martedì 29 marzo 2022

PANINO AL PROSCIUTTO Charles Bukowski



 PANINO AL PROSCIUTTO 

Charles Bukowski 

Recensione

[...] Non avevo interessi. Non riuscivo a interessarmi a niente. Non avevo idea di come sarei riuscito a cavarmela nella vita. Agli altri, almeno, la vita piaceva. Sembravano capire qualcosa che io non capivo. Forse ero un po’ indietro. Era possibile. Mi capitava spesso di sentirmi inferiore. Volevo solo andarmene. Ma non c’era nessun posto dove andare. Il suicidio? Gesù Cristo, un’altra faticata. Avevo voglia di dormire per cinque anni di fila, ma non me lo permettevano.[...]

La narrazione è condotta in prima persona e comincia dall’infanzia, largo spazio vi trova la famiglia del protagonista, immigrati tedeschi allettati dal grande sogno americano. Un sogno che in realtà si rivela effimero e difficoltoso, a causa della Grande Depressione, anni in cui è ambientato il romanzo. Il quadro storico è descritto in modo suggestivo e riesce davvero a trasmettere l’idea della vita delle classi medio-basse americane in quell’epoca e delle promesse infrante della nazione.

Capitolo primo

La prima sensazione che ricordo è di essere sotto qualcosa. Era un tavolo, vedevo la gamba di un tavolo, vedevo le gambe della gente, e un pezzetto di tovaglia che pendeva. Era buio, lì sotto, mi piaceva stare lì sotto. Dovevamo essere in Germania. Dovevo avere uno o due anni. Era il 1922. Stavo bene sotto il tavolo. Pareva che nessuno si fosse accorto che ero lì sotto. Il sole illuminava il tappeto e le gambe della gente. Il sole mi piaceva. Le gambe della gente non erano molto interessanti, non quanto quel pezzetto di tovaglia che pendeva, non quanto la gamba del tavolo, non quanto la luce del sole.

Poi più nulla… poi un albero di Natale. Candeline. Ornamenti: uccellini con ramoscelli pieni di bacche nel becco. Una stella. Due grandi che litigavano, urlando. Gente che mangiava, sempre gente che mangiava. Anch’io mangiavo. Avevo un cucchiaio piegato in modo che se volevo mangiare dovevo prenderlo con la destra. Se lo prendevo con la sinistra non riuscivo a metterlo in bocca. Io volevo prenderlo con la sinistra.

Due persone: una più grande, coi capelli ricci, il naso grosso, la bocca larga, le sopracciglia spesse; la persona più grande sembrava sempre arrabbiata, gridava sempre; la più piccola stava zitta, aveva la faccia tonda, pallida, e gli occhi grandi. Mi facevano paura tutt’e due. A volte c’era una terza persona, grassa, col colletto di pizzo. Portava una grossa spilla e aveva la faccia piena di verruche coi peli. « Emily », la chiamavano. Queste persone non sembravano contente di stare insieme. Emily era la nonna, la madre di mio padre. Mio padre si chiamava « Henry ». Mia madre si chiamava « Katherine ». Io non li chiamavo mai per nome. Io ero « Henry Jr. ». Queste persone parlavano quasi sempre tedesco, e all’inizio parlavo anch’io quasi sempre tedesco.

La prima cosa che ricordo di aver sentito dalla bocca della nonna è: « Vi seppellirò tutti ! ». Lo disse per la prima volta proprio mentre stavamo cominciando a mangiare, e da allora glielo sentii ripetere un sacco di volte, sempre prima di mangiare. Mangiare sembrava molto importante. Mangiavamo purea di patate con il sugo, specialmente la domenica. Mangiavamo anche roast beef, wurstel coi crauti, piselli, rabarbaro, carote, spinaci, fagiolini, pollo, spaghetti con le polpette, a volte mescolati con ravioli: c’erano cipolle bollite, asparagi, e la domenica anche la crostata di fragole con il gelato di crema. A colazione mangiavamo pane inzuppato nell’uovo e fritto, e salsicce, oppure frittelle con uova e pancetta. E c’era sempre il caffè. Ma le cose che ricordo meglio sono quella purea col sugo e la nonna, Emily, che diceva: « Vi seppellirò tutti ! ».

Veniva a trovarci spesso, da quando ci eravamo trasferiti in America, prendeva il tram rosso da Pasadena a Los Angeles. Noi andavamo a trovarla di rado, con la nostra Ford Model-T.

La casa della nonna mi piaceva. Era una casetta piccola, sotto una gran massa di alberi del pepe. Emily aveva un sacco di canarini, ciascuno nella sua gabbia. Ricordo una visita in particolare. Quella sera la nonna fece il giro delle gabbie e le coprì tutte col loro cappuccio bianco per far dormire gli uccelli. I grandi erano seduti in poltrona e chiacchieravano. C’era un piano e io ero seduto al piano e premevo i tasti e ascoltavo i suoni mentre gli altri parlavano. Mi piaceva il suono dei tasti a quell’estremità del piano dalla quale praticamente non si riusciva a tirar fuori alcun suono… era un rumore come di cubetti di ghiaccio che si urtavano.

« Vuoi smetterla? », disse mio padre a voce alta.

« Lascialo suonare », disse la nonna.

La mamma sorrise.

« Quel ragazzo », disse la nonna, « una volta che lo tirai su dalla culla per baciarlo mi diede un pugno sul naso ! ».

Continuarono a parlare e io continuai a suonare il piano.

« Perché non fai accordare quel piano? », chiese mio padre.

Poi mi dissero che dovevamo andare a trovare il nonno. Il nonno e la nonna non vivevano insieme. Mi dissero che il nonno era un cattivo soggetto, che gli puzzava il fiato.

« E perché gli puzza il fiato? ».

Non risposero.

« Perché gli puzza il fiato? ».

« Perché beve ».

Salimmo sulla Model-T e andammo a trovare il nonno Leonard. Quando arrivammo e ci fermammo davanti alla sua casa, lui era sulla veranda. Era vecchio, ma teneva la schiena dritta. Era stato ufficiale dell’esercito, in Germania, ed era venuto in America quando aveva sentito dire che le strade erano lastricate d’oro. Non era vero, e così il nonno era diventato il capo di un’impresa edile.

Gli altri non scesero dalla macchina. Il nonno agitò un dito verso di me. Qualcuno aprì la portiera e io uscii fuori e andai verso di lui. Aveva i capelli bianchissimi, e lunghi, e anche la barba, bianchissima e lunga, e quando gli fui vicino mi accorsi che i suoi occhi brillavano come lucine azzurre, e mi guardavano. Mi fermai a qualche passo da lui.

« Henry », disse il nonno, « io e te ci conosciamo. Vieni dentro ».

Mi tese la mano. Mi avvicinai ancora e sentii il puzzo del suo fiato. Era molto forte, ma lui era l’uomo più bello che avessi mai visto e non avevo paura.

Entrai in casa con lui. Mi accompagnò a una sedia.

« Siediti, prego. Sono molto contento di vederti ».

Andò in un’altra stanza. Poi ne uscì con una scatoletta di latta.

« È per te. Aprila ».

Armeggiai col coperchio ma non riuscii ad aprirla.

« Su », disse lui, « dalla a me ».

Aprì il coperchio e mi porse di nuovo la scatoletta di latta. Io alzai il coperchio e vidi una croce, una croce tedesca con un nastro.

« Oh no », dissi, « tienila tu ».

« È tua », disse lui, « è solo una patacca ».

« Grazie ».

« Adesso va’. Saranno preoccupati ».

« Va bene. Arrivederci ».

« Arrivederci, Henry. No, aspetta… ».

Mi fermai. Lui infilò un paio di dita in un taschino dei pantaloni, con l’altra mano cominciò a estrarre una lunga catena d’oro. Poi mi diede il suo orologio d’oro da taschino, con la catena.

« Grazie, nonno… ».

Durante il viaggio di ritorno i grandi parlarono di molte cose. Parlavano sempre, e continuarono a parlare fino a quando arrivammo a casa della nonna. Parlarono di molte cose ma mai, neppure una volta, del nonno.

Capitolo secondo

Ricordo la Model-T. Quando si stava seduti, in alto, le pedane avevano un aspetto amichevole, e nelle giornate fredde, la mattina, e spesso anche più tardi, mio padre doveva fissare la manovella alla parte anteriore del motore e girarla parecchie volte per mettere in moto.

« Ci si può anche spezzare un braccio, così. Rincula come un cavallo ».

La domenica, quando non veniva la nonna, andavamo a fare una gita nella Model-T. Ai miei genitori piacevano gli aranceti, miglia e miglia di aranci fioriti o pieni di frutti. I miei genitori avevano un cestino da picnic e una cassetta di metallo. La cassetta di metallo era piena di scatole di frutta e ghiaccio secco, e nel cestino c’erano tramezzini di salame, würsteln e salsiccia di fegato, patatine, banane e bibite. Le bibite andavano avanti e indietro dalla scatola di metallo al cestino da picnic. Si gelavano in fretta, e poi bisognava sgelarle.

Mio padre fumava Camel, sapeva fare un sacco di giochetti con il pacchetto delle sigarette, e si esibiva di continuo. Quante piramidi ci sono su un pacchetto? Contale. Noi le contavamo, e allora lui ci faceva vedere che erano molte di più.

Faceva anche altri giochetti con le gobbe dei cammelli e le parole scritte sul pacchetto. Le Camel erano sigarette magiche.

Ricordo una domenica in particolare. Il cestino da picnic era vuoto. Ma noi continuavamo ad andare, in mezzo agli aranceti, sempre più lontani da casa.

« Papà », chiese la mamma, « non finiremo col restare senza benzina? ».

« No, ce ne un sacco, di fottutissima benzina ».

« Dove stiamo andando? ».

« Voglio cogliere un po’ di fottutissime arance ! ».

Continuò a guidare, e la mamma restò ferma e zitta. Mio padre si fermò lungo il bordo della strada, vicino alla recinzione di fil di ferro, e noi restammo seduti al nostro posto, in silenzio. Poi mio padre aprì la portiera con un calcio e scese dalla macchina.

« Prendete il cestino ».

Passammo tutti attraverso i fili della recinzione.

« Seguitemi », disse mio padre.

Ci trovammo tra due filari di aranci, con i rami e le foglie che ci riparavano dal sole. Mio padre sì fermò e cominciò a cogliere arance dai rami più bassi dell’albero più vicino. Sembrava arrabbiato, mentre coglieva le arance dall’albero, e anche i rami sembravano arrabbiati, si agitavano violentemente, su e giù. Mio padre buttava le arance nel cestino da picnic e mia madre lo reggeva. Ogni tanto sbagliava il colpo, e io correvo a raccogliere le arance e le mettevo nel cestino. Mio padre passava da un albero all’altro, strappando le arance dai rami bassi e buttandole nel cestino da picnic.

« Papà, ne hai prese abbastanza », disse mia madre.

« Col cazzo ».

Continuò a cogliere arance.

Poi saltò fuori un uomo, molto alto. Aveva un fucile da caccia.

« Bene, amico, che cosa credi di fare? ».

« Colgo un po’ di arance. Ce ne sono un sacco ».

«Sono le mie arance. Ora ascolta bene, di’ alla tua donna di mollarle ».

« Ci sono quintali di fottutissime arance. Che cos’è per te, qualche arancia in più o in meno? ».

« Non lo so e non lo saprò mai. Di’ alla tua donna di mollarle ».

L’uomo puntò il fucile contro mio padre.

« Molla », disse mio padre a mia madre.

Le arance rotolarono per terra.

« Ora », disse l’uomo, « fuori dal mio frutteto ».

« Cosa se ne fa, di tutte quelle arance? ».

« Lo so io cosa me ne faccio. Adesso fuori di qui ».

« La gente come lei dovrebbe essere impiccata! ».

« La legge sono io, qui. Adesso fuori! ».

L’uomo alzò di nuovo il fucile. Mio padre si voltò e si incamminò per uscire dall’aranceto. Noi lo seguimmo e l’uomo ci venne dietro. Salimmo in macchina, ma era una di quelle volte che la Model-T non voleva saperne di mettersi in moto. Mio padre scese dalla macchina per girare la manovella. Diede due colpi, ma la macchina non partì. Mio padre cominciò a sudare. L’uomo ci guardava, ritto sul bordo della strada.

« Vedi di avviare quella fottuta carriola! », disse.

Mio padre si apprestò a dare un altro giro. « Non siamo.sulla sua proprietà! Possiamo restar qui finché ci pare! ».

« Col cazzo ! Porta via quella carriola, e in fretta! ».

Mio padre diede un altro giro. Il motore scoppiettò, poi tacque. Mia madre sedeva col cestino da picnic, vuoto, sulle ginocchia. Io avevo paura di guardare quell’uomo. Mio padre diede un altro giro di manovella e il motore si avviò. Saltò in macchina e cominciò a darsi da fare con le leve sul volante.

« E non farti più vedere », disse l’uomo, « la prossima volta potrebbe andarti peggio ».

Mio padre partì con la Model-T. L’uomo restò ritto sul bordo della strada a guardarci. Mio padre guidava velocemente. Poi rallentò e fece un’inversione di marcia. Tornò indietro fin dove avevamo lasciato l’uomo. Non c’era più. Uscimmo in fretta dagli aranceti.

« Un giorno tornerò e gliela farò vedere io, a quel bastardo », disse mio padre.

« Papà, stasera ti farò una bella cenetta. Che cosa vuoi? », chiese mia madre.

« Costolette di maiale », rispose lui.

Non l’avevo mai visto correre così in macchina.

Capitolo terzo

Mio padre aveva due fratelli. Il più giovane si chiamava Ben e il più vecchio si chiamava John. Erano tutt’e due alcoolizzati e buoni a nulla. I miei genitori parlavano spesso di loro.

« Sono due buoni a nulla », diceva mio padre.

« La tua non è una gran famiglia, papà », diceva la mamma.

« E anche tuo fratello è un buono a nulla! ».

Il fratello di mia madre era in Germania. Mio padre parlava spesso male di lui.

Avevo un altro zio, Jack, che aveva sposato la sorella di mio padre, Elinore. Non conoscevo lo zio Jack e la zia Elinore, perché mio padre non andava d’accordo con loro.

« La vedi questa cicatrice che ho sulla mano? », mi disse mio padre. « Be’, una volta quand’ero piccolo Elinore mi infilzò con una matita appuntita. Mi è rimasta la cicatrice ».

A mio padre non piaceva la gente. Non gli piacevo nemmeno io. « I bambini devono ascoltare e tacere », diceva.

Era una domenica pomeriggio senza la nonna Emily.

« Dovremmo andare a trovare Ben », disse mia madre. « Sta morendo ».

« Si è fatto dare tutti quei soldi da Emily. E li ha buttati via in donne e alcool, e al gioco ».

« Lo so, papà ».

« Emily non lascerà un soldo, quando morirà ».

« Dovremmo andare ugualmente a trovarlo. Dicono che gli restino solo un paio di settimane ».

« Va bene, va bene! Andiamo! ».

