UN CANE DI GOYA
Da "Lanterna del Filosofo"
Guido Ceronetti
Tra le pitture della Quinta del Sordo, di Goya, ho amato specialmente - vorrei dire esclusivamente, tolto il ritratto di Leocadia Weiss - la testa del cane. Ci sono innumerevoli cani nella pittura di Goya, cani contenti di vivere nel bel Madrid stagnante dei manolos e deimajos, il pechinese della duchessa d’Alba contento di avere una padrona capace di dar fuoco alle potenze estreme del genio, così profonda nella sua leggerezza, cani di corte, cani nella tormenta, cani contenti tra i fucili da caccia, cani giubilanti tra belle mani, cani che guardano i tori morire; non c’è dubbio che quelli siano veri cani: ma questo della Quinta non è un cane, è una visione della condizione umana. Perciò non ho scherzato con quel cane, di cui nessuno vedrà mai la coda.
Cane sepolto nella sabbia, si dice, o lottante contro la corrente: l’artista è stato vago, probabilmente non ha voluto finire avendo capito che quella testa sprofondata in una massa d’indefinita amaritudine, con sopra uno spazio enorme, forse vuoto forse popolato di esseri invisibili, forse nudo forse vestito di Dio, uno spazio che il colore strano non permette di chiamare, se non in senso profondamente interiore, cielo, era un’immagine - da non deviare verso nient’altro, da non corrompere con aggiunte e falsi completamenti - dell’infinito.
Sabbia o acqua, cenere di vulcani, onirico Vuoto, in ogni espressione della Voracità cosmica, dell’Abisso senza nome, dove si sia afferrati per i piedi e tirati giù, dove si precipiti senza fine, o che risucchi e ricopra lentamente, o cresca sommergendo, e tragga dalla gola l’invocazione disperata, il grido impressionante del Salmo 130: «Mi-mmamaqqim qeratikhà Adonai...», «De profundis clamavi ad te, Domine», lì Goya ha collocato il suo cane. Non sono luoghi, sono il Luogo umano, gli acefali visceri, i Profondi dove abitiamo. La vita di quel cane, trasposizione geniale sopra un intonaco di un grido inuguagliato, mette un bisogno addosso di mendicare, di andare mendicando, per fame che non conosce tregua, Dio. E la teologia che si manifesta in quella supplicazione canina è ancora più ristretta e povera di quella del Salmo 130, le cui magre spalle sono fatte del rame e dell’oro della teodicea e del senso del peccato ebraico e babilonese: è solo quella che nello smarrimento e nella caduta, in mancanza di ogni appiglio, spinge a cercare un aiuto concreto, che arrivi subito, ex alto.
Questo orante-cane, prigioniero dei maim rabbim, le Grandi Acque, prigioniero della Maya come l’asceta Narada quando Vishnù lo manda a cercargli dell’acqua, è così intensamente canino che nessun paradosso teologico, nessuna luce metafisica troppo sottile potrebbe dargli pace: esprime soltanto solitudine, privazione e necessità. La nostra canina fame, la nostra caninità.
