giovedì 30 agosto 2018



A 007. DALLA RUSSIA CON AMORE
Ian Fleming
Parte prima: Il piano
 1 La terra delle rose

L’uomo nudo giaceva a faccia in giù vicino alla piscina: poteva essere morto. 
Poteva essere un annegato, ripescato dalla piscina e messo ad asciu-gare sull’erba in attesa dell’arrivo della Polizia o dei familiari. Sull’erba vicino alla sua testa i suoi effetti personali erano meticolosamente raggrup-pati in bella vista in modo che nessuno potesse pensare che i soccorritori avevano rubato qualcosa. 
A giudicare dallo scintillio di quegli oggetti, l’individuo in questione era stato, o era, un uomo ricco. C’erano i tipici oggetti che contraddistin-guono l’agiatezza: un porta-biglietti a molla, fatto con una moneta da cinque dollari messicana, da cui sporgeva una considerevole quantità di banconote, un accendisigari Dunhill d’oro un po’ usato, un portasigarette ovale pure d’oro, con gli orli ondulati e una discreta turchese a guisa di pulsante che indicava lo stile di Fabergé,(1)e quel tipo di libro che un ricco prenderebbe dalla libreria per portare con sé in giardino — La piccola Nugget —   una vecchia storia di P. G. Wodehouse. C’era pure un massiccio orologio d’oro da polso, col cinturino di coccodrillo marrone un po’ logoro. Era un Girard-Perregaux, un modello creato apposta per persone a cui piacciono gli oggetti curiosi, con una grande lancetta dei secondi e due piccole aperture nel quadrante dove si poteva leggere il giorno, il mese e la fase della luna. In quel momento, indicava che erano le due e mezzo del mese di giugno e che la luna aveva raggiunto i tre quarti. 
Una libellula azzurra e verde saettò fuori dai cespugli di rose in fondo al giardino e si librò a mezz’aria a pochi centimetri dalla base della spina dorsale dell’uomo. Era stata attratta dal riverbero dorato del sole di giugno sulla peluria bionda che gli ricopriva il coccige. Dal mare soffiò un alito di vento. La fine peluria ondeggiò lievemente. La libellula sfrecciò da un lato, e rimase sospesa sopra la spalla sinistra dell’uomo, guardando in giù. L’erba tenera si agitò sotto la bocca aperta dell’uomo. Una grossa goccia di sudore scivolò lungo il suo naso carnoso e cadde scintillando nell’erba. Era più che sufficiente. La libellula filò via attraverso le rose e sopra i cocci di vetro che orlavano l’alto muro del giardino. Avrebbe potuto essere dell’ottimo cibo, ma si era mosso. 
Il giardino dove l’uomo si trovava disteso era un vasto tappeto verde ben curato circondato per tre lati da fitti cespugli di rose dai quali proveniva il persistente ronzio delle api. Al di là di quel soporifero brusio, il mare mormorava dolcemente ai piedi della scogliera in fondo al giardino. 
Dal giardino non sì poteva scorgere il mare… non si poteva scorgere altro che il cielo e le nubi al di sopra del muro alto quasi quattro metri. In realtà, si poteva guardare oltre i confini del recinto solo dalle due stanze da letto del piano superiore della villa che costituiva il quarto lato di quella privatissima proprietà. Da lassù apparivano la grande distesa di acqua azzurra che fronteggiava la casa e, a destra e a sinistra, le finestre superiori delle ville adiacenti e le cime degli alberi degli altri giardini, querce sem-preverdi del tipo Mediterraneo, pini marittimi, equiseti, e qualche rara palma. 
La villa era una costruzione moderna: uno scatolone tozzo, privo di qualsiasi ornamento. La facciata che dava sul giardino era piatta, dipinta di rosa, con quattro finestre protette da inferriate e una porta a vetri centrale che dava su un piccolo piazzale pavimentato di mattonelle smaltate color verde pallido. Le mattonelle arrivavano fino al tappeto erboso. L’altro lato della villa, che distava pochi metri da una strada polverosa, era pressoché identico. Ma qui le quattro finestre erano sbarrate, e la porta centrale era di quercia. 
Al piano superiore c’erano due camere da letto di media ampiezza e al piano terreno un soggiorno e una cucina, in un angolo della quale era stato ricavato il gabinetto. Non c’erano stanze da bagno. 
Il pigro e denso silenzio del primo pomeriggio fu interrotto dal rumore di una macchina che avanzava lungo la strada e che si fermò davanti alla villa. Si udì lo sbattere di una portiera e poi la macchina si allontanò. Il campanello della porta suonò due volte. L’uomo nudo allungato vicino alla piscina non si mosse, ma al suono del campanello e al rumore della macchina che ripartiva aveva spalancato per un attimo gli occhi. Fu come se le palpebre si fossero rizzate a somiglianza delle orecchie di un animale. 
L’uomo si era immediatamente ricordato dove si trovava, e il giorno della settimana, e l’ora. I rumori erano stati identificati. Le palpebre dalle corte ciglia color sabbia ricaddero pigramente sugli occhi azzurro slavato, opachi, impenetrabili. La piccola bocca crudele si spalancò in uno smisu-rato sbadiglio che la riempì di saliva. L’uomo sputò la saliva sull’erba e attese. 
Dalla porta a vetri uscì una giovane donna con una borsa a rete. 
Indossava una camicia bianca di cotone e una gonna azzurra, corta e trasandata. La donna avanzò con andatura maschile sulle lucide mattonelle e sul tratto di prato che la separavano dall’uomo nudo. Giunta a pochi passi da lui, posò la borsa a rete sull’erba, si sedette e si tolse le scarpe di tipo economico, piuttosto polverose. Quindi si rialzò, si sbottonò la camicia e, dopo averla accuratamente piegata, la mise accanto alla borsa a rete. 
La ragazza non portava nulla sotto la camicia. La pelle del suo corpo era gradevolmente abbronzata e le spalle e i bei seni irradiavano salute. 
Quando piegò le braccia per slacciare i bottoni laterali della gonna, piccoli ciuffi di pelo biondo fecero capolino dalle sue ascelle. L’aspetto di ragazza di campagna piena di salute era accentuato dai fianchi massicci fasciati in un paio di mutandine da bagno di tessuto elastico color azzurro sbiadito, e dalle cosce e dalle gambe, corte e grosse, che lei mise in mostra quando si fu spogliata. 
La ragazza piegò ordinatamente la gonna vicino alla camicia, tolse dalla borsa a rete una vecchia bottiglietta da bibita che conteneva un liquido denso e incolore, e andò a inginocchiarsi vicino al corpo dell’uomo. Gli versò un po’ del liquido — olio di oliva profumato alla rosa, come qualsiasi cosa, da quelle parti — tra le scapole e, dopo aver articolato le dita come una pianista, cominciò a massag-giargli lo sterno-mastoide e i muscoli trapezio della nuca. 
Era un lavoro duro. L’uomo era straordinariamente forte e i muscoli rigonfi che erano alla base del collo cedevano a fatica alla pressione dei pollici della ragazza, anche quando lei faceva leva col peso delle spalle. Al termine del massaggio, di certo sarebbe stata in un bagno di sudore e così esausta da desiderare soltanto un tuffo nella piscina e un lungo sonno all’ombra, finché la macchina non fosse venuta a riprenderla. Ma non pensava a questo, mentre le sue mani lavoravano meccanicamente sulla schiena dell’uomo. Pensava piuttosto al proprio istintivo disgusto per il più bel corpo che lei avesse mai visto. 
Nulla di quel disgusto traspariva dalla faccia piatta e impassibile della massaggiatrice, e gli occhi a mandorla neri, sotto la frangia dei capelli corti, ruvidi e neri, erano vuoti come una macchia d’olio sull’acqua; ma, il suo subcosciente gemeva e si contorceva, e — se la ragazza si fosse presa la briga di misurarle — si sarebbe sorpresa del rapido ritmo delle sue pulsazioni. 
Ancora una volta, come tanto spesso negli ultimi due anni, la ragazza si chiese perché detestasse quello splendido corpo, e ancora una volta cercò vagamente di analizzare la sua repulsione. Forse sarebbe riuscita a liberarsi da quei sentimenti di colpa che considerava certamente molto più contrari all’etica professionale del desiderio sessuale che alcuni dei suoi pazienti risvegliavano in lei. 