E così andammo fuori, salimmo sulla Model-T e partimmo. Ci volle un bel po’, e la mamma dovette fermarsi a comperare dei fiori. La strada fino alle montagne era lunga. Arrivammo ai piedi delle colline e prendemmo una stradina tutta curve, in salita. Lo zio Ben era lassù, in un sanatorio. Stava morendo di TBC.

« Deve costare un sacco di soldi a Emily, tenerlo in questo posto », disse mio padre.

« Forse paga qualcosa anche Leonard ».

« Leonard non ha un soldo. Se li è bevuti quasi tutti, e i pochi che restavano li ha dati via ».

« A me piace il nonno Leonard », dissi io.

« I bambini devono ascoltare e tacere », disse mio padre. Poi continuò: « Ah, quel Leonard, era buono con noi solo quand’era ubriaco. Allora scherzava e ci dava dei soldi. Il giorno dopo però era l’uomo più cattivo del mondo ».

La Model-T sì arrampicava senza sforzo su per la montagna. L’aria era tersa e luminosa.

« Eccoci qua », disse mio padre. Infilò la macchina nel parcheggio del sanatorio e scendemmo tutti. Seguii mio padre e mia madre dentro l’edificio. Quando entrammo nella sua stanza, lo zio Ben era seduto sul letto, con gli occhi fissi fuori dalla finestra. Si voltò e ci guardò entrare. Era un uomo molto bello, sottile, coi capelli neri e gli occhi scuri e scintillanti.

« Salve, Ben », disse mia madre.

« Ciao, Kathy ». Poi mi guardò. « Questo è Henry? ».

« Sì ».

« Sedetevi ».

Io e mio padre ci sedemmo.

Mia madre restò in piedi. « Questi fiori, Ben. Non c’è nemmeno un vaso ».

« Sono molto belli, grazie, Kathy. No, non ci sono vasi ».

« Vado a prenderne uno », disse mia madre.

Uscì dalla stanza, coi fiori.

« Dove sono finite le tue ragazze, Ben? », chiese mio padre.

« Vengono a trovarmi, ogni tanto ».

« Davvero ».

« Sì, vengono a trovarmi ».

« Noi siamo venuti perché Katherine voleva vederti ».

« Lo so ».

« Anch’io volevo vederti, zio Ben. Sei davvero un bell’uomo ».

« Bello il cazzo », disse mio padre.

Mia madre entrò nella stanza con i fiori in un vaso.

« Ecco qua, li metto sul tavolo vicino alla finestra ».

« Sono molto belli, Kathy ».

Mia madre si sedette.

« Non possiamo fermarci molto », disse mio padre.

Lo zio Ben infilò una mano sotto il materasso e tirò fuori un pacchetto di sigarette. Ne prese una e accese un fiammifero. Tirò una lunga boccata e mandò fuori il fumo.

« Lo sai che non devi fumare », disse mio padre. « E so anche chi te le porta, le sigarette. Quelle prostitute. Bene, lo dirò ai dottori, e gli dirò anche di non lasciar più entrare quelle prostitute ! ».

« Non dirai un cazzo di niente », disse lo zio.

« Sai cos’ho voglia di fare? Ho voglia di strappartela di bocca, quella sigaretta! », disse mio padre.

Lo zio Ben fece una risatina.

« Ben », disse mia madre, « non dovresti fumare, ti ammazzerai ».

« Ho vissuto abbastanza, e bene », disse lo zio.

« Bella vita, la tua », disse mio padre. « Bugie, alcool, puttane, e sempre senza soldi. Non hai mai lavorato! E adesso muori, a 24 anni! ».

« È stata una bella vita », disse mio zio. Tirò un’altra lunga boccata dalla sua Camel, poi mandò fuori il fumo.

« Andiamocene di qua », disse mio padre. « Questo uomo è pazzo! ».

Mio padre si alzò. Poi si alzò mia madre. Poi mi alzai anch’io.

« Arrivederci, Kathy », disse lo zio, « ciao. Henry ». Mi guardò per farmi capire che ero io, l’Henry al quale si rivolgeva.

Seguimmo mio padre attraverso i corridoi del sanatorio fino al parcheggio dove avevamo lasciato la Model-T. Salimmo in macchina, il motore si accese, e cominciammo a scender giù per la strada tutta curve della montagna.

«Avremmo dovuto restare un po’ di più», disse mia madre.k

« Non lo sai che la TBC è contagiosa? », disse mio padre.

« Lo zio mi sembra un gran bell’uomo », dissi io.

« È la malattia », disse mio padre. « È la malattia che gli dà quell’aspetto. E, oltre alla TBC, ha un sacco di 

 malattie ».

« Che tipo di malattie? », chiesi io.

« Non posso dirtelo », rispose mio padre. E continuò a guidare la Model-T giù per la strada tutta curve mentre io riflettevo su quella risposta.

Capitolo quarto

Era un’altra domenica, e salimmo sulla Model-T per andare a trovare lo zio John.

« Non ha ambizioni », disse mio padre. « Non so come faccia a tener alta la testa e guardare la gente in faccia ».

« Vorrei che la smettesse di masticare tabacco », disse mia madre. « Lo sputa dappertutto ».

« Se tutti fossero come lui in questo paese, i musi gialli avrebbero già in mano tutto e ci saremmo noi, nelle lavanderie… ».

« John è stato sfortunato », disse mia madre. « Se n’è andato di casa molto presto. Tu hai fatto almeno le scuole superiori ».

« L’università », disse mio padre.

« E dove? », chiese mia madre.

« L’università dell’Indiana ».

« Jack mi ha detto che hai fatto solo le scuole superiori ».

« È Jack che ha fatto solo le scuole superiori. Ecco perché è ridotto a tenere i giardini dei ricchi ».

« Lo conoscerò mai, lo zio Jack? », chiesi io.

« Prima vediamo se ci riesce di trovare lo zio John », disse mio padre.

« Davvero i musi gialli vogliono prendere il potere? », chiesi io.

« Quei diavoli aspettano da secoli. Finora ci è andata bene perché hanno avuto da fare a combattere contro i giap ».

« Chi più bravo, in guerra, i cinesi o i giap? ».

« I giap. Il guaio è che i cinesi sono troppi. Quando se ne ammazza uno, si divide a metà e diventa due ».

« Com’è che hanno la pelle gialla? ».

« Perché invece di bere acqua bevono pipì ».

« Papà, non dire queste cose al ragazzo! ».

« E tu digli di smetterla di far domande ».

Continuammo ad andare, nella calda giornata di Los Angeles. Mia madre si era messa uno dei suoi vestiti carini e il cappellino. Quando si vestiva così, sedeva sempre ben dritta e teneva il collo rigido.

« Vorrei che avessimo abbastanza denaro da aiutare John e la sua famiglia », disse mia madre.

« Non è colpa mia, se non hanno neanche un pitale », rispose mio padre.

« Papà, John ha fatto la guerra, come te. Non credi che si meriti una ricompensa? ».

« È rimasto soldato semplice. Io sono diventato sergente ».

« Henry, i tuoi fratelli non possono essere tutti come te ».

« Non hanno un minimo d’ambizione! Pensano di poter vivere d’aria ! ».

Continuammo ad andare. Lo zio John e la sua famiglia abitavano in una casa piccola e squallida. Andammo giù per il marciapiede pieno di crepe fino a una veranda cadente, e mio padre suonò il campanello. Il campanello era rotto. Mio padre bussò, forte.

« Aprite! Polizia! », urlò mio padre.

« Papà, smettila ! », disse mia madre.

: Dopo un bel po’, nella porta si aprì una fessura. Poi la fessura si allargò. E apparve la zia Anna. Era molto sottile, con le guance incavate e grandi occhiaie scure. Anche la sua voce era sottile.

« Oh, Henry… Katherine… venite, venite avanti… ».

Entrammo. Cerano pochissimi mobili. Un tavolo in un angolo, con quattro sedie, e due letti. Mio padre e mia madre si sedettero sulle sedie. Due ragazze, Katherine e Betsy (i nomi li seppi dopo), facevano i turni al lavandino, a grattar via quel po’ di burro di arachidi che era rimasto in fondo a un barattolo.

« Stavamo proprio facendo colazione », disse la zia Anna.

Le ragazze si avvicinarono con due mucchietti di burro di arachidi che spalmarono su pezzi di pane secco. Continuavano a guardare dentro il barattolo e a grattare il fondo con un coltello.

« Dov’è John? », chiese mio padre.

La zia si sedette stancamente. Sembrava debolissima, era molto pallida. Aveva il vestito sporco, i capelli spettinati, era stanca, triste.

« Lo stiamo aspettando. Non lo vediamo da un po’ ».

« Dov’è andato? ».

« Non lo so. Se n’è andato con la motocicletta ».

« Tutto quello che sa fare », disse mio padre, « è pensare alla sua motocicletta ».

« E questo è Henry Junior? ».

« Sì ».

« Come ci guarda. È molto tranquillo ».

« È così che dev’essere ».

« L’acqua cheta rovina i ponti ».

« Non in questo caso. Se prova a fare il furbo, lo ammazzo ».

Le due ragazze presero le loro fette di pane e andarono fuori a mangiarle sui gradini della veranda. Non avevano detto una parola. A me sembravano carine. Erano magre come la madre, ma carine.

« Come stai, Anna? », chiese mia madre.

« Bene ».

« Anna, non hai una bella cera. Secondo me non mangi abbastanza ».

« Perché non si siede, il ragazzo? Siediti, Henry ».

« Gli piace stare in piedi », disse mio padre. « Gli fa bene stare in piedi. Così diventerà grande e grosso e potrà combattere contro i musi gialli ».

« Non ti piacciono i cinesi? », mi chiese la zia.

« No », risposi io.

« Bene, Anna », disse mio padre, « come vanno le cose? ».

« Male, male… Il padrone di casa vuole l’affitto. È tremendo. Mi fa paura. Non so che cosa fare ».

« Ho sentito dire che John è ricercato », disse mio padre.

« Oh, per una sciocchezza ».

« Che cos’ha fatto? ».

« Ha falsificato qualche moneta da dieci cent ».

« Dieci cent? Gesù Cristo, che razza di idea! Proprio ambiziosa! ».

« John non vuol far male a nessuno, davvero ».

« A me sembra che non voglia fare proprio niente ».

« Vorrebbe, se potesse ».

« Già. E se le rane avessero le ali, non si consumerebbero il culo a furia di salti ! ».

Dopodiché restarono tutti seduti in silenzio. Io mi voltai e guardai fuori. Le ragazze non erano più sulla veranda, erano andate da qualche parte.

« Vieni, Henry, siediti », disse la zia Anna.

Io restai in piedi. « Grazie, sto bene così ».

« Anna », disse mia madre, « sei sicura che John tornerà? ».

« Tornerà, quando si sarà stancato delle sue pollastre », disse mio padre.

« John adora le bambine… », disse Anna.

« Ho sentito dire che la polizia lo cerca per qualcos’altro ».

« Che cosa? ».

« Stupro ».

« Stupro? ».

« Sì, Anna, così mi hanno detto. Un giorno mentre girava in motocicletta ha incontrato una ragazza che faceva l’autostop. L’ha presa su di dietro e, mentre andavano, all’improvviso John ha visto un garage vuoto. È entrato, ha chiuso la porta, e ha violentato la ragazza ».

« Come lo sai? ».

« Come lo so? È venuta la polizia a dirmelo, volevano sapere dov’era ».

« E tu gliel’hai detto? ».

« E perché avrei dovuto? Per farlo finire in galera e dargli modo di sottrarsi alle sue responsabilità? Ma è proprio quello che vorrebbe ! ».

« A questo non avevo pensato ».

« Non che io approvi lo stupro… ».

« Sono cose che capitano, anche senza volerlo. Si presenta l’occasione… e… ».

« Che cosa? ».

« Voglio dire, dopo le bambine, e con questa vita, le preoccupazioni e tutto il resto… io non sono più quella di una volta. John ha visto una ragazza, giovane, carina… è salita sulla sua moto… l’ha circondato con le braccia… e… capisci? ».

« Cosa? », disse mio padre. « Di’ un po’, a te piacerebbe essere violentata? ».

« No, credo di no ».

« Be’, sono sicuro che non è piaciuto nemmeno a quella ragazza ».

Arrivò una mosca e cominciò a volare in cerchio intorno al tavolo. Ci mettemmo tutti a guardarla.

« Non c’è niente da mangiare, qui », disse mio padre. « La mosca è capitata male ».

La mosca si faceva sempre più ardita. Girava in cerchi sempre più stretti e ronzava. Più i cerchi si stringevano, più forte si faceva il ronzio.

« Non dirai alla polizia che John potrebbe tornare a casa, vero? », disse la zia a mio padre.

« No, non voglio che se la cavi così facilmente », disse mio padre.

La mano di mia madre scattò in avanti. Si chiuse e tornò a posarsi sul tavolo.

« L’ho presa », disse mia madre.

« Hai preso che cosa? », chiese mio padre.

« La mosca », e sorrise.

« Non ti credo… ».

« La vedi da qualche parte? Non c’è più ».

« È volata via ».

« No, ce l’ho in mano ».

« Impossibile ».

«Ti dito che ce l’ho in mano».

« Balle ».

« Non mi credi? ».

« No ».

« Apri la bocca ».

« Va bene ».

Mio padre aprì la bocca e mia madre gliela coprì con la mano chiusa. Mio padre saltò in piedi e si portò una mano alla gola.

« GESÙ CRISTO ! ».

La mosca gli uscì di bocca e ricominciò a volare intorno al tavolo.

« Adesso basta », disse mio padre, « andiamo a casa! ».

Si alzò, uscì, scese giù per il marciapiede, salì sulla Model-T e rimase seduto al volante, rigido, con espressione minacciosa.

« Ti abbiamo portato un po’ di scatolame », disse mia madre alla zia. « Mi dispiace di non poterti dare dei soldi, ma Henry dice che li daresti a John e lui li spenderebbe in gin o benzina per la motocicletta. È poca roba: un po’ di minestre, carne, piselli… ».

« Oh, Katherine, grazie ! Grazie a tutt’e due… ».

Mia madre si alzò e io la seguii. C’erano due cartoni di scatolame in macchina. Vidi mio padre seduto al volante, rigido. Era ancora arrabbiato.

Mia madre mi diede il cartone più piccolo, prese quello più grande, e tornammo dalla zia. Mettemmo i cartoni sul tavolo. La zia Anna prese una scatola. Era una scatola di piselli, con l’etichetta fitta di pallini verdi.

« Che bellezza », disse la zia.

« Anna, dobbiamo andare. Temo di aver ferito Gorgoglio di Henry ».

La zia Anna buttò le braccia, al collo alla mamma. « È tutto così terribile. Ma questo è un sogno. Aspetta che le ragazze ritornino. Aspetta che vedano tutte queste scatole! ».

Mia madre le restituì l’abbraccio. Poi si separarono.

« John non è cattivo », disse la zia.

« Lo so », disse mia madre. « Arrivederci, Anna ».

« Arrivederci, Katherine. Ciao, Henry ».

