L'epoca della prevalenza dello stupidoL'intelligenza artificiale genera mostri
L'ultimo saggio del semiologo Gianfranco Marrone analizza le nuove forme di stoltezza. Il computer e il modello "solving problem" cambiano il fenomeno. Nella tecnocrazia isoliamo la ragione dall'emozione
1 novembre 2012
UN'OCCHIATA alla bacheca di Facebook, una alla timeline di Twitter, e ci si dice: la stupidità degli altri deve essere davvero lo spettacolo più affascinante del mondo. C'è chi pensa che i social network producano i propri contenuti, e se ne potrebbe discutere; ma intanto possiamo tenere per certo (è infatti vero per definizione) che li registrano, così documentando tendenze altrimenti volatili. Prima lo studio delle mitologie sociali era fatalmente basato su fonti di seconda mano e sul sentito dire delle chiacchiere al bar e delle opinioni dei tassisti. Intuizione, penetrazione e sintesi mettevano poi in risalto, sullo sfondo grigio del senso comune, i commenti dei Flaiano e dei Barthes.
Oggi su Facebook e Twitter chiunque può invece verificare, e con grande margine di probabilità induttiva, che molto spesso chi prende la parola lo fa per additare, smascherare, irridere, disprezzare, censurare, condannare, possibilmente immolare, auspicabilmente incenerire, moralmente scomunicare, indignatamente ostracizzare. Cosa? La stupidità di qualcun altro. Dalla stupidità altrui non ci distraiamo mai, come se la nostra intelligenza non possa essere altro che censoria e come se, abbassando il nostro dito monitore, ammettessimo la nostra stupidità arrendendoci all'altrui. Gli obiettivi possono essere rivali professionali, in politica, nel tifo sportivo, in amore o in tutti e quattro i campi; vip remoti o invece presenti sul social network; persone vestite male, che non scrivono bene l'italiano o che parlano male l'inglese, persone a cui piacciono cose ritenute poco o troppo chic, fan di cantanti avversi; gente frivola, gente che lo è troppo poco. Ognuno, in rete, può trovare il proprio stupido elettivo; ma ognuno è anche lo stupido elettivo di qualcun altro. Chi ha ragione, allora? E, soprattutto, come distinguere lo stupido dal non-stupido?
Vederci chiaro è diventato difficile, da quando non ci sono più "i bei cretini di una volta" già rimpianti da Leonardo Sciascia. E non ci sono più non perché siano passati dall'umiltà dello scemo del villaggio all'arroganza del capotribù, ma perché hanno studiato, hanno imparato a stare in società, sono tra noi e (fin troppo spesso) sono in noi. I cretini di oggi sono intelligenti, così intelligenti da vedere cretini dappertutto.
Quando Fruttero e Lucentini dicono che per il cretino, il cretino è sempre "un altro" la formula coinvolge anche loro, fatalmente; essi, tutt'altro che cretini, lo sanno. Ma allora nella "prevalenza del cretino" del loro famosissimo titolo, il cretino prevale su di me o dentro di me? Approfondendo la questione si arriva a pensare che forse la prevalenza "è" del cretino: essere stupidi consiste nel pensare che si possa realmente, e non stupidamente, prevalere. Per uscire da questo gorgo occorre attraversarlo: "Bisogna sentirsi stupidi, per esserlo di meno", diceva proprio Roland Barthes. Ed è il massimo studioso italiano di Barthes che ci aiuta a rifare i conti con la stupidità: si tratta del semiologo Gianfranco Marrone, che pubblica ora la nuova edizione, riscritta e aggiornatissima, di uno studio che aveva dedicato anni fa all'argomento (Stupidità, Bompiani). L'antico scemo del villaggio è Chance, il giardiniere interpretato da Peter Sellers in Oltre il giardino, che prende tutto alla lettera e corrisponde allo "stupido solare" di Robert Musil. I politici che lo ascoltano e scambiano le sue ovvietà agresti per massime di profonda saggezza (arriveranno a candidarlo alla presidenza Usa), sono gli stupidi intelligenti, quelli che per Musil vedono segni e indizi dappertutto. Di fatto trovare la stupidità "in purezza" è oramai impossibile. Lo stupido postmodern non è più chi non conosce la regola e non sa comportarsi (come il Giufà del folklore siciliano), né chi non conosce che la regola e non l'adegua alla realtà (come per esempio don Ferrante). Con la sua goffaggine ma anche con il suo entusiasmo nel partecipare a ogni rito sociale, cioè con la sua ansia di "affluire", il rag. Ugo Fantozzi svela che l'unica stupidità peggiore di quella di non saper stare alle regole è quella di chi ci si sa stare, o anzi di chi le regole le detta. Il silenzio atterrito che accompagna le sue imprese più dissennate deriva dal fiato tenuto sospeso dagli astanti: ogni volta può essere quella in cui il teatro sociale viene giù del tutto, grazie al Big One delle Craniate Pazzesche.