Cominciò dai piccoli particolari: i suoi capelli. Osservò la testa, rotonda e piuttosto piccola, piantata sul collo vigoroso. Era ricoperta da folte ciocche rosso-oro che le avrebbero dovuto piacevolmente ricordare i capelli convenzionali che aveva visto nelle riproduzioni delle statue classiche. 
Ma le ciocche erano troppo aderenti, in un certo senso, troppo incollate l’una all’altra e al cranio. Le facevano allegare i denti; era come affondare le unghie delle dita in un tappeto folto. E le ciocche d’oro scendevano molto basse sulla nuca — fino alla quinta vertebra cervicale, pensò professional-mente la donna. A quel punto, le ciocche terminavano brusca-mente in una linea orizzontale di brevi peli duri e dorati. 
La ragazza si fermò un attimo per riposare le mani e si accoccolò sull’erba. Il suo busto scultoreo riluceva già di sudore. Si passò l’avambraccio sulla fronte e si allungò per prendere la bottiglia dell’olio. Ne versò circa un cucchiaio da tavola sulla piccola superficie pelosa alla base della spina dorsale dell’uomo, articolò le dita e si curvò di nuovo in avanti. 
Quell’appendice dorata del coccige, che sporgeva leggermente sulla fenditura delle natiche, sarebbe stata un particolare curioso, eccitante, in un uomo amato; ma in quell’uomo era qualcosa di bestiale. No, di serpigno. 
Ma le serpi non hanno peli. Be’, lei non poteva farci nulla. A lei sembrava serpigno. Spostò le mani sulle prominenze dei glutei. Era arrivata al momento in cui molti dei suoi clienti, e in modo particolare i ragazzi della squadra di calcio, cominciavano a scherzare. Poi, se non fosse stata attenta, sarebbero seguite le proposte. Certe volte lei riusciva a tacitarle premendo duramente in giù, verso il nervo sciatico. Altre volte, e particolarmente quando l’uomo le piaceva, ci sarebbe stata qualche schermaglia, una breve lotta, e una rapida, deliziosa capitolazione. 
Con quell’uomo era diverso, chiaramente diverso. Fin dalla prima volta, lui si era comportato come un mucchio di carne inanimata. In due anni, non le aveva mai rivolto la parola. Una volta terminata la schiena, quando per l’uomo era giunto il momento di stendersi supino, nè i suoi occhi nè il suo corpo avevano mai dimostrato il minimo interesse per la ragazza. Lei gli batteva sulla spalla, e lui non faceva altro che rigirarsi e fissare il cielo attraverso le palpebre socchiuse; di tanto in tanto spalancava la bocca per uno di quei lunghi e spaventosi sbadigli che erano l’unico segno delle sue reazioni umane. 
La ragazza cambiò posizione e massaggiò lentamente la gamba destra, scendendo verso il tendine di Achille. Quando lo raggiunse, alzò lo sguardo e osservò ancora una volta quel magnifico corpo. La sua repulsione era dunque soltanto fisica? Era forse l’abbronzatura rossastra della pelle che per natura era di colore bianco-latte; un richiamo all’aspetto della carne arrostita? O era la struttura stessa della pelle, i pori profondi e spaziati sulla superficie liscia? O le innumerevoli lentiggini color arancio che erano sparse sulle spalle? Oppure era la sessualità dell’uomo? L’indifferenza di quei grossi muscoli, splendidi e insolenti? O era invece una repulsione spirituale… un istinto animalesco che le suggeriva la presenza di qualcosa di demoniaco dentro quel magnifico involucro? 
La massaggiatrice si alzò in piedi e cominciò a ruotare lentamente il capo e a flettere le spalle. Poi allungò le braccia di fianco e in alto e le tenne così per qualche tempo per permettere al sangue di defluire. Quindi si avvicinò alla borsa a rete, ne tolse un asciugamano e si asciugò il sudore dalla faccia e dal corpo. 
Quando si rivolse verso l’uomo, questi si era già messo supino ed ora stava fissando distrattamente il cielo, col capo appoggiato a una mano aperta. Il braccio libero era allungato in fuori e attendeva lei. La ragazza andò a inginocchiarsi sull’erba, dietro la testa dell’uomo. Versò un po’ d’olio sulle palme, afferrò la mano inerte e semichiusa e cominciò a frizionare le dita tozze e grosse. 
La ragazza guardò nervosa-mente di traverso il viso arrossato sotto la corona dei riccioletti d’oro. Apparentemente era un bel viso: una bellezza fanciullesca e un poco volgare, con quelle gote piene e rosee, il naso all’insù e il mento arrotondato. Ma, osservandolo bene, c’era qualcosa di crudele in quella bocca un po’ contratta e dalle labbra sottili, un che di por-cino nelle larghe narici di quel naso rivolto all’insù, e l’assenza di espressione di quegli occhi color azzurro slavato si comunicava a tutto il viso, rendendolo simile a quello di un annegato portato all’obitorio. Era come se qualcuno avesse ridipinto il viso di una bambola di porcellana, rendendolo terrifi-cante. 
La massaggiatrice risalì con le mani lungo il braccio verso i bicipiti smisurati. Come aveva fatto quell’uomo a sviluppare una muscolatura così eccezionale? Era forse un pugilatore? In che modo impiegava il suo corpo formidabile? Si diceva che quella fosse una villa della polizia. I due uomini che fungevano da servitori erano senza dubbio guardie, sebbene prov-vedessero alla cucina e alle faccende di casa. Regolarmente ogni mese l’uomo si assentava per qualche giorno: in quelle occasioni le comunica-vano di non venire. Di quando in quando le dicevano di non venire per una settimana, o per due, o per un mese. Una volta, dopo una di quelle assenze, lei aveva notato che il collo e la parte superiore del corpo dell’uomo erano coperti di contusioni. In un’altra occasione, aveva visto l’angolo rosso di una ferita semi-rimarginata spuntar fuori da un lungo cerotto chirurgico applicato sulla cassa toracica all’altezza del cuore. La ragazza non aveva mai osato informarsi sul conto dell’uomo, nè all’ospedale nè in città. 
Quando era stata mandata per la prima volta alla villa, uno dei servitori le aveva consigliato di non parlare di quanto avrebbe visto, se non voleva finire in prigione. Tornando all’ospedale, il direttore capo, che non l’aveva mai notata prima di allora, l’aveva fatta chiamare e le aveva detto la stessa cosa. Sarebbe finita in prigione. Le forti dita della ragazza penetrarono nervosamente nel grande muscolo deltoide all’inizio della spalla. Aveva sempre saputo che doveva trattarsi di qualcosa riguardante la Sicurezza di Stato. Forse era per questa ragione che lo splendido corpo la disgustava. 
Forse era soltanto la paura dell’organizzazione che custo-diva quel corpo. 
Chiuse fortemente gli occhi, al pensiero di chi potesse essere l’uomo. Li riaprì immediata-mente. L’uomo avrebbe potuto notarlo. Ma lui aveva gli occhi rivolti in su a fissare distrattamente il cielo. 
Ora ,la ragazza allungò la mano per prendere l’olio, bisognava fare la faccia. 
I pollici della massaggiatrice avevano appena cominciato a premere nelle orbite dell’uomo, quando dall’interno della casa venne il trillo di un telefono. Il trillo risuonò con insistenza nella pace del giardino. Immediatamente l’uomo si alzò su un ginocchio come un atleta in attesa del via. Il trillo del telefono si interruppe. Si udì il mormorio di una voce. La ragazza non poteva sentire quello che stava dicendo, ma il tono era umile, come di chi ricevesse degli ordini. La voce cessò e uno dei servitori apparve per un attimo sulla porta, fece un cenno di richiamo e rientrò in casa. Il gesto era ancora a mezz’aria e già l’uomo nudo si era messo a correre. La donna osservò la schiena abbronzata che spariva al di là della porta a vetri. Era meglio non farsi sorprendere senza far nulla, magari in ascolto, quando l’uomo fosse tornato. Così si alzò in piedi, fece due passi verso il bordo di cemento della piscina ed eseguì un abile tuffo. 
  Sapere chi era l’uomo di cui maneggiava il corpo sarebbe senza dubbio servito alla ragazza a spiegare i suoi impulsi di disgusto, ma per la sua tranquillità era meglio che lei lo ignorasse. 
  Il suo vero nome era Donovan Grant, o «Red» Grant. Ma, negli ultimi dieci anni, egli era noto come Krassno Granitski; in codice «Granit». 
  Era il primo esecutore della SMERSH, l’ apparat per gli omicidi della MGB,(2) e in quel momento stava ricevendo delle istruzioni sulla linea diretta della MGB di Mosca.