Mia madre si voltò e uscì. Io la seguii. Andammo alla macchina e ci salimmo. Mia padre mise in moto.

Mentre ci allontanavamo, vidi la zia sulla porta; agitava una mano in segno di saluto. Mia madre rispose. Mio padre no. Io nemmeno.

Capitolo quinto

Cominciavo a trovar odioso mio padre. Era sempre arrabbiato. Dovunque si andasse, trovava modo di litigare con qualcuno. Ma non faceva paura a nessuno; la gente si limitava a fissarlo con calma, e lui diventava furioso. Se andavamo a mangiar fuori, il che succedeva di rado, trovava sempre qualcosa da ridire sul cibo e spesso si rifiutava di pagare. « C’è una cacca di mosca in questa panna montata! Che cazzo di posto è questo? ».

« Mi dispiace, signore, lasci perdere il conto. Vada pure ».

« Me ne vado, va bene, me ne vado! Ma tornerò ! Tornerò a dar fuoco a questo fottutissimo locale! ».

Una volta eravamo in un drugstore, e io e mia madre, un po’ in disparte, guardavamo mio padre che urlava col commesso. Un altro commesso chiese a mia madre: « Chi è quell’uomo orribile? Tutte le volte che viene qui litiga con qualcuno ».

« È mio marito », disse mia madre.

Poi ricordo un’altra cosa. Una volta lavorava come lattaio e faceva le consegne a domicilio la mattina presto. Una mattina mi svegliò. « Vieni, voglio farti vedere una cosa ». Andai fuori con lui. Ero in pigiama e pantofole. Era ancora buio, c’era la luna. Andammo fino al furgone del latte, tirato da un cavallo. Il cavallo era tranquillissimo. « Guarda », disse mio padre. Prese una zolletta di zucchero, se la mise sul palmo della mano e la tese al cavallo. Il cavallo la mangiò. « Adesso provaci tu… ». Mi mise in mano una zolletta di zucchero. Il cavallo era grosso. «’ Più vicino! E tendi quella mano ! ». Io avevo paura che il cavallo me la mangiasse, la mano. L’animale abbassò la testa ; vidi le froge ; poi scoprì i denti ; vidi la lingua e la zolletta di zucchero sparì. « Ecco fatto. Provaci ancora… ». Ci provai ancora. Il cavallo prese la zolletta e scrollò la testa. « Ora », disse mio padre, « ti riporto dentro prima che il cavallo ti faccia la cacca addosso ».

Non mi era permesso di giocare con gli altri bambini. « Sono bambini cattivi », diceva mio padre, « figli di gente povera ». « Sì », diceva mia madre. I miei genitori avrebbero voluto esser ricchi e così facevano finta di esser ricchi.

Vidi per la prima volta altri bambini della mia età all’asilo. Erano molto strani, ridevano, parlavano, e sembravano felici. Non mi piacevano. Avevo sempre voglia di vomitare, e l’aria sembrava stranamente bianca e immota. Dipingevamo con gli acquerelli. Piantammo dei ravanelli nell’orto e qualche settimana dopo li mangiammo col sale. Mi piaceva la signora che insegnava all’asilo, mi piaceva più dei miei genitori. Avevo dei problemi ad andare al bagno. Avevo sempre bisogno di andare al bagno, ma mi vergognavo a far sapere agli altri che ne avevo bisogno, e così la tenevo. Era veramente terribile, tenerla. E l’aria era bianca, avevo voglia di vomitare, avevo voglia di cacare e pisciare, ma non dicevo niente. E quando gli altri tornavano dal bagno pensavo, sei sporco, hai fatto qualcosa, là dentro…

Le bambine erano carine coi loro vestitini corti, i capelli lunghi e gli occhi belli, ma io pensavo, anche loro fanno i loro bisogni là dentro, anche se fanno finta di niente.

L’asilo era praticamente aria bianca…

Le elementari furono diverse, dalla prima alla sesta. Alcuni bambini avevano dodici anni, e venivamo tutti da quartieri poveri. Cominciai ad andare in bagno,» ma solo per pisciare. Una volta uscii dal bagno e vidi un ragazzino che beveva a un rubinetto dell’acqua. Un ragazzo più grande gli arrivò alle spalle, gli diede una manata sulla testa e lo fece finire con la faccia nello zampillo. Il ragazzino rialzò la testa, aveva un po’ di denti rotti e gli usciva il sangue dalla bocca ; c’era sangue nel lavandino. « Raccontalo a qualcuno », disse il ragazzo più grande, « e vedrai cosa ti succede ». Il ragazzino prese un fazzoletto e se lo mise sulla bocca. Tornai in classe e l’insegnante stava parlando di George Washington e Valley Forge. Portava una complicata parrucca bianca. Aveva l’abitudine di picchiarci sul palmo della mano con un righello, quando pensava che le avessimo disubbidito. Non credo che andasse mai in bagno. La odiavo.

Tutti i pomeriggi dopo la scuola c’era una rissa tra un paio dei ragazzi più grandi. Sempre vicino alla staccionata sul retro dove gli insegnanti non andavano mai. E le risse non erano mai alla pari ; sempre un ragazzo più grande contro uno più piccolo e il più grande pestava il più piccolo coi pugni, buttandolo contro la staccionata. Il più piccolo tentava di difendersi ma era inutile. Dopo un po’ aveva la faccia sanguinante e il sangue gli scorreva fin dentro la camicia. I più piccoli le prendevano senza fiatare, non piangevano mai, non chiedevano mai pietà. Alla fine il ragazzo più grande smetteva di picchiare e la rissa finiva, e gli altri ragazzi se ne andavano col vincitore. Io andavo a casa in fretta, solo, col culo stretto perché l’avevo tenuta per tutte le ore di scuola e per tutta la durata della rissa. Di solito quando arrivavo a casa mi era passata anche la voglia di liberarmi. Era una cosa che mi preoccupava.

Capitolo sesto

Non avevo amici a scuola, non ne volevo. Stavo meglio da solo. Mi sedevo su una panchina, guardavo gli altri bambini giocare e mi sembravano stupidi. Un giorno durante l’intervallo della colazione mi si avvicinò un ragazzo nuovo. Portava i calzoni alla zuava, era strabico e aveva i piedi vari. Non mi piaceva, era bruttino. Mi si sedette vicino sulla panchina.

« Ciao, io mi chiamo David ».

Non risposi.

Lui aprì il cestino della colazione. « Ho dei tramezzini di burro di arachidi », disse. « E tu cosa hai? ».

« Tramezzini di burro di arachidi ».

« Ho anche una banana. E un po’ di patatine. Vuoi un po’ di patatine? ».

Ne presi qualcuna. Ne aveva un sacco, salate e croccanti, trasparenti al sole. Buonissime.

« Me ne dai ancora un po’? ».

« Va bene ».

Presi ancora un po’ di patatine. Nei suoi tramezzini c’era anche la marmellata. Sgocciolava fuori e gli scendeva giù per le dita. David non sembrava accorgersene.

« Dove abiti? », mi chiese.

« Virginia Road ».

« Io abito in Pickford Street. Possiamo andare a. casa insieme dopo la scuola. Prendi ancora un po’ di patatine. Chi è la tua maestra? ».

« Mrs. Columbine ».

« Io ho Mrs. Reed. Ci vediamo dopo la scuola, andremo a casa insieme ».

Perché portava quei calzoni alla zuava? Che cosa voleva? Non mi piaceva proprio. Presi ancora un po’ di patatine.

Quel pomeriggio, dopo la scuola, David venne a cercarmi e cominciò a camminarmi accanto. « Non mi hai detto come ti chiami », disse.

« Henry », risposi io.

Mentre camminavamo mi accorsi che un’intera banda di ragazzini, di prima, ci stava seguendo. Da principio si tennero a un isolato di distanza, poi si avvicinarono fino a pochi metri da noi.

« Che cosa vogliono? », chiesi a David.

Lui non rispose, continuò a camminare.

« Ehi, zuavo! », urlò uno della banda. « Cosa sono, pieni di merda, quei calzoni? ».

« Guercino, guercino! ».

« Se ti piglio, te li raddrizzo io, quegli occhi! ».

Ci circondarono.

« Chi è il tuo amico? Ti lecca il culo? ».

Uno di loro aveva preso David per il colletto. Lo buttò in un prato. David si rialzò. Un ragazzo si mise carponi dietro di lui. L’altro diede uno spintone a David e lo fece cadere all’indietro. Un altro ancora lo fece rotolare sull’erba e gli sfregò la faccia per terra. Poi si tirarono indietro. David si rialzò ancora. Non disse niente, ma le lacrime gli rotolavano giù per la faccia. Il ragazzo più grande gli si avvicinò. « Non ti vogliamo nella nostra scuola, finocchio. Via dalla nostra scuola! ». Diede un pugno nello stomaco a David. David si piegò in due, e allora il ragazzo tirò su un ginocchio e glielo sbattè in faccia. David cadde. Gli usciva il sangue dal naso.

Poi i ragazzi circondarono me. « Adesso tocca a te! ». Continuavano a girarmi intorno, e io continuavo a girare su me stesso. Ne avevo sempre qualcuno alle spalle. Ero pieno di merda e mi toccava lottare. Ero terrorizzato e calmo al tempo stesso. Non capivo cosa volessero. Continuavano a girarmi intorno e io continuavo a girare su me stesso. Andammo avanti così per un bel pezzo. Mi gridavano qualcosa, ma non capivo cosa. Alla fine indietreggiarono e si allontanarono lungo la strada. David mi stava aspettando. Andammo giù per il marciapiede verso casa sua, in Pickford Street.

Arrivammo davanti alla sua casa.

« Devo andare, adesso. Ciao ».

« Ciao, David ».

Andò dentro e allora sentii la voce di sua madre. « David! Guardati i pantaloni e la camicia! Sono tutti strappati e pieni di macchie d’erba! Tutti i giorni la stessa storia! Si può sapere cosa fai? ».

David non rispose.

« Ti ho fatto una domanda! Perché ti conci in questo modo? ».

« Non è colpa mia, mamma… ».

« Come non è colpa tua? Stupido! ».

Sentii che lo picchiava. David cominciò a piangere e lei lo picchiò più forte. Restai lì nel prato davanti alla casa ad ascoltare. Dopo un po’ smise di picchiarlo. Sentii David singhiozzare. Poi tacque.

Sua madre disse: « Adesso mettiti a fare gli esercizi di violino ».

Mi sedetti sul prato e aspettai. Poi sentii il violino. Era un violino molto triste. Non mi piaceva come suonava David. Restai seduto ad ascoltare per un po’, ma la musica non migliorò. Ormai la cacca mi si era indurita dentro. Non avevo più voglia di cacare. La luce del pomeriggio mi faceva male agli occhi. Avevo voglia di vomitare. Mi alzai e andai a casa.

Capitolo settimo

C’erano risse continue. Gli insegnanti facevano finta di non vedere. E quando pioveva erano guai. Chiunque arrivasse a scuola con un ombrello o un impermeabile veniva segnato a dito. Quasi tutti i nostri genitori erano troppo poveri per comperare oggetti del genere. E se lo facevano, ci affrettavamo a nasconderli nei cespugli. Chiunque venisse visto con un ombrello in mano e un impermeabile addosso veniva considerato un po’ finocchio. E picchiato. La madre di David lo costringeva a prendere l’ombrello tutte le volte che c’era una nuvola.

Avevamo due intervalli per la ricreazione. Noi di prima andavamo nel nostro campo da baseball e facevamo le squadre. Io e David aspettavamo insieme che ci scegliessero. Era sempre la stessa storia: a me mi sceglievano per penultimo, e David per ultimo, per cui giocavamo sempre in squadre diverse. David giocava peggio di me. Con quegli occhi storti, non la vedeva nemmeno, la palla. Io avevo bisogno di allenamento. Non avevo mai giocato con gli altri bambini del quartiere. Non sapevo ricevere e non sapevo battere. Ma mi sarebbe piaciuto giocare bene. David aveva paura della palla, io no. Avevo un buon giro di mazza, ma non riuscivo mai a beccare la palla. Andavo sempre al piatto. Una volta mandai la palla in foul. Meglio di niente. Un’altra volta mi arrivò addosso, in pieno. Quando arrivai nel box, il prima base disse: « È il solo modo in cui riuscirai mai ad arrivare qui ». Lo guardai fisso. Masticava gomma e dalle narici gli uscivano lunghi peli neri. Aveva i capelli unti di vaselina. La sua bocca era atteggiata a un ghigno perpetuo.

« Che cosa guardi? », mi chiese.

Non sapevo cosa dire. Non ero abituato a far conversazione.

« I ragazzi sostengono che sei pazzo », mi disse, « ma a me non fai paura. Uno di questi giorni ti aspetto fuori ».

Io continuai a guardarlo. Aveva una faccia tremenda. Poi il lanciatore iniziò il caricamento e io scattai verso la seconda base. Corsi come un matto, e scivolai in seconda. La palla arrivò tardi. La base era lì, ma l’arbitro mi fregò.

« Sei fuori! », urlò il ragazzino che arbitrava. Mi alzai, non potevo crederci.

« Ho detto che sei FUORI! », urlò l’arbitro.

Allora capii che non mi volevano. Nessuno voleva David e me. Mi volevano « fuori » perché ero « fuori ». Sapevano che io e David eravamo amici. Era per via di David che non mi volevano. Uscii dal campo e vidi David in terza base coi suoi pantaloni alla zuava. I calzettoni gialli e blu gli erano scesi alle caviglie. Perché aveva scelto proprio me? Ero un uomo segnato. Quel pomeriggio, dopo la scuola, me ne andai in fretta, solo, senza David. Non volevo vederlo di nuovo pestato, dai compagni o dalla madre. Non volevo sentire il suo violino triste. Ma il giorno dopo, a colazione, quando mi si sedette vicino, mangiai le sue patatine.

Arrivò il mio giorno. Ero cresciuto e mi sentivo capace di tutto, sul box. Non potevo credere di essere da schiappa che pretendevano che fossi. Battevo alla cavolo, ma con forza. Sapevo di essere forte, e magari anche « pazzo », come dicevano. Ma avevo la sensazione che ci fosse qualcosa, dentro di me. Magari solo merda indurita, ma sempre meglio di niente. Ero sempre meglio di « loro ». Ero alla battuta. « Ehi, ecco il re dello Strike out! Mr. Mulino a vento! ». La palla arrivò. La colpii, sentii la mazza colpire la palla nel modo che avevo sempre sperato. La palla salì in alto, sempre più alto, all’esterno sinistro, molto al di sopra della testa del difensore. L’esterno sinistro si chiamava Don Brubaker, e restò lì come un salame a guardare la palla che gli passava sopra la testa. Sembrava che non dovesse più tornar giù. Poi Brubaker cominciò a correre dietro la palla. Voleva eliminarmi. Non ce l’avrebbe mai fatta. La palla tornò giù e rotolò fino a un altro diamante in cui stavano giocando alcuni ragazzi di quinta. Io corsi con calma in prima base, toccai il sacchetto, guardai il prima base, corsi con calma in seconda, toccai il sacchetto, corsi in terza, dove c’era David, lo ignorai, toccai il sacchetto, e arrivai alla casa base. Che giornata! Mai visto un ragazzino di prima fare un numero come quello! Mentre arrivavo alla casa base sentii uno dei ragazzi, Irving Bone, dire al capitano della squadra, Stanley Greenberg: « Mettiamolo nella squadra regolare ». (La squadra regolare giocava contro quelle delle altre scuole.)

