mercoledì 14 settembre 2022

COLLODI Estratto da “Narrate, uomini, la vostra storia.” Alberto Savinio




COLLODI
Estratto da “Narrate, uomini, la vostra storia.” Alberto Savinio

I

Più di duecento traduzioni di Pinocchio sono sparse per il mondo. Questa perla della nostra letteratura è stata voltata in tutte le lingue parlate e in molti dialetti. L’ultima versione è quella del professore Malherbe, dell’Università di Stellenbosch. Benché omonimo del celebre riformatore della poesia francese, il professore Malherbe ha tradotto Pinocchio in afrikaans, che è la lingua dei boeri. Se gloria non è quella del nostro Collodi, che mai è gloria?
Ora statemi a sentire.
La domenica 10 luglio si usciva da porta a Prato, a Firenze, io e l’amico Giorgio, sovrintendente delle Belle Arti e proprietario di una Balilla trimarce. Traversata Pescia e infilata la strada di Lucca, ci fermammo poco appresso a un bivio. Fermo allo stesso bivio era un giovane inguainato di bianco come un topo d’albergo diurno, il quale, sollevato il cofano di una stupenda automobile da corsa, ne frugava l’intestino con mano di chirurgo.
« Sapreste indicarci per cortesia la strada di Collodi? ».
Il giovane sollevò la testa da quel budellame di metallo, posò su noi due magnifici occhi di velluto.
« Collodi? ».
« Collodi paese, che è anche il nome dell’autore di Pinocchio ».
« Pinocchio? » ripetè colui increspando la bella fronte: « Non so: non sono di queste parti ».
« Collodi si deve riconoscere all’odore » dice l’amico G.
L’amico Giorgio ha ragione. Voltiamo a destra per ispirazione olfattiva, e poco dopo fra cani spelacchiati, galline spennate e monelli sparsi a giocare in mezzo alla strada, riconosciamo il paese di Pinocchio.
Collodi è posata di sghembo sul dorso di un colle, come un mantello variopinto su un puf di velluto verde.
Il mantello è di pregio. La parte maggiore di Collodi è costituita dallo « storico giardino », che apre a forma di leggio le sue architetture vegetali, i ghirigori delle sue aiuole, e quando il castellano è di buon umore fa galoppare le sue acque giù per una serie di terrazze a scala.
Ci lasceremo sedurre da questi lussi settecenteschi?
« Noi no! » strilla a sinistra una vocetta puntata, nella quale riconosciamo la voce del Grillo parlante. Ci voltiamo a guardare, e sulla facciata di una casa tinta col rosa dell’aurora più poverella leggiamo:
« In questa casa / nella quale visse i primi anni della fanciullezza / e fece dipoi sovente ritorno / attrattovi dai materni ricordi / Carlo Lorenzini / illustre pubblicista / milite volontario delle patrie battaglie / scrittore urbanamente arguto / benemerito della popolare istruzione / che col pseudonimo di Collodi / rese celebrato il nome di questo paese / i collodesi / annuente e plaudente il municipio di Pescia / P.P. / Nacque il 24 novembre 1826, morì il 26 ottobre 1890».
Per i collezionisti di curiosità letterarie, aggiungiamo che questa lapide è stata dettata da Rigutini, amico di Collodi e suo compagno di sbevazzate.
Io domando: « Come si chiamava di nome Rigutini? ». E l’amico Giorgio risponde: « Fanfani ».
Il barone Eckermann nutriva per Goethe un’ammirazione che sconfinava dai limiti della decenza. Altri se ne muoiono per Giovanni Pascoli: noi, modestamente, da una salda amicizia per Omero, passiamo direttamente a un’amicizia altrettanto salda per i libri di Collodi.
In punta di piedi, come nella camera di un amico che dorme, entriamo nella casa in cui Carlo Lorenzini « visse i primi anni della fanciullezza ». Per molto tempo questa casa ha fatto sforzo di dignità. È manifesto. Poi un giorno « ha mollato ». Oggi le ragnatele fanno festone sul portoncino verde, una corda annerita dall’unto fa mancorrente ai gradini ridotti a barchette.
