ULTIMO MIO SPINOZA
Da "La lanterna del filosofo"
Guido Ceronetti
Se un assetato di Dio prende per guida la propria ragione, questa lo porta a pascolare nella perplessità dove lo lascia agitarsi. La sua coscienza appassirà nell’equivoco, dirà dubitando a se stesso: esiste
HOSEYN IBN MANSUR AL-HALLAJ
Rabbi, rabbi, perché mi hai abbandonato?YHWH a Baruk Spinoza
Spinoza rideva, qualche volta, ma provati a ridere, nella foresta incantata del suo sistema. Ridere è proibito da guardiani angelici, che dal suo accenno a mostrarsi temono subito un’offesa alla perfezione del Dio che non produce errore o peccato o stortura o smorfia di cui si possa ridere. Per lo stesso motivo non c’è niente di puramente umano, in questa perfezione assoluta, che sia lecito bagnare delle nostre povere lacrime. Potrei ancora dirmi spinozista (ho creduto per molto tempo di esserlo) dal momento che Errore, Dolore, Stortura, Peccato, Mostruosità, Caricatura, Assurdità, Imperfezione, Deformità, Stranezza, Demenza, Miseria sono tutto il succulento contenuto della mia valigia randagia? Con l’indignazione mi guadagno il pane. In cambio di scherni ricevo fama. Il furore contro l’uomo mi fa sentire vivo: irascor, ergo sum. Se appena la punta del mio piede entra nel tempio dell’Ethica sono come morto: nessuno piange, nessuno ride, eppure guai a immalinconirsi(Melancholia semper mala) ; un rettilineo implacabile conduce a una felicità intellettuale che per il cuore è una pelle di rospo fritta in limatura di ferro. Ritiro il piede. Un satirico può essere spinozista come un pappagallo colorato può diventare condor, o - in termini spi-noziani - il Cerchio assumere la natura del Quadrato.
Mi domando se conoscesse veramente il cuore umano. La conoscenza geometrica ne sgraffia poco. Di fronte al groviglio del cuore Spinoza ha dubitato, ed è di grande umanità la Propositio ventottesima di Ethica II dove le affezioni del Corpo, in relazione all’Anima, sono dette confuse. Non bisognerà dimenticare questa sua ammissione quando si arriva al suo catalogo delle passioni. Spinoza non osa la confusione, dunque fallirà. Più esperienza l’avrebbe aiutato meglio di Descartes. Conoscere il cuore secondo la forza del termine biblico iadà presuppone un vivace commercio con Psiche e lo sbattimento non astratto del proprio tra i corpi amabili e corruttibili: il celibato di Spinoza è totale. Un’antropologia così centrata sul corpo è per forza impacciata dalla troppa castità del suo autore. Con Cupiditas, Laetitia e Tristitia la sua straordinaria bravura riesce a spiegare tutto, ma poche righe di Stendhal, un fondo di candela di Pascal, un gemito alcolico di Verlaine, valgono più della Terza e Quarta parte dell’Ethica. Risolve tutto passando per l’Explicatio, la Definitio, lo Scholium, il Corollarium, la Demonstratio, costretto a risolvere sempre tutto, altrimenti dovrebbe confessare un buco, e qualunque buco in un sistema perfetto è subito una voragine, e la voragine è miseria dell’uomo, e la miseria dell’uomo è, nel riflesso della grandezza, sentimento tragico; e il sentimento tragico è la bestia nera di Spinoza. Con furore e pazienza ne cancella ogni traccia. Ha il senso del dolore, ma copre col suo grave mantello il sangue versato che grida tragico! tragico! e senza il quale un Antico Testamento con tutti i suoi libri e capitoli diventa un inerte trattato di buona morale pour les pauvres, un braccio senza sangue del sistema spinoziano: utile, non formidabile. Per il Tractatus Theologico-Politicus la Scrittura è l’appuntamento di una sapienza morale regolatrice del costume a gente non molto illuminata dalla Ragione, libri sacri la cui autorità proviene esclusivamente dalle scelte dei Farisei del secondo Tempio. Buone massime, apologhi facili; niente arcani; i miracoli tutti semplici eventi naturali, sogni del baal-hachalomòt che siamo; di Dio non c’è che un’immagine adatta alla comprensione di menti primitive; il messianismo è puramente sionista (la ricostruzione dello Stato, la potenza) e anche l’utilità scritturale è di grado inferiore, perché (detto chiaramente nella ventiseiesima Propositio di Ethica IV) è veramente utile solo quel che porta alla conoscenza razionale. La critica filologica del Tractatus è un meraviglioso diamante: tutto lo scavo di questi tre instancabili secoli parte di lì; ma anche tutto il tragico scritturale, la lotta con Dio che il testo, rotto naufrago del tempo, disegna, e che è molto più importante della ricerca delle fonti e delle discussioni di un sinodo, Spinoza riduce al silenzio. Come nel suo sistema ridere e piangere sull’uomo è vietato, così è scandaloso e merita esclusione il gridare dei profeti. Il profeta grida, schiuma, scalcia, schernisce, ansima, rantola; Spinoza dice che è un maestro che sta facendo lezione di buona educazione a una primaria di deficienti. Allora chi grida nella Scrittura? Giobbe non grida? Elì Elì lammàh azavtàni è un modo d’insegnare ad abbaiare ai cani? Il grido di Rachele che si alza in Rama è un invito a stare buoni? Non cola a picco l’Ethica nella bava di Geremia? Il brontolio rabbioso di Qohélet, di cui l’allievo incomparabile di Morteira poteva sentire in faccia il soffio violento, è la signorina Felicita di Gozzano? Spinoza reprime il grido profetico, ne ha paura, giustamente ne ha paura, perché ne sente la forza, la forza cosmica di rottura. È un grido che scatena Tristitia, che ha origine da Tristitia, da irraggiungibilità di Dio, da un labbro spaccato, da una gola che spreme soltanto lamento, e Tristitia è il peccato per lui supremo. Il sistema si regge stupendamente, se non arriva, a farlo crollare, quel grido laceratore della creazione. Qohélet incalza Spinoza fino all’orlo della voragine: lo salverà una Demonstratio, un Corollarium all’ultimo momento? L’acido di Qohélet dissolve l’Ethica, perché scaraventa la salvezza spinoziana nello stesso buio insieme alla perdizione dell’imbecille. Si può negargli l’autorità sacra (sembrava un testo indegno e sfrontato ai dottori Farisei) ma quell'irresistibile bagliore di verità umana come coprirlo? È sapienza, midollo di sapienza - nonsuperstizione, non immagine ! Allora?Non bonum! Può bastare dire che non è bonum?
