venerdì 21 settembre 2018

MERAVIGLIA E FILOSOFIA
di Gianfranco Giudice
Che la filosofia nasca dalla meraviglia, dallo stupore per l’ignoto che si vuole conoscere per puro amore del sapere, è oramai un luogo comune a partire da un celebre luogo aristotelico. Meno comune è riflettere su cosa esattamente questo significhi. Quando dici questa cosa ai ragazzi, questi pensano subito al bello, alle cose straordinarie, meravigliose appunto. Sì perché “meraviglia” con valore di aggettivo, ovvero “meraviglioso”, comunica immediatamente qualcosa di bello, bellissimo. “Meraviglia” però è anche sostantivo, in tal caso può essere sia bella che brutta la meraviglia, anche traumatica e angosciante. Ecco la filosofia forse ha più a che fare con questo, come il termine greco usato da Aristotele per meraviglia suggerisce (thauma). Benedetto Croce parlando del suo lavoro filosofico diceva nei “Taccuini” privati che fosse una lenta elaborazione dell’angoscia legata alla morte. La filosofia dunque è molto meno teorica e disinteressata di quel che si pensi comunemente, sarebbe solo una risposta (tra le tante possibili) all'angoscia di fronte al nulla.

(Aristotele, Metafisica, 982b-983a, trad. di Giovanni Reale)
Da tutto ciò che si è detto, dunque, risulta che il nome che è oggetto della nostra indagine si riferisce ad una unica e medesima scienza: essa deve speculare intorno ai principi primi e alle cause: infatti, anche il bene e il fine delle cose è una causa.
Che, poi, essa non tenda a realizzare qualcosa, risulta chiaramente anche dalle affermazioni di coloro che per primi hanno coltivato filosofia. Infatti gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli astri, o i problemi riguardanti la generazione dell’intero universo. Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere; ed è per questo che anche colui che ama il mito è, in certo qual modo, filosofo: il mito, infatti, è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia. Cosicché, se gli uomini hanno filosofato per liberarsi dall’ignoranza, è evidente che ricercarono il conoscere solo al fine di sapere e non per conseguire qualche utilità pratica. E il modo stesso in cui si sono svolti i fatti lo dimostra: quando c’era già pressoché tutto ciò che necessitava alla vita ed anche all’agiatezza ed al benessere, allora si incominciò a ricercare questa forma di conoscenza. É evidente, dunque, che noi non la ricerchiamo per nessun vantaggio che sia estraneo ad essa; e, anzi, è evidente che, come diciamo uomo libero colui che è fine a se stesso e non è asservito ad altri, così questa sola, tra tutte le altre scienze, la diciamo libera: essa sola, infatti, è fine a se stessa.
Per questo, anche, a ragione si potrebbe pensare che il possesso di essa non sia proprio dell’uomo; infatti, per molti aspetti la natura degli uomini è schiava, e perciò Simonide dice che “Dio solo può avere un tale privilegio” e che non è conveniente che l’uomo ricerchi se non una scienza a lui adeguata. E se i poeti dicessero il vero, e se la divinità fosse veramente invidiosa, è logico che se ne dovrebbero vedere gli effetti soprattutto in questo caso, e che dovrebbero essere sventurati tutti quelli che eccellono nel sapere. In realtà, non è possibile che la divinità sia invidiosa, ma, come afferma il proverbio, i poeti dicono molte bugie; né bisogna pensare che esista altra scienza più degna di onore. Essa, infatti, fra tutte, è la più divina solo in questi due sensi: a) o perché essa è scienza che Dio possiede in grado supremo, b) o, anche, perché essa ha come oggetto le cose divine. Ora, solo la sapienza possiede ambedue questi caratteri: infatti, è convinzione a tutti comune che Dio sia una causa e un principio, e, anche, che Dio, esclusivamente o in grado supremo, abbia questo tipo di scienza. Tutte le altre scienze saranno più necessarie di questa, ma nessuna sarà superiore.