« No », disse Stanley Greenberg.

Stanley aveva ragione. Non mi capitò più di giocare così. Andavo quasi sempre strike out. Ma. loro non dimenticarono quella giornata. Mi odiavano ancora, ma era un odio diverso, migliore. Sembrava che non sapessero più perché mi odiavano.

Durante la stagione del football, le cose andavano anche peggio. Si giocava a touch football. Io non sapevo prendere né lanciare, ma riuscii a partecipare a una partita. Quando il runner uscì fuori dalla mischia, lo presi per la collottola e lo buttai a terra. Era il prima base con la vaselina sui capelli e i peli nelle narici. Arrivò Stanley Greenberg. Era il più grosso di tutti. Avrebbe potuto ammazzarmi, se avesse voluto. Era il capo. Quando diceva una cosa.

era quella. Mi disse: « Tu non capisci le regole. Non ti faremo giocare più ».

Mi misero nella squadra di pallavolo. Giocavo a pallavolo con David e gli altri. Era un disastro. Anche lì c’erano urla, strilli, eccitazione, ma gli « altri » giocavano a football. E io volevo giocare a football. Avevo solo bisogno di un po’ d’esercizio. Mi vergognavo a giocare a pallavolo. La pallavolo andava bene per le ragazze. Dopo un po’ mi rifiutai di giocare. Stavo sempre in mezzo al campo, dove non succedeva niente. Ero l’unico che non voleva mai giocare a niente. Tutti i giorni, due volte al giorno, me ne stavo lì in mezzo al campo ad aspettare che la ricreazione finisse.

Un giorno mi capitò un altro guaio. Una palla da football mi arrivò alta alle spalle e mi beccò in testa. Mi buttò a terra. Mi sentivo stordito. Gli altri mi si erano affollati intorno, e ridevano. « Oh, guarda, Henry è svenuto! Henry è svenuto come una signorina! Oh, guardatelo! ».

Mi alzai. Il sole si era messo a girare. Poi si fermò. Il cielo si abbassò e si appiattì. Era come stare in gabbia. Li avevo tutti intorno, facce, nasi, bocche e occhi. Dato che mi prendevano in giro, pensai che mi avessero colpito apposta con la palla. Non era giusto.

« Chi ha calciato quella palla? », chiesi.

« Vuoi sapere chi ha calciato la palla? ».

« Sì ».

« E cosa farai quando lo saprai? ».

Non risposi.

« È stato Billy Sherril », disse qualcuno.

Billy era un ragazzo tondo e grasso, più simpatico degli altri, ma sempre uno di loro. Mi mossi verso Billy. Lui restò fermo. Quando gli arrivai vicino mi tirò un cazzotto. Quasi non lo sentii. Lo colpii dietro l’orecchio sinistro, e quando lui si portò la mano all’orecchio lo colpii allo stomaco. Cadde a terra. Restò a terra. « Alzati e battiti, Billy », disse Stanley Greenberg. Stanley alzò Billy da terra e lo spinse verso di me. Io gli diedi un pugno in bocca e Billy si portò entrambe le mani alla bocca.

« O.K. », disse Stanley, « mi batto io al posto suo! ».

I ragazzi applaudirono. Io decisi di scappare, non volevo morire. Ma in quel momento arrivò uno degli insegnanti. « Cosa succede qui? ». Era Mr. Hall.

« Henry le ha suonate a Billy », disse Stanley Greenberg.

« È vero, ragazzi? », chiese Mr. Hall.

« Sì », dissero loro.

Mr. Hall mi prese per un orecchio e mi portò dal preside. Mi spinse su una sedia davanti a una scrivania vuota, poi andò a bussare alla porta del preside. Restò dentro un bel po’, e quando uscì se ne andò senza nemmeno guardarmi. Restai lì seduto per cinque o dieci minuti prima che il preside venisse fuori e andasse a sedersi alla scrivania. Era un uomo molto dignitoso, con una massa di capelli bianchi e una cravatta azzurra a farfalla. Sembrava un vero signore. Si chiamava Mr. Knox. Mr. Knox intrecciò le dita e mi guardò senza parlare. A quel punto non fui più così sicuro che fosse un vero signore. Sembrava che volesse umiliarmi, mi trattava proprio come tutti gli altri.

« Bene », disse alla fine, « dimmi cos’è successo ».

« Non è successo niente ».

« Hai picchiato quel ragazzo, Billy Sherril. I suoi genitori vorranno sapere perché ».

Non dissi niente.

« Credi che tocchi a te prendere provvedimenti, quando qualcosa non ti piace? ».

« No ».

« E allora perché l’hai fatto? ».

Non risposi.

« Credi di essere migliore degli altri? ».

« No ».

Mr. Knox restò seduto. Aveva in mano un lungo tagliacarte e lo muoveva avanti e indietro sul rivestimento di panno verde della scrivania. Sulla scrivania c’era una grossa boccetta di inchiostro verde e un portapenne con quattro penne. Mi chiesi se me le avrebbe suonate.

« Allora perché hai fatto quello che hai fatto? ».

Non risposi. Mr. Knox continuava a spostare il tagliacarte avanti e indietro. Suonò il telefono. Lui prese su la cornetta.

« Pronto? Oh, Mrs. Kirby. Lui che cosa? Che cosa? Senta, non sa tenere la disciplina da sola? Io ho da fare adesso. Va bene, la chiamerò quando avrò finito con questo qui… ».

Riappese. Buttò indietro i bei capelli bianchi dagli occhi e mi guardò.

« Perché devi darmi tutti questi fastidi? ».

Non risposi.

« Fai il duro, eh? ».

Restai in silenzio.

« Fai il duro, ragazzo, eh? ».

C’era una mosca che volava intorno alla scrivania di Mr. Knox. Svolazzò sopra la boccetta di inchiostro verde. Poi atterrò sul coperchio nero della boccetta di inchiostro e restò lì a sfregarsi le ali.

« O.K., ragazzo, tu sei un duro e io sono un duro. Stringiamoci la mano ».

Io non pensavo di essere un duro e così non gli diedi la mano.

« Avanti, dammi la mano ».

Gli tesi la mano e lui la prese e cominciò a stringerla. Poi smise di stringerla e mi guardò. Aveva gli occhi azzurri, più chiari della cravatta a farfalla. Erano occhi quasi belli. Continuò a guardarmi senza lasciar andare la mia mano. Poi la stretta si fece più forte.

« Voglio congratularmi con te perché sei un duro ».

La stretta si fece ancora più forte.

« Tu credi che io sia un duro? ».

Non risposi.

Mi stritolò le ossa delle dita. Sentivo l’osso di ogni dito tagliare come una lama la carne del dito vicino. Fiamme rosse mi si accesero davanti agli occhi.

« Allora sono o non sono un duro? », mi chiese.

« La ammazzerò », dissi.

« Che cosa? ».

Mr. Knox aumentò la stretta. Aveva mani come morse. Vedevo ogni poro della pelle della sua faccia.

« I duri non gridano, vero? ».

Non riuscivo più a guardarlo in faccia. Misi giù la testa sulla scrivania.

« Allora, sono o non sono un duro? », chiese Mr. Knox.

Strinse ancora più forte. Fui costretto a urlare, ma il più piano possibile per non farmi sentire dagli altri ragazzi nelle aule.

« Allora, sono o non sono un duro? ».

Aspettai ancora. Non volevo dirlo. Poi dissi: « Sì ».

Mr. Knox mi lasciò la mano. Avevo paura di guardarla. La lasciai penzolare di fianco. Mi accorsi che la mosca se n’era andata e pensai, non dev’essere male, nascere mosca. Mr. Knox stava scrivendo su un pezzo di carta.

« Ora, Henry, questo è un biglietto per i tuoi genitori. Voglio che tu glielo consegni. Glielo consegnerai, vero? ».

« Sì ».

Piegò il biglietto, lo infilò in una busta e me lo tese. La busta era chiusa, e io non avevo nessuna voglia di aprirla.

Capitolo ottavo

Portai la busta a casa, la diedi a mia madre e andai in camera mia. La mia camera. La cosa migliore di quella camera era il letto. Mi piaceva restare a letto per ore, anche durante il giorno, con le coperte tirate su fino al mento. Si stava bene lì sotto, non succedeva mai niente, non c’era gente, niente. Mia madre mi trovava spesso a letto di giorno.

« Henry! Alzati ! Non sta bene che un bambino stia a letto tutto il giorno ! Su, alzati ! Fa’ qualcosa ! ».

Ma non c’era niente da fare.

Quel giorno non andai a letto. Mia madre stava leggendo il biglietto. Dopo un po’ la sentii piangere. Poi gemere e lamentarsi. « Oh, dio mio! Sei la vergogna mia e di tuo padre ! Che vergogna! E se i vicini lo vengono a sapere? Che cosa penseranno di noi? ».

Mio padre e mia madre non parlavano mai coi vicini.

Poi la porta si aprì e mia madre entrò di corsa nella stanza: « Come hai potuto far questo a tua madre? ».

Le lacrime le scorrevano giù per le guance. Mi sentii un verme.

« Aspetta che ritorni tuo padre! ».

Sbatté la porta della camera e io restai seduto ad aspettare. Mi sentivo in colpa, in un certo senso…

Sentii mio padre arrivare. Sbatteva sempre la porta, aveva il passo pesante e parlava a voce molto alta. Era tornato. Dopo qualche minuto la porta della mia camera si aprì. Mio padre era alto quasi un metro e novanta, un uomo grande e grosso. Tutto svanì davanti ai miei occhi, la sedia su cui sedevo, la carta da parati, le pareti, i miei pensieri. Mio padre era la nube che oscura il sole, la violenza che emanava da lui faceva sparire di colpo tutto il resto. Era tutto orecchie, naso, bocca, non potevo guardarlo negli occhi, c’era solo la sua faccia rossa e arrabbiatai.

« Va bene, Henry. In bagno ».

Andai in bagno e lui mi seguì e si chiuse la porta alle spalle. Le pareti erano bianche. C’erano uno specchio e un finestrino, schermato da una rete nera e tutta rotta. C’erano la vasca da bagno, la tazza del cesso e le piastrelle. Mio padre alzò un braccio e prese la coramella del rasoio appesa a un gancio. Sarebbe stata la prima di molte battute, ne avrei prese tante, con frequenza sempre maggiore. E sempre senza ragione.

« Bene, tirati giù i pantaloni ».

Mi tirai giù i pantaloni.

« Tirati giù le mutande ».

Me le tirai giù.

Poi alzò la striscia di cuoio. Il primo colpo fu più uno choc che un dolore. Al secondo cominciai a sentir male. A ogni colpo il dolore aumentava. Da principio ero conscio delle pareti, della tazza, della vasca. Alla fine non vedevo più niente. Mentre. picchiava, mi sgridava, ma io non sentivo una parola. Pensavo alle sue rose, alle rose che coltivava in giardino. Pensavo alla sua automobile nel garage. Cercavo di non mettermi a urlare. Sapevo che se mi fossi messo a urlare forse avrebbe smesso di picchiarmi, ma sapendo questo, e sapendo quanto desiderasse che mi mettessi a urlare, facevo di tutto per resistere. Le lacrime mi traboccavano dagli occhi, ma restavo in silenzio. Dopo un po’ fu tutto un vortice, un guazzabuglio, ed esisteva solo la terrificante possibilità di restar lì per sempre. Alla fine qualcosa si mosse, cominciai a singhiozzare, a tossire, ingoiando il muco salato che mi scendeva giù per la gola. Mio padre smise di picchiarmi.

Era andato via. Riacquistai coscienza del finestrino e dello specchio. La coramella del rasoio era di nuovo appesa al suo gancio, lunga, marrone e attorcigliata. Non riuscivo a chinarmi per tirar su mutande e pantaloni e così andai alla porta, a passi goffi e stentati, coi vestiti sulle caviglie. Aprii la porta del bagno e vidi mia madre in corridoio.

« È un’ingiustizia », le dissi. « Perché non mi hai aiutato? ».

« Il padre », disse lei, « ha sempre ragione ».

Poi mia madre se ne andò. Io andai in camera mia trascinandomi dietro pantaloni e mutande, e mi sedetti sul bordo del letto. Il materasso faceva male. Fuori, attraverso la rete della finestra sul retro, vedevo le rose di mio padre. Erano rosse, bianche e gialle, grosse e aperte. Il sole era basso, ma non ancora al tramonto, e gli ultimi raggi entravano obliqui dalla finestra sul retro. Pensai che anche il sole apparteneva a mio padre, che non avevo il diritto di godermelo perché splendeva sulla casa di mio padre. Ero come le sue rose, appartenevo a lui, non a me stesso.

Capitolo nono

Quando mi chiamarono per il pranzo, riuscii a tirar su le mutande e i pantaloni e ad arrivare fino all’angolo della cucina dove mangiavamo tutti i giorni tranne la domenica. Sulla mia sedia c’erano due cuscini. Mi sedetti su di essi, ma mi bruciavano ancora le gambe e il culo. Mio padre stava parlando del suo lavoro, come sempre.

« Ho detto a Sullivan di ridurre i percorsi da tre a due, e di licenziare un uomo per turno. Nessuno si ammazza dalla fatica, da quelle parti… ».

« Dovrebbero darti retta, papà », disse mia madre.

« Per favore », dissi, « per favore, scusatemi, ma non mi sento di mangiare… ».

« Devi mangiare! », disse mio padre. « Tua madre ha faticato, per preparare questo pasto! ».

« Sì », disse mia madre, « carote, piselli e roast beef ».

« E purea di patate col sugo », disse mio padre.

« Non ho fame ».

« Mangerai tutte le carote e i “piscelli” che hai nel piatto! », disse mio padre.

Stava facendo lo spiritoso. Era il suo gioco di parole preferito.

« Papà! », disse mia madre, scandalizzata e incredula.

Cominciai a mangiare. Era terribile. Mi sembrava di mangiare la loro carne, le loro convinzioni, il loro modo di essere. Non masticavo niente, ingoiavo tutto in fretta, per finire. Intanto mio padre non faceva che lodare il cibo, quant’era buono, com’eravamo fortunati a mangiare cose così buone quando metà della gente al mondo, e forse anche in America, moriva di fame.

« Cosa c’è per dolce, mamma? », chiese mio padre.

Aveva una faccia orribile, le labbra sporgenti, unte e umide di piacere. Si comportava come se nulla fosse, come se non mi avesse picchiato. Quando tornai in camera mia pensai, questi due non sono i miei genitori, devono avermi adottato e adesso si sono pentiti di averlo fatto.