Mai tanta grandezza intellettuale si era così duramente rifiutata di accogliere il tragico, visto come qualcosa di scomposto e di sconcio (addirittura come bestemmia del Nome) , né così impegnata a sopprimerlo come un’irrealtà ignobile, contraria allo splendore divino, nel proprio pensiero in cerca di totalità e di assoluto.
Non è da uomo ragionevole (vedi Propositio LXVII di Ethica IV) perdersi in cogitationes sulla Morte; qui Spinoza è stato ascoltato. Spinoza reagisce al lugubre calvinistico, al barocco glaciale e nero, alle santità necrofile, ai ceri puritani e tridentini, alle cappelle d’ossa, ai bagni di cripte, alle Vie Crucis, alle allegorie funebri alla Niklaus Deutsch, alle orgie di rantoli penitenti; sloggia il culto di Thana-tos dalle stanze pulite, dove gli abiti sono bianchi e i capelli profumati, dove brilla l’aroma della cioccolata calda e il tabacco delle Indie ravviva l’occhio scrutatore della Natura. Vivaldi e Molière... (ma Molière ride). La Morte, scoperchiata, nei teatri anatomici, a servire i vivi... Abbiamo fatto bene ad ascoltarlo, ma abbiamo esagerato nel rifiuto del dialogo con la Morte. La sua siringa ci ha iniettato quell’ineffabile incretinimento che è la rimozione del pensiero della morte dall’Occidente contemporaneo, una vera perversione, che ci asservisce alla dissimulazione costante del fatto sgradito e dà al costume una sgangheratezza come di cose tenute insieme a cui manchino i chiodi; perché la Morte è il nostro amalgama, il chiodo che ci tiene.
Lo spinozismo comprende tutto; Spinoza non tutto comprendeva. L’arte è un uccello sfuggito all'Uccellatore. Prima Talmud, poi Matematiche... Vorrei fosse proprio lui il malinconico David dolcissimo che arpeggia a Saul nella visione di Rembrandt, ma un’arpa sarebbe rimasta muta tra le sue mani, che per pochi fiorini ridavano luce agli occhi annebbiati. Stimava Lucrezio perché,religio pedibus subìecta (Nat. Rer., I, 79), negava il libero arbitrio, la provvidenza divina e le cause finali, non perché fosse poeta (troppa Tristitia in Lucrezio!) e tra l’Ariosto e il cardinale Ippolito che scherniva l’Orlando, Spinoza avrebbe dato una mano allo stolido cardinale. È perplesso, evidentemente nauseato, umanamente vinto da qualcosa di oscuro e d’impenetrabile, di fronte al mistero della Follia, ai bambini, ai malati dell’anima, ai suicidi. «Non so che cosa pensare di chi s’impicca» confessa nello Scholium finale di Ethica II. Non so che cosa pensare, dice ancora, di pueri, stulti, vesani, etc.Eccolo, un buco... Mi commuove quell’eccetera di Spinoza. Quanti ospedali d’incurabili, lazzaretti, prigioni, Navi dei Pazzi, Bedlam, Bicètre, risvegli in sudarella, obitori, sogni di Artemidoro, clienti di Charcot e di Freud, donne barbute di Ribera e nani di Velàzquez, streghe di Goya, estasi, levitazioni, aure epilettiche dostoievschiane, letargie e paranoie, mostri dell’Aldrovandi e di Licostene, fenomeni di Barnum, autolesionisti strani e persecutori a morte di se stessi, stigmatizzazioni e catalessie, rivelazioni di Dio a dormienti (quelli che passano la notte nell’ombra di Shaddai) e simulacro lucreziani (quorum tellus amplectitur ossa) in quell’eccetera! Vi si sente cricchiare il ghiaccio di quella durezza metafisica: il mondo è là coi suoi demoni, e Spinoza, come il Giobbe e il Sant’Antonio di Bosch, rifiuta di guardarli per non essere attirato da loro. Quando discute con Hugo Boxel sull’esistenza degli Spettri, negandoli (Lucrezio li esorcizza spiegandoli) chiede se per caso siano pueri, stulti, vesani, come le temute ombre dello Scholium. È il suo Non So che ritorna: se potesse negherebbe che bambini e pazzi esistono, come nega realtà agli spettri di Boxel. Teme l’irrazionalità dei bambini, esseri non spinoziabili, dati all’immaginazione (come le donne, altri Orlandi, esseri dotati a volte di profezia, antitesi della conoscenza) e più ancora teme questo evento inammissibile, che per un’altra via si possa concepire, contemplare, intendere, amare Dio.