(1)Fabergé (1846-1920), celebre orefice russo. ( N. d. t. ) 
(2)MGB(Ministerstvo Gosudarstvennoi Bezopasnosti): Ministero per la Sicurezza dello Stato Sovietico. ( N. d. t.)

mercoledì 29 agosto 2018


IL SENSO È IL RACCONTO
di Gianfranco Giudice
“Una tesi fondamentale comincia ad emergere: l’uomo nelle sue azioni e nella sua prassi tanto quanto nelle sue finzioni, è essenzialmente un animale che racconta storie. Non è essenzialmente, ma diventa attraverso la sua storia, un narratore di storie che aspira alla verità. Ma la questione centrale per gli uomini non riguarda il loro ruolo di autori. Posso rispondere alla domanda:” Che cosa devo fare?, solo se sono in grado di rispondere alla domanda preliminare:”Di quale storia o di quali storie mi trovo a far parte?” (Alasdair MacIntyre, “Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, Feltrinelli 1988, p.258)
Ecco perché mi piace dire che l'uomo è un costruttore di senso e il senso è il racconto, la possibilità di raccontare storie a qualcuno e ascoltare racconti e storie di altri.

martedì 28 agosto 2018



HAŠEK CONTRO IL “GRANDE MECCANISMO"

Karel Kosík
Conferenza al convegno internazionale su Kafka del gennaio 1963. Successivamente col titolo Kafka a Hašek: setkání na Karlově mostě, pubblicato sulla rivista «Plamen», η. 5, 1963, pp. 95-102. Tr. it. di Gianlorenzo Pacini in «Il filo rosso», n. 4, 1963, pp. 75-84.
   


  1. Kafka e Hašek



  Sono nati entrambi nello stesso anno e nella stessa città, hanno trascorso a Praga la maggior parte della loro vita, hanno scritto le loro opere, note in tutto il mondo, nel periodo della prima guerra mondiale e sono morti all’inizio degli anni venti a distanza di un solo anno l’uno dall’altro. Naturalmente questa è una constatazione superficiale e meramente casuale che, di per se stessa, non ci dice ancora molto sul rapporto tra Hašek e Kafka.



  Tuttavia si può capovolgere l’impostazione del problema. Qual era l’ambiente che ha dato origine a due fenomeni così diversi come Hašek e Kafka? Qual è la Praga di Kafka e quella di Hašek? Entrambi hanno celebrato la loro città natale. La loro opera è collegata con Praga, e Praga nella loro opera è rappresentata in un certo modo. “L’odissea di Svejk con la scorta d’onore di due soldati con le baionette inastate“ ha inizio dalla prigione di Hradčany, prosegue per via Nerudova, per Malá Strana, attraversa il ponte di Carlo fino a Karlín. È un interessante gruppetto di tre persone: due guardie che conducono, tra loro due, un delinquente. In direzione opposta, attraverso il ponte Carlo salendo verso Strahov, un altro terzetto è in cammino, il terzetto de II processo di Kafka, formato da due guardie che accompagnano il “delinquente”, il procuratore Josef K. alla cava di pietre di Strahov dove uno di loro “gli caccerà un coltello in cuore”. I due terzetti passano per gli stessi luoghi, ma non possono incontrarsi. Svejk è stato fatto uscire dalla prigione al mattino presto, come avviene di solito, e compie quel tragitto con i suoi accompagnatori nella mattinata, mentre Josef K. viene accompagnato da due uomini in cilindro “di sera, alla luce della luna”.



  Supponiamo che questi due terzetti s’incontrino: passeranno gli uni accanto agli altri senza prestarsi minimamente attenzione. Josef K. è intento nell’osservare le fisionomie e il comportamento dei suoi misteriosi accompagnatori, e Švejk è tutto preso dalla conversazione con le guardie. Può anche darsi che i terzetti nell’incontrarsi si scambino uno sguardo, ma è solo uno sguardo che vede senza riconoscere. Quelle persone si vedono, ma non si riconoscono. Chi sono?



  Per Josef K. il terzetto di Hašek è troppo comico e soltanto comico, privo di quel più profondo, inatteso significato con la cui scoperta si rivela il mondo del grottesco; allo stesso modo che a Josef K., anche a Švejk il terzetto di Kafka appare un fenomeno comico sotto il quale resta nascosto il destino autentico, grottescamente tragico di Josef K. Entrambi vedono soltanto l’esteriorità dell’altro, e pertanto si sono reciprocamente indifferenti.



  Questo è il primo possibile incontro tra Hašek e Kafka che resta soltanto su un piano superficiale. Tuttavia possiamo passare dagli autori a un altro piano, alla loro opera. È forse possibile confrontare o stabilire una connessione tra l’opera di Hašek e l’opera di Kafka? A prima vista sembra che una tale connessione non esista, giacché Kafka viene letto per essere interpretato, mentre Hašek lo si legge per ridere. A proposito di Kafka esistono decine, centinaia di interpretazioni e la sua opera viene intesa e studiata come un’opera ricca di problemi e problematica, enigmatica, sibillina, difficile da decifrare, per accostarsi alla quale bisogna anzitutto trovare un criterio per decifrarla, per così dire, per spiegarla. Nell’opera di Hašek tutto sembra così chiaro che ognuno è in grado di capirla; l’opera è di per se stessa naturalmente trasparente, provoca il riso e nient’altro. Ma una tale trasparenza e naturalezza non è forse solo apparente, e in tal senso ingannevole e illusoria?