Capitolo decimo

Lila Jane era una bambina della mia età che abitava nella casa accanto. Non mi era permesso di giocare coi bambini del vicinato, ma starsene sempre chiusi in camera non era molto divertente. Così uscivo in giardino e mi guardavo intorno. Per lo più guardavo gli insetti. Oppure mi sedevo sull’erba e immaginavo un sacco di cose. Una di queste cose era di diventare un grande giocatore di baseball, così bravo da non sbagliare mai una battuta. Facevo tutti i fuoricampo che volevo, ma mi divertivo a farmi eliminare per confondere la squadra avversaria. Quando volevo, però, non sbagliavo un colpo. Durante una stagione, verso luglio, la mia media era di .139 con un fuoricampo. HENRY CHINASKI È FINITO, scrivevano i giornali. Allora cominciai a darmi da fare. E come! Una volta mi concessi 16 fuoricampo tutti in fila. Un’altra volta feci 24 battute valide in una sola partita. Alla fine della stagione, la mia media era salita a .523.

Lila Jane era una delle ragazzine carine che avevo visto a scuola. Era ima delle più carine, e abitava proprio nella casa accanto. Un giorno, mentre ero in giardino, si avvicinò alla staccionata e restò lì ferma a guardarmi.

« Tu non giochi con gli altri ragazzi, vero? ».

La guardai. Aveva i capelli lunghi, rosso scuro, e gli occhi marrone.

« No », dissi, « no ».

« Perché? ».

« Mi basta vederli a scuola ».

« Io mi chiamo Lila Jane ».

« Io Henry ».

Continuò a guardarmi, e io rimasi lì seduto sull’erba a guardare lei. Poi disse: « Vuoi vedere le mie mutandine? ».

« Certo », dissi io.

Si alzò la sottana. Le mutandine erano rosa, e pulite. Carine. Sempre con la sottana alzata, si girò per farmi vedere il posteriore. Aveva un bel posteriore. Carino. Poi si tirò giù la gonna. « Ciao », disse, e se ne andò.

« Ciao », dissi io.

Tutti i pomeriggi era la stessa storia. « Vuoi vedere le mie mutandine? ».

« Certo ».

Le mutandine erano quasi sempre di colore diverso, e sembravano sempre più carine.

Un pomeriggio, dopo che Lila Jane mi ebbe mostrato le mutandine, le dissi: « Andiamo a fare una passeggiata? ».

« Va bene », disse lei.

Uscimmo in strada e ci incamminammo insieme. Era davvero carina. Camminammo senza dire niente fino a quando trovammo un campo pieno di erbacce alte e verdi.

« Andiamo là dentro », dissi.

« Va bene », disse Lila Jane.

Ci incamminammo nelle erbacce alte.

« Fammi vedere le mutandine ».

Lei alzò la gonna. Mutandine azzurre.

« Sdraiamoci qui », dissi.

Ci sdraiammo tra le erbacce, la presi per i capelli e la baciai. Poi le tirai su il vestito e guardai le mutandine. Le misi una mano sul didietro e la baciai ancora. Continuai a baciarla e a smanazzarle il didietro. Andammo avanti per un bel po’. Poi le dissi: « Dai, facciamolo ». Non ero ben sicuro di cosa ci fosse da fare, ma qualcosa c’era, ne ero sicuro.

« No, non posso », disse lei.

« Perché^ no? ».

« Ci vedono ».

« E chi ci vede? ».

« Quegli uomini laggiù », disse lei, puntando il dito.

Guardai tra le erbacce. A forse mezzo isolato di distanza cerano degli operai che riparavano la strada.

« Ma non possono vederci! ».

« Sì che possono! ».

Mi alzai. « Maledizione ! », dissi, uscii dal campo e tornai a casa.

Per qualche tempo non vidi più Lila Jane il pomeriggio. Non mi importava. Era la stagione del football e io ero (con la fantasia) un grande quarterback. Lanciavo la palla a 90 yarde e la calciavo a 80. Ma non ci capitava spesso di calciare, non quando portavo io la palla. La mia specialità era buttarmi addosso agli avversari. Li travolgevo. Ci volevano cinque o sei uomini per placcarmi. A volte, come quando ero un (immaginario) asso del baseball, mi dispiaceva per quei poveretti e mi lasciavo placcare dopo aver corso solo 8 o 10 yarde. Allora di solito mi facevo male, seriamente, e dovevano portarmi fuori. La mia squadra cominciava a perdere, 40 a 17, diciamo, e quando mancavano 3 o 4 minuti alla fine tornavo in campo, furioso. Tutte le volte che avevo la palla facevo touchdown. Gli urli della folla ! E’ in difesa ero sempre io a placcare, a intercettare i passaggi. Ero dappertutto. Chinaski, la Furia! A pochi attimi dalla fine, catturavo il pallone rimesso in gioco dall’avversario e lo portavo dritto in meta. Correvo in avanti, di fianco, indietro. Passavo dappertutto, nessuno riusciva a placcarmi, saltavo sui corpi distesi di quelli che avevano tentato di placcarmi. Non avevo bisogno di nessuno dei miei compagni. La mia era una squadra di finocchi. Alla fine, con cinque uomini addosso, rifiutavo di cadere e li trascinavo tutti oltre la linea di meta fino al touchdown decisivo.

Un pomeriggio alzai gli occhi e vidi un tizio gran-’ de e grosso entrare nel nostro giardino dal cancello sul retro. Entrò e si fermò a guardarmi. Doveva avere un anno più di me, o giù dì lì, e non era della mia scuola. « Sono della Marmount Grammar School », disse.

« Faresti meglio ad andartene », gli dissi. « Mio padre sarà qui da un momento all’altro ».

« Davvero? », fece lui.

Mi alzai in piedi. « Che cosa sei venuto a fare qui? ».

« Ho sentito dire che voi della Delsey Grammar vi credete dei duri ».

« Vinciamo sempre ».

« Perché barate. A noi della Marmount non piacciono i bari ».

Indossava una vecchia camicia blu, mezzo sbottonata davanti. Aveva un cinturino di cuoio al polso sinistro.

« Tu ti credi un duro? », mi chiese.

« No ».

« Che cos’hai in garage? Credo che prenderò un po’ di roba dal tuo garage ».

« Fuori di qua ».

La porta del garage era aperta, e lui mi passò davanti. Non c’era granché, là dentro. Trovò un vecchio pallone sgonfio e lo prese.

« Credo che prenderò questo ».

« Mettilo giù ».

« Te lo ficco in gola! », disse lui, e mirò alla testa. Mi chinai. Lui uscì dal garage e avanzò verso di me. Io indietreggiai.

Mi seguì in giardino. « I bari hanno vita corta! », disse. Mi tirò un pugno. Lo schivai. Sentii lo spostamento d’aria. Chiusi gli occhi, mi precipitai su di lui e cominciai a tirare pugni. Ogni tanto colpivo qualcosa. Sentivo i colpi piovermi addosso ma non mi facevano male. Avevo solo un po’ di paura. Non c’era altro da fare che continuare a picchiare. Poi sentii una voce: « Smettetela! ». Era Lila Jane. Era nel mio giardino.,Smettemmo di picchiarci. Lei prese una lattina vecchia e ce la tirò addosso. La lattina colpì il ragazzo della Marmount in mezzo alla fronte e rimbalzò. Lui restò immobile per un attimo, poi corse via, piangendo e ululando. Imboccò il cancello sul retro, infilò il viale e sparì. Una lattina. Ero sorpreso, un ragazzo grande e grosso come quello che si metteva a piangere come un bambino. Alla Delsey avevamo un codice d’onore. Non aprivamo mai bocca. Perfino i finocchi le buscavano in silenzio. Quei ragazzi della Marmount non erano granché.

« Non dovevi aiutarmi », dissi a Lila Jane.

« Ma ti stava picchiando! ».

« Non mi faceva mica male ».

Lila Jane corse via attraverso il giardino, uscì dal cancello, entrò nel suo giardino e poi in casa.

Le piaccio ancora, pensai.

Capitolo undicesimo

Nemmeno in seconda e in terza riuscii a entrare nella squadra di baseball, ma in qualche modo stavo diventando un vero giocatore, lo sapevo. Sapevo che se mi fosse capitata tra le mani una mazza, avrei battuto la palla sopra il tetto della scuola. Un giorno che ciondolavo nel cortile senza far niente mi si avvicinò un insegnante.

« Che cosa stai facendo? ».

« Niente ».

« Questa è l’ora di educazione fisica. Dovresti partecipare. Hai l’esonero? ».

« Che cosa? ».

« Non puoi far ginnastica per qualche ragione particolare? ».

« Non so ».

« Vieni con me ».

Mi accompagnò fino a un gruppetto di ragazzi. Stavano giocando a kickball. Il kickball era come il baseball, tranne che si giocava con una palla da calcio. Il lanciatore la faceva rotolare fino al piatto e poi bisognava calciarla. Se andava a volo e qualcuno la prendeva, il calciatore veniva eliminato. Se rotolava in campo interno, o se la si calciava alta tra i difensori, si prendevano tutte le basi che si potevano prendere.

« Come ti chiami? », mi chiese l’insegnante.

« Henry ».

Si avvicinò al gruppetto. « Ora », disse, « Henry qui sarà l’interbase ».

Erano della mia classe. Mi conoscevano tutti. Interbase era la posizione più difficile. Entrai in campo. Sapevo che si sarebbero coalizzati contro di me. Il lanciatore fece rotolare la palla molto lentamente e il primo giocatore la calciò dritta verso di me. Un tiro violento, all’altezza del petto, ma non era un problema. La palla era grossa, e io tesi le mani e la presi. La tirai al lanciatore. Il giocatore seguente fece la stessa cosa. Questa volta la palla era un po’ più alta. E un po’ più veloce. Andò bene lo stesso. Poi Stanley Greenberg andò nel box. Era finita. Non avevo fortuna. Il lanciatore fece rotolare la palla e Stanley la calciò. Mi arrivò addosso come una palla da cannone, all’altezza della testa. Avrei voluto schivarla, ma non lo feci. La palla mi si schiantò tra le mani, ma riuscii a trattenerla. La presi e la feci rotolare fino al monte di lancio. Tre out. Tornai in panchina. Un tizio mi passò vicino e disse: « Chinaski, il grande scassaballe! ».

Era il ragazzo con la vaselina sui capelli e i peli lunghi e neri nelle narici. Mi girai di colpo. « Ehi! », dissi. Lui si fermò. Lo guardai. « Non azzardarti a rivolgermi la parola un’altra volta! ». Vidi la paura nei suoi occhi. Andò alla sua posizione e io mi appoggiai alla staccionata mentre la nostra squadra andava in battuta. Nessuno mi venne vicino, ma non me ne importava. Stavo guadagnando terreno.

Era difficile da capire. La nostra era la scuola più povera, avevamo i genitori più poveri e meno istruiti, la maggior parte di noi si nutriva di cibi tremendi, eppure presi a uno a uno eravamo molto più grossi dei ragazzi delle altre scuole elementari della città. La nostra scuola era famosa. Ci temevano.

La squadra della sesta batté quelle di tutte le altre seste, le fece a pezzi. Soprattutto a baseball. Con punteggi tipo 14 a 1, 24 a 3, 19 a 2. Ci sapevamo fare davvero.

Un giorno la squadra campione della media inferiore, la Miranda Bell, ci sfidò. Riuscimmo a tirar su un po’ di soldi e a rifornire ciascun giocatore di un berretto nuovo, blu, con una D bianca sul davanti. Stavamo benissimo, con quei berretti. Quando arrivarono quelli della Miranda Bell, i nostri ragazzi li guardarono e scoppiarono a ridere. Noi eravamo più grossi, sembravamo più forti, avevamo un’andatura diversa; noi sapevamo qualcosa che loro non sapevano. Anche noi piccoli ci mettemmo a ridere. Sapevamo di averli in mano.

I ragazzi della Miranda avevano l’aria troppo ben educata. Erano molto tranquilli. Il lanciatore era il miglior giocatore della squadra. Mise al piatto i primi tre battitori della nostra, tre tra i più bravi. Ma noi avevamo Pallabassa Johnson. Pallabassa gli rese pan per focaccia. Andò avanti così, coi battitori di entrambe le squadre che andavano al piatto o venivano eliminati in prima senza problemi. Ogni tanto facevano un singolo, ma niente di più. Poi la nostra squadra andò alla battuta nella seconda metà del settimo inning. « Manzo » Cappalletti schiantò la palla. Dio mio, che colpo! Per un attimo sembrò che la palla stesse per centrare l’edificio della scuola e rompere una finestra. Non avevo mai visto una palla decollare a quel modo ! Colpì la cima dell’asta della bandiera e rimbalzò in campo. Facile fuoricampo. Cappalletti fece il giro delle basi, e i nostri ragazzi erano stupendi, con quei berretti nuovi, blu con la « D » bianca.

Dopodiché i ragazzi della Miranda lasciarono perdere. Non sapevano rimontare. Venivano dai quartieri alti, non erano abituati alla lotta. Il prossimo dei nostri fece un doppio. Che urli! Era finita per loro. Non c’era più niente da fare. Il battitore seguente fece un triplo. Cambiarono lanciatore. Colpì il battitore seguente. Il battitore seguente fece un singolo. Prima della fine della ripresa avevamo totalizzato nove fuoricampo.

I ragazzi della Miranda non ebbero nemmeno la possibilità di battere, nell’ottava ripresa. Arrivò la nostra squadra e li sfidò. Perfino un ragazzino di quarta arrivò di corsa ad attaccar briga con uno di loro. I ragazzi della Miranda presero su le loro cose e se ne andarono. Li rincorremmo per la strada.

Non c’era più niente da fare, e così due dei nostri si presero a botte tra di loro. Una bella rissa. A entrambi colava il sangue dal naso, ma stavano ancora menandosi quando uno degli insegnanti che era rimasto a guardare la partita decise di intervenire per separarli. Non sapeva il rischio che correva, a fare una cosa del genere.

Capitolo dodicesimo

Una notte mio padre mi portò con sé al lavoro. Non c’erano più i furgoni col cavallo. Adesso i furgoni del latte erano a motore. Caricammo il latte allo stabilimento e partimmo per il giro. Mi piaceva esser fuori a quell’ora del mattino. C’era la luna, e si vedevano le stelle. Faceva freddo, ma era eccitante. Mi chiesi perché mio padre mi avesse chiesto di andare con lui, dato che aveva preso l’abitudine di suonarmele un paio di volte alla settimana con la coramella del rasoio e i nostri rapporti non erano dei migliori.

A ogni fermata saltava giù e consegnava una bottiglia di latte, o due. Qualche volta anche formaggio fresco, panna o burro, e di tanto in tanto una bottiglia di succo d’arancia. Quasi tutti i clienti lasciavano un biglietto con le loro richieste nella bottiglia vuota.

Mio padre guidava il furgone, fermava e ripartiva, faceva le consegne.

« O.K., ragazzo, in che direzione stiamo andando adesso? ».

« Verso nord ».

« Giusto. Stiamo andando a nord ».

Andavamo su e giù per le strade, fermandoci e ripartendo.