982b[1] τοιαύτη δ' ἐστὶν ἡ τοῦ μάλιστα ἐπιστητοῦ̓, μάλιστα δ' ἐπιστητὰ τὰ πρῶτα καὶ τὰ αἴτια ̔διὰ γὰρ ταῦτα καὶ ἐκ τούτων τἆλλα γνωρίζεται ἀλλ' οὐ ταῦτα διὰ τῶν ὑποκειμένων̓, ἀρχικωτάτη δὲ τῶν ἐπιστημῶν, καὶ [5] μᾶλλον ἀρχικὴ τῆς ὑπηρετούσης, ἡ γνωρίζουσα τίνος ἕνεκέν ἐστι πρακτέον ἕκαστον: τοῦτο δ' ἐστὶ τἀγαθὸν ἑκάστου, ὅλως δὲ τὸ ἄριστον ἐν τῇ φύσει πάσῃ. ἐξ ἁπάντων οὖν τῶν εἰρημένων ἐπὶ τὴν αὐτὴν ἐπιστήμην πίπτει τὸ ζητούμενον ὄνομα: δεῖ γὰρ ταύτην τῶν πρώτων ἀρχῶν καὶ αἰτιῶν εἶναι θεωρητικήν: [10]καὶ γὰρ τἀγαθὸν καὶ τὸ οὗ ἕνεκα ἓν τῶν αἰτίων ἐστίν. ὅτι δ' οὐ ποιητική, δῆλον καὶ ἐκ τῶν πρώτων φιλοσοφησάντων: διὰ γὰρ τὸ θαυμάζειν οἱ ἄνθρωποι καὶ νῦν καὶ τὸ πρῶτον ἤρξαντο φιλοσοφεῖν, ἐξ ἀρχῆς μὲν τὰ πρόχειρα τῶν ἀτόπων θαυμάσαντες, εἶτα κατὰ μικρὸν οὕτω προϊόντες [15] καὶ περὶ τῶν μειζόνων διαπορήσαντες, οἷον περί τε τῶν τῆς σελήνης παθημάτων καὶ τῶν περὶ τὸν ἥλιον καὶ ἄστρα καὶ περὶ τῆς τοῦ παντὸς γενέσεως. ὁ δ' ἀπορῶν καὶ θαυμάζων οἴεται ἀγνοεῖν ̔διὸ καὶ ὁ φιλόμυθος φιλόσοφός πώς ἐστιν: ὁ γὰρ μῦθος σύγκειται ἐκ θαυμασίων̓: ὥστ' εἴπερ διὰ [20] τὸ φεύγειν τὴν ἄγνοιαν ἐφιλοσόφησαν, φανερὸν ὅτι διὰ τὸ εἰδέναι τὸ ἐπίστασθαι ἐδίωκον καὶ οὐ χρήσεώς τινος ἕνεκεν. μαρτυρεῖ δὲ αὐτὸ τὸ συμβεβηκός: σχεδὸν γὰρ πάντων ὑπαρχόντων τῶν ἀναγκαίων καὶ πρὸς ῥᾳστώνην καὶ διαγωγὴν ἡ τοιαύτη φρόνησις ἤρξατο ζητεῖσθαι. δῆλον οὖν ὡς δι' [25] οὐδεμίαν αὐτὴν ζητοῦμεν χρείαν ἑτέραν, ἀλλ' ὥσπερ ἄνθρωπος, φαμέν, ἐλεύθερος ὁ αὑτοῦ ἕνεκα καὶ μὴ ἄλλου ὤν, οὕτω καὶ αὐτὴν ὡς μόνην οὖσαν ἐλευθέραν τῶν ἐπιστημῶν: μόνη γὰρ αὕτη αὑτῆς ἕνεκέν ἐστιν. διὸ καὶ δικαίως ἂν οὐκ ἀνθρωπίνη νομίζοιτο αὐτῆς ἡ κτῆσις: πολλαχῇ γὰρ ἡ φύσις δούλη τῶν [30] ἀνθρώπων ἐστίν, ὥστε κατὰ Σιμωνίδην "θεὸς ἂν μόνος τοῦτ' ἔχοι γέρας", ἄνδρα δ' οὐκ ἄξιον μὴ οὐ ζητεῖν τὴν καθ' αὑτὸν ἐπιστήμην. εἰ δὴ λέγουσί τι οἱ ποιηταὶ καὶ πέφυκε φθονεῖν τὸ θεῖον, 983a[1] ἐπὶ τούτου συμβῆναι μάλιστα εἰκὸς καὶ δυστυχεῖς [2] εἶναι πάντας τοὺς περιττούς. ἀλλ' οὔτε τὸ θεῖον φθονερὸν ἐνδέχεται εἶναι, ἀλλὰ κατὰ τὴν παροιμίαν πολλὰ ψεύδονται ἀοιδοί, οὔτε τῆς τοιαύτης ἄλλην χρὴ νομίζειν τιμιωτέραν. [5] ἡ γὰρ θειοτάτη καὶ τιμιωτάτη: τοιαύτη δὲ διχῶς ἂν εἴη μόνη: ἥν τε γὰρ μάλιστ' ἂν ὁ θεὸς ἔχοι, θεία τῶν ἐπιστημῶν ἐστί, κἂν εἴ τις τῶν θείων εἴη. μόνη δ' αὕτη τούτων ἀμφοτέρων τετύχηκεν: ὅ τε γὰρ θεὸς δοκεῖ τῶν αἰτίων πᾶσιν εἶναι καὶ ἀρχή τις, καὶ τὴν τοιαύτην ἢ μόνος ἢ μάλιστ' [10] ἂν ἔχοι ὁ θεός. ἀναγκαιότεραι μὲν οὖν πᾶσαι ταύτης, ἀμείνων δ' οὐδεμία.
δεῖ μέντοι πως καταστῆναι τὴν κτῆσιν αὐτῆς εἰς τοὐναντίον ἡμῖν τῶν ἐξ ἀρχῆς ζητήσεων. ἄρχονται μὲν γάρ, ὥσπερ εἴπομεν, ἀπὸ τοῦ θαυμάζειν πάντες εἰ οὕτως ἔχει, καθάπερ τῶν θαυμάτων ταὐτόματα [τοῖς μήπω τεθεωρηκόσι [15] τὴν αἰτίαν] ἢ περὶ τὰς τοῦ ἡλίου τροπὰς ἢ τὴν τῆς διαμέτρου ἀσυμμετρίαν ̔θαυμαστὸν γὰρ εἶναι δοκεῖ πᾶσι εἴ τι τῷ ἐλαχίστῳ μὴ μετρεῖταἰ: δεῖ δὲ εἰς τοὐναντίον καὶ τὸ ἄμεινον κατὰ τὴν παροιμίαν ἀποτελευτῆσαι, καθάπερ καὶ ἐν τούτοις ὅταν μάθωσιν: οὐθὲν γὰρ [20] ἂν οὕτως θαυμάσειεν ἀνὴρ γεωμετρικὸς ὡς εἰ γένοιτο ἡ διάμετρος μετρητή. τίς μὲν οὖν ἡ φύσις τῆς ἐπιστήμης τῆς ζητουμένης, εἴρηται, καὶ τίς ὁ σκοπὸς οὗ δεῖ τυγχάνειν τὴν ζήτησιν καὶ τὴν ὅλην μέθοδον.
ἐπεὶ δὲ φανερὸν ὅτι τῶν ἐξ ἀρχῆς αἰτίων δεῖ λαβεῖν [25] ἐπιστήμην ̔τότε γὰρ εἰδέναι φαμὲν ἕκαστον, ὅταν τὴν πρώτην αἰτίαν οἰώμεθα γνωρίζειν̓, τὰ δ' αἴτια λέγεται τετραχῶς, ὧν μίαν μὲν αἰτίαν φαμὲν εἶναι τὴν οὐσίαν καὶ τὸ τί ἦν εἶναι ̔ἀνάγεται γὰρ τὸ διὰ τί εἰς τὸν λόγον ἔσχατον, αἴτιον δὲ καὶ ἀρχὴ τὸ διὰ τί πρῶτον̓, ἑτέραν δὲ τὴν ὕλην [30]καὶ τὸ ὑποκείμενον, τρίτην δὲ ὅθεν ἡ ἀρχὴ τῆς κινήσεως, τετάρτην δὲ τὴν ἀντικειμένην αἰτίαν ταύτῃ, τὸ οὗ ἕνεκα καὶ τἀγαθόν ̔τέλος γὰρ γενέσεως καὶ κινήσεως πάσης τοῦτ' ἐστίν̓, τεθεώρηται μὲν οὖν ἱκανῶς περὶ αὐτῶν ἡμῖν ἐν τοῖς περὶ φύσεως