  Nell’interpretazione dell’opera di Kafka la critica occidentale ha fatto ricorso ai metodi più vari: dalla psicoanalisi, all’indagine sociologica e antropologica, alla ricerca di elementi teologici, religiosi e filosofici, all’esame di sue connessioni con il mondo ideale dell’ebraismo, del cristianesimo, di Kierkegaard, di Dostoevskij, arrivando più o meno ad esaurire l’intera gamma di tutte le interpretazioni possibili. Nel caso di Hašek, al contrario, sembra che disponiamo di una sola chiave che ci apre l’accesso alla sua opera, e questa sarebbe il famoso “principio popolare”. Ma il “principio popolare”, invece di aprirci l’accesso all’opera di Hašek, piuttosto ce lo chiude, perché non ci offre affatto la possibilità di comprendere la sua problematica.



  Qual è il significato dell’opera di Hašek? “Le vicende del buon soldato Švejk” mancano effettivamente di una struttura unitaria e soffrono di una dispersione dell’azione? Qual è il senso di queste narrazioni aneddotiche? Esiste nell’opera di Hašek la problematica dell’epoca, del comico, del tragico, del grottesco?



  MA CHI È ŠVEJK?



   



  2. Chi non è Švejk



  Švejk è il servitore del cappellano di campo Katz e in seguito del tenente Lukáš. Il padrone dà gli ordini e il servitore li esegue. Il padrone concepisce una certa azione e il servitore la realizza. Ma siccome l’ordine è generico e acquista il suo reale aspetto soltanto nella sua realizzazione, esso si può rivolgere contro il padrone; nel corso dell’esecuzione dell’ordine si verificano tante circostanze impreviste che il padrone non riconosce più la propria intenzione nell’attuazione realizzata dal servitore. Il servitore è soltanto lo strumento della volontà del padrone, ma siccome è zelante, crea una situazione che capovolge il piano originale del padrone. Il padrone ha bisogno del servitore e non può fare a meno di lui. Il padrone non può divertirsi senza il concorso del servitore. Il padrone non è capace di sistemare le sue faccende private senza l’intervento del servitore. Il servitore è indispensabile. Il padrone obbliga il servitore a occuparsi di lui e pertanto il servitore conosce il suo padrone, i suoi lati forti e quelli deboli. Al padrone è sufficiente l’autorità e il grado, mentre il servitore deve dimostrare inventiva e intraprendenza. In un tale rapporto di dipendenza chi è il padrone e chi è il servitore? Chi impone all’altro la sua volontà e chi è attivo in tale rapporto?



  In un determinato regime di divisione del lavoro il servitore può esercitare una sola funzione: divertire il padrone. Diventa allora un servitore di un genere particolare: il buffone di corte. Non esegue una funzione manuale, bensì lavora con la testa come un intellettuale. Il buffone è indipendente? Si presenta così. Dice delle impertinenze al principe e nell’ambiente gode addirittura di un privilegio esclusivo: “dire la verità”. Il buffone commenta i fatti e allieta la corte con i suoi frizzi. Ma siccome è un funzionario di corte egli deve attenersi alle regole del gioco della corte: le sue impertinenze possono essere soltanto sfacciataggini di buffone, e la sua verità è sempre la verità del buffone. Mantiene la sua funzione soltanto nella misura in cui gli altri lo accettano e lo riconoscono come buffone. Se oltrepassa i limiti prescritti, riconosciuti e tollerati non viene più preso sul serio, oppure lo si comincia a prendere sul serio: diventa noioso e inutile, oppure viene denunciato come un insolente, un intrigante, un falso o un seccatore. “Molti principi - dice Erasmo da Rotterdam - non possono nemmeno far colazione senza i loro buffoni e danno loro la preferenza rispetto ai filosofi che contano sulla loro scienza; talvolta non si fanno scrupolo di offendere l’orecchio sensibile dei principi con delle scottanti verità.”



  Švejk è un servitore, ma non è un buffone. Talvolta si comporta bensì come un matto, ma il matto diventa un buffone soltanto quando mette la sua follia al servizio del principe. Nei casi in cui Švejk dice delle impertinenze e delle folli verità, non è un buffone e il suo antagonista non è il padrone, bensì il funzionario. Il tenente Dub, che è un funzionario, non capisce gli scherzi e non sa ridere; la sua unica aspirazione è costringere Švejk a piangere. Il funzionario si muove nella sfera del sacro, dell’intangibile, del tutelato. Il riso è per lui estremamente sospetto. Chi ride, ride di lui. È suscettibile e pronto a riferire ogni allusione a se stesso. Vuole sorvegliare ogni cosa e avere tutto sotto il suo controllo. Tocca a lui dire di che cosa si può ridere e che cosa si può guardare.



  

    Che succede qui? - Si udì la voce severa del tenente Dub mentre lui stesso si piantava proprio di fronte a Švejk.


    -    Riferisco disciplinatamente, signor tenente, - rispose Švejk per tutti -che noi si stava guardando. -



    -    E che cosa guardate? - Ringhiò il tenente Dub.



    -    Riferisco disciplinatamente, signor tenente, che si stava guardando giù verso la trincea. -



    -    E chi ve ne ha dato il permesso? -

  


  Švejk non è al servizio del funzionario. Il suo rapporto con il tenente Dub non è fondato su una dipendenza diretta e personale, bensì è determinato da una complessa gerarchia di disposizioni legali. Švejk è separato dal tenente Dub dalla complicata struttura della subordinazione militare che non permette al funzionario di disporre di Švejk come di un servo.



  Švejk e il funzionario sono due mondi diversi che non si tollerano a vicenda. Con la sua mera esistenza e presenza fisica Švejk provoca il funzionario perché non guarda dove si deve guardare, perché non sta in piedi come bisogna stare, perché non parla come bisogna parlare. Švejk non sta al suo gioco, non vuole avanzare di grado né fare carriera, e pertanto non rispetta le regole del gioco. Siccome non sta al gioco ne trasgredisce le regole, anzi non ne conosce neppure l’esistenza: è pericoloso e sospetto contro la sua volontà.



  Qual è il rapporto che lega Švejk ai suoi avversari, e chi è il suo vero partner? Egli è forse un servo di fronte al padrone, è un buffone di fronte al re, è un pazzo di fronte al funzionario? Oppure è un moderno Sancho Panza, e cioé un servo senza padrone?



   



  3. Il mondo del grottesco



  Nel carcere del tribunale militare Švejk racconta ai suoi compagni di prigionia:



  “... non dovete perdere la speranza perché le cose possono volgere al meglio, come diceva lo zingaro Janeček di Pilsen quando, nel 1879, gli misero la corda al collo per quel duplice assassinio. E ci aveva indovinato, perché all’ultimo momento lo portarono via dalla forca perché non lo potevano impiccare nel giorno del compleanno dell’imperatore... E così lo impiccarono il giorno dopo, passato il compleanno, e quel ragazzo ebbe una tale fortuna che due giorni dopo l’impiccagione ottenne la grazia e si dovette ripetere il suo processo, perché tutto dimostrava che il colpo era stato fatto da un altro Janeček. È così dovettero dissotterrarlo dal cimitero del carcere, riabilitarlo e seppellirlo nel cimitero cattolico di Pilsen; e soltanto dopo si venne a sapere che era un evangelico, e così lo trasferirono nel cimitero evangelico, e dopo...” Questo passo, che non è né casuale né sporadico, evoca nel lettore un sentimento “misto”: provoca il riso e allo stesso tempo mette i brividi. Ha un effetto comico, ma anche penoso. Evoca dei sentimenti che l’uomo evita; non vuole prenderne coscienza, non vuole dargli importanza, oppure li minimizza considerandoli eccezioni o dovuti a imprevidenza. Il lettore vuole divertirsi e pertanto non si lascia turbare da aberrazioni o imprevidenze del racconto dell’autore. In questo piccolo episodio non è la stessa morte o la stessa impiccagione ad avere un effetto agghiacciante e paradossale, bensì l’insensatezza della morte e l’assurdità dell’impiccagione. Ciò che l’uomo sfugge, che evita, che vuole scrollarsi di dosso, non è l’angoscia, la morte, i mali estremi dell’uomo, bensì l’assurdità. Nell’assurdo non è capace di orientarsi, perde ogni sicurezza, non trova la motivazione. Ma il passo citato, al tempo stesso, produce un effetto diverso e contrario: provoca anche il riso e l’allegria. E in definitiva il sentimento del ridicolo, l’effetto gaio e scherzoso predomina. Il lettore sorride e ride, ma improvvisamente, a un tratto il riso lo abbandona, si muta in una smorfia e gli appare sconveniente; rideva, ma a un tratto si rende conto che lì non c’è nulla da ridere. Ciò che sembrava e aveva un effetto comico si mostra improvvisamente - in un brevissimo intervallo di tempo, nell’immediato - sotto una diversa luce e il lettore è sorpreso del suo stesso riso. Prova vergogna del suo stesso riso. Guarda dentro di sé, si ritira in se stesso, non bada più a ciò che è vicino o davanti a lui, bensì esamina se stesso e si chiede: che cosa ho fatto di sconveniente? Che cosa ha fatto di sconveniente quest’uomo? Ha riso di qualcosa di ridicolo. Ma improvvisamente il suo proprio riso gli appare sconveniente, la voglia di ridere gli passa improvvisamente ed egli si sente angosciato dalla sconvenienza del suo atto e così ne cerca la colpa in se stesso e non nell’oggetto che dapprima ha in lui provocato il riso, e dopo ha mutato il riso in un brivido. L’analisi di questo sentimento soggettivo ci porta vicino al punto essenziale: il fenomeno stesso è “ritmato nel tempo”: ciò che dapprima il fenomeno afferma di se stesso e convince di ciò l’uomo (spettatore, lettore, ascoltatore) si capovolge improvvisamente nel suo contrario: il riso scompare e si trasforma in brivido ed orrore. L’uomo si distrae dall’oggetto e si volge in se stesso: come ha potuto ridere di qualcosa che non è comico, bensì strano, paradossale, spaventoso?



  Questo qualcosa di spaventoso, che dà i brividi, estraneo, eccezionale, è veramente contenuto nell’opera di Hašek? E come vi è contenuto? In maniera episodica e come eccezione, come aspetto secondario, oppure ha qualcosa in comune con la struttura dell’opera? Fino a oggi lo Svejk di Hašek lo si legge (e anche lo si espone) secondo una certa interpretazione. Dopo la prima guerra mondiale, negli anni venti e trenta, la gente accolse Svejk come una risata su qualcosa di terribile che si era vissuto e che apparteneva a un passato irrevocabile, e pertanto veniva recepito più in chiave umoristica che grottesca, più satirica che tragica, più idealizzata che drammatizzata. Lada 1 illustrò questi aspetti del libro di Hašek in maniera congeniale allo spirito dell’epoca e i suoi disegni costituiscono pertanto un commento umoristicamente satirico (e poetico) a Svejk. Ma i disegni di Georg Grosz2 stanno a dimostrare che Hašek poteva essere letto - ed è stato letto - anche diversamente; i suoi disegni sono altrettanto parziali di quelli di Lada e mettono in evidenza quegli aspetti dell’opera che il pittore cèco non vide: l’orrido, il terribile, il grottesco, la smorfia.3



  Sotto l’influenza dell’interpretazione “idilliaca” di Hašek ci si è dimenticati di alcuni importanti passi in Svejk; uno dei capitoli più ameni dell’opera, quello che racconta la predica del cappellano Katz, ubriaco, nella cappella del carcere, comincia con la lettura del regolamento carcerario: “Se un detenuto si ammutina verrà trascinato nella stanza di tortura, gli verranno spezzate tutte le costole e verrà lasciato lì steso finché non crepa. Abbiamo il diritto di farlo.”



  In un’altra frase è contenuta l’atmosfera dell’epoca:



  “Davanti camminava un uomo dalle braccia incatenate scortato da soldati con la baionetta inastata e dietro di lui veniva un carro con la bara.” L'uomo incatenato va a piedi perché è un criminale. L'oggetto, la bara, rappresenta la maestà del meccanismo e pertanto va sul carro dietro il condannato.



  Ciò dunque significa che l’opera di Hašek è imbevuta da un umorismo nero, in cui l’orrore sorge accanto al riso e la facezia si alterna all’angoscia? L’assurdo si manifesta come orrore e spavento, comicità e umorismo. Ma l’orrore non sta accanto al riso, bensì entrambi sorgono da una stessa origine: dal mondo del grottesco.



  Il mondo del grottesco si manifesta nell’opera di Hašek in reazioni mediante le quali gli uomini esorcizzano l’orrore, si difendono dalla morte, evitano la noia, si ribellano all’assurdo;



  nella magia della parola (l’insulto, l’oscenità, la facezia, la preghiera): la parola ha un potere magico, una parola forte aiuta a superare la debolezza o il momentaneo indebolimento dell’animo: la facezia scaccia la paura;



  nella magia dell’atteggiamento: l’atteggiamento è maschera o dissimulazione; l’uomo assume l’atteggiamento del cinico, perché senza il cinismo - maschera difensiva - la realtà lo spezzerebbe;



  nella magia del gioco: il gioco fa ammazzare il tempo e crea per l’uomo un nuovo, interessante mondo (“ma sul volto di ognuno si leggeva una tale tranquillità come se la guerra non ci fosse ed essi non si trovassero su un treno che li portava al fronte, che li portava in un luogo di grandi lotte sanguinose e massacri, bensì come se si trovassero a un tavolo da gioco in qualche caffè praghese”);



  nella magia dell’azione: l’azione disperata folle, improvvisa che è difesa contro l’orrore o contro la morte (un soldato si era procurato la porta di un porcile come difesa contro le granate).



  Chi è il vero antagonista di Svejk? È uno solo o sono di più? 4 Questa domanda va collegata con un’altra: qual è la struttura dell’opera di Hašek? Soltanto mettendo in luce questa struttura scopriremo chi è Svejk.



  La frase d’inizio dell’opera di Hašek “E così ci hanno ammazzato Ferdinando” non è soltanto l’inizio del racconto, bensì al tempo stesso enuncia un avvenimento con cui ha preso inizio un certo movimento. Qualcosa si è messo in moto. Questo qualcosa prende dapprima il nome dell’arciduca Ferdinando, poi si presenta come la spia Brettschneider, poi come il giudice istruttore, nell’ulteriore svolgimento dell’azione come il cappellano di campo Katz e il tenente Dub; questo qualcosa prende la forma del carcere, del treno militare, della “scorta con le baionette inastate” tra cui cammina l’uomo con le braccia incatenate e dietro di lui viene il carro con la bara, del generale-poveraccio e del generale dei gabinetti, della lenta marcia del treno verso il fronte che si conclude con “lo sporco berretto austriaco che ondeggia sulla croce bianca. ” Questo qualcosa fa muovere gli uomini, e gli uomini eseguono i suoi ordini e da lui si fanno condurre alla morte. Questo qualcosa è occulto, anonimo, incomprensibile e talora si manifesta sotto l’aspetto di generali controllori che trasmettono ai semplici mortali la profonda saggezza del Grande Meccanismo: “Ferrea disciplina... Organizzazione... Schwarm weise unter Kommando... Latrinenscheissen... dann partienweise... schlafen gehen. ”5



  Svejk senza il meccanismo non è Svejk, ma solo un allegro compagnone, un dritto che scherza su tutto. Diventa Svejk non appena si presenta il suo autentico antagonista, il Grande Meccanismo. Quando il meccanismo si mette in moto (il che ci viene notificato dalla frase d’inizio “E così ci hanno ammazzato Ferdinando’) Švejk entra in scena. Comincia il gioco dell’uomo con il meccanismo e del meccanismo con l’uomo. Il meccanismo costringe l’uomo ad adattarsi alle sue esigenze, gli impone la sua logica e un determinato comportamento. Il meccanismo si manifesta come un potere anonimo che ordina gli uomini in reggimenti, battaglioni, armate e li trasporta al fronte. La ferrea disciplina, l’organizzazione e l’ordine sono caratteristiche del meccanismo altrettanto importanti quanto il caos e l’assurdità.