« O.K., e adesso in che direzione stiamo andando? ».

« Ovest ».

« No, sud ».

Continuammo ancora un po’ in silenzio.

« E se adesso ti buttassi giù dal furgone e ti lasciassi sul marciapiede, cosa faresti? ».

« Non so ».

« Voglio dire, come vivresti? ».

« Be’, probabilmente tornerei indietro a bere il latte e il succo d’arancia che hai appena lasciato sui gradini di quella veranda ».

« E poi? ».

« Cercherei un poliziotto e gli racconterei quello che hai fatto ».

« Così, eh? E cosa gli diresti? ».

« Gli direi che mi hai detto che andavamo a sud invece che a ovest perché volevi che mi perdessi ».

Cominciava a far luce. Dopo un po’ finimmo le consegne e ci fermammo in una tavola calda a far colazione. Arrivò la cameriera. « Ciao, Henry », disse a mio padre. « Ciao, Betty ». « Chi è il piccolo? », chiese Betty. « Questo è Henry Junior ». « Ti somiglia come una goccia d’acqua ». « Non ha il mio cervello, però ». « Lo spero per lui ».

Ordinammo. Uova e pancetta. Mentre mangiavamo, mio padre disse: « Adesso viene il bello ».

« E cioè? ».

« Devo raccogliere i soldi che i clienti mi devono. C’è gente che non vuol pagare ».

« Ma devono pagare ».

« È quello che gli dico anch’io ».

Finimmo di mangiare e ripartimmo. Mio padre scendeva dal furgone e bussava alle porte. Lo sentivo protestare forte: « Come diavolo credi che mi guadagni il pane? Te lo sei ciucciato, il latte, no? Adesso caca i soldi! ».

Usava una tattica diversa ogni volta.: A volte tornava con i soldi, a volte no.

Poi lo vidi entrare nel cortile di un gruppo di bungalow. Una porta si aprì e comparve una donna avvolta in un chimono di seta legato in vita. Stava fumando una sigaretta. « Senti, bella, ho bisogno di quei soldi. Mi devi più di tutti gli altri messi insieme! ».

Lei rise.

« Senti, bella, dammene almeno la metà, dammi qualcosa, tanto per far vedere che sono passato di qui ».

Lei gli soffiò un anello di fumo in faccia, allungò una mano e ruppe l’anello con un dito.

« Senti, devi pagarmi », disse mio padre. « La situazione è disperata ».

« Vieni dentro che ne parliamo », disse la donna.

Mio padre entrò e la porta si chiuse. Rimase dentro un bel po’. Ormai il sole era alto. Quando uscì fuori, mio padre aveva i capelli scompigliati. Finì di infilarsi le code della camicia nei pantaloni e salì sul furgone.

« Te li ha dati i soldi quella donna? », gli chiesi.

« Questa era l’ultima », disse mio padre. « Basta per oggi. Riportiamo indietro il furgone e andiamo a casa… ».

L’avrei rivista, quella donna. Un giorno tornai a casa da scuola e lei era seduta su una sedia nel soggiorno. C’erano anche mio padre e mia madre, e mia madre stava piangendo. Quando mi vide, mia madre si alzò, corse verso di me e mi abbracciò stretto. Mi portò in camera e mi fece sedere sul letto. « Henry, tu vuoi bene alla tua mamma, vero? ». In realtà io non le volevo un gran bene, ma aveva l’aria così triste che dissi: « Sì ». Lei mi riportò in soggiorno.

« Tuo padre dice di essere innamorato di questa donna », mi disse.

« Io vi amo tutt’e due! E adesso porta via il bambino di qui! ».

Capii che mio padre stava rendendo molto infelice mia madre.

« Ti ammazzerò », dissi a mio padre.

« Porta via quel bambino di qui! ».

« Come fai a essere innamorato di questa donna? », chiesi a mio padre. « Guarda che naso. Ha il naso di»un elefante! ».

« Cristo! », disse la donna, « non sono mica obbligata a star qui ad ascoltare questa roba! ». Guardò mio padre. «Henry, devi scegliere. O me o lei.

Subito! »

« Ma non posso! Vi amo tutt’e due. ».

« Ti ammazzerò! », dissi a mio padre.

Lui si avvicinò e mi diede uno schiaffo sull’orecchio, sbattendomi per terra. La donna si alzò e corse fuori, e mio padre le andò dietro. La donna salì sulla macchina di mio padre, mise in moto e si allontanò giù per la strada. Accadde tutto molto in fretta. Mio padre si mise a correre giù per la strada, dietro la macchina. « Edna! Edna, torna indietro! ». Mio padre riuscì a raggiungere la macchina, infilò dentro una mano, e prese la borsetta di Edna. Poi la macchina accelerò e mio padre restò lì come un idiota con la borsetta in mano.

« Lo sapevo che c’era qualcosa », mi disse mia madre. « Così mi sono nascosta nel baule della macchina e li ho sorpresi insieme. Tuo padre mi ha riaccompagnata qui insieme a quell’orribile donna. E adesso lei si è presa la sua macchina ».

Mio padre tornò indietro con la borsetta di Edna. « Tutti dentro! ». Tornammo dentro casa e mio padre mi chiuse a chiave in camera mia, poi lui e mia madre cominciarono a litigare. Fu una lite tremenda. Urlavano tutt’e due. Poi mio padre cominciò, a picchiare mia madre. Lei urlava e lui continuava a picchiarla. Saltai dalla finestra e tentai di rientrare dalla porta d’ingresso. Era chiusa a chiave. Provai dalla porta sul retro, dalle finestre sul retro. Era tutto chiuso. Restai fermo nel giardino dietro casa ad ascoltare le urla e le botte.

Poi le urla e le botte cessarono e sentii solo i singhiozzi di mia madre. Singhiozzò a lungo. Singhiozzò sempre più piano e alla fine tacque.

Capitolo tredicesimo

Lo scoprii in quarta. Probabilmente fui uno degli ultimi a scoprirlo, perché continuavo a non parlare con nessuno. Un ragazzo mi si avvicinò durante la ricreazione.

« Lo sai come si fa? », mi chiese.

« A fare cosa? ».

« A scopare ».

« E cosa vuol dire? ».

« Tua madre ha un buco… », fece un cerchio col pollice e l’indice della mano destra, « e tuo padre ha un batacchio… », prese l’indice della mano sinistra e lo mosse avanti e indietro nel buco. « Poi dal batacchio di tuo padre esce un succo e qualche volta tua madre ha un bambino e qualche volta no ».

« È Dio che fa i bambini », dissi io.

« Col cazzo », disse il ragazzino, e se ne andò.

Mi riusciva difficile crederci. Dopo la ricreazione, tornai in classe e ci pensai su a lungo. Mia madre aveva un buco e mio padre un batacchio che mandava fuori un succo. Come facevano ad avere quella roba e ad andare in giro come niente fosse, e parlare con la gente, e poi fare quella cosa e non dire niente? Mi veniva da vomitare, se pensavo che ero nato dal succo di mio padre. »

Quella sera, dopo che ebbero spento tutte le luci, restai sveglio a letto ad ascoltare. Dopo un po’ cominciai a sentire dei rumori. Il letto dei miei genitori scricchiolava. Sentivo le molle. Mi alzai e andai in punta di piedi fino alla porta della loro camera. Restai in ascolto. Il letto continuava a far rumore. Poi smise. Tornai in fretta giù per il corridoio e in camera mia. Sentii mia madre andare in bagno. La sentii tirare lo sciacquone, poi uscì.

Che cosa tremenda! Sfido io che lo facevano di nascosto! E pensare che lo facevano tutti! Gli insegnanti, il preside, tutti! Era una stupidaggine. Poi pensai di farlo con Lila Jane e non mi sembrò più una stupidaggine.

Il giorno dopo in classe ci pensai tutto il giorno. Guardavo le bambine e immaginavo di farlo con loro. L’avrei fatto con tutte, e avrei messo al mondo tanti bambini, avrei riempito il mondo di tipi come me, grandi giocatori di baseball, assi del baseball. Quel giorno, proprio prima della fine della lezione, l’insegnante, Mrs. Westphal, disse: « Henry, ti dispiace fermarti un attimo? ».

Il campanello suonò e gli altri bambini se ne andarono. Io restai seduto nel banco e aspettai. Mrs. Westphal stava correggendo i compiti. Pensai, forse vuole farlo con me. Immaginai di tirarle su il vestito e guardarle il buco. « Mrs. Westphal, sono pronto », dissi.

Lei alzò gli occhi dai compiti. « Va bene, Henry, prima cancella tutte le lavagne. Poi porta fuori i cancellini e sbattili ».

Feci come mi veniva detto, poi tornai a sedermi nel banco. Mrs. Westphal continuò a correggere i compiti. Indossava un vestito blu attillato, portava un paio di grossi orecchini d’oro; aveva un nasetto minuscolo e gli occhiali senza montatura. Aspettai e aspettai. Poi dissi: « Mrs. Westphal, perché mi ha fatto restare dopo la scuola? ».

Lei alzò gli occhi e mi guardò fisso. Aveva occhi verdi e profondi. « Ti ho fatto restare perché spesso ti comporti male ».

« Ah, davvero? », dissi sorridendo.

Mrs. Westphal mi guardò. Si tolse gli occhiali e continuò a fissarmi. Teneva le gambe dietro la scrivania. Non potevo guardarle sotto la gonna.

« Oggi eri molto disattento, Henry ».

« Ah sì? ».

« Si dice “Sì”. Stai parlando con una signora! ».

« Oh, lo so… ».

« Non fare lo spiritoso con me! ».

« Come vuole ».

Mrs. Westphal si alzò e uscì da dietro la scrivania. Scese giù per il corridoio, tra i banchi, e si sedette sul banco di fronte a me. Aveva un bel paio di gambe lunghe e portava calze di seta. Mi sorrise, tese una mano e mi toccò un polso.

« I tuoi genitori non ti danno molto affetto, vero? ».

« Non ho bisogno di roba del genere », le dissi.

« Henry, tutti hanno bisogno di amore ».

« Io non ho bisogno di niente ».

« Povero ragazzo ».

Si alzò in piedi, si avvicinò al mio banco e mi prese la testa tra le mani, piano. Si chinò e se la strinse al petto. Io la circondai con le braccia e le afferrai le gambe.

« Henry, devi smetterla di prendertela con tutti! Noi vogliamo aiutarti ».

Strinsi forte le gambe di Mrs. Westphal. « Va bene », dissi, « scopiamo! ».

Mrs. Westphal mi spinse via e si raddrizzò.

« Che cos’hai detto? ».

« Ho detto “scopiamo”! ».

Mi guardò a lungo. Poi disse: « Henry, non dirò niente a nessuno, né ai tuoi genitori, né al preside, né a nessun altro. Ma voglio che tu prometta di non dirmi mai più una cosa del genere, hai capito? ».

« Ho capito ».

« Va bene. Adesso puoi andare ».

Mi alzai e andai alla porta. Quando l’aprii, Mrs. Westphal disse: « Buonasera, Henry ».

« Buonasera, Mrs. Westphal ».

Mentre camminavo, continuai a pensare a quello che era successo. Mrs. Westphal aveva voglia di scopare, lo sapevo, ma aveva paura perché ero troppo giovane per lei e chissà cosa sarebbe successo se i miei genitori o il preside ci avessero scoperti. Era stato eccitante stare in quella stanza solo con lei. Questa roba dello scopare non era male. Dava alla gente qualcosa di diverso a cui pensare.

Per andare a casa dovevo attraversare un grande viale. Passai sulle strisce. All’improvviso vidi una macchina arrivare dritta su di me. Non rallentò. Sbandava paurosamente. Cercai dì scappare, ma la macchina mi veniva dietro. Vidi i fari, le ruote, un paraurti. La macchina mi investì e poi tutto diventò buio.

Capitolo quattordicesimo

Più tardi in ospedale mi tamponarono le ginocchia con batuffoli di cotone imbevuti di_ qualcosa. Bruciava. Mi bruciavano anche i gomiti.

Il dottore era chino su di me con un’infermiera. Ero a letto e il sole entrava dalla finestra. Molto piacevole. Il dottore mi sorrise. L’infermiera si raddrizzò e mi sorrise. Era bello, lì dentro.

« Hai un nome? », chiese il dottore.

« Henry ».

« Henry come? ».

« Chinaski ».

« Polacco, eh? ».

« Tedesco ».

« Com’è che nessuno vuol essere polacco? ».

« Sono nato in Germania ».

« Dove abiti? », chiese l’infermiera.

« Con i miei genitori ».

« Davvero? », fece il dottore. « E dove? ».

« Che cos’hanno le mie ginocchia e i miei gomiti? ».

« Sei stato investito da una macchina. Fortunatamente non sei andato sotto le ruote. I testimoni hanno detto che il conducente doveva essere ubriaco. È scappato. Ma gli hanno preso il numero di targa. Lo acciufferanno ».

« Carina, la sua infermiera… », dissi.

« Be’, grazie », disse lei.

« Vuoi chiederle un appuntamento? », disse il dottore.

»

« Cosa vuol dire? ».

« Vuoi uscire con lei? », fece il dottore.

« Non so se riuscirei a farlo. Sono troppo giovane ».

« Fare che? ».

« Andiamo, ha capito benissimo ».

«Be’», disse l’infermiera, sorridendo, « vieni a trovarmi quando le tue ginocchia saranno guarite e vedremo cosa si può fare ».

« Scusate », disse il dottore, « ma devo andare a visitare la vittima di un altro incidente ». Uscì dalla stanza.

« Ora », disse l’infermiera, « in che via abiti? ».

« Virginia Road ».

« Dimmi il numero, tesoro ».

Le dissi il numero. Lei chiese se avevamo il telefono. Le dissi che non sapevo il numero.

« Non importa », disse lei, « lo troveremo. E non preoccuparti. Sei stato fortunato. Hai solo un bernoccolo in testa e qualche graffio ».

Era simpatica, ma sapevo che quando le mie ginocchia fossero guarite non avrebbe più voluto vedermi.

« Voglio restare qui », le dissi.

« Come? Non vuoi tornare a casa, dai tuoi genitori? ».

« No. Mi lasci star qui ».

« Non si può, tesoro. Abbiamo bisogno dei letti per la gente veramente malata o ferita ».

Sorrise e uscì dalla stanza.

Arrivò mio padre, entrò dritto nella stanza, e senza una parola mi tirò giù dal letto. Mi portò fuori dalla stanza e giù per il corridoio.

« Brutto bastardo! Quante volte ti ho detto di guardare da tutt’e due le parti, prima di attraversare la strada? ».

Mi spinse giù per il corridoio. Incrociammo l’infermiera.

« Arrivederci, Henry », disse.

« Arrivederci ».

Salimmo in ascensore con un vecchio in carrozzella. In piedi dietro di lui c’era un’infermiera. L’ascensore cominciò la discesa.

« Credo che morirò », disse il vecchio. « Non voglio morire. Ho paura di morire… ».

« Hai vissuto abbastanza, vecchio scoreggione! », mormorò mio padre.