mercoledì 19 settembre 2018


È IL FALLIMENTO DI UNA STORIA LUNGA
di Gianfranco Giudice

[...] Oggi quel che serve di più è il senso del limite e l'umiltà.[...]

Cosa c’è di più facile oggi nella politica italiana? Sparare a zero sul PD, perché significa, come si suol dire, sparare sulla Croce Rossa, oppure su un reparto psichiatrico, stando alle parole di un ex ministro di quel partito. Tutto ciò è troppo semplice ed in fondo autoassolutorio, perché il fallimento del PD è anche il fallimento di una storia lunga, quella della sinistra, del socialismo e della socialdemocrazia nelle sue diverse anime, oggi morte. Ma è anche il fallimento della cosiddetta sinistra radicale e antagonista, dov’è oggi? Che consensi ha nel paese?  Storicamente nella sinistra radicali/massimalisti  e rifomisti, comunisti e socialisti/ socialdemocratici si tengono a vicenda e se un polo cade, anche l’altro cade, per dirlo coi latini simul stabunt vel simul cadent, insomma è un legame dialettico. Non è un caso che la fine del PCI fu seguita dopo poco anche dalla fine del PSI.  E’ il fallimento dell’illusione del centro-sinistra, di cui l’Ulivo del tempo che fu è stato un fuoco di paglia. E’ la storia del fallimento di una storia iniziata col cosiddetto crollo del comunismo nel 1989. Renzi in fondo a modo suo  è stato l’ultimo capitolo di questa onda lunga che è andata a sbattere definitivamente il 4 marzo scorso. La catastrofe è ancora più grande se osserviamo chi governa oggi l’Italia, un misto di incapacità e prepotenza che preludono ad un disastro per usare le parole crude di Giampaolo Pansa, ma questo purtroppo dice molto anche di noi. Pur non essendo mai  stato nel PD, e neppure averlo votato, mi sento parte di questa storia fallimentare, e non riesco davvero a capire tanti amici e compagni che parlano come se avessero la verità in tasca, come se avessero visto sempre dalla parte giusta e oggi continuano a fare lezione. Oggi quel che serve di più è il senso del limite e l'umiltà. Personalmente non ho alcuna lezione da fare a nessuno, perché mi sento io stesso responsabile di questo fallimento, essendo stato parte seppur piccola di una storia collettiva oggi giunta al capolinea. Certamente il presente è il prodotto di processi molto più grandi di noi, l’Europa, il mondo. Le forze politiche non nascono a tavolino, neppure  sui tavoli delle  trattorie, sono frutto di processi reali, come lo sono a loro modo le forze che oggi governano l’Italia. Le prossime elezioni europee saranno un processo reale, ma anche  una catastrofe per la sinistra in Europa, ma “catastrofe” dal greco “katastrophé” significa capovolgimento, dunque la possibilità di qualcosa di inedito nel futuro che abbia a che vedere con la giustizia sociale, l’uguaglianza e l’internazionalismo.