  Il grottesco si manifesta sotto l’aspetto di un colosso meccanico connesso con l’animalità umana, o, più esattamente, la tragica comicità della realtà, l’orrido e il ridicolo, lo spaventevole e la comicità sono continuamente dimostrati dal fatto che i singoli rappresentanti del meccanismo vivono in prossimità o sotto le maschere del mondo animale: il delatore Brettschneider viene divorato dai suoi propri cani, per il medico del reggimento tutti i pazienti dell’ospedale militare sono “animali e letame... sono tutti destinati alla forca”, gli accusati vengono interrogati da “un signore dal freddo aspetto burocratico che ha tratti di una bestiale crudeltà.”



  Tuttavia, oltre al movimento del meccanismo, dell’assurdo e dell’insensato, esiste anche un altro movimento: il movimento dei destini e degli incontri umani, delle vicende e delle avventure degli uomini, ognuno dei quali ha un suo significato e un suo senso perché formano il contenuto della vita umana. Gli uomini si muovono all’interno del Grande Meccanismo: in fin dei conti, il movimento meccanico che conduce gli uomini alla morte è reso possibile e mantenuto in marcia dal movimento meccanizzato di questi stessi uomini. Ma gli uomini evadono continuamente da questo ingranaggio, sfuggono al suo raggio d’azione, lo evitano e in tal modo esistono indipendentemente dal meccanismo. In questo complesso concatenamento di movimenti che si combinano e si mettono in moto a vicenda, soltanto i movimenti parziali e individuali (destini, incontri, avventure) hanno un senso, mentre il movimento dell’ingranaggio nel suo complesso è privo di senso: il movimento dell’ingranaggio è il movimento dell’assurdo. Il contrasto tra i valori dei destini umani, sia all’interno del meccanismo che fuori di esso, da una parte, e la mancanza di senso del movimento complessivo del Grande Meccanismo dall’altra, è talmente immenso ed esplosivo che questa visione del mondo non richiede affatto che la figura centrale (Švejk) compia un’evoluzione secondo le ricette della critica e dell’interpretazione idillizzante: la “positività” è la morte di Švejk. In questi due reali movimenti interviene un “elemento ritardante”, il racconto di Švejk, che sempre commenta in un certo modo entrambi i movimenti, svela la loro connessione o li mette in connessione. Il grottesco si può presentare come elemento organico in un gran numero di passi del libro di Hašek proprio perché è contenuto nella stessa struttura dell’opera.



   



  4. Chi è Švejk?



  Il personaggio di Švejk dev’essere analizzato in un contesto mondiale, ma non può essere spiegato mediante meri riferimenti ai personaggi di Diderot, Cervantes, Rabelais o Coster.



  Švejk si presenta come un bonaccione e un furbone, un pazzo e uno scemo, come un idiota riconosciuto legalmente e un altrettanto legalmente riconosciuto sospetto ribelle, un simulatore e un calcolatore, una spia e un suddito leale. Se una volta si dimostra uno scemo e un’altra un furbone, una volta un servo e un’altra un ribelle, e così via, pur restando sempre quello che è, la sua mutabilità, incomprensibilità e “misteriosità” deriva dal fatto che egli è una parte del sistema, un sistema capovolto e in continuo capovolgimento, fondato sul generale presupposto che gli uomini si spacciano per qualcosa che non sono, e dove pertanto i personaggi principali devono essere l’imbroglione e il controllore (revisore). La sistematica e reciproca mistificazione è una delle caratteristiche di questo sistema. Švejk si muove nel meccanismo la cui “forza motrice” è la mediocrità e il disfattismo: chi prende le cose sul serio e alla lettera svela l’assurdità del sistema e con il proprio comportamento si rende assurdo o ridicolo. In questo sistema l’autorità è convinta che i suoi subordinati sono degli imbroglioni, dei simulatori, dei rompiscatole e dei traditori, mentre la gente riconosce, dietro la maschera di ufficiale gravità dei suoi superiori, delle figure miserevoli e dei pagliacci; è un sistema dove la maschera, il mettersi la maschera e strapparsela a vicenda, è uno dei fondamentali rapporti tra gli uomini.



  Chi è Švejk? Nell’anabasi di Hašek si dimostra che l’uomo viene sempre ridotto a qualcosa. Ma Švejk è irriducibile. Un punto chiave è la famosa scena nel manicomio in cui il medico dice a Švejk: “Fate cinque passi avanti e cinque indietro.” Švejk ne fa dieci. “Ma io vi ho detto di farne cinque,” dice il medico. “Io a qualche passo in più non ci bado” dice Švejk. Qui sta la chiave per comprendere Švejk: l’uomo dev’essere ed è continuamente inquadrato in un sistema razionalizzato e calcolato, dove viene sistemato, disposto, fatto muovere, trascinato, dove viene ridotto a qualcosa di inumano e inferiore all’umano, e cioè a un oggetto o a una grandezza calcolabile e disponibile. Ma Švejk a qualche passo in più non ci bada, Švejk non è misurabile perché non è calcolabile. L’uomo non è riducibile a oggetto, è sempre di più di un sistema di rapporti fattuali in cui si muove ed è mosso.



  Švejk indossa forse la maschera dell’idiota dietro la quale nasconde un volto ideale di umana naturalezza e nobiltà, oppure quella del suddito leale per nascondere dietro di essa il suo autentico volto di rivoluzionario? Io vedo la genialità di Hašek nel fatto che egli ha mostrato l’uomo e il suo eroe come una dimensione amplissima, come la distanza che separa gli estremi, che sta tra lo scemo e il furbo, tra il cinico e l’uomo sensibile e nobile, tra il suddito leale e il ribelle.



  In Hašek le persone s’incontrano nelle stazioni, nei bordelli, nelle trattorie, negli ospedali e perfino nel manicomio. Ma per Švejk il manicomio, in fin dei conti, è l’unico luogo al mondo dove gli uomini possono essere liberi. Si pone la domanda: in che senso sono liberi? Ciò significa: per essere libero devo diventare pazzo, oppure sono pazzo se sono libero? Il manicomio è il rifugio della libertà, oppure la libertà va rinchiusa in manicomio affinché non causi danno agli uomini o affinché gli uomini non la pregiudichino?



  La complessità, l’enigmaticità e l’oscurità dell’opera di Kafka non sta in contrapposizione con la semplicità banale ed elementare di Hašek; in un certo senso anche l’opera di Hašek è oscura ed enigmatica e deve pertanto venire interpretata secondo i moderni strumenti scientifici di analisi. Il principio patriarcale e conservatore dello “spirito popolare” è totalmente inutile.