Caterina da Siena che dice vidi arcana Dei, Giacobbe che si sveglia dal suo sogno, sono bambini che fanno arretrare spaventato il grande Spinoza. Impossibile, mormora glacialmente, richiudendo la porta davanti alle fragili apparizioni. Spettri sono «le cose che ignoriamo»: Spinoza ignora i bambini e i pazzi, le donne e i profeti, modi di Dio anche loro, ma spettri per la ragione che li respinge. Che cos’è questa grande Ragione, in grado di dimostrare Dio come le proprietà del triangolo, che si lascia turbare dalla voce di un bambino, dall’occhio di uno squilibrato, da Oh miei visceri di un profeta, da un qualunque rigagnolo di oscurità, nella sua teca d’impassibile luce?
Per lui l’immaginazione è una specie d’impurità cadaverica. I sentimenti li analizza diffidandone, sono anche questi immaginazioni, ne producono incessantemente; sono il mondo delle larve, delle lamie e dei lemuri. Sospetto collocasse lì la demonicità insolubile, la satanicità negata: nell’immaginazione che rende incomprensibili bambini, pazzi e poeti; strega che svia i popoli e gli fa appendere a un albero, orribilmente martoriati, i buoni fratelli De Witt, o getta sulla fascina ammucchiata da uomini-bambini, troppo ubbidienti a una parola della Scrittura, una vecchia pagana posseduta daAmanita muscaria, colpevole di aver sviato la grandine sulle lattughe del vicino. Aborriva sopratutto gli atti di fanatismo e la violenza settaria - vittima lui stesso, e un coltello di fanatico l’aveva sfiorato, dopo la maledizione della sinagoga - eppure la sua dottrina ferreamente li giustificava. E puniva il crimine, pur sapendo che la natura del criminale dipende come tutto il resto dalla necessità divina e che non c’è responsabilità morale; ma una natura buona non pensa queste cose con cuore leggero; immagino (immaginare è il mio peccato di antispinozismo) che Spinoza ne fosse intimamente costernato e trafitto, e che sul problema del Male, tutto risolto nell’Ethica, ci sia uno Spinoza taciuto e perduto. Con altro linguaggio, Sade sostiene ugualmente la brutale Necessità del crimine ma, più spietatamente coerente di Spinoza, anzi meno preoccupato dell’incolumità dei cittadini, non stermina il criminale riconosciuto metafisicamente innocente. Pensare il Male, per una natura profonda, è labirinto di dolore.
Il grave punto in comune tra Sade e Spinoza resta la negazione completa della responsabilità. L’irreprensibile Ethica nell’ombra diAline et Valcour... Anzi, la dottrina sadiana, nella sua radicalità forsennata, interpreta l’Ethica meglio di qualsiasi pudibondo ermeneuta spinozista. Su un biliardo c’è un uovo, un cieco lancia due biglie: una manca l’uovo, l’altra lo rompe: il cieco è la Natura, la biglia l’uomo, l’uovo rotto il crimine. Come la Natura di Sade, ilDeus spinoziano è privo dell’organo della vista: si può distruggere la biglia, per punirla di essere stata spinta da un cieco a rompere un uovo? Come può il profeta rimproverare al re l’assassinio di Uria, se il re David non è che una biglia che rompe un uovo? Come può Spinoza condannare le biglie dell’Aja per aver rotto, spinte dal grande Cieco, il piccolo uovo De Witt? Il paragone spinoziano della pietra combacia con la biglia sadiana: se una pietra tirata pensasse, penserebbe che cade liberamente; così l’uomo, pietra tirata, rompe una testa illudendosi che fosse in suo potere modificare in tempo la traiettoria. (Ma non è sempre così: i grandi assassini sentono il loro crimine come pura Necessità: Will nicht! Muss!).Schopenhauer toccava il puntodolens, che già torceva i corrispondenti di Spinoza, osservando che la sua deificazione della natura era « in stridente contrasto coi mali fisici e la scelleratezza morale del mondo». Dopo aver costruito una macchina che giustifica tutto in abstracto, Spinoza non si permette neppure la piccola libertà di rattristarsi, guardando la notte pullulante di spettri feroci che ha deificato. Non rifiutando il tragico, non pretendendo di convertirci a una metafisica ottimistica, Sade è molto più accettabile di Spinoza; almeno, a chi voglia rattristarsi della condizione umana com’è dipinta nei suoi libri, risparmia le frustate! Spinoza, per consolazione, raccomanda scienza scienza (è da bambini gridare Elì Elì), studio anatomico delle biglie, buongoverno, e volta le spalle al baratro con un’assurdità implacabile: non c’è nessuna certezza se una cosa sia buona o cattiva, il Male è soltanto quel che può impedirci di comprendere (Prop. XXVII, Eth. IV).