martedì 18 settembre 2018

LA VETTA
Mario Luzi
Il termine, la vetta
di quella scoscesa serpentina
ecco si approssimava,
ormai era vicina,
ne davano un chiaro avvertimento
i magri rimasugli
della tappa pellegrina
su alla celestiale cima.
Poco sopra
alla vista
che spazio si sarebbe aperto
dal culmine raggiunto
immaginarlo
già era beatitudine
concessa
più che al suo desiderio, al suo tormento.
Sì l'immensità, la luce
ma quiete vera ci sarebbe stata?
Lì avrebbe la sua impresa
avuto il luminoso assolvimento
da se stessa nella trasparente spera
o nasceva una nuova impossibile scalata.
Questo temeva, questo desiderava.
https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=2161824667222575&id=422578304480562

Immagine: Dipinto di John Atkinson Grimshaw

NEOLINGUA: "PACE FISCALE"
di Filippo Di Gregorio
Ora hanno immaginato di chiamare il condono fiscale (cosa massimamente cattiva, anzi pessima) con l'espressione "pace fiscale" (non si capisce perché ma dovrebbe essere un fatto positivo).
Ecco cosa scriveva George Orwell ("1984") di questo uso del linguaggio.
«Lo scopo principale a cui tende la Neolingua è quello di restringere al massimo la sfera d’azione del pensiero. Alla fine renderemo lo psicoreato letteralmente impossibile, perché non ci saranno parole con cui poterlo esprimere. Ogni concetto di cui si possa aver bisogno sarà espresso da una sola parola, il cui significato sarà stato rigidamente definito, priva di tutti i suoi significati ausiliari, che saranno stati cancellati e dimenticati. A ogni nuovo anno, una diminuzione nel numero delle parole e una contrazione ulteriore della coscienza. Anche ora, ovviamente, non esiste nulla che possa spiegare o scusare lo psicoreato. Tutto ciò che si richiede è l’autodisciplina, il controllo della realtà, ma alla fine del processo non ci sarà bisogno neanche di questo.»

MI SONO GUARDATA
Di Marinella Canu

Mi sono guardata allo specchio e ho scoperto di avere molte rughe, intorno agli occhi, alla bocca, sulla fronte.
Ho le rughe perché ho avuto amici, e abbiamo riso, abbiamo riso tanto, fino alle lacrime.
E ho conosciuto l'amore, che mi ha fatto strizzare gli occhi di gioia.
Ho le rughe perché ho avuto dei figli, e mi sono preoccupata per loro fin dal concepimento, e ho sorriso a ogni loro nuova scoperta e ho passato notti a cullarli.
E poi ho pianto.
Ho pianto per le persone che ho amato e che sono andate via, per poco tempo o per sempre oppure senza sapere il perché.
Ho vegliato, trascorso ore insonni per progetti andati bene, andati male, mai partiti, per la febbre dei bambini, per leggere un libro o fare l’amore.
Ho visto posti splendidi, nuovi, che mi hanno fatto aprire la bocca stupita, e rivisto i posti vecchi, antichi, che mi hanno fatto commuovere.
Dentro a ogni solco sul mio viso, sul mio corpo, si nasconde la mia storia, le emozioni che ho vissuto, la mia bellezza più intima e se cancellassi questo, cancellerei me stessa.
Ogni ruga è un aneddoto della mia vita, un battito del mio cuore, è l’album fotografico dei miei ricordi più importanti.

(Marinella Canu)

Immagine: Dipinto di Teresa Celeste - "Volto di donna con farfalla"

domenica 16 settembre 2018


LA RAGAZZA CON LA LEICA
HELENA JANECZEK
UGO GUANDA EDITORE
Prologo
Coppie, fotografie, coincidenze