Nell'epoca in cui invitanti campagne pubblicitarie esclamano "Be Stupid!", Marrone aggiunge alla sua rassegna uno stupido di genere completamente diverso da quelli tradizionali e moderni: il computer. Il teorico della naufragata Intelligenza Artificiale Marvin Minsky notava che al computer abbiamo saputo fornire competenze sofisticate (come la maestria negli scacchi), ma non abilità che sono alla portata di un ragazzino, come tirare a indovinare, raccontare una storia, interloquire in una normale conversazione, tradurre un testo banale. Il che significa che l'intelligenza e la creatività umana non pertengono alla sola sfera cognitiva; o meglio che non esiste una sfera cognitiva indipendente da quella emotiva, e viceversa. Isolando la ragione dall'emozione si ottiene la tecnocrazia, che è tirannica stupidità degli specialismi, riduzione dell'intelligenza a mera funzione di solving problem. L'intelligenza è un'altra cosa: è ciò che lega gli specialismi fra loro, ed è dunque, come mette in luce Marrone, "il prodotto di infinite stupidità". È una passione: è "sagacia", "desiderio di saper fare ". A isolare l'emotività dall'intelligenza si cade invece nella "dittatura del cuore" di cui parla Milan Kundera, quella che traduce la stupidità nel linguaggio empatico della bellezza e dell'emozione. Il Kitsch ci commuove con la banalità dei nostri sentimenti e Marrone puntualizza: "Non si tratta più di opporre buoni e cattivi sentimenti, ma di esibire il sentimento allo stato puro". Kitsch il buonismo, Kitsch l'antibuonismo dei cinici manieriati, Kitsch la commozione, Kitsch la rudezza e il sarcasmo.
Sia il cuore sia la mente hanno insomma i loro tormentoni: siamo stupidi quando li ripetiamo senza filtri critici, come flaubertiane idee ricevute e subito ritrasmesse. Il Flaubert della Rete ha un nome poco profumato, si chiama "Vendommerda": raccoglie e rilancia i Tweet più stolidi che si possano concepire, senza aggiungere un commento. È più neutro di Blob. Diverte, ma certo non vaccina, né probabilmente intende farlo. Persino Flaubert faceva un torto alla sua stessa intelligenza, quando si illudeva di indurre i suoi lettori al silenzio per non correre il rischio di dire stupidaggini. Non era stato proprio lui a stabilire che la stupidità consiste "nel voler concludere"?
Non si finisce mai di cercare di non essere stupidi, almeno non del tutto. Ripetiamo, pensando di essere originali, i tormentoni di pubblicità, propaganda politica, informazione, comicità, medialità. Oggi funzionano quelli di Beppe Grillo, ma anche questi, che apparentemente demistificano, non sono tormentoni meno di altri: la stupidità è entrata nell'epoca in cui è stupida anche la sua demistificazione. Forse siamo alle soglie dell'antiutopia tratteggiata da Marrone: "In un mondo in cui ci sono solo stupidi, lo stupido non esisterà più poiché nessuno potrà riconoscerlo". Vuole dire che, come bisogna sentirsi stupidi per esserlo di meno, così per abrogare la stupidità occorre che regni.
