé e sé; le guardava le mani, i capelli che scappavano di sotto la pezzuola, ascoltava quel che gli raccontava del pupo, della pecora della vicina. Talvolta lei usciva sul vestibolo, e lui provava nostalgia, s’immalinconiva addirittura, aspettandola, e quando lei rientrava lui tornava a sentirsi tutto contento; cogliendo il suo sguardo lei gli sorrideva, mansueta e mesta.
Vasilij Timofeevič morì per primo, precedendo di due giorni il piccolo Griša. Aveva dato quasi tutte le briciole di cibo alla moglie e al bimbo, per questo era morto prima di loro. È probabile non vi sia al mondo altruismo maggiore di quello da lui dimostrato, e disperazione più grande di quella da lui sofferta, al vedere la moglie deformata dall’edema della morte, e il figlio moribondo.
Fino alla sua ultima ora egli non espresse biasimo né ira verso la grande e folle impresa compiuta dallo Stato e da Stalin. Non si pose neppure la domanda: «Perché?», perché a lui, a sua moglie, miti, remissivi, operosi, e al silenzioso bambino di un anno appena, era stata inflitta la sofferenza di una morte per fame?
Dentro i loro stracci putrefatti, i tre scheletri trascorsero l’inverno insieme: il marito, la giovane moglie, il loro figlioletto si scambiavano bianchi sorrisi, inseparabili anche dopo morti.
Solo più tardi, in primavera, quando arrivarono gli storni, entrò nella capanna, coprendosi la bocca e il naso con un fazzoletto, il delegato della sezione agraria; gettò un’occhiata alla lampada a cherosene priva di vetro, alla piccola immagine sacra, al cassettoncino, alle pentole fredde di ghisa, al letto, e disse:
«Qui ce n’è due e un piccolo».
Ritto sulla soglia sacra all’amore e alla dolcezza, il caposquadra annuì e prese nota su un pezzetto di carta.
Uscito all’aria aperta, il delegato guardò le bianche capanne, i verdi giardinetti, e disse:
«Rimuovete i cadaveri. Quanto alla catapecchia, non val la pena di rimetterla in sesto».
16
Sul posto di lavoro Ivan Grigor’evič aveva inteso raccontare che al tribunale cittadino prendevano mance; che alla scuola di radiotecnica si potevano comperare buoni voti per i ragazzi che davano gli esami di concorso; che il direttore di una fabbrica cedeva per denaro del metallo, di cui v’era gran penuria, a una cooperativa che produceva merce di largo consumo; che l’amministratore di un mulino si era costruito col denaro rubato una casa a due piani con pavimenti dai parquet di quercia; che il capo della polizia aveva rimesso in libertà un gioielliere, noto per essere un ladro, accettando dai suoi familiari l’incredibile bustarella di seicentomila rubli; che persino il padre e padrone della città – il primo segretario del comitato di partito – poteva, dietro compenso, ordinare al sindaco di assegnarvi un alloggio nel nuovo casamento sulla strada principale.
Gli invalidi erano entrati in agitazione sin dal mattino, quando era giunta la notizia, pervenuta dal Comitato regionale, della conclusione del processo al magazziniere della più ricca cooperativa della città, che confezionava pellicce, soprabiti da donna, copricapi di renna e di astrakan. E sebbene il maggiore imputato fosse un modesto magazziniere, ne era venuto fuori un processo di enormi proporzioni: come una piovra esso aveva coinvolto la vita e il lavoro della grande città. Da tempo si attendeva il verdetto, si era soliti discuterne alla mensa, nell’ora d’intervallo. Alcuni dicevano che il giudice istruttore – specialista di processi particolarmente importanti – arrivato nel capoluogo da Mosca, non avrebbe esitato a divulgare che le autorità cittadine erano coinvolte nella faccenda.
Persino i bambini sapevano che il procuratore viaggiava in una «Volga» regalatagli dal calvo e balbuziente magazziniere; che il segretario del municipio aveva ricevuto da Riga della mobilia offertagli dal magazziniere: l’arredamento della camera da letto e della sala da pranzo; che la moglie del capo della polizia era partita in aereo, a spese del magazziniere della cooperativa, per Adler, dove aveva vissuto per due mesi nella casa di riposo del soviet dei ministri, e che il giorno della partenza aveva ricevuto in dono un anello con uno smeraldo.
Altri, gli scettici, dicevano che il moscovita non si sarebbe deciso ad istruire un processo contro i padroni della città, e che tutto il peso sarebbe ricaduto sul magazziniere e sulla direzione della cooperativa.
Ed ecco che uno studente arrivato in aereo dal capoluogo, il figlio del magazziniere, aveva portato una notizia inattesa: il giudice istruttore specialista di processi particolarmente importanti aveva archiviato il procedimento per assenza di reato, prosciolto il magazziniere e annullato l’impegno preso dal presidente e dai due membri della cooperativa di non abbandonare il luogo di residenza.
Chissà perché, la decisione presa dall’autorevole giurista di Mosca fece ridere e mise in allegria tutti quelli della cooperativa – gli scettici come gli ottimisti. Nell’intervallo del pranzo gli invalidi, mangiando pane e salame, pomodori e cetrioli, ridevano e scherzavano, divertiti tanto dall’umana debolezza del giudice istruttore di processi particolarmente importanti, quanto dell’onnipotenza del balbuziente e pelato magazziniere.
Non è un caso, dopotutto, pensò Ivan Grigor’evič, se il cammino iniziato dagli scalzi e disinteressati apostoli e dai fanatici della comune, ha infine portato a uomini pronti a molti imbrogli per amore d’una dacia, d’una automobile personale, di un salvadanaio ricolmo.
La sera, finito il lavoro, Ivan Grigor’evič si recò al policlinico ed entrò nello studio del medico, di cui aveva sentito il nome da Anna Sergeevna. Il medico, finite ormai le visite, si stava togliendo il camice.
«Dottoressa, vorrei sapere quali sono le condizioni di salute di Anna Sergeevna Michalëva».
«Voi chi siete, il marito, il padre?» domandò la dottoressa.
«No, non mi è parente, ma è una persona a cui tengo».
«Ah» disse la dottoressa. «Be’, posso dirvi allora che ha un cancro al polmone. Né un’operazione, né un soggiorno in casa di cura le sarebbe di giovamento».
17
Passarono tre settimane, e Anna Sergeevna venne ricoverata in ospedale.