Da quando hai visto quella foto, ti incanti a guardarli. Sembrano felici, molto felici, e sono giovani, come si addice agli eroi. Belli non potresti dirlo ma neanche negarlo, e comunque non appaiono eroici per nulla. Colpa della risata che chiude i loro occhi e mette a nudo i denti, un riso non fotogenico ma cosı` schietto da renderli stupendi.
Lui ha una dentatura da cavallo e la esibisce sino alle gengive. Lei no, ma il suo canino spicca sul vuoto del dente successivo, seppure con la grazia delle piccole imperfezioni attraenti. La luce si spalma sul bianco della camicia a righe, spiove sul collo della donna. La sua pelle limpida, la diagonale dei tendini scolpita dal profilo ad-
dossato allo schienale, persino la linea curva dei braccioli,
amplificano l’energia gioiosa che si sprigiona da quella risata unisona.
Potrebbero trovarsi in una piazza ma, seduti in quelle poltroncine comode, danno piuttosto la sensazione di stare
in un parco, dove lo sfondo si amalgama in una fitta cortina
di foglie d’alberi. Ti chiedi, allora, se il riquadro che hanno
tutto per sé possa essere stato il giardino di una villa della
grande borghesia, fuggita oltre confine da quando Barcellona e` in fermento rivoluzionario. Ora appartiene al popolo
quel refrigerio sotto gli alberi: a loro due che si ridono addosso a occhi chiusi.
La rivoluzione e` un giorno qualsiasi in cui si esce a fer-
mare il golpe che vuole soffocarla, ma senza rinunciare a una tregua che fa festa. Portare il mono azul come un abitino estivo, infilare una cravatta sotto la salopette, per il de-msiderio di mostrarsi belli agli occhi dell’altro. Lì non serve il mastodontico fucile passato per le mani di chissà quanta in-
felice soldataglia, prima che lo ricevesse il miliziano anar-
chico che ora non puo` sfiorare il collo luminoso della sua donna.
A parte quell’intralcio, nell’attimo presente sono liberi
da tutto. Hanno già vinto. Se vanno avanti a ridere così,
se continuano a essere cosı` felici, non sembra troppo ur-
gente saper estrarre un colpo da quell’arma vetusta. Prevarra` chi e` nel giusto. Adesso possono godersi il sole temperato dalle latifoglie, la compagnia della persona amata.
Il mondo e` giusto che lo sappia. Deve vedere in un colpo
d’occhio che da una parte c’è la guerra vecchia di secoli, i
generali sbarcati dal Marocco con le feroci truppe merce-
narie, dall’altra parte gente che desidera difendere quel
che sta vivendo, e si desidera l’un l’altra.
A Barcellona, in quel principio d’agosto del 1936, stanno
arrivando in tanti per unirsi al primo popolo d’Europa che
non ha esitato ad armarsi contro il fascismo. Raccontano la
citta` in subbuglio nella lingua universale delle immagini, che
dalle pagine esposte nelle edicole di mezzo mondo, affisse
nelle sedi di partito e sindacali, sventolate dagli strilloni, riu-
tilizzate per avvolgere uova e prodotti della terra, saltano in
faccia persino a chi non compra o non legge i giornali.
I barcellonesi accolgono fraternamente gli stranieri ac-
corsi per combattere al loro fianco, e si stanno abituando
a quella Babele che si aggira ovunque, assaporando il gusto
di salutarli con compañero e compañera, per poi magari aiutarsi a gesti, suoni onomatopeici, dizionari in formato tasca.
I fotografi, che non sono in attesa di armi e addestramento, fanno parte di quel continuo afflusso alle milizie volontarie. Sono qui per noi, sono come noi, compagni, comprende chi li vede all’opera e li lascia lavorare.
Ma i due miliziani della fotografia sono cosı` rapiti dalla loro risata da non accorgersi di nulla. Chi li ritrae si sposta, scat-
ta di nuovo, rischia di tradirsi per riprendere piu` da vicino
quella coppia unita dal sorriso largo, molto intimo.
La foto appare quasi identica alla prima, salvo che qui di-
venta visibile che l’uomo e la donna sono talmente invaghiti
da non curarsi della vita che si svolge attorno. La forbice dei
passi di qualcuno che, tagliando il selciato alle loro spalle,
rivela che non si trovano in un parco, ma forse addirittura
sulle Ramblas, dove si raduna la citta` in mobilitazione. La
poltroncina accanto, dove e` seduta un’altra donna.
Della sua testa non vedi che un ciuffo di capelli crespi,
del corpo soltanto un braccio infagottato. Avresti invece
bisogno del suo sguardo, lo sguardo di chi ha visto da vici-
no cio` che puoi ricavare dalle immagini, ma che si sottrae ai
tuoi occhi.
Il fotografo che ha catturato i due compagni non e` da
solo. Sono un uomo e una donna, appostati sul lato destro
della strada, uno di fianco all’altra.
Poi scopri la foto di una donna seduta nelle stesse poltron-
cine e stenti a credere che possa esistere una fortuna così
sfacciata. Sinche´, in alto a destra, noti una fetta del profilo del giovane miliziano che nelle altre fotografie sorride estasiato alla sua ragazza bionda.