STUPIDITÀ
Gianfranco Marrone
Esordio
L’attuale incanaglirsi del conflitto fra politica e cultura (a tutto vantaggio, com’è noto, del primo termine) ha portato, fra le altre cose, a una messa in mora d’ogni problematizzazione della stupidità. Da una parte si erge l’euforico cretino che si vanta d’esser tale, dal nerd televisivo che sbava per le ragazzone dal cervello di gallina alle recenti ingiunzioni d’un brand fra i più cool del momento. Be stupid, ci ingiungono, motivando l’imperativo mal categorico con una magnificazione di ciò che sta sotto la cintura. D’altra parte, specularmente, si riaffaccia un intellettualismo di nicchia che in svariata pubblicistica recente ha riproposto la domanda metafisica ‘che cos’è la stupidità’ per cercare a tutti i costi di capire come la si combatte. Penso ai numerosi testi che fra l’ironico e l’accigliato elencano svarioni e sciocchezze altrui, ai libri che provano a dispensare quotidiana saggezza in pillole, ai dizionari che inanellano idee sedicenti non comuni, dichiarandosi di fatto pervicaci anti-flaubertiani. Del resto, capita spesso di leggere autori di filosofia che autodefiniscono il proprio operato come ‘esercizio dell’intelligenza’. Tutte cose buone e giuste, in sé, se non fosse che appaiono come esibizioni di acume tanto snobistiche quanto sospette: non c’è peggior stupido – osservava Robert Musil – di chi vanta la propria intelligenza.
In un modo come nell’altro, sono proprio i perturbanti moniti del Discorso sulla stupidità e di scritti analoghi a venir dimenticati. Voltaire, Flaubert, Musil, Queneau, Kosinsky, Kundera, Sciascia, Eco, ma anche Erdmann, Adorno, Barthes, Deleuze e molti altri ci avevano insegnato ad andar molto cauti nell’additare l’imbecillità. Cosa che il folklore, a suo modo, ha sempre fatto: la figura del diavolo sciocco, del furbo-cretino, del fool impacciato, del trickster insomma, rende conto delle innumerevoli nature che la stupidità può assumere nel mondo sociale e nelle varie culture. Mettendo chiaramente in discussione ogni giudizio definitivo nei confronti dello scemo del momento, sempre rigirabile verso chi, spocchioso, lo formula. Non solo, antropologicamente, lo stupido è sempre l’Altro, ma a ben vedere esistono innumerevoli forme di stupidità, sempre parziali, momentanee, soggettive, rintracciabili, a esser corretti, in ciascuno di noi. Scagli la prima pietra chi ne resta fuori. La stupidità investe la sfera cognitiva, come ritiene il senso comune, ma anche quella della prassi, dell’affetto, del corpo. L’ipotesi teorica, oggi unanimemente accantonata, dell’intelligenza artificiale aveva per esempio mostrato come sia molto più complesso dotare un computer di un software capace di raccontare una storia o di tradurre un banale testo da una lingua all’altra piuttosto che di un programma per farlo giocare a scacchi o per produrre calcoli con estrema raffinatezza e velocità. E il noto film di Spielberg che prende in giro tale ipotesi, A.I., ha rincarato la dose, immaginando una sofisticata macchina in grado di provare l’affetto assoluto di un bambino verso i propri genitori. Roba da pericolosa fantascienza. In tutt’altro contesto teorico Lotman lo aveva indicato da tempo: quel che è interessante per le scienze umane non è ciò che un computer compie senza difficoltà ma, al contrario, ciò che esso non sa fare, ossia ciò che noi umani non sappiamo insegnargli perché di fatto non abbiamo idea di come funzioni. Per esempio, appunto, le logiche dell’affetto e quelle del corpo, per definizione in eccesso rispetto ai dispositivi più controllabili delle strategie d’uso e alle pratiche di consumo. La stupidità, si legge nelle ultime pagine della Dialettica dell’Illuminismo, è una cicatrice, a indicare le antenne della chiocciola che, esplorando il territorio, vengono amputate dal becero fanatismo delle masse, dalla violenza collettiva.