La casa dei Lorenzini ora appartiene ai Balbani. La famiglia Balbani ci aspetta di sopra. Dai poppanti alla nonna sono tutti parati per la fotografia. Fulminei, hanno fatto venire anche i parenti sparsi per il paese. L’amico Giorgio mi viene dietro reggendo il trepiedi della Leica, come un venditore di scheletri infantili. Il sorriso dei Balbani manca di spontaneità. Lo riconoscono loro stessi: « Sapeste le volte che sono venuti a fotografare questa casa! ». Posiamo delicatamente l’occhio sulla mensola, sul ritratto di Umberto I, sui fiori di carta, sulle cose che « lui guardava, fanciullo ». Dal terrazzino si vede la salita del paese, la Villa Garzoni come una credenza bianca posata sulla collina a servizio di un gigante, le cartiere ove in file serrate pendono i festoni che domani saranno carta, partiranno per il mondo, avvolgeranno migliaia di salamini.
Passiamo in cucina. È tinta di rosso come la cucina del boia. Il focolare è a nicchia e pieno d’ombra. Le mosche volano a spirale. In un angolo due conche di cotto murate per metà sono apprestate per il bucato. Sono la « curiosità » della casa e i Balbani ce la mostrano con orgoglio. Noi pensiamo: « Là dentro, le camiciole, le mutandine di Carlino bollivano sotto la cenere e i gusci d’uovo ». Dalla finestra si scopre un monticello colto, un terrazzino con casse di fiori, una gora formata dalle acque del Pescia che dà movimento, dice uno dei Balbani, il quale fuma con eleganza e non avrà aperto bocca durante tutto il sopraluogo se non per dare questa informazione di carattere industriale: « Dà movimento a un frantoio qui dietro ».
« E questi mobili, questi oggetti erano di lui? ». Accenniamo i rami sul muro, la tavola che si direbbe scampata a un incendio.
L’uomo non risponde. In sua vece l’avola squilla: « È roba mia! La casa l’ho comperata io dalla mamma del Lorenzini. Vuota. Del Lorenzini Carlo qui non è rimasto nulla ».
« Forse questi » soggiunge una Balbani giovane, e apre in così dire i battenti di un armadio a muro.
L’ironia ha fissa dimora nella casa di Pinocchio, anche se Pinocchio non c’è più.
Lo spirito vagante di Carlo Lorenzini, che non siamo riusciti a trovare nella casa in cui egli visse fanciullo, sarà più facile trovarlo nel giardino di Collodi?
Per entrare nel giardino di Collodi, si pagano quattro lire a testa. Con quattro lire si ha diritto di visitare il giardino, non anche la villa la quale è preclusa al visitatore comune. Ma siamo visitatori comuni noi? Dichiarate le nostre qualità, il custode, che era nudo la testa, sparisce di colpo dentro una specie di ripostiglio vegetale, e indi a poco ne esce il capo coperto da un berretto a visiera, sul quale è scritto con lettere d’oro: « Storico giardino di Collodi ».
Se Bouvard e Pécuchet venissero da queste parti, troverebbero il loro ideale formato in realtà.
In questo giardino, e similmente in altri sparsi per l’Italia, il regno vegetale è ridotto alle condizioni del barboncino tosato da leone. Coloro che non sanno, parlano di « cattivo gusto ». Come c’intenderemo? Intollerabile nella gente piccina, tra uomini di levatura superiore il cattivo gusto diventa maestosa pazzia. La discrezione, che passa per una espressione del buon gusto, in realtà è il riparo dei deboli. Sfoggiare bisogna, quando si può. Ma pochi hanno il diritto di praticare il cattivo gusto. Uno di questi era il marchese Paolo Garzoni, feudatario, consigliere di stato e guerra, il quale, a metà del XVII secolo, ordinò l’edificazione del giardino di Collodi.