   



  5. Hašek e Kafka



  Non si può identificare Švejk con lo švejkovismo, così come non si può identificare Kafka con il kafkismo. Che cos’è il kafkismo o il mondo di Kafka? È il mondo dell’assurdità del pensare e dell’agire umano e dei sogni degli uomini; è il mondo come pauroso e insensato labirinto, il mondo dell’impotenza dell’uomo preso nella rete del meccanismo burocratico, degli apparati, delle creazioni reificate: il mondo dell’impotenza dell’uomo in una realtà reificata e alienata. L’agire di Švejk è un determinato modo di reazione dell’uomo in questo mondo dell’assurda onnipotenza del meccanismo e di rapporti reificati. Il kafkismo e lo švejkovismo sono un fenomeno mondiale che esiste indipendentemente dall’opera di Hašek e di Kafka; i due scrittori praghesi hanno dato un nome a questo fenomeno e nella loro opera gli hanno conferito un determinato aspetto; ma ciò non vuol dire che il mondo di Hašek si può ridurre allo švejkovismo, né quello di Kafka al kafkismo. Lo Švejk di Hašek è al tempo stesso e implicitamente una critica dello švejkovismo, esattamente come l’opera di Kafka è una critica del kafkismo. Kafka e Hašek hanno descritto e messo a nudo il mondo del kafkismo e dello švejkovismo come fenomeno mondiale, ma allo stesso tempo li hanno sottoposti a critica. L’uomo di Kafka è murato in un labirinto di possibilità pietrificate, di rapporti alienati, di una quotidianità reificata che per lui assume l’aspetto di una fantasmagorica realtà soprannaturale, labirinto in cui egli si chiede continuamente con passione irriducibile cos’è la verità. L’uomo di Kafka è condannato a vivere in un mondo in cui l’unica dignità umana consiste nella interpretazione del mondo, poiché sulla marcia e su un mutamento del mondo decidono altre forze indipendenti dal singolo. Con la sua opera Hašek dimostra che l’uomo è sempre un uomo anche sotto l’aspetto reificato, che l’uomo è prodotto e produttore della reificazione. Egli sta al di sopra della sua stessa reificazione. L’uomo è irriducibile a oggetto, è più del sistema. Fino a oggi non disponiamo di una denominazione adeguata per quella miracolosa realtà che l’uomo coltiva in se stesso: l’immensa e indistruttibile forza dell’umanità. Nella prima metà del ventesimo secolo questi due autori praghesi hanno offerto due visioni del mondo moderno descrivendo due tipi umani, che a prima vista sembrano lontani e opposti, ma che in realtà si completano. Mentre Kafka ha raffigurato la reificazione della quotidiana vita umana e ha mostrato che l’uomo moderno deve vivere e conoscere - per poter essere uomo - l’aspetto fondamentale dell’alienazione, Hašek ha dimostrato che l’uomo è più della reificazione perché è irriducibile alla cosa, ai prodotti e ai rapporti reificati.



   



  (1963)



   



  Traduzione di Gianlorenzo Pacini



   



   



   



  * Conferenza al convegno internazionale su Kafka del gennaio 1963. Successivamente col titolo Kafka a Hašek: setkání na Karlově mostě, pubblicato sulla rivista «Plamen», η. 5, 1963, pp. 95-102. Tr. it. di Gianlorenzo Pacini in «Il filo rosso», n. 4, 1963, pp. 75-84.



  1    Josef Lada (1887-1957), illustratore, pittore e scenografo, è famoso proprio per aver illustrato l’opera del suo amico Jaroslav Hašek, Le vicende del bravo soldato Švejk, a cura di G. Dierna, illustrazioni di J. Lada, Einaudi, Torino 2010. [N.d.C.]



  2    George Grosz (1993-1959) fece le illustrazioni per la scenografia dell’opera teatrale di Max Brod e di Max Reinmann Der Abenteuer des braven Soldaten Schwejk, rappresentata alla fine degli anni venti per il teatro Piscator-Buhne di Berlino, fondato da Erwin Piscator (1893-1966), a cui partecipò anche Bertolt Brecht. [N.d.C.]



  3 L’idealizzazione di Švejk operata da Lada non costituisce l'unico caso in cui la riproduzione figurativa ha travisato il modello letterario. Nella cultura cèca un tal genere di idealizzazione e idillizzazione riposa su una solida tradizione. Basti ricordare la statua di Mácha a Petřin, opera di Myslbek, che non ha assolutamente nulla di comune con l’opera geniale del poeta cèco e ha diffuso per decenni una falsa immagine di Mácha.



  4    L’impersonalità e l’anonimità si manifestano sotto innumerevoli aspetti. W. Emrich [Wilhelm Emrich, studioso di Kafka] caratterizza l’alto funzionario Klamm de II castello di Kafka come “il potere che determina tutti gli incontri umani”. È comunque singolare che 1 ’interpretazione occidentale abbia trascurato un fatto importante e di per sé evidente a un lettore cèco: il burocrate di Kafka, Klamm, è intimamente collegato con il significato della parola cèca klam, e cioè con l’incomprensibilità, l’ambiguità, l’illusorietà, l’inganno.



  5    In tedesco nel testo.

PRUGNOLE
Estratto da “Feria d'Agosto.”
Cesare Pavese
..."Specialmente le prugnole mi facevano gola...."
....“Le frutta, secondo il terreno, hanno molti sapori. Si riconoscono come fossero gente. Ce n'è delle magre, delle sane, delle cattive, delle aspre. Qualcuna è come le ragazze. Ci sono fichi e uva luglienga alla Bicocca che sanno ancora di Sandiana. Io ne ho mangiate di ogni sorta, e specialmente la selvatica, le prugnole e le nespole acerbe.
Specialmente le prugnole mi facevano gola. Ancora adesso lascio tutto per le prugnole. Le sento a distanza: fanno siepi spinose, verdissime lungo le forre, in mezzo ai rovi. Alla fine d'agosto i rami ingrossano di chicchi azzurri, più scuri del cielo, agglomerati e sodi. Hanno un sapore brusco e asperrimo che non piace a nessuno eppure non mancano di una punta di dolce. Con novembre son tutte cadute.
Che le prugnole sappiano di succhi selvatici, si capisce anche dai luoghi dove crescono. Io le trovavo sempre all'orlo delle vigne, dove il coltivo finisce e più nulla matura se non l'arido del terreno scoperto. Allora non pensavo a queste cose; avrei solamente voluto che mio padre, la Sandiana e tutti quanti mangiassero prugnole. Degli altri non so; la Sandiana diceva che le mordevano la lingua."

domenica 26 agosto 2018


IGNAZIO ROSARIO
di Gianfranco Giudice
Mi ricorda mamma, che suo padre, ovvero mio nonno Ignazio Rosario in Calabria, contadino e gestore di una rivendita di sale e tabacchi in un paese della pre Sila, mi regalava quando tornavamo al paese cinquemila lire. Me li regalava cucendo assieme con ago e filo cinque mezzi da mille perché non li perdessi. Ho ricordi precisi di nonno Ignazio, anche se morì che ero ragazzino, aveva i baffoni alla Francesco Giuseppe, fumava la pipa, era molto ingegnoso nel riparare ogni cosa, come era del resto era comune nelle società contadine. Amava tantissimo i fiori che curava personalmente, ogni tanto cucinava in casa. Pur essendo mio nonno un tipico uomo del Sud di quei tempi, aveva alcuni tratti che potremmo definire femminili. Era meticoloso fino alla mania in alcune cose, ricorda mamma che aveva un baule in cui conservava tutte le sue cose personali, vestiti, carte, annotazioni, registri e contabilità della tabaccheria. Negli ultimi anni annotava pure quando si svegliava di notte. Parlava da solo, ripeteva spesso le stesse cose. Mi hanno sempre detto che assomiglio molto a nonno Ignazio Rosario, anche nel modo di camminare, forse l’unica differenza è che non ho affatto il pollice verde, però in compenso mi piace maneggiare ago e filo, ho fumato la pipa e spesso mi faccio delle belle chiacchierate da solo. Spesso non sono neppure d'accordo con me stesso.