Questa operaia
che tiene una rivista di moda nelle mani dissonanti e un fucile tra le gambe, non pare davvero il tipo che si fa prendere da curiosita` pettegole per l’apparizione di una coppia di fotografi che immortala anche lei, dopo aver gareggiato a non farsi sfuggire la risata fragorosa dei compagni innamorati. No, ti dici, una cosı` vede e non vede le cose che non la riguardano. Rimane un po’ all’erta, perche´ le hanno dato un’arma, pero` vuole anzitutto gustarsi quell’attimo di pace.
Ma qualche giorno dopo – cosı` t’immagini – quella miliziana arriva alla spiaggia dove si fa l’addestramento e
ritrova i due fotografi. Lui con quell’aria da mezzo gitano o comunque alla buona, lei quasi una figurina uscita dalla rivista letta sulle Ramblas, ma con una ingombrante fotocamera appesa al collo che le arriva alle
anche. Adesso la donna e` curiosa: chi sono quei due? Da dove vengono? Hanno una tresca, come le tante che fioriscono in questo clima di mobilitazione e piena estate e liberta`, o sono marito e moglie?
Qualcosa di simile, visto che, affiatati e coordinati, si dicono qualche parola in una lingua dura. Lei e` sorridente e
svelta come un gatto, ma piu` composta quando impartisce
istruzioni su come le compagne devono posizionare le loro
armi. Tutti e due si danno molto da fare, sono euforici e allegri, spartiscono persino le Gauloises come gesto di fratellanza e ringraziamento.
« Li ho gia` visti » interviene la miliziana, quando i fotografi si allontanano e comincia uno scambio concitato di commenti, ma nessuno le da` retta. Le notizie interessanti le ha il compagno giornalista che li ha portati lı`. Sono appena arrivati da Parigi e hanno gia` rischiato il collo perche´ il bimotore ha fatto un atterraggio d’emergenza
sulla Sierra. Un pezzo grosso della stampa francese si e`
rotto il braccio, ma loro due neanche un graffio, grazie
al cielo. Lui, che si chiama Robert Capa, dice che Barcellona e` magnifica e gli ricorda la sua citta` natale, solo che a Budapest non puo` tornare finché  è in mano all’ammi-
raglio Horthy e al suo regime reazionario. Gerda Taro, la
sua compagna, deve essere un’alemana, una di quelle gio-
vani emancipate che non si sono sottomesse neanche a Hitler.
« Si puo` sapere quando escono le foto? » lo incalzano le
miliziane. Il giornalista promette di informarsi, non pero` dai fotografi che sono in procinto di partire per le zone in cui si
combatte: prima vanno al fronte d’Aragona e poi giù, in Andalusia.
A un anno da quelle fotografie, a Barcellona ci sono stati i primi diciotto morti sotto i palazzi sventrati dal fuoco dell’incrociatore Eugenio di Savoia. Le milizie sono state sciolte, la miliziana e` tornata in fabbrica. Magari cuce le uniformi dell’Ejército Popular, dove gli anarchici devono obbedire senza discutere e per le donne non c’e` piu` posto.
Ma negli stabilimenti si continua ad ascoltare la radio, a commentare le notizie, a farsi coraggio.
Allora ti figuri che qualcuno legga a voce alta un quotidiano che porta la data del 27 luglio 1937. C’e` scritto che Madrid resiste eroicamente, anche se con l’aiuto criminale dell’aviazione tedesca e italiana il nemico e` avanzato verso Brunete, dove e` successo un fatto tragico. E` caduta una fotografa venuta da lontano a immortalare la lotta del popolo spagnolo, un tale esempio di valore che il generale
Enrique Líster si e` inchinato alla sua bara e il poeta Rafael
Alberti ha dedicato le parole piu` solenni alla compagna
Gerda Taro.
« Non e` quella che ci ha fotografate sulla spiaggia? »
esclama un’operaia, richiamando l’attenzione delle ragazze che sull’uscio del capannone si sono messe a parlare dei fatti propri. Sı`, e` proprio lei: nell’articolo c’e` scritto pure dell’« ilustre fotografo hungaro Robert Capa que recibió en París la trágica noticia ».
Le operaie della fabbrica di uniformi sono attonite, toc-
cate dai ricordi.