Tutti zitti allora? Nulla da dire e perciò da fare? Occorre subire passivamente e silenziosamente l’inarrestabile avanzare a passo di gambero dell’oscurantismo e dell’ottusità? Nient’affatto. Basta soltanto, come ammoniva ancora Flaubert, non aver fretta d’arrivare alla soluzione, pazientare e non dispensare improvvisate ricette: la bêtise consiste à vouloir conclure. Una strada da seguire per portar avanti la riflessione, per esempio, è quella tracciata dallo stesso Musil, quando distingueva fra stupidità solare e stupidità intelligente. La prima è quella di chi prende tutto alla lettera, non cogliendo impliciti e implicature, allusioni e presupposizioni, vedendo cose là dove invece si tratta di segni. La seconda è quella di chi vede segni dappertutto, anche e soprattutto dove non ve ne sono, finendo per sovrainterpretare ciò che non può né deve nemmeno essere detto. Si ricorderà la vicenda di Chance Giardiniere, personaggio di un poco noto romanzo di Kosinsky e del bel film di Ashby Oltre il Giardino. Nella sua assoluta ottusità, Chance pensa solo alle piante del vivaio oppure guarda inebetito la televisione; per il resto, non capisce niente di niente, né la politica né la sessualità. Eppure i suoi interlocutori vedono in questo suo fare pacato e incongruo chissà quale profondità di pensiero, finendo per proporlo come futuro presidente degli Stati Uniti. Chance è uno stupido solare, gli altri stupidi intelligenti, ma l’uno non può esistere senza gli altri e viceversa.
Da qui una constatazione: la stupidità non è una cosa ma una relazione, non una proprietà (o mancanza di proprietà) ma un processo (o processo abortito). Perché ci sia stupidità non basta una persona ma devono essercene come minimo due. La prima fa qualcosa (pensa, parla, compie dei gesti, avanza dei programmi d’azione, prova un sentimento…). La seconda assiste nervosamente al comportamento della prima e lo considera sciocco, magari rinfacciandoglielo con tono alquanto irritato. La stupidità, insomma, è prima di ogni altra cosa un insulto, che implica non un giudizio di fatto ma di valore, o se si vuole di disvalore. Cosa che comporta non solo una sorta di scena madre, un frame ricorrente, una sorta di sceneggiatura prestabilita e formalmente descrivibile, ma anche, entro tale sceneggiatura, un possibile ribaltamento delle prospettive: “stupido sarai tu!”. E così via all’infinito, a meno di non passare alle vie di fatto, trasformando la cattiva autocoscienza della propria superiorità sociale in rivendicazione animalesca del territorio.
Conseguenze. In primo luogo, lo stupido esiste se e solo se c’è qualcuno che lo individua e che lo addita, con tutti i rischi del caso. In un mondo dove ci sono solo stupidi, lo stupido non esisterà più, poiché nessuno potrà riconoscerlo. In secondo luogo, corollario del primo, lo stupido vince sempre, perché a esser giudicato non è lui in sé – il suo carattere, la sua psiche, la sua mente –, ma le sue azioni e passioni, in quanto tali circoscritte nel tempo e nello spazio. Di modo che, al proporsi di un’altra sua condotta, si ripresenta il medesimo parere: “ma quanto è stupido”. Sino all’inevitabile risoluzione: “non può essere stupido sino a questo punto: è incredibile!”. Incredibile, appunto, dunque vincente.
È questa probabilmente la condizione estrema e tragica nella quale oggi ci troviamo, e che ci porta a riconsiderare con una sorta di nostalgica benevolenza figure come quelle di Forrest Gump o di certi antieroi di Ermanno Cavazzoni, che esibiscono con purezza quel che sta all’origine d’ogni stupidità: non l’incapacità ma lo stupore, non la deficienza ma l’apertura al mondo. Bisogna sentirsi stupidi per esserlo di meno, si dice. Non a caso la meraviglia, come sappiamo dai Greci, è l’incipit d’ogni avventura conoscitiva e metafisica, forse d’ogni avventura tout court. Nelle fiabe russe lo stupido assume due forme: è colui il quale resta a casa abbracciato alla stufa mentre i fratelli partono verso l’altro regno dove affronteranno, prima che i cattivi, il gelo della steppa; ma è anche colui il quale, dopo aver patito il freddo e combattuto il nemico, torna a casa uguale a prima, colui che non s’è trasformato, che non è andato a nozze con la figlia del re. Per vivere saggiamente occorre allora aver gusto, mescolando saperi e sapori, ma anche insipienze e insapori, controversie e dissapori. La lingua, covo di metafore continue, ce lo insegna da sempre: e parla del sale dell’intelligenza, o di minestre sciocche.
sono le mie parole d’amore per te.
di dare una funzione al Pendolo