lunedì 10 settembre 2018


(Armonia in rosa e grigio).
Estratto da DIARIO
Guido Morselli
QUADERNO I maggio 1938-novembre 1943
  
Dovevo mutare il tono stesso dei nostri rapporti, rivoluzionarne la natura. Con lei ero sempre stato spontaneo; lo ero stato anche troppo. M’ero mostrato nella mia naturalezza volubile, senza infingimenti senza, anzi, che mai mi sfiorasse il sospetto che con lei mi bisognasse correggermi o contenermi. A volta a volta ero stato, secondo il mio umore mutevole, petulante e bizzarro come un bambino, querulamente lamentoso o fastidiosamente vivace; oppure - quasi mi ritenessi investito verso di lei di una missione pedagogica, ero stato intransigente e apostolico, ostinato a volerla sottomessa a regole e precetti attinti al fondo pedantesco del mio carattere; ero stato, nelle esplosioni della mia sensualità, dispotico sino alla ossessione. Peggio ancora. A quella tensione deliziosa che un tempo in presenza di lei acuiva tutte le mie facoltà, avevo lasciato subentrare uno stato di pigro rilassamento e torpore: non mi dispiaceva di apparirle dimesso, comune, sciatto. I miei rapporti con lei erano scaduti a una coniugalesca domesticità, come se la consuetudine avesse già ottuso in me ogni verace interesse, e il suo amore fosse per me un dato di fatto, qualcosa di doveroso e di definitivamente acquisito.

  Il quesito che mi si pose, quando mi ravvidi, fu questo: se dovessi mutare d’un tratto, o ritornare progressivamente al mio contegno d’un tempo. Nel primo caso le avrei fatto misurare quasi sensibilmente tutta la stoltezza dell’atteggiamento a cui reagivo, e le avrei dato l’impressione di uno sforzo, di un artificio. Ma altrimenti rischiavo, per voler graduare la transizione, di non reagire abbastanza energicamente a me stesso, e di lasciarmi vincere dalla pigrizia: quella pigrizia che è fatale all’amore ben più d’ogni ingiustizia e infedeltà.

   

  Ripensando a un parente che mi era stato carissimo e che aveva avuto su di me un influsso considerevole, mi accorsi come mi fosse impossibile ripensarlo qual'era e per così dire obbiettivamente, staccando la sua figura da tutto un insieme di reminiscenze e di stati d’animo ormai lontani ed estranei al mio sentimento presente. Quell’uomo era morto parecchi anni prima, e per me tutto ciò che lo riguardava era ormai legato per sempre a quel tempo, a quella età mia: immerso nell’atmosfera di cui allora circondavo le cose. Egli era morto dunque due volte poiché con lui era morto da tempo, in me, colui che lo aveva conosciuto e che aveva trascorso con lui lunghe ore di una felice intimità. Quel sentimento aveva una sua qualità peculiare, ormai irriproducibile.

   

  Era amaramente certo che non sarebbe stato esaudito. Ma pregava perché non gli si inaridisse nel cuore la fede quando quel presentimento avesse avuto la conferma dei fatti.

   

  Mi càpita di sgomentarmi talvolta considerando lo sviluppo che ha il mio mondo spirituale, la mia vita interiore, in rapporto alla povertà presente della mia vita pratica. Ho l’impressione che codesta sproporzione non debba esser naturale. (Impressione che una più seria riflessione mi rivela falsa, per fortuna).

  (È certo però che un tempo era possibile ben altra armonia tra la mia attività e il mio pensiero, e il sentimento, o il sogno. Anche intellettualmente, potevo lavorare, produrre. E la mia vita per così dire di relazione - ivi compreso l’amore - equilibrava compiutamente il lavorìo astratto, ed egoistico, della mente e della fantasia. Adesso invece mi sento qualche volta come una pianta che continua a rivestirsi di fronde e che non mette frutto, o come una proliferazione di cellule troppo vive e prepotenti intorno a un organo atrofizzato)