Il sole sulle spalle, la sabbia nelle scarpe, le risate quando
una di loro caracollava sulla battigia sbilanciata dal rinculo
dell’arma e, appena un’altra centrava il bersaglio, il boato
di esultanza. E poi quella straniera che – lo capivi subito –
era stata una senyoreta dalle manine morbide, e avrebbe
potuto restarsene a Parigi a immortalare le attrici e manne-
quin elegantissime, e invece era venuta a fotografare loro
che imparavano a sparare sulla spiaggia. Le ammirava pure, sembrava quasi che un pochino le invidiasse. E adesso e`
morta come un soldato, mentre loro si rovinano la schiena
nella fabbrica, e poi corrono a cercare da mangiare, ma so-
no ancora vive. Non e` giusto. Che crepino all’inferno, i fascisti.
Tra le piu` colpite dalla notizia c’e` la donna che era seduta con quella rivista di moda sulle Ramblas. La commozione che l’afferra in quel momento, con il mozzicone riacceso
che le affumica le dita, le macchine per cucire che mitra-
gliano alle sue spalle, non e` solo quella di chi e` scossa di ricono-scenza per il sacrificio di uno scricciolo arrivato da un
paese freddo. In lei e` riaffiorata, nitida, un’immagine colta
svagatamente un anno prima, alzando gli occhi dalla sua
lettura: un uomo moro e una biondina con il caschetto fo-
tografano una biondina con il caschetto e un uomo moro
che ridono felici. La biondina scatta a testa inclinata con
una fotocamera che le cela la fronte. L’uomo moro lavora
con una macchina cosı` piccola da lasciar scoperte le soprac-
ciglia, folte come quelle del miliziano. Poi, appena finito di
scattare, ridono anche loro, esuberanti e complici. Persino
gli occhi di un’estranea come lei notano che quei due si sono riconosciuti negli altri due. E sono altrettanto innamorati.
Una piccola coincidenza ha voluto che i fotografi, appena
sbarcati a Barcellona, si fossero imbattuti in una coppia a
cui somigliavano. Magari era pure un frutto del caso che
Gerda Taro fosse riuscita a realizzare la foto di una risata
al suo apice, mentre Robert Capa perdeva qualche secondo
forse aggiustando il grandangolo. Se lei avesse lavorato con la macchina con cui le aveva insegnato a fotografare – la Leica – anche i suoi negativi avrebbero avuto il formato ret-
tangolare che consente di attribuire a Capa la seconda foto
della coppia e quella della donna con la rivista. Gerda non
avrebbe ottenuto la perfetta centratura dell’immagine qua-
drata, non si fosse comprata una reflex economica di medio
formato, una Reflex-Korelle. Ma dopo sei mesi le comuni
entrate erano sufficienti perche´ lui potesse procurarsi una 
Contax e affidare la compagna dei suoi anni affamati, la sua
Leica, alla ragazza che lo aveva incoraggiato a lasciarseli alle
spalle.
Soldi non ne avevano al momento di partire da Parigi – lei all’inizio della sua avventura come fotografa, lui senza un in-
gaggio pur cominciando a essere richiesto – ma possedevano una fiducia inesauribile che si sarebbero fatti un nome.
Vivere a Parigi, senza nient’altro che una Leica, era l’arte
di arrangiarsi giorno dopo giorno. Avrebbero trovato piu`
lavoro sotto pseudonimo, si erano convinti Andre´ Friedmann e Gerda Pohorylle. Si erano persino inventati la storia di Robert Capa che possedeva quello che mancava a loro: ricchezza, successo, un visto illimitato sul passaporto di
un paese riverito in virtu` di una potenza non funestata da
guerre e dittature. Uniti in una societa` segreta che come capitale di partenza aveva un alias, erano ancora piu` vicini
nella vita, piu` temerari nei sogni da inseguire nel futuro.
Poi era finito il tempo delle favole. Da quando la Repubblica spagnola era sotto attacco, la sola bravura era trovarsi
al momento giusto nel posto giusto per catturare una realta`
che doveva scuotere, tenere viva la protesta, forzare l’intervento del mondo libero.
Ma se una fotografia parla anche di chi l’ha fatta, non possono non riflettere i loro autori le due istantanee di una coppia in cui era talmente facile specchiarsi. Nella foto di Taro, l’uomo e la donna condividono lo spazio alla pari, uniti dalla risata che si libera nell’aria, in una composizione cosı` armonica da esaltare per contrasto quell’energia debordante. La foto di Capa pone la donna al centro, ne decanta la fisicita` attraente, ma mentre s’inclina verso il com-
pagno e dalla prospettiva del suo sguardo radioso.
Camminavano l’uno accanto all’altra, adocchiarono i
due miliziani cosı` simili, cosı` beati. Ma non era il gusto di
un gioco degli specchi che li ha spinti a fotografare l’identico soggetto, purche´ uno dei due azzeccasse un’immagine
da mandare ai giornali. E` la promessa che s’invera sui volti
e sui corpi trasfigurati da quel riso felicissimo, l’utopia vissuta nel volgere di pochi istanti che rendevano quell’uomo
e quella donna liberi di tutto. Liberi sı`, e affratellati negli
ideali e nei sentimenti, ma non uguali. Robert Capa infatti
ha colto il desiderio di abbandonarsi senza ritegno l’uno all’altra, Gerda Taro una gioia spudorata che si lancia fuori a conquistare il mondo.
Erano diversi, erano complementari, in quel giorno d’agosto sottratto per sempre a quanto sarebbe accaduto dopo. Lo raccontano loro stessi, involontariamente, schietti
come il riso immortalato, attraverso quegli autoritratti ru-
bati ai loro compagni in armi, e in amore, nella breve estate
dell’anarchia, a Barcellona.

LEZIONE DI LATINO
Gianfranco Giudice
A proposito di latino, se ne parlava l'altro giorno in relazione ad una ditte di pulizie, ci sono naturalmente altri ambiti dove si trova ed è curioso e divertente, sopratutto per un non latinista e filologo come me. La parola "merenda", per esempio, viene dal verbo latino"merēre", ovvero meritare, dunque la merenda è ciò che si deve meritare. E l'aggettivo "piccolo"?  È il diminutivo di "picca", che in latino significa punta, la picca è anche la lancia, il picchetto è un paletto di legno, oppure un piccolo raggruppamento di soldati in posizione avanzata. Ma anche, ho scoperto, la punizione inflitta ai soldati piemontesi nel '700 che prevedeva di restare per ore in piedi con un piede nudo appoggiato ad un paletto aguzzo. Insomma "una piccola cosa è una puntina di cosa", come scrive il grande linguista Giacomo Devoto. Terza e ultima parola, " citofono". Parola moderna, cosa diavolo può c'entrare col vecchio latino? C'entra eccome come tantissime altre parole attuali, perché "cito" in latino significa "presto", "fono" dal greco "phoné" significa suono, dunque, il citofono è lo strumento per far giungere presto il suono della voce tra due luoghi distanti.
++×++
Anna Cornaggia
sono tantissime le parole come queste, quelle che mi piacciono di più sono quelle nei dialetti. In comasco nagot (niente) "ne guttam quidem"- neppure una goccia, fa il pari col cremonese verguta (qualcosa) "vere guttam" - proprio una goccia. Bellissime.