venerdì 24 agosto 2018




VENERE NERA
di Pietro Cazzaniga
Venere nera in coda al Carrefour insieme a una amica un po' punk e a un uomo nero grande e grosso che le segue a mezzo metro come fosse una guardia del corpo. Comprano birra e pesto. Sale le scale, si sente il botto di una bottiglia di birra che cade e si rompe. Pago il mio conto e salgo a mia volta le scale. Due francesine slavate calpestano ignare i cocci, si sente odore di birra. E la venere nera è fuori, viene insultata da due ubriaconi, uomo e donna. Il guardiano del supermarket si frappone, ma con la prudenza di chi non vuole grane, il gigante nero del suo seguito l'afferra delicatamente per un gomito come a farle fretta e l'amica si guarda intorno come chi nella discussione è finito per caso. Solo la Venere, con voce da bambina e portamento da Du Barry risponde a tono. Gli ubriachi la seguono, minacciano, la guardia e l'amico gigante nero continuano a spostarla delicatamente più in là. Lei risponde ancora a tono, ma come una Venere alla fine si allontana.

giovedì 23 agosto 2018


IL PARADOSSO DELLA TOLLERANZA 
KARL POPPER
"La società aperta e i suoi nemici"
La tolleranza illimitata porta alla scomparsa della tolleranza. Se estendiamo l’illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro gli attacchi degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti e la tolleranza con essi.  Dobbiamo proclamare il diritto di sopprimerle, se necessario, anche con la forza; perché può facilmente avvenire che esse non siano disposte a incontrarci a livello dell’argomentazione razionale, ma pretendano ripudiare ogni argomentazione; esse possono vietare ai loro seguaci di prestare ascolto all’argomentazione razionale, perché considerata ingannevole, e invitarli a rispondere agli argomenti con l’uso della violenza. Dovremmo quindi proclamare, in nome della tolleranza, il diritto di non tollerare gli intolleranti. Dovremmo insomma proclamare che ogni movimento che predica l’intolleranza si pone fuori legge e dovremmo considerare come crimini l’incitamento all’intolleranza e alla persecuzione, allo stesso modo che consideriamo un crimine l’incitamento all’assassinio, al ratto o al ripristino del commercio degli schiavi. 

mercoledì 22 agosto 2018

MIS LIBROS
Estratto da Jorge Luis Borges. “La rosa profonda (I Meridiani).”

Mis libros (que no saben que yo existo)
Son tan parte de mí como este rostro
De sienes grises y de grises ojos
Que vanamente busco en los cristales
Y que recorro con la mano cóncava.
No sin alguna lógica amargura
Pienso que las palabras esenciales
Que me expresan están en esas hojas
Que no saben quién soy, no en las que he escrito.
Mejor así. Las voces de los muertos
Me dirán para siempre.

I MIEI LIBRI
I miei libri (che ignorano che esisto)
Sono parte di me come il mio viso
Di tempie grigie e di grigi occhi
Che vanamente cerco negli specchi
E che percorro con la mano concava.
Non senza qualche logica amarezza
Suppongo che le parole essenziali
Che mi esprimono stanno in quelle pagine
Che mi ignorano, non in ciò che ho scritto.
Meglio così. Le voci dei morti
Mi diranno per sempre.”
Jorge Luis Borges. “La rosa profonda (I Meridiani).”

martedì 21 agosto 2018


L'UOMO CHE DONA GLI ANNI
 Scrive Canetti che il dover lasciare un giorno il nostro corpo a questo mondo senza più noi dentro è un atto di pura ingiustizia perché non viviamo abbastanza, non ci è concesso abbastanza tempo per farci valere. [...]Ho messo insieme una biblioteca che mi durerà più di trecento anni e tutto quello di cui ho ancora bisogno adesso sono questi anni[...]

L'UOMO CHE DONA GLI ANNI 
L’uomo che dona gli anni, un benefattore
propri anni come somma di riscatto per gli altri. Un uomo che dona a certe persone, di cui intuisce il valore, alcuni anni della propria vita per allungare la loro. Gli è stata profetizzata una lunga esistenza; sa che dovrebbe arrivare a cent’anni. Decide allora, viaggiando e acquisendo informazioni dettagliate, di scoprire chi sono quelli che hanno bisogno dei suoi anni. E li distribuisce con molta oculatezza, non troppi né troppo pochi; è una professione faticosa. Nel tempo da vivere che riserva a se stesso, tocca a lui disporre sul miglior uso del proprio sacrificio. La notizia della sua strana attività si diffonde in fretta. Egli finisce così nelle mani di speculatori, che vogliono far soldi con i suoi anni e che, a tal fine, devono convincerlo di quanto valore abbia la vita dei loro clienti, di quanto essi siano in generale importanti e utili: tali clienti però altro non sono se non decrepite e insignificanti donnicciole, cariche di soldi e ancor più di avidità, quella di chi vorrebbe garantirsi qualche ridicolo annetto supplementare. Gli speculatori creanoquindi persone importanti, perché al benefattore, che è un animo puro, il denaro non interessa minimamente. E i suoi anni, essendo il loro numero limitato, diventano sempre più preziosi; quanto meno resta di quel capitale, tanto più la gente fa ressa per goderne. Si arriva a una sorta di circolazione di titoli azionari sottobanco, che passano di mano in mano e toccano quotazioni folli. Quelli che avevano beneficiato dei suoi anni all’inizio, prima che si intromettessero gli speculatori, vengono ora rintracciati e sottoposti a pressioni di ogni genere perché cedano i loro diritti. Gli anni si frantumano in mesi e settimane. Coloro che sono diventati titolari dei diritti mediante acquisto costituiscono una società con tanto di consiglio di amministrazione ed elezioni dello stesso. Il principale compito di tale società è sorvegliare il momento in cui il benefattore arriverà al termine della propria vita, a quel traguardo da tempo stabilito. Da quell’istante, la sua vita apparterrà a loro.

domenica 19 agosto 2018




“Umani respiri”
Di Gianfranco Giudice
Attaccate alla vita
foglie sui rami 
che il vento le porta
occhi di un uomo
in un letto che soffre
eppure guardano oltre
fu come un padre 
ora lo guardo 
con le carezze gli parlo.  
   
              *
Sei vecchio, amico
mi ero appena girato
neppure avevo capito
che il tempo era finito
siamo vecchi amici
tutta la vita 
davanti è passata
         
              *
Il vecchio non sa
foglia sul ramo
frutto della pianta
radici nella terra
filo d’erba nel prato
vento nel vento
nuvola in cielo
pesce nel mare
conchiglia di scoglio
il vecchio non sa
differenza che passa
è vita eterna che sta.

                *
Un uomo sulla bicicletta
sta appoggiato al muro
pensa da solo se stesso 
poi se ne va pedalando
sulla strada della solitudine
dura e nera come l'asfalto. 

                *
Seduto su una panchina
osservo il sole che passa
qualche persona si siede
ogni tanto mi fa compagnia
come nella sala d’aspetto della ferrovia
pure due cani si fermano
insieme al loro padrone
l’orologio del campanile 
segna il tempo che passa
mentre sfoglio pagine di filosofia.
Foto.Menageot Francois Guillaume "La morte di Leonardo da Vinci"