I Garzoni collodesi risalgono al Trecento. Abitavano una casa in altura, che, più volte restaurata, sopravvive alla destra del palazzo. Verso il Seicento fecero edificare a monte del palazzo una villetta tutta festoni e cornicette floreali, rosea e fresca come un gelato di fragola, con l’orologio in fronte che fa da occhio, e un campaniletto in testa che fa da scuffia. Per dare un autore decente al fastosissimo giardino, si suggerisce il nome di Ottaviano Diodati, patrizio lucchese. Nel mezzo dell’aiuola centrale, disegnato coi sassolini per terra come un gioco di ragazzi, giace fra i ghirigori lo stemma dei Garzoni: Probus et providus esto. A destra e a sinistra masse di bosso tagliate a dadi, a cubi, a conche, a sfere, fanno la figura malinconica di bestioni ammaestrati al silenzio e all’immobilità. Di fronte e sopraelevati, una fila di personaggi di terracotta fanno cucù da entro le nicchie di una spessa parete vegetale.
Si sale a una terrazza con balaustra, sulla quale alcune scimmiette di cotto sono figurate negli atteggiamenti dei giocatori di pallone. Partono quindi e salgono fino ai « Bagnetti » le rampe delle cascate, sulle quali domina, gigantesca, una Fama trombettiera.
Timidi timidi entriamo nei « Bagnetti ». Intimità e mistero sono rimasti intatti in queste terme da bambole. Ci peritiamo di spingere gli sportelli leggermente aggraziati di pitture ornamentali, al timore che dietro ribrilli la rosea nudità di una damina, attardata costi da tre secoli, ma viva ancora nella sua minuzia di corallo. Qui la vasca delle dame, là quella dei cavalieri, e sopra all’assito il tetto comune.
Chi suona?
Pieghiamo la testa sulla spalla, come il pollo che guarda in alto: il palchetto della musica è pieno di cavalieri. Sono filettati d’oro e raschiano gli Amati e i Gasparo da Salò, per bagnare di musica le damine nude che, sotto, fanno gluglù dentro l’acqua fortunata.
Chi ha detto che le nostre rubinetterie rutilanti, le nostre docce a tubo flessibile sono il nec plus ultra della civiltà idroterapica? Leviamo di nuovo l’occhio di pollo al palchetto... Ahimè! L’evocazione di questi strumenti da sala di tortura ha spento le musiche, disciolto i cavalieri davanti ai leggìi spogli.
Domandiamo al custode: « Voi lo avete conosciuto, lo avete visto? ».
« Chi? ».
« Carlo Lorenzini... Collodi... l’autore di Pinocchio ».
« Sicuro! Chi m’ha insegnato a leggere e a scrivere è stata la sorella, Teresina Lorenzini, che faceva scuola costaggiù in paese ».
« Ma lui? ».
« Lui?... «h... sì... ».
Non l’ha visto! Ma la speranza della mancia, spinge alla menzogna i custodi dei più bei giardini d’Italia.
Ragioniere è più che una professione: è uno stato fisiologico. Nel castellano di Collodi, che ci viene incontro la mano tesa e il sorriso sulle labbra, ravvisiamo con sbalordimento uno degli esemplari più puri del tipo « ragioniere ».
Svanita la proprietà degli ultimi Garzoni, castello e giardino passarono circa quindici anni fa a un tale Bibi, carrarese e negoziante di legna. Dal Bibi passarono all’ingegnere Malvezzi, dal Malvezzi al commendatore Dante Giacomini, e dal Giacomini al signor Furbi ragioniere Angelo.
A considerare l’elenco dei proprietari lungo uno spazio di quindici anni, nasce il sospetto che il Castello di Collodi eserciti sui suoi castellani per così dire « illegittimi », un influsso simile a quello del Cullinan, il famoso diamante che non tollerava padroni.
Il ragioniere fa gli onori di casa, ci dice la spesa e la fatica che gli costa rimettere in sesto il giardino e il castello, lasciati in così tristi condizioni dal suo predecessore.
Passiamo per le gallerie allietate di chiare nature morte a fresco, per le sale abitate questa da un letto a baldacchino, quella da una timida spinetta bionda, quell’altra da un’armatura che ride con la bocca a salvadanaio.