Il vecchio sembrò stupefatto. L’ascensore si fermò. La porta restò chiusa. Allora mi accorsi del ragazzo dell’ascensore. Era seduto su uno sgabello. Non era un ragazzo, era un nano con una divisa rossa e un berretto rosso.

Il nano guardò mio padre. « Signore », disse, « lei è un essere stupido e ripugnante! ».

« Balle », rispose mio padre, « apri quella fottuta porta o ti do un calcio nel culo ».

La porta si aprì. Uscimmo dall’ospedale. Mio padre mi portò in braccio attraverso il prato. Avevo ancora addosso il camice dell’ospedale. Mio padre aveva un sacchetto con i miei vestiti in una mano. Il vento mi sollevò il camice e vidi le ginocchia spellate, senza bende, spalmate di tintura di iodio. Mio padre stava praticamente correndo, su quel prato.

« Quando lo prenderanno, quel figlio di puttana », disse, « gli farò causa! Gli succhierò fino all’ultimo soldo! Mi manterrà per il resto della vita! Non ne posso più di quel maledetto furgone del latte! Golden State Creamery! Golden State, il buco del culo ! Ci trasferiremo nei Mari del Sud! Vivremo di noci di cocco e ananas! ».

Mio padre arrivò alla macchina e mi depositò nel sedile davanti. Poi salì al posto di guida. Mise in moto.

« Odio gli alcoolizzati! Mio padre era un alcoolizzato! I miei fratelli sono alcoolizzati. Gli alcoolizzati sono deboli. Gli alcoolizzati sono vigliacchi. E gli alcoolizzati che mettono sotto la gente e scappano dovrebbero finire in galera per il resto dei loro giorni! ».

Mentre tornavamo a casa, continuò a parlare.

« Lo sai che nei Mari del Sud gli indigeni vivono in capanna di frasche? Si alzano la mattina, e il cibo gli cade addosso dagli alberi. Loro lo raccolgono e lo mangiano, noci di cocco e ananas. E credono che l’uomo bianco sia un dio! Prendono i pesci, arrostiscono i maialini selvatici, e le ragazze ballano con le sottanine di foglie e accarezzano gli uomini dietro le orecchie. Golden State Creamery, il buco del culo! ».

Ma il sogno di mio padre non si sarebbe avverato. Presero l’uomo che mi aveva messo sotto e lo misero in galera. Aveva moglie e tre figli, ed era disoccupato. Era un alcoolizzato senza un soldo. L’uomo restò in galera per un po’, ma mio padre non lo denunciò. Per dirla con le sue parole: « Non si può cavar sangue da una fottuta rapa! ».

Capitolo quindicesimo

Mio padre faceva sempre scappar via i bambini del quartiere da casa nostra. Mi aveva detto di non giocare con loro, ma io andavo giù in fondo alla strada a guardarli.

« Ehi, crucco », urlavano, « perché non te ne torni in Germania? ».

Chissà come, avevano scoperto dov’ero nato. La cosa peggiore era che avevano tutti più o meno la mia età, e stavano sempre insieme non solo perché abitavano nello stesso quartiere, ma perché andavano alla stessa scuola cattolica. Erano dei duri, giocavano a tackle football per ore e ore, e quasi tutti i giorni c’era una bella scazzottata tra due di loro. I capi erano Chuck, Eddie, Gene e Frank.

« Ehi, crucco, torna tra i tuoi crauti ! ».

Non c’era modo di fare amicizia…

Poi un bambino dai capelli rossi venne ad abitare vicino a Chuck. Andava a una scuola speciale di qualche tipo. Un giorno ero seduto sul marciapiede e lui uscì di casa. Si sedette vicino a me. « Salve, io mi chiamo Rosso ».

« Io Henry ».

Restammo seduti a guardare gli altri che giocavano a football. Guardai Rosso.

« Com’è che hai un guanto sulla mano sinistra? », gli chiesi.

« Ho un braccio solo », disse lui.

« Ma la mano sembra vera ».

« È finta. Tutto il braccio è finto. Toccalo ».

« Che cosa? ».

« Toccalo. È finto ».

Lo toccai. Era duro, duro come un sasso.

« E com’è successo? ».

« Sono nato così. Il braccio è finto fino al gomito. Devo legarcelo. Il mio gomito ha le dita, piccole, con le unghie e tutto il resto, ma non servono a niente ».

« Hai degli amici? », gli chiesi.

« No ».

« Nemmeno io ».

« Quei ragazzi non giocano con te? ».

« No ».

« Io ho una palla da football ».

« Riesci a giocare? ».

« Sono un asso », disse Rosso.

« Va’ a prenderla ».

« O.K… ».

Rosso andò nel garage di suo padre e tornò con una palla da football. Me la lanciò. Poi indietreggiò fino in fondo al giardino.

« Avanti, lancia… ».

Lanciai. Alzò il braccio buono, poi il braccio finto, e prese la palla. Il braccio finto scricchiolò leggermente, afferrando la palla.

« Bella presa », dissi. « Adesso tocca a te! ».

Tese il braccio e lanciò. La palla mi arrivò nello stomaco come un proiettile. Riuscii a stento a trattenerla.

« Sei troppo vicino », gli dissi, « va’ ancora un po’ indietro ».

Se non altro, pensavo, avrei fatto un po’ di allenamento. Ne avevo una gran voglia.

Poi toccò a me fare il quarterback. Feci un lancio a spirale. Rosso corse in avanti, spiccò un salto, prese la palla, e rotolò tre o quattro volte in terra senza mollare.

« Sei bravo, Rosso. Come hai fatto a diventare così bravo? ».

« Mi ha insegnato mio padre. Facciamo un sacco di allenamento ».

Poi Rosso tornò indietro e fece un altro lancio. La palla mi passò sopra la testa, mentre correvo indietro per prenderla. C’era una siepe tra la casa di Rosso e la casa di Chuck, e io andai a sbatterci contro. La palla colpì la siepe e rimbalzò nel giardino di Chuck. Girai intorno alla siepe per andarla a prendere. Chuck me la passò. « Hai trovato l’amico che fa per te, eh, crucco? Un monco ».

Un paio di giorni dopo io e Rosso eravamo nel suo giardino e ci passavamo la palla. Chuck e i suoi amici non erano in vista. Io e Rosso facevamo grandi progressi. Esercizio, ecco cosa ci voleva. Bastava avere la possibilità di giocare. Ma c’era sempre chi faceva in modo che alcuni avessero la possibilità di giocare e altri.no.

Presi un lancio sopra la spalla, feci una piroetta, e rilanciai a Rosso, che spiccò un gran salto per afferrare la palla. Forse un giorno avremmo giocato per la U.S.C. Poi vidi Ginque ragazzi sul marciapiede, venivano verso di noi. Non erano della mia scuola. Avevano la nostra età e non promettevano niente di buono. Io e Rosso continuammo a lanciarci la palla, e loro rimasero fermi a guardare.

Poi uno dei ragazzi entrò nel giardino. Il più grosso.

« Lanciami la palla », disse a Rosso.

« Perché? ».

« Voglio vedere se la prendo ».

« Non me ne importa, che tu la prenda o no ».

« Ho detto lanciami la palla! ».

« Ha un braccio solo », dissi io. « Lascialo stare ».

« Tu non impicciarti, faccia di scimmia ! ». Guardò Rosso. « Lanciami la palla ».

« Va’ all’inferno! », disse Rosso.

« Prendete la palla! », disse il ragazzo grosso agli altri. Vennero di corsa verso di noi. Rosso si voltò e lanciò la palla sul tetto della casa. Il tetto era inclinato e la palla rotolò giù, ma andò a infilarsi dietro un tubo di scarico. Allora ci vennero addosso. Cinque contro due, pensai, niente da fare. Beccai un pugno sulla tempia, feci per restituirlo., e mancai il mio avversario. Qualcuno mi diede un calcio nel culo. Era un bel calcio, lo sentii su per tutta la spina dorsale. Poi sentii un colpo secco, quasi uno sparo, e vidi uno dei ragazzi steso a terra con la fronte tra le mani.

« Oh, merda », disse, « mi ha spaccato la testa! ».

Allora vidi Rosso. Era fermo in mezzo al prato. Si teneva la mano del braccio finto con la mano del braccio buono. Usava il braccio finto come una mazza. Vibrò un altro colpo. Sentii lo stesso rumore secco, forte, e un altro dei ragazzi finì steso sul prato. Mi tornò il coraggio, e beccai uno di quei bastardi dritto in bocca. Vidi il labbro spaccarsi, e il sangue colare giù lungo il mento. Gli altri due scapparono. Poi il ragazzo più grosso, quello che era crollato per primo, si rialzò, e anche l’altro si rialzò. Si tenevano la testa tra le mani. Il ragazzo con la bocca insanguinata non si mosse. Poi batterono in ritirata tutti insieme giù per la strada. Quando furono abbastanza lontani, il ragazzo più grosso si voltò e disse: « Torneremo ! ».

Rosso si mise a correre verso di loro e io dietro a Rosso. Anche loro si misero a correre, e io e Rosso, smettemmo di inseguirli quando ebbero girato l’angolo. Tornammo indietro e andammo a prendere una scala a pioli nel garage. Tirammo giù la palla e ricominciammo a lanciarcela…

Un sabato Rosso e io decidemmo di andare a nuotare alla piscina pubblica, giù in Bimini Street. Rosso era uno strano tipo. Non parlava molto, ma nemmeno io parlavo molto, e così andavamo d’accordo. Non c’era niente da dire, comunque. La sola cosa che gli chiesi era che scuola frequentasse, ma lui disse solo che era una scuola speciale, e che costava un bel po’ di soldi a suo padre.

Arrivammo alla piscina nel primo pomeriggio, prendemmo due armadietti e ci spogliammo. Avevamo il costume sotto i pantaloni. Poi vidi Rosso togliersi il braccio finto e metterlo nell’armadietto. Era la prima volta dal giorno della rissa che lo vedevo senza il braccio finto. Cercai di non guardare quel braccino che finiva al gomito. Andammo a mettere i piedi a bagno nella soluzione di cloro. Puzzava, ma impediva la diffusione del piede dell’atleta o che so io. Poi andammo alla piscina e ci buttammo dentro. Anche l’acqua puzzava e io ci pisciai subito dentro. C’era gente di tutte le età, nella piscina, uomini e donne, ragazzi e ragazze. A Rosso l’acqua piaceva davvero. Saltava dentro e fuori come un pesce. Poi si tuffò sott’acqua e tornò su. Sputò una boccata d’acqua. Io cercai di nuotare. Non riuscivo a ignorare il braccino di Rosso, non riuscivo a smettere di guardarlo. Stavo ben attento a guardarlo solo quando lui era occupato a fare qualcos’altro. Finiva al gomito, in una specie di moncherino tondo, e poi vidi ’ le dita. Non volevo fissarle a quel modo, ma ce n’erano solo tre o quattro, minuscole, accartocciate. Erano molto rosse, e ciascuno dei ditini minuscoli aveva una piccola unghia. Non sarebbero più cresciute ; finivano lì. Non volevo pensarci. Mi tuffai sott’acqua. Volevo spaventare Rosso. Volevo afferrarlo per le gambe da dietro. Urtai qualcosa di morbido. Ci infilai la faccia. Era il culo di una donna grassa. Sentii che mi prendeva per i capelli e mi tirava su, fuori dall’acqua. Portava una cuffia da bagno blu con il cinturino sotto il mento, così stretto che le affondava nella carne. Aveva i denti anteriori incapsulati d’argento e il fiato che puzzava d’aglio.

« Piccolo sporco pervertito! Vuoi toccare gratis, eh? ».

Diedi una spinta e mi allontanai all’indietro. Lei mi inseguì, coi seni flosci che spingevano avanti una massa d’acqua.

« Piccolo sporcaccione. Vuoi succhiarmi le tette? Sei uno sporcaccione, eh? Vuoi mangiarmi la merda? Ti piacerebbe un po’ di merda, piccolo pervertito? ».

Io continuai a indietreggiare nell’acqua alta. Ormai camminavo in punta di piedi, sempre all’indietro. Ingoiai un po’ d’acqua. Lei continuava ad avanzare, quel piroscafo di donna. Non potevo più indietreggiare. Mi stava arrivando addosso. Aveva gli occhi smorti e vacui, senza colore. Sentii il suo corpo toccare il mio.

« Toccami la fica », disse. « Lo so che hai voglia di toccarla, e allora dai, toccala. Avanti, toccala! ».

Aspettava.

« Se non me la tocchi dirò al bagnino che mi hai molestata e ti metteranno in prigione! Avanti, toccala! ».

Non potevo. All’improvviso infilò una mano sott’acqua, mi afferrò l’uccello e le palle e cominciò a tirare. Me lo strappò quasi via. Io caddi all’indietro nell’acqua profonda, affondai, mi dibattei, e tornai a galla. Ero a un paio di metri da lei, e cominciai a nuotare verso l’acqua bassa.

« Dirò al bagnino che mi hai molestata ! », urlò.

Poi un uomo passò a nuoto in mezzo a noi. « Quel piccolo figlio di puttana! », urlò la donna puntando il dito contro di me. « Mi ha toccato la fica! ».

« Signora », disse l’uomo, « probabilmente il ragazzo credeva che fosse la grata dello scarico ».

Andai a nuoto da Rosso.

« Senti », dissi, « dobbiamo andarcene di qua ! Quella cicciona laggiù vuol dire al bagnino che le ho toccato la fica! ».

« E perché hai fatto una cosa così? », chiese Rosso.

« Volevo vedere com’era ».

« E com’era? ».

Uscimmo dalla piscina, ci facemmo la doccia. Rosso si rimise il braccio finto e ci vestimmo. « L’hai fatto davvero? », mi chiese.

« Ci deve pur essere una prima volta ».

Un mese dopo, più o meno, la famiglia di Rosso si trasferì. Un bel giorno se n’erano andati. Così, all’improvviso. Rosso non mi aveva detto niente. Se n’era andato, la palla se n’era andata e se n’erano andati anche quei ditini rossi e minuscoli. Era un buon diavolo, Rosso.

Capitolo sedicesimo

Non capii bene perché, ma a un certo punto Chuck, Eddie, Gene e Frank decisero di farmi giocare. Credo che fosse perché era arrivato un altro tizio e ci voleva il sesto. Io avevo ancora bisogno di un bel po’ di esercizio, ma comunque stavo migliorando. Il sabato era la giornata buona. Era di sabato che si facevano le partite migliori, con altri ragazzi, per la strada. Per giocare a tackle ci voleva il prato. Per la strada giocavamo a touch.

In casa c’era casino, mio padre e mia madre litigavano sempre, e di conseguenza si dimenticavano di me. Potevo giocare a football tutti i sabati. Durante una partita uscii allo scoperto alle spalle dell’ultimo difensore, e vidi Chuck fare un lancio. Era un lancio lungo e alto, a spirale, e io continuai a correre. Mi guardai alle spalle e vidi arrivare la palla. Mi cadde dritta in mano. Riuscii a trattenerla. Ero ormai al di là della linea di meta.