Nel suo stato non so se, e a mala pena, si possa afferrare la meraviglia manzoniana «te collocò la provida - sventura infra gli oppressi»: anche per questo ci vuole un pavimento. Né si potrebbe parlare, a quel cane, dicausa sui, di amor Dei intéllectualis,cose che non allontanano il boccone amaro del sommergimento, insegnano soltanto, a noi cani, l’inevitabilità, per decreto divino, di essere sommersi. Commentava Goya il suo cinquantottesimo Capricho:«Chi viva tra gli uomini sarà fottuto irrimediabilmente; se vuole evitarlo dovrà andarsene ad abitare sui monti, e anche quando sarà là conoscerà che il vivere è solo una fottitura. (Él que viva entre los hombres serà jeringado irremediablemente; si quiere evitarlo habrà de irse a habitar los montes, y cuando esté allà conocerà también que ésto de vivir solo es una jeringa)». La suprema rappresentazione dell’uomo jeringado(da Dio, dalla vita, dagli uomini, dal genoma, da tutto) è questo cane delle Pitture Nere, questo cane illimitatamente solo. Goya il grande Moderno è un perfetto, inesorabile Antico; si occupa dell’essenziale: uomo di fronte a Dio, uomo stregato, uomo appassionato, uomo tauromaco, uomo jeringado. Come Carlo V ci fa tutti cavalieri, Goya il veggente, nel suo cane infinito, ci fa tutti jeringados. Andate al Prado, imparate che quell’occhio è il vostro, il vostro occhio di brancicanti e di sperduti, di bisognosi di ricordarvi di un creatore (Eccl. 12, 1) e di esserne ricordati, e che quella sabbia o altro dove il cane affoga è la vostra casa, la vostra città, la vostra indigeribile storia nazionale, il mondo, la sfera della vita, l’intero sistema dei sistemi solari, la vita e il sogno della vita. Come potrei dimenticarmi di quell’occhio di cane, così piccolo nel grande furore delle Pitture Nere? È il mio. Ho visto me stesso, così come sono in questo Niente dèlia vita, me stesso che lotta, col bandierino sperduto del suo sforzo, contro le forze vittoriose, tra poco, della morte, me stesso vivo e me stesso vicino a morire, il naso, l’occhio che spuntano dal lenzuolo sudato, me stesso morto, perso nella disgregazione, allontanata da un gesto sovrano, per sempre, io che non rido, io fatto animale da salmo, io che ho paura, iojeringado, io nella verità di una visione esemplare; e posso dirmi contento, come un cane della festa di San Isidro, perché l’essermi riconosciuto in quel cane tuffato in un Manzanares profondo come l’Oceano della vita e della morte, mi permette di affermare che c’è, tra i cinquecento e più che Goya ha fatto, anche il mio ritratto.
È anche uno dei suoi autoritratti, sfuggito agli eruditi e al catalogo del Prado, un autoritratto teriomorfo, più enigmatico di quello che nel Sogno della Menzogna e dell’incostanza posa la testa in uno struggimento indicibile (e per che cosa hai ghiandole, se non piangi?) sul braccio della de Alba bicefala e farfalliforme, meditazione sulla duplicità femminile che quasi è teologia. Come quel cane cerca una voce ex alto che gli annunci la salvezza, Goya nelle Grandi Acque, nelle profondità della sordità totale, cercava il suono, l’elevazione, la ricchezza della voce umana. Sordo, diagnostica il dottor Mourguet, « il ne voit que des gestes schématiques, des attitudes simplifiées ou des situations fixées dans leur brutalité sommane».Era stato egli stesso quel cane al tempo dei tradimenti, dei voltafaccia e della morte repentina della de Alba. Era stato quel cane nel tenebroso tormento della lunghissima crisi di labirintite luetica che a quarantasei anni lo atterrò a Siviglia (l’età di Baudelaire, ma il fortissimo Goya ricacciò indietro l’angelo della morte) nel 1794. E se fosse intervenuta, a salvarlo, sprofondante, la mano che salva gli oranti semitici, gli arpisti biblici, la mano che Teresa di Àvila vedeva quando ancora non gli appariva per intero la figura di Cristo, porgendogli anche il paio di occhiali che lo rendono così spirituale e circospetto nell’autoritratto di Castres? Non era legittimo il miracolo (Goya era dato spacciatissimo) per uno come lui? La Moira non poteva tagliare il suo filo, prima che l’unghia di questo leonino cane si piantasse con profondità nel secolo nuovo e annunciasse i segni dei tempi. E ancora Goya si era sentito quel cane visitando, con grande angoscia, l’ospedale dei pazzi di Saragozza, popolato di latrati sommersi, l’unica cosa che penetrasse, con echi spaventosi, nella sua sordità. Aveva visto quel cane nelle ferite scrutate e raccolte con la matita, mentre il servo Isidro gli reggeva la lanterna, dei fucilati della Moncloa.
Goya, l’unico, il nobilissimo, il profondo, si fa simile a ciascuno, a ciascuno di noi jeringados, in un volto di cane.