sabato 15 settembre 2018



LA LOBBY DELL'INDIGNICAZZONE
Di Sara Bolzani
3 ottobre 2017
Forse il complottismo non è tutta fuffa. Forse qualche setta segreta qua e là esiste davvero e il fatto che non lo sappiamo con certezza è la prova che il loro porco lavoro di sotterfugi lo sanno fare proprio bene.
Non dico di credere alle scie chimiche o a Dan Brown, questo no. Ma qualche perplessità comincia a sorgermi, perbacco. In fondo io leggo tanto, mi documento, studio, approfondisco in internet che, si sa, ha sostituito perfino l'Università della Vita. Quindi alla fine ho diritto a formulare le mie teorie, perché non ho più solo una laurea, ho un dottorato di ricerca a vanvera e un doppio master carpiato con avvitamento. Dai, lo dico.
Mi sono convinta che esiste una lobby della indignazione a casaccio. Un gruppo occulto, i cui membri lavorano in gran segreto (e molto bene, va riconosciuto) per suscitare sdegno anche di fronte al puro nulla. Ombre, capaci di risvegliare il moralizzatore sopito in tutti noi e dileguarsi proprio un attimo prima che sia possibile chiedergli se è poi vero che la Ferragni è incinta. Tra l'altro peccato, poteva nascerne una grandiosa indignazione di gruppo su questi Vip che uniscono con incoscienza patrimoni economici e genetici.
Io la chiamo la LOBBY DELL'INDIGNICAZZONE.
Penso ci siano loro dietro il 90% delle discussioni isteriche che circolano sui social. Arrivano, accendono la miccia e via! più veloci della luce verso la prossima polemica superflua. I loro capolavori sono sotto gli occhi di tutti, continuamente. Vediamoli insieme, amici complottisti.
L'incenerimento da Buondì
La pubblicità del Buondì è ormai questione nota e sviscerata in tutti i suoi superflui aspetti. Ho avuto la fortuna di essere connessa alla sua prima circolazione sul web, ho potuto gustare lo sdegno di tante donne e madri di fronte all'incenerimento della mamma appassionata di ikebana. Adesso che l'infiltrato della lobby malefica si è già spostato altrove, riflettete con me amiche indignate. La pubblicità si apre con una bambina bionda e petulante, che spara alla madre un pistolotto su una colazione sana ma golosa, il tutto mantenendo una paresi facciale da nervo trigemino reciso. A lei risponde questa madre mechata e phonata, che di professione infilza fiori senza ragione, che invece di invitarla ad andare a giocare dove ci sono i tombini scoperchiati (cit.) le risponde, condiscendente ed irritante, che una colazione così non esiste e che Mazinga Zeta la pialli con un meteorite se esiste. Un tipica imprecazione di uso comune. Inaspettatamente (...) la signora dei fiori recisi finisce sotto un sassone incandescente.
Ora: tutto ciò fa pensare ad una offesa con vilipendio della figura femminile e materna? O non fa invece pensare ad una fiacca presa per i fondelli di 40 anni di pubblicità leziose a base di famiglie inamidate, che invece di rotolare giù dal letto grugnendo saltellano deliziose per casa, con cartelle e cravatte coordinate, addentando pezzi di polistirolo decorati con cioccolato ai conservanti? Ci siamo capite.
L'incenerimento dell'incenerimento da Buondì
Come detto, l'indignazione iniziale è già sopita, qualche donna si è ritrovata urlante con un reggiseno bruciato in mano mentre tutti già sghignazzavano, costretta a colpi di tosse e frasi imbarazzate. E dove è finito l'infiltrato della lobby, l'accenditore di micce a tradimento?
Come al solito, mentre ancorava infuriava lo sdegno più inutile, l'infiltrato è filato via, passando direttamente all'altro fronte e accendendo lo sdegno dello sdegno: come avete potuto, stolti, indignarvi per una simile scemenza? E via di contro commenti e contro post in cui i pubblicitari del Buondì sono passati dall'essere maschilisti arretrati e possibili fomentatori di femminicidio (giuro, l'ho letto), all'essere geni all'avanguardia che hanno abbattuto decenni di maschilismo arretrato e di fomentazione del femminicidio.
Naturalmente ora si sta spegnendo anche la contro indignazione. Ma io ho un sospetto sulla prossima mira dell'infiltrato: credo abbia puntato tutto sull'ultima versione della pubblicità, in cui ad essere asfaltato è il simpatico postino (personaggio di fantasia, la scienza ci insegna che i postini non sanno sorridere). Quindi a breve la rivolta pro postini e, più in generale, pro onesti lavoratori, schiacciati da questa reclame organizzata dai poteri forti e che certo non sta dalla parte degli sfruttati. Perché i padroni ci vogliono tutti piatti, come sogliole cosmiche.
E poi (come mi chiede sempre mia figlia)?
Dove altro arriveremo? Non so, ma ho un suggerimento per prendere in contropiede l'infiltrato della lobby: nella prossima pubblicità la bambina petulante e con paresi mandiamola a parlare con i dirigenti di Trenitalia. Sospetto che l'unica indignazione possibile sarà perché il meteorite non era abbastanza rovente.
Quindi, che ne penso? Penso che indignarsi sia una delle attività più inutili e che qualcuno se ne sia accorto già da un po', ad esempio De Andrè. Ricordate il testo della canzone "Don Raffaè"?
Prima pagina venti notizie
ventuno ingiustizie e lo Stato che fa
si costerna, s'indigna, s'impegna
poi getta la spugna con gran dignità
Ecco. Solo che anche per gettare la spugna con dignità ci vuole un certo talento.