Poi sentii la voce di mio padre urlare « Henry! ». Era nel prato davanti a casa. Lanciai la palla a parabola a uno della mia squadra di modo che potessero calciare e andai da mio padre. Sembrava arrabbiato. La sentivo, la sua rabbia, non mi sbagliavo mai. Spostava un piede in avanti, la faccia gli si faceva tutta rossa, e la pancetta andava su e giù col respiro. Era alto quasi un metro e novanta e, come ho già detto, quand’era arrabbiato sembrava tutto orecchie, naso e bocca. Non riuscivo a guardarlo negli occhi.

« Va bene », disse, « sei grande abbastanza da falciare il prato, adesso. Sei grande abbastanza da falciare il prato e i bordi, e innaffiare l’erba e i fiori. È ora che faccia qualcosa anche tu, qui intorno. È ora che impari ad alzare il culo! ».

« Ma sto giocando a football coi ragazzi. Possiamo giocare solo il sabato ».

« Cos’è, ti metti a discutere? ».

« No ».

Vidi mia madre che ci guardava da dietro una tenda. Tutti i sabati pulivano la casa. Passavano l’aspirapolvere sui tappeti e lucidavano i mobili. Tiravano su i tappeti, davano la cera ai pavimenti di legno, e rimettevano giù i tappeti. Non si vedeva nemmeno, che avevano dato la cera.

La falciatrice e la macchinetta per i bordi erano nel vialetto. Mio padre me le indicò. « Ora, prendi la falciatrice e vai su e giù per il prato. E sta’ attento a non dimenticare qualche pezzo. Devi svuotare il contenitore dell’erba, quando è pieno. Poi, quando avrai finito di falciare tutto il prato in una direzione, prendi la falciatrice e lo falci nell’altra. Capito? Prima da nord a sud, poi da est a ovest. Hai capito? ».

« Sì ».

« E non fare quella faccia da piagnone altrimenti te lo do io, un buon motivo per piangere ! Quando avrai finito di falciare, attacca i bordi. Devi tagliarli con quella piccola falciatrice che c’è sulla macchinetta. Spingila anche sotto la siepe, bisogna che arrivi a ogni più piccolo filo d’erba! Poi devi tagliare il prato lungo tutto il bordo con la lama circolare. Dev’essere perfettamente dritto, il bordo del prato. Capito? ».

« Sì ».

« Quando avrai finito, prendi queste… ».

Mio padre mi mostrò un paio di cesoie.

« … ti metti in ginocchio e pareggi tutti i fili che spuntano. Poi prendi la canna e bagni le siepi e le aiuole. Poi azioni lo spruzzatore e innaffi ogni parte del prato per quindici minuti. Tutto questo per il prato e il giardino davanti a casa. Poi ci sono il prato e il giardino sul retro. Chiaro? ».

« Sì ».

« Va bene, adesso ti dico una cosa. Quando avrai finito verrò fuori a controllare, e non voglio vedere un solo filo d’erba fuori posto nel prato davanti a casa o nel prato dietro casa! Non un solo filo! Se ne trovo anche uno solo più lungo degli altri… ».

Si voltò, risalì il vialetto, attraversò la veranda, aprì la porta, la sbattè e sparì dentro casa. Io presi la falciatrice, la trascinai su per il vialetto e cominciai a spingerla sul prato, da nord a sud. Sentivo i ragazzi giocare a football in fondo alla strada…

Finii di falciare e pareggiare il prato davanti a casa. Innaffiai le aiuole, azionai lo spruzzatore e mi diressi verso il prato sul retro. Nel mezzo del vialetto che portava sul retro c’era un pezzetto di prato. Falciai anche quello. Non riuscivo a capire se ero infelice. Stavo troppo male per essere infelice. Era come se il mondo intero si fosse trasformato in prato e io dovessi falciarlo tutto. Continuavo a spingere la falciatrice come un automa, ma a un certo punto, all’improvviso, smisi di sperare. Ci sarebbero volute ore, tutto il giorno, per finire quel lavoro, e i ragazzi avrebbero smesso di giocare. Sarebbero andati a casa a mangiare, il sabato sarebbe finito, e io sarei stato ancora lì a falciare.

Mentre cominciavo a falciare il prato dietro casa vidi mia madre e mio padre ritti sulla veranda: mi guardavano. Se ne stavano lì in silenzio, senza muoversi. A un certo punto, mentre passavo davanti a loro con la falciatrice, sentii mia madre dire a mio padre: « Guarda, non suda come te. Guarda com’è calmo, lui ».

« Calmo? Non è calmo, è morto! ».

Quando ripassai davanti alla veranda, lo sentii dire:

« Spingi quel coso! Sei più lento di una lumaca! ».

Spinsi più forte. Era faticoso, ma faceva bene.

Spinsi ancora più forte. Stavo praticamente correndo, con quella falciatrice. L’erba si staccava con tanta violenza da volare praticamente sopra il contenitore. Sapevo che questo l’avrebbe mandato in bestia.

« Brutto figlio di puttana! », gridò.

Lo vidi scendere di corsa i gradini della veranda e andare nel garage. Uscì fuori con un pezzo di legno lungo circa trenta centimetri. Con la coda dell’occhio, vidi che lo lanciava. Mi colpì sul lato posteriore della gamba destra. Il dolore fu tremendo. La gamba si irrigidì, e dovetti fare un grande sforzo per continuare a camminare. Continuai a spingere la falciatrice, cercando di non zoppicare. Quando mi voltai per attaccare un altro pezzetto di prato, vidi il pezzo di legno in terra. Ostruiva il passaggio. Lo raccolsi, lo spostai di lato, e continuai a falciare. Poi mio padre mi si materializzò accanto.

« Fermati! ».

Mi fermai.

« Voglio che torni indietro e falci di nuovo il prato nei punti in cui l’erba è volata fuori dal contenitore! Hai capito? ».

« Sì ».

Mio padre tornò dentro casa. Vidi lui e mia madre sulla veranda. Mi guardavano.

L’ultima parte del lavoro consisteva nel ripulire il marciapiede dall’erba che ci era finita sopra, e lavarlo. Avevo quasi finito, dovevo solo innaffiare il prato dietro casa con lo spruzzatore, quindici minuti per ogni pezzo. Stavo trascinando la canna sul prato per infilarla nello spruzzatore, quando mio padre venne fuori.

« Prima che cominci a innaffiare, sarà meglio che io controlli questa parte del prato ».

Andò in mezzo al prato, si mise carponi, e appoggiò una guancia sull’erba in cerca di qualche filo fuori posto. Restò così a lungo, torcendo il collo, scrutando dappertutto. Io aspettavo.

« Ah aah! ».

Saltò in piedi e corse verso casa.

« Mamma! Mamma! ».

Corse dentro.

« Cosa c’è? ».

« Ho trovato un filo ! ».

« Davvero? ».

« Vieni che ti faccio vedere! ».

Uscì di casa in fretta e furia, con mia madre dietro.

« Qui! Qui ! Adesso te lo faccio vedere! ».

Si mise carponi sul prato.

« Eccolo! Ce ne sono due ! ».

Mia madre si mise carponi a sua volta. Dovevano essere pazzi.

« Li vedi? », le chiese lui. « Due fili. Li vedi? ».

« Sì, papà, li vedo… ».

Si alzarono in piedi. Mia madre tornò dentro casa. Mio padre mi guardò.

« Dentro… ».

Salii i gradini della veranda e andai in casa. Mio padre mi seguì.

« In bagno ».

Mio padre chiuse la porta.

« Tirati giù i pantaloni ».

Lo sentii prendere la coramella del rasoio. La gamba destra mi faceva ancora male. Aver provato quella coramella tante volte non migliorava le cose. Il mondo intero era là fuori, indifferente, ma nemmeno questo migliorava le cose. C’erano milioni di persone, là fuori, cani, gatti e talpe, case, strade, ma nemmeno questo migliorava le cose. Esistevamo solo io, mio padre, la coramella e il bagno. Lui la adoperava per affilare il rasoio, quella coramella, e la mattina presto, quando lo vedevo davanti allo specchio con la faccia bianca di schiuma, lo odiavo con tutto il cuore. Poi arrivò il primo colpo. La coramella faceva un rumore forte e secco, tremendo quanto il dolore. Colpì ancora. Mio padre era come una macchina, con quella striscia di cuoio in mano. La sensazione era quella di essere in una tomba. La coramella colpì ancora e io pensai, questo di certo è l’ultimo. Ma non era l’ultimo. La coramella colpì ancora. Non lo odiavo. Era solo incredibile, volevo andarmene via, lontano da lui. Non riuscivo a piangere. Stavo troppo male per piangere, ero troppo confuso. La coramella colpì ancora. Poi smise. Restai fermo ad aspettare. Lo sentii riappendere la coramella.

« La prossima volta », disse, « non voglio vedere fili fuori posto ».

Lo sentii uscire dal bagno. Chiuse la porta. Le pareti erano belle, la vasca era bella, il lavandino era bello e la tenda della doccia era bella. Perfino la tazza del cesso era bella. Mio padre se n’era andato.

Capitolo diciassettesimo

Di tutti i ragazzi rimasti nel vicinato, Frank era il più simpatico. Diventammo amici, andavamo in giro insieme, non avevamo bisogno degli altri. Avevano più o meno sbattuto Frank fuori dal gruppo, comunque, e così lui aveva fatto amicizia con me. Non era come David, quello con cui tornavo a casa da scuola una volta. Frank era molto più interessante di David. Cominciai perfino a frequentare la chiesa cattolica perché ci andava lui. Ai miei genitori piaceva che io andassi in chiesa. Le messe della domenica erano molto noiose. E poi c’era il catechismo. Bisognava studiare il catechismo. Era un libretto pieno di domande e risposte noiosissime.

Un pomeriggio eravamo seduti sulla veranda di casa mia e io stavo leggendo il catechismo ad alta voce a Frank. Lessi la frase: « Dio ha occhi corporei e vede tutte le cose ».

« Occhi corporei? », chiese Frank.

« Sì ».

« Vuoi dire così? », chiese.

Strinse le mani a pugno e se le appoggiò sugli occhi.

« Ha due bottiglie del latte al posto degli occhi », disse Frank, premendo i pugni sugli occhi e girandosi a guardarmi. Poi cominciò a ridere. Anch’io cominciai a ridere. Ridemmo a lungo. Poi Frank smise.

« Credi che ci abbia sentito? ».

« Credo di sì. Se può vedere tutto, probabilmente può anche sentire tutto ».

« Ho paura », disse Frank. « Potrebbe ucciderci. Credi che ci ucciderà? ».

« Non so ».

« Sarà meglio star qui seduti ad aspettare. Non muoverti. Sta’ fermo ».

Restammo seduti sui gradini ad aspettare. Aspettammo a lungo.

« Forse non lo vuol fare proprio adesso », dissi.

« Preferisce far con comodo », disse Frank.

Aspettammo ancora un’ora, poi andammo giù a casa di Frank. Stava costruendo un aeromodello e io volevo dargli un’occhiata…

Arrivò il giorno in cui decidemmo di confessarci per la prima volta. Entrammo in chiesa. Conoscevamo uno dei preti, il più importante. L’avevamo incontrato in una gelateria e si era messo a parlare con noi. Una volta eravamo perfino andati a casa sua. Abitava vicino alla chiesa, con una vecchia. Eravamo rimasti un bel po’ da lui e gli avevamo fatto un sacco di domande su Dio. Tipo, quant’era alto? e cosa faceva, stava tutto il giorno seduto in poltrona? e andava anche Lui in bagno come tutti gli altri? Il prete non rispondeva mai direttamente alle domande, ma nonostante questo sembrava un buon diavolo, aveva un bel sorriso.

Ci incamminammo verso la chiesa pensando alla confessione, a come sarebbe stata. Nelle vicinanze della chiesa, un cane randagio cominciò a venirci dietro. Era molto magro e affamato. Ci fermammo ad accarezzarlo, a grattargli la schiena.

« Peccato che i cani non possano andare in paradiso », disse Frank.

. « Perché non possono? ».

« Bisogna essere battezzati per andare in paradiso ».

« Allora bisognerebbe battezzarlo ».

« Credi? ».

« Deve avere anche lui la possibilità di andare in paradiso ».

Raccolsi il cane ed entrammo in chiesa. Lo portammo all’acquasantiera, e io lo tenni.mentre Frank gli spruzzava un po’ d’acqua sulla fronte.

« Io ti battezzo », disse Frank.

Lo portammo fuori e lo rimettemmo sul marciapiede. Tornammo in chiesa. Ci fermammo all’acquasantiera, bagnammo le dita nell’acqua e ci facemmo il segno della croce. Ci inginocchiammo entrambi a un banco vicino al confessionale e aspettammo. Una donna grassa usci da dietro la tendina; Puzzava. Sentii il suo. odore, forte, mentre ci passava vicino. Il suo odore si mescolava a quello della chiesa, di piscio. Tutte le domeniche la gente veniva a messa, sentiva l’odore di piscione nessuno diceva niente. Io volevo dire al prete di quell’odore di piscio, ma non ci riuscivo mai. Forse era l’odore delle candele.

« Vado », disse Frank.

Poi si alzò, andò al confessionale e sparì dietro la tendina. Restò dentro un bel po’. Quando uscì fuori sorrideva.

« Fantastico, è stato fantastico! Va’ tu adesso! ».

Mi alzai, tirai indietro là tendina ed entrai nel confessionale. Era buio. Mi inginocchiai. L’unica cosa che riuscivo a vedere era una grata. Frank diceva che Dio era là dietro. Mi inginocchiai e tentai di ricordare qualcosa di brutto che avevo fatto ma non mi veniva in mente niente. Restai là inginocchiato, a tentare disperatamente di ricordare qualcosa ma non ci riuscii. Non sapevo cosa fare.

« Avanti », disse una voce. « Di’ qualcosa! ».

La voce sembrava arrabbiata. Non sapevo che ci sarebbe stata ima voce. Pensavo che Dio avesse un sacco di tempo a disposizione. Avevo paura. Decisi di mentire.

« Va bene », dissi. « Io… io ho dato un calcio a mio padre. Io… ho insultato mia -madre… Ho rubato dei soldi dal suo borsellino. Li ho spesi per comperare caramelle. Ho sgonfiato il pallone di Chuck. Ho tirato su le sottane a sua sorella. Ho dato un calcio a mia madre. Ho mangiato il muco del naso. È tutto, più o meno… Ah, oggi ho battezzato uh cane ».

« Hai battezzato un cane? ».

Ero finito. Un Peccato Mortale. Inutile continuare. Mi alzai per andarmene. Non ricordo se la voce mi disse di recitare qualche Ave Maria o se non disse niente del tutto. Tirai indietro la tendina e vidi Frank che mi aspettava. Uscimmo dalla chiesa e tornammo in strada.

« Mi sento pulito », disse Frank, « e tu? ».

« Io no ».

Non andai mai più a confessarmi. Era peggio della messa delle dieci.

Capitolo diciottesimo

A Frank piacevano gli aeroplani