La sua lontananza dagli animali è come quella dai bambini e dai pazzi, due sapienze per lui inaccessibili: Nec tamen nego bruta sentire. Non gli nega la sensibilità ma, essendo inferiori nella gerarchia della realtà, meno virtuosi di qualsiasi canaglia d’uomo, dei sensibili bruta si può fare quel che si vuole. Usava, con gli insetti, crudeltà di bambino, lui stesso spettro infantile, ridendo, di un riso che non mi piace. « La legge che proibisce di immolare le bestie è fondata più su una vuota superstizione e una compassione da femmine, che sulla sana Ragione » (Prop. XXXVII, Schol. I, Eth. IV). C’è bisogno di elogiare così la violenza, il sopruso umano? Jack lo Sperimentatore, Claude Bernard, ride contento: ride il principe che corre a massacrare i cervi e l’uomo del mattatoio che trascina l’agnello nella foto di André Abegg; l’allevatore russo di visoni, il distruttore giapponese di balene, il bastonatore canadese di foche appena nate, i professori del «Mario Negri» ridono con Spinoza della vana superstitio... Anche qui ha ragione
Schopenhauer: certo Spinoza non sapeva che cos’è l’amore di un cane... Vedo tante piume di struzzo insanguinate e fanoni di balene arpionate e tori trafitti e cani con la trachea sforacchiata, ballare su questo Scolio dell’Ethica. In quegli anni si discuteva molto della sensibilità e dell’intelligenza delle bestie, e un testo esemplare è ilDiscours à Madame de la Sablière di La Fontaine, del 1675, molto più sottile della geometria spinoziana. Spinoza non ha altra morale da predicare che quella del diritto della forza, e per qualunque bambino che torturi un gatto, essendo più forte del gatto, il diritto di torturarlo è stabilito. Ha disgusto dei pazzi, ma abbandona tranquillamente la famiglia animale a tutte le sfrenatezze e le libidini di distruzione dell’uomo.
Gli uomini, dal suo guscio, nuca pronta a ritrarsi, spiati, non li amava; ma un suo triste dogma stabilisce che praeter homines nient’ altro nella natura può essere amato e merita di essere conservato: la ragione dell’utile, nostrae utilitatis ratio, può deciderne qualunque profanazione e trasformazione, fino alla distruzione. È un dogma assurdo, un prodotto della raison corrompue, molto più cieco di quelli che l’Ethica sotterrava: l’utilità ha la vista corta, il dubbio morale lunga; Spinoza invita i distruttori a distruggere, e il deserto dell’Utile è il trionfo del più stolido rinnegamento della Ragione. Dio è più sottile di Spinoza: la superstitio,proteggendo dal taglio l’ulivo, la vacca dalla mazza, protegge i fili e i fini profondi della vita umana. Che cosa significa per lui la coscienza estesa a tutto, la divinità in tutto, se tutto si può, in nome dell’utile, spegnere, calpestare, annientare?
Mi ero avvicinato a Spinoza, molti anni fa, perché mi sembrava che avvicinasse a Dio; me ne sono allontanato, perché ho visto che allontana dalla felicità di cercarlo e di sperare d’incontrarlo, dando per dimostrato che è trovato e che si può vederlo nell’arca di vetro dell’Ethica, che contiene soltanto il causa sui e l'idea Dei della conoscenza intellettuale. Il suo rispondere a tutto mi fa orrore: preferisco chi non risponde, chi cerca, chi allarga le braccia, chi lascia tutto slabbrato e aperto. Spinoza allontana dal senso profondo, dall’essenza della parola scritturale: la lotta con Dio; sostituisce la scienza sperimentale e l’ottimismo tecnologico al tragico fondamentale dell’esistenza, una sagoma trasparente di uomo ideale da manuale agli esseri deformi e strani che siamo. Per ora sono fermo in questo distacco, sia pure con ritorni e fluttuazioni, perché quel che nello spinozismo respinge non è meno forte di quel che attira, e attraverso le lenti di Spinoza si legge meglio nel tempo che lo ha seguito. Mi attira il mistico, non il geometra; e se il geometra non fosse che l’ombra e il servo del mistico? Ma ci sono mistici che lottano di più, e senza tregua, con Dio, e riescono ad alzare con più forza e più coraggio il velo; probabilmente, la rigida educazione rabbinica agiva in Spinoza come un freno incosciente. E il mistico Spinoza che cosa dice? Forse qualcosa di molto vecchio: sarete come gli Elohim, tentando di dimostrare che l’uomo è capace, appropriandosi della conoscenza, di innalzarsi alla potenza infinita di Dio. Ma lo spinozismo cancella e restituisce tutto, con ritmo di enorme ondata. A volte sembra ingoiare Dio per non lasciare vivo che l’uomo, a volte annienta uomo e mondo e non lascia intravedere che la Shekhinà di Dio. La città umana d’Occidente non ha accolto, della sua dottrina, che la perfidia del serpente.
Non posso credere alla perfezione metafisica del mondo; credo però alla perfezione di una vita come la sua. È un cristallo puro tra scoli sudici e bisbigli d’odio; su un tavolo dove qualcuno conta sordidamente denaro con mani unte, un lino intatto. Una lettura psicocritica di Spinoza sarebbe estremamente preziosa: attraverso le smagliature e i sottintesi dei testi rintracciarne spaventi e ripugnanze, intestardimenti e memoria, interpretare l’impersonale Ethica come un’autobiografia cifrata. Mi piace quando il suo invariabile ottimismo metafisico incastra male con certo suo profondo pessimismo morale; è la verità umana che cerco.