E questo?
Guardiamo meglio: nell’angolo di un camerino, bianco e solitario come un cigno, un bidè! Un bidè del Settecento!
La forma è quella solita a violino, ma la materia differisce. Questo è di marmo, e scavato dall’orlo alla base in un blocco solo. Bidè da regine, bidè da divinità.
Resta a vedere quale nome italiano ha questo italianissimo strumento di abluzioni. Possiamo dare retta al vocabolario che dà la voce « bidetto »?
« Dimora principesca, » esclama il ragioniere, falciando l’aria con la mano « ma incomoda a chi è abituato a vivere modernamente ».
« Troppo giusto, ragioniere. Ma allora voi? ».
« Mi sto facendo sistemare un quartierino novecento ».
Apre un uscio: il lavoro degli artigiani è visibile, l’odore della vernice punge le narici.
Alla finestra è affacciata una donna, i gomiti sul davanzale. Il sole cala di là dai monti della Val di Nievole, accende un’aureola in quei capelli d’oro.
Quando Mosè salì al Sinai per incontrarsi col Signore, questi di lontano gli gridò: « Entra in quella grotta, Mosè, e non guardare la mia faccia mentre passo, se non vuoi morire ». Per maggiore prudenza il Signore posò la mano sull’apertura della grotta, e non la ritrasse se non quando fu passato. Messa fuori la testa, Mosè vide le terga enormi di Sabaot, che si allontanava tra le saette.
Temeva quella signora che, voltandosi, noi dietro si cadesse fulminati.
Il castello e il giardino di Collodi, larghi e distesissimi, separano il paese a valle dal paese a monte. Per concessione più volte secolare, e a fine di abbreviare il cammino, i collodesi hanno facoltà di servirsi delle rampe e di traversare il castello sotto il portico.
Arriviamo allo spiazzo davanti all’ingresso. Tre vecchine, come tre gazze senza grido, stanno appollaiate sul muricciolo di rimpetto. Mirano l’ubertosa vallata ricca di acque e di culture? Tirano il fiato dopo la salita? Chi sa?...
Il ragioniere si avanza:
« Ho detto mille volte che qui si passa, non si sosta ».
« Ma noi... da tanti anni... ».
« Non so di anni, io! Ho detto: non voglio! ».
E a noi, dietro, che cercavamo guardare da un’altra parte: « Vedete? Un’indecenza? Sembra un mercato! ».
Le tre vecchine, nere e curve come tre rimorsi, si allontanano su per la salita.
« E le cascate? Come! non avete visto le cascate? Presto, Giovanni, le cascate! ».
Per scendere a vedere le cascate, costeggiamo il labirinto di canne, passiamo davanti al teatro di verdura che ha la ribalta di mortella, la cupola del suggeritore di bosso e gli attori, allo spettacolo, sono tubi di foglie con gambe e braccia, che scambiano dialoghi verdi.
Ai piedi delle cascate, Giovanni ha disposto delle poltrone di vimini, nelle quali ci sediamo per benino.
A uno squillo ineffabile della Fama lassù che soffia dentro la tromba di coccio, una luce d’argento s’accende in alto, brilla, scende nel secondo bacino, si allarga nel terzo, nel quarto, nel quinto: forma una scala liquida e bollicosa che trarrebbe in inganno lo stesso Tobia. Due zampilli spuntano contemporaneamente dal centro dei bacini laterali, tentano due scatti modesti come per tirar su due uova da tirassegno, poi danno un gran balzo e si immobilizzano a una altezza decorosa.
Acque che da racchiusi angusti lochi
Di sotterranee carceri secrete
Sprigionate alla luce escono liete
A festeggiar con mille scherzi e giochi.
Così cantava Francesco Sbarra nelle Pompe di Collodi. Ma « pompe » qui ha significato metaforico.
Un orribile pensiero rompe d’un tratto il nostro godimento acquatico. Come oggi noi, così alcuni anni addietro un nostro amico era venuto a visitare il giardino di Collodi. Terminato il giro, gli domandarono se voleva vedere le cascate.