Un verso di Tommaso Campanella riassume tutto Spinoza: Ma ride al tutto la parte che geme; ma di ridere al tutto la parte che geme non è felice. E se ride al tutto ha un fine, e il fine non è spinoziano; spinoziano è soltanto il gemito che deve essere rinnegato perché significa non avere capito che tutto ride. Dopo questo, chi ha più voglia di ridere? Eccoci rinchiusi nel nostro gemito, dove il riso del tutto non penetra che in forma di altro grido. Allora, fu felice Spinoza? La domanda è di Unamuno, uomo giusto, e non ha perduto la sua violenza di sfida del cuore: felice fu lui stesso, almeno, Baruk Spinoza, mentre, per far tacere la sua intima infelicità, tracciava figure di universale felicità geometrica? Morì il 21 febbraio 1677 verso le tre pomeridiane, tra i guanti di un ignoto medico che lo derubò dopo avergli chiuso gli occhi e sparì subito, con l’oliera d’argento, ladro notturno, vero angelo della morte. Quali saranno stati i suoi pensieri nella notte del 20 febbraio? I suoi occhi, già grandi, dovevano essere piuttosto dilatati, e la pupilla molto ingrandita, per effetto del succo di mandragore, che ha effetti molto simili all’atropina. Questa droga gli calmava i continui accessi di tosse, aumentando la pressione arteriosa e l’eccitazione cerebrale, condizione ideale per morire vedendo e pensando. La pianta che fa padre per la quinta volta Giacobbe (Gen. 30) è la stessa che tiene sveglia l’agonia di Spinoza, liberando la facoltà immaginativa che il filosofo teneva sempre ben chiusa nel suo armadietto. Occupato da lei, non ebbe tempo per lamentarsi. Vedeva la conoscenza delle res singulares da lui raccomandata produrre nelle civiltà bianche una colossale midriasi e portatori prima umani e generosi, poi disumani ed egoisti, delle sue dottrine della Virtù come Potenza materiale e della completa inesistenza morale di Dio, costruire la nuova città dell'uomo. Giorno e notte la città era in preda a un fuoco freddo di luci artificiali combinate, e con gli uomini macchine potenti, meccanismi intelligenti, però meno sensibili di qualunque animale, manovrate da calvinisti e da hegeliani, da battezzati e da circoncisi, sotto densi vapori infetti, coabitavano. Non ce n’era molta, di Laetitia, e la Conoscenza sembrava più una Furia carbonizzante che l’amica dagli occhi buoni di Spinoza. Tra gli incendi di luci, che ogni tanto cambiavano forma e vomitavano fuoco vero, anche liquido e vischioso, ustionante e corrodente, la notte dell’anima era forte, tutta baratri e cadute, e interminabili treni di Tristitia ne uscivano perdendosi in gallerie di Ragioni che prolungandosi e sovrapponendosi tra richiami e cadenze di caos tracciavano sulla faccia umana l’autoritratto della Follia. Cancellata la meditazione sulla morte, il cuore non riusciva a separarsi da un grigio lutto. La geometrica felicità intellettuale spruzzava freddezza e paura di altro gelo.
Rideva al tutto, l’agonia di Spinoza?
Le mandragore non fanno più effetto; la tosse aumenta; la mano cade. Il medico ritira la sua e scappa. Nella camera di Spinoza, tabernacolo dell’Ethica, libro segreto, salgono i signori Van der Spick, buoni luterani, e prima di tirare le cortine del letto recitano un salmo e qualcosa di un’epistola paolina al filosofo sospettato da tutti di non credere nella Parola. È la voce malvagia e assurda di Rebecca de Espinosa grida al piano di sotto che non darà un fiorino per la sepoltura del fratello, se dall’inventario non risulti che con la vendita delle sue poche cose pareggerà almeno le spese.
1977
NOTA A «ULTIMO MIO SPINOZA»
Non ci può mai essere, in chi l’abbia incontrato, un ultimo Spinoza. Ripubblico senza rimaneggiarle queste pagine scritte per il tricentenario, poco meno di trent’anni fa. A Spinoza fui iniziato (è il termine giusto) dal filosofo quasi ignoto che era, negli anni del fascismo, Giuseppe Rensi. Pessimista, gnostico, antihegeliano, Rensi fu un pensatore clandestino: ai margini, anche lui, del suo tempo, pubblicò da Bocca nel 1942 un saggio su Spinoza che in un adolescente ignorante, ma con antenne, fece un lavoro davvero magistrale, mi incamiciò di Spinoza (credo fosse tra il 1944 e ’45), lo stesso accadde -seppi poi - a Leonardo Sciascia.
Spinoza l’ho letto quasi tutto - e l’Ethica almeno due volte, in parte anche nel testo latino, e molto ho letto su di lui, per avere lumi, perché la sua difficoltà mi respingeva. Il curatore di splendore dell’edizione francese dell’Ethica, Robert Misrahi (Presses Universitaires de France, 1990), accenna a questa caratteristica ineffabile dell'Ebreo portoghese: «davanti allo spinozismo, siamo in presenza di un fenomeno paradossale e misterioso, fonte insieme della più grande fascinazione e del più segreto spavento». Ecco, è così... E dopo questa nota troverai un testo di Leone Sestov che ti darà, di quel segreto spavento, una spiegazione da mozzare il fiato. Sono stato un poco biblista ed ebraicista, nella mia lunga esistenza, ho tradotto buona parte dei contenuti essenzialmente tragici dell’Antico Testamento, e posso dirlo convintamente: l’Ethica e tutto il corpus spi-noziano sono operasacrilega, sono l’autodifesa incessante di uno che ha commesso un assassinio, e sente su di sé la riprovazione universale, ne è ossessionato, e replica all’urlo interno ed esterno Sacrilegio! Sacrilegio! con un’argomentazione serrata, arcitalmudica, per spiegare come il sacrilegio, di cui è cosciente, il delitto che ha compiuto, aveva lo scopo di indicare agli uomini una via di salvezza nel transito di tutti « verso la polverosa morte». Ma la sua superiore autodifesa non arriva a nascondere del tutto una parentela impressionante di questo santo ed eroe della filosofia con Raskolnikov, con Stavrogin, perfino col personaggio abbietto del film di Fritz Lang quando urla davanti all’areopago della malavita: io non posso!!... DEVO!! Nell’immutato paradosso biblico e del destino ebraico, lo scomunicato, il reietto, il perduto, il dinamitardo mentale della sinagoga, alla quale strappa la benda perché guardi nella voragine impersonale di Dio, il sacerdos in aeternum Baruk Spinoza è il più amato dalla sua imperscrutabile Vittima, è il punito-eletto, lo sfigurato del capitolo 53 di Isaia. Con ragione, nel mio seminario poi diventato spettacolo, M’illumino di tragico, del 2002, ho introdotto Spinoza, fratello di altri distruttori della sordida facilità di giudicare. Riapro l’Ethica, l’antibibbia che della Scrittura, dissacrandola, alza il velo d’Iside, e irridendone brutalmente i magna arcana degli interpreti occultisti e cabbalisti, ne scopre l’Arcano degli Arcani e ne diffonde il brivido, la paura. Eccone la strana musica d’arpa nascosta: « E se noi proseguiamo all’infinito questo ragionamento, concepiremo facilmente che l’intera Natura è un Individuo unico, le cui parti - s’intende tutti i corpi -variano in infiniti modi, senza alcun mutamento dell’individuo totale » (Ethica II, Lemma VII, Scolio).
Tutto sta così vertiginosamente e luttuosamente cambiando, spariscono perfino i motivi per cui nel passato si è amato e cercato un oggetto, qualcosa, braccia alzate che tengano in futuro alta, nei naufragi, l’opera di Spinoza o la stessa Scrittura (liquidabili entrambe comedatate), chissà, se ne vedranno? La mia piccola lanterna non rischiara che per breve raggio lo sterminato buio.
2005
DA LEV SESTOV « SULLA BILANCIA DI GIOBBE »
« Al pari del profeta Isaia, Spinoza udì la voce di Dio: “Chi mando? Chi va per me?”. Ed egli rispose: “Eccomi, manda me”. E quando Dio gli ordinò: “Va’ e parla a tutti i popoli della terra”, Spinoza andò e disse le terribili parole che ho citato, cioè che la volontà e l’intelligenza di Dio hanno così poco a che vedere con la volontà e l’intelligenza dell’uomo quanto il cane, segno celeste, con il cane, animale che latra. In altre parole, quel che è scritto nella Genesi, che l’uomo è stato fatto “a immagine e somiglianza di Dio” è solo menzogna e invenzione. I Greci conoscevano questa verità, che gli era stata trasmessa dalla Sapienza dell’Oriente. Ma affermarono che non era stato Dio a creare l’uomo, bensì che era stato l’uomo a evadere criminosamente ed empiamente nell’esistenza ... Un Dio simile è un mito: bisogna ucciderlo. E, in virtù di un destino inesplicabile, egli doveva essere ucciso da colui che lo amava più di ogni altro uomo. Ognuno di noi ricorda il racconto in cui Dio, tentando Abramo, gli ordina di sacrificargli il suo unico figlio Isacco. All’ultimo istante l’angelo allontanò la mano del padre assassino. Ma Spinoza doveva portare sino in fondo la sua opera spaventosa. L’angelo non venne, non allontanò la sua mano. Colui che aveva, più di ogni altro al mondo, amato Dio, diventò il suo assassino».
... basta guardare gli occhi di Spinoza. Non quelli, certo, del suo ritratto, ma gli occhi dolci e inesorabili - oculi mentis - che vi fissano dalle pagine dei suoi libri e delle sue lettere. Basta udire i suoi passi lenti e pesanti, i passi della statua di marmo del Commendatore, e ogni dubbio scomparirà: quest’uomo ha commesso il più grande dei delitti prendendo su di sé il carico di sovrumana responsabilità che tale gesto comporta.
SPINOZA E L’AMORE
Una ragazzina tedesca dotta di latino e di musica, figlia di un avventuroso medico ex gesuita, fece battere per qualche tempo, comecausa externa, il cuore difficile di Baruk Spinoza. Era tra liuti e penombre, porcellane di Delft e classici pagani e cristiani. In quella casa di Amsterdam veniva anche, come allievo di Franz Van den Ende, che insegnava il latino, un Giovane Ricco, Dirck Kerckrinck, che col dono di una bella collana fece pendere dalla sua parte il favore di Clara Maria. Baruk la conobbe bambina, lungamente bevendo il filtro del suo latino in precoce fioritura: la delusione, se questa storia è vera, sarebbe intorno al 1660, quando già era un reietto della sinagoga, soldi per collane non ne aveva, e l’oggetto del suo fluttuare tra Laetitia e Tristitia,Amore e Odio, avrebbe avuto circa quindici anni.
Tra gli appunti in olandese noti come Breve Trattato, alcuni sembrano riflettere, in movimenti come di sogno, l’amarezza patita: «Abbiamo il potere di liberarci dall’amore in due modi: o mediante la conoscenza di una cosa migliore, o sperimentando che la cosa amata, considerata prima grande e magnifica, porta con sé una quantità di conseguenze funeste». (Una di queste è illustrata nell’Ethica: la Gioia di una sola parte non è buona per il resto del Corpo).
Il Trattato, subito dopo, vaga in profondità: impossibile sforzarsi di liberarsene, anzi è necessario non liberarsene. Per non amare, dice il giovane filosofo, bisognerebbe non conoscere, ma non conoscere equivale a non essere, e dall’amore non bisogna staccarsi perché «senza qualcosa di cui possiamo godere e che sia unito a noi e ci fortifichi, non potremmo esistere ». Così chi non ama è come non fosse neppure nato. Si sente, nell’incatenarsi dei motivi astratti, come un odore lontano di ferita viva.
Altro non c’è, nella biografia di Spinoza, che abbia qualche remota cuginanza con l’amore carnale. La sua filosofia onora le nozze, la buona tavola, gli spettacoli, l’unione delle forze e il commercio degli uomini; la sua vita è appartata, diffidente e solitaria. Intima all’amore di fissarsi immobilmente in un prolixus schema geometrico, dove il battito umano sembra allontanarsi in un’infinita distanza. A volte però il guscio artificiale si rompe, e dentro puoi trovare qualcosa che ha il sapore dell’anima.
Questo scrutatore solitario riconobbe l’onnipotenza del Desiderio - ipsa hominis essentia -, la forza immane dei sentimenti: « La forza di una passione o di un sentimento può superare tutte le altre azioni dell’uomo e la sua potenza, in modo tale che questo sentimento rimane ferocemente attaccato all’uomo» (Prop. VI, Eth. IV). C’è nel suo mite latino un acciaio di durezza biblica: « La passione è una carie per le ossa» (Prov. 14, 30), «Il desiderio è spietato come il sepolcro» (Cani. 8, 6). Due mesi avanti la sua morte, fu messa in scena a Parigi per la prima volta laFedra raciniana, dove lo spinoziano ita ut affectus pertinaciter homini adhaereat è da un verso magnifico, unico, incarnato: C’est Vénus tout entière à sa proie attachée.
Certe verità spinoziane sono le stesse della poesia e del romanzo: non desideriamo una cosa perché la riteniamo buona, la riteniamo buona perché la desideriamo; la Gioia aumenta la potenza dell’essere, perciò l'Αmore e il Desiderioexcessum habere possunt) qualunque desiderio nato da un’esatta conoscenza del bene e del male può essere travolto dai desideri nati dalle passioni che ci dominano. Ma la Venere di Spinoza attaccata alla sua preda ha un nome gelatinoso e mortificante: Titillatio. Si può tradurre come Sensazione Deliziosa, ma non è un demone, non è Vénus tout entière; è una Venere eviscerata e resa mummia, in cui bisogna rimettere quel che l’anatomista astratto ha tolto d’indispensabile, di prezioso e di erotico. Ma la vera Venere Spinoza l’aveva in mente, perché la vede, come la passione, attaccarsipertinaciter al Corpo e impedirgli di pensare e di fare altro.
Desiderio, Gioia e Tristezza sono i tre manipolatori della marionetta umana come soggetto di passioni. S’indovinano le loro mani instancabili dietro lo schermo di un piccolo Teatro d’Ombre dove si compiono senza fine un certo numero di azioni fisse, con variazioni impercettibili mai casuali, sempre necessarie. I tre manipolatori sono a loro volta impugnati da un manipolatore supremo, il conatus, il principio di autoconservazione soggiacente a quello di conservazione universale. Così l’uomo è la marionetta del principio che gli dà il potere sulle cose, e le sue gioie più forti sono il tripudiare della forza che disintegra ogni suo arbitrio.
Mi lascia estaticamente ammirato una trascrizione astratta del subbuglio umano come questa: «L’Odio che è vinto interamente dall’Amore si cambia in Amore, e l’Amore è per questa ragione più grande che se l’Odio non l’avesse preceduto» (Prop. XLIV, Eth. III). Che un sistema così rigidamente intellettuale, come quello che incarcera e delizia il filosofo, abbia di questi attraversamenti repentini delle voragini di Psiche, stupisce come un effetto teatrale. È un altro lampeggiare di testa tragica raciniana, un incrocio di segni, di elementi di dramma pronti a farsi maschera e favola, ad agire nello spazio senza limiti della scena barocca. È, dietro la tenda dell’Ethica, il suggeritore Spirito dell’Epoca.
L’Ethica del profondo sconfessa l’Ethica allo scoperto che sostiene: «L’Odio non può mai essere buono» (Prop. XLV, Eth. IV). Ecco là invece un Amore che sarebbe meno grande se l’Odio non l’avesse preceduto. Una bella favola erotica potrebbe servire da esempio, La Bella e la Bestia di Madame Le Prince de Beaumont. L’amore delicato della Bestia vince a poco a poco l’orrore della Bella, e finalmente il suo orrore in Amorem transit, e la metamorfosi della Bestia in uno sposo bellissimo ne è il premio. Certamente l’amore della Bella sarebbe stato meno forte, se l’orrore per la Bestia non l’avesse preceduto. Interessante sarebbe un confronto tra qualche testo castissimo dell’Ethica III e IV e la dottrina sadiana dell'irresistibilità e legittimità dei desideri. Il Deusspinoziano perfettissimo non è in fondo meno amorale del non-Dio freneticamente bestemmiato da Sade. Concordo con l’osservazione di un interprete recente, Alexandre Matheron (però strutturalista, fiscaleggiante, privo di umano!), che l’uomo di passioni, secondo Spinoza, quando è abbandonato a se stesso, si comporta da uomo feudale. È così: l’uomo naturale è il libertino di Sade, è il signore di Rais, è David che rapisce Betsabea, Ammon che seduce la sorella tra le focaccine. Spinoza, costretto dalla propria ragnatela a mettere tra le perfezioni anche le peggiori scelleratezze, gli contrappone, come modello buono, il cittadino, specialmente l’olandese. Di meglio non c’è che il sapiente,predestinato a essere libero dalle passioni.
Il demone della Gelosia è analizzato con intrepida bravura nella tesi trentacinquesima dell’Ethica III, dove il velo geometrico si straccia solo a guardarlo. L’occhio del filosofo si fa coltello: « Chi immagina la donna amata mentre si dà ad un altro, non si contrista soltanto per il colpo inferto al proprio desiderio, ma anche perché è costretto ad immaginare la cosa amata unita alle vergogne e alle escrezioni di un altro, e ad averne ribrezzo». Nel Furioso, XXIII, Orlando, dopo la scoperta dell’amore di Angelica e Medoro, è inorridito dall’aver dormito sull’erba dove potrebbero essersi posati gli amanti, gli sembra un verminaio.
Di eccezionale finezza è l’osservazione che la res amata non presenta più al Geloso lo stesso volto di prima, rattristandolo. (E la tesi ventunesima dice, infallibilmente: « Quando una cosa è colpita da Tristezza, è in certa misura distrutta»). Tutto è lì: se il volto non mutasse, cadrebbe forse l’orrore per quei pudenda et excrementa alterius.Ma come potrebbe senza grandissima simulazione mantenersi inalterato il volto? Un’altra impensata combinazione è la gelosia di Arnolphe nell ’Ecole des Femmes di Molière: il volto di Agnès, pieno di candore, è sempre lo stesso, non c’è mescolanza con l’impurità di nessuno, appena una vaga occupazione di pensiero, eppure Arnolphe soffre subito come un dannato.
C’è anche una Tristezza (Prop. xxxvi) relativa all’assenza, nei successivi incontri, di tutte le circostanze del primo, se il primo è stato tutto un trabocco di delectatio.Basta che una sola manchi, perché l’amante sia rattristato (spinozianamente distrutto). È l’origine del Rimpianto, un’altra specie di malinconia d’amore che prepara il terreno alla Gelosia, che le circostanze uniche ricrea a favore di altri.
Spinoza non ama il mistero; a volte, per scioglierne uno, si limita a fare dei guasti nell’insolubile. Parlando della Simpatia e Antipatia che determinano amori e odi a prima vista, nega che siano certe qualità occulte delle anime e dei corpi ad alimentarle, ma alle proprietà misteriose non sostituisce nient’altro che la sua certezza che si tratti invece di qualità note e manifeste. Proviamoci a spiegare razionalmente le cause dell’attrazione e della repulsione, arriveremo soltanto a compilare elenchi di qualità esterne. Lo spinozi-smo banalizzato che è il fondo della scienza attuale la condanna a un potere impotente, a un eccesso di controlli, esperimenti, statistiche, a cui sfugge l’anguilla delle verità profonde. Dalle res singulares esaminate con troppa freddezza non si vede Dio.
Trovo l’abito di Spinoza invariabilmente largo di maniche e stretto di collo; barocco, più che adeguato alla figura. Come si può ridurre le passioni a «idee confuse», dopo averne riconosciuto la potenza e l’inesorabilità, indagato le loro complicazioni? E il rimedio come può consistere nel farsene clarum et distinctum conceptum? Pervenuti a un’idea chiara e distinta delle loro curiose titillationes, l’osceno Tiberio, Gilles de Rais o il rapitore di bambini del Rummelplatz se ne starebbero calmi e buoni? L’idea chiara e distinta è l’effetto normale della guarigione, non il rimedio per guarire. E la conoscenza spinoziana non porta che alla visione della concatenazione necessaria, dell’immanente divinità di tutto, e a dire: sono così perché sono così. Non si tratta di idee imbrogliate da chiarire, o la divina necessità si permetterebbe qualche scherzo. E a un amante disperato l’Ethica serve quanto un trattato sulle gambe a un amputato. L’amputato vuole le sue gambe, non un’idea adeguata del taglio delle gambe. Sublime, armoniosissima Natura Morta del Seicento olandese, l’Ethica può guarire soltanto un piccolo numero di sani.