« Vediamole ».
« E gli zampilli? ».
« Vediamo anche gli zampilli ».
« E gli scherzi d’acqua? ».
« Vada pure per gli scherzi d’acqua ».
Alla fine gli presentarono un conto di 80 lire d’acqua.
Il ragioniere cerca un’immagine che illustri questo splendore idrico: « Si direbbe... ».
La sua voce giovane e sicura ci rammenta a buon punto che, ospiti del più liberale dei castellani, a noi scherzi di quel brutto genere non capiteranno mai.
Il ragioniere dice:
« Si direbbero tante lamelle di vetro... ».
Ammiriamo in silenzio.

II
Nel giardino di Collodi si svegliano le civette. Tra lusco e brusco Giovanni il custode si avvicina a noi con passi d’assassino, ci susurra all’orecchio: « Ho trovato! L’ingegnere Frateschi è stato più che un amico per Carlo Lorenzini: un fratello. L’ho fatto chiamare. Eccolo che viene ». Dal fondo di un vicolo un’ombra pesante avanza a passi di lumaca. « È sordo » ci avverte il custode.
Il custode non ha detto tutto: l’amico di Lorenzini è anche cieco. Ci porge un guantone rugoso che è la sua mano. Gli occhi velati di bianco si voltano in alto a cercare Dio nel cielo. Sotto l’orbita destra la pelle precipita sulla guancia, e all’altezza della narice si raccoglie in una goccia nera.
Entriamo in un magazzino oscuro, lo studio dell’ingegnere. La luce giallastra della lampadina rivela una confusione tra la fucina dell’alchimista e la bottega del rigattiere. Dalla parete in penombra, Margherita di Savoia sorride tra le perle. Frateschi siede davanti alla scrivania come un masso. Da una cartella polverosa, le sue dita a zampa di tacchino tirano su delicatamente dei foglietti.
Gridiamo: « I documenti non c’interessano: parlateci di lui! ». Frateschi continua a tirar su foglietti. Il custode si china sull’orecchio enorme del sordo, fa conca con le mani, gli scaraventa dentro una colonna sonora: « Dite a questi signori quello che sapete del Lorenzini Carlo! ». Frateschi lascia cadere il foglietto, guarda il custode con spavento, poi volge al soffitto gli occhi squagliati. A ruderi sonori la sua voce si sparge nel silenzio.
« A Lorenzini gli piaceva divertirsi, era di bocca grande. Un giorno andò a sentire musica in Duomo. La chiesa era piena di contadini. Uno gli monta su un piede. Lorenzini gli si mette accanto a guardare in aria, e “ pam!”, dà una pestata al piede del contadino... ».
Silenzio.
« Lorenzini arrivò a una festa da ballo. Una signora cantava. Lorenzini entrò nella sala turandosi le orecchie. Il fratello di Lorenzini, ch’era una persona seria, va dalla signora. “ Lo dovete scusare, signora, mio fratello è uno screanzato ” ».
Silenzio.
« A Pescia ogni cinque anni fanno le feste di maggio. Lorenzini affittò la diligenza di Firenze tutta per sé e venne alla festa ».
Silenzio.
« Un giorno Io vado a trovare in uno studietto che aveva. “ Che fai? “ Scrivo la storia di un burattino... ” ».
Silenzio.
« Avevo proposto di far dare due soldi a tutti i bimbi delle scuole per fargli un monumento qui a Collodi. Mi hanno risposto che è proibito fare sottoscrizioni nelle scuole... ».
Uno di noi grida a squarciagola: « Non continuate! Lorenzini voi non ce lo avete ancora fatto nascere! Diteci com’è nato! ».
Frateschi si scuote come chi è svegliato di soprassalto. Fa un gesto come a scacciare un fantasma. Dopo un ultimo silenzio, ricomincia a parlare.
Il marchese Ginori e il marchese Garzoni erano legati da grande amicizia. Tra Doccia, residenza dei Ginori, e Collodi, residenza dei Garzoni, i due marchesi e le loro famiglie ripetevano quella figura delle quadriglie che consiste a dividersi in due gruppi, a muovere gli uni incontro agli altri, ad attraversarsi e a ricominciare la stessa manovra in senso inverso.
Il marchese Garzoni aveva un cuoco: Domenico Lorenzini, il marchese Ginori un gastaldo: Orzali, e questi a sua volta aveva una figlia: Angiolina. Un giorno
Domenico e Angiolina s’incontrano nel giardino di Collodi, e il cuoco prende fuoco come un’omeletta al rum.
Domenico non mise Angiolina in cucina come canta la canzone, ma la fece sua davanti a Dio e agli uomini, dopo di che iniziò con lei quella feconda collaborazione che dette dodici figli tra maschi e femmine. Degli undici non mette conto parlare, come gente passata senza lasciare traccia; ma il primo vuol essere ricordato: quel Carlo Lorenzini detto Collodi, il quale figli non lasciò nati dalla sua carne, ma uno ne lasciò nato dal suo spirito: l’immortale Pinocchio.
Al piccolo Carlo non fece da padre Domenico Lorenzini, ma i due marchesi Ginori e Garzoni. Per cura dei due marchesi, il piccolo Carlo fu messo al Seminario di Colle Val d’Elsa.
Dopo tre anni di seminario Carlino toma a Firenze, butta via la tonachetta, si dà anima e corpo a grandi partite di tamburello in piazza Indipendenza, di sera s’incontra dentro i portoncini di via Taddea con coetanee compiacenti. Sbocciava in lui il ribelle di domani, e assieme il dongiovanni che sui divani della prefettura di Firenze farà provare a tante illustri rappresentanti dell’arte drammatica, gli spasimi e le dolcezze dell’amore.
Poiché di teologia Carlino non ne voleva sapere, i due marchesi lo misero agli Scolopi, ove continuò a studiare retorica e filosofia. A 18 anni andò commesso alla libreria Ajazzi, ove conobbe i principi delle lettere: D’Alberti, Ferdinando Martini, Jouaud che firmava « Giotti ». Un prete ellenista, Zipoli, presso il quale fu a dozzina per alcuni anni, gli mobiliò la mente di cognizioni. Ma come ascoltare gli aoristi quando la patria chiama? Carlo Lorenzini risponde all’appello della studentesca toscana, si arruola nella legione Leonida Giovanetti, combatte da leone a Montanara.
Reduce dalla campagna infelice ma gloriosa, Carlo
Lorenzini entrò in prefettura come censore teatrale. « L’ambiente crea il tipo » insegna una teoria darviniana, ribadita oggi da bioioghi di grido. Lorenzini che non si era mai sognato di scrivere commedie, nell’ufficio della censura teatrale ne scrive tre di fila: L’onore del marito, La coscienza dell’impiego, Gli amici di casa, le quali, malgrado il successo enorme che le accolse al loro esordio sulle scene, sono scomparse di poi senza lasciare traccia.
Quanto alle sue mansioni di censore, Lorenzini le esercitava meno sui copioni affidati alla sua prudenza, che sulle forme delle attrici destinate a interpretarli. E sul divano di tela cerata del suo ufficio a palazzo Martelli, onde attraverso larghe fenditure sboccavano gl’intestini di crine vegetale, non c’era neo, incrinatura o segno caratteristico di quelle drammatiche rotondità, che al cospetto degli atti archiviati e delle pratiche da evadere, sfuggissero all’occhio vigile di Lorenzini censore.
Preso amore alle lettere, Lorenzini cominciò a collaborare all’« Opinione », al « Nazionale », al « Fanfulla ». Trovò modo di farsi mandare in pensione dalla prefettura e fondò un giornale proprio, il « Lampione », repubblicano e mazziniano. Sospende le pubblicazioni del « Lampione » per arruolarsi nel Cavalleria Novara, e undici anni dopo, nel ’60, ripreso il « Lampione », comincia l’articolo di fondo così: « Ripigliando il filo del discorso interrotto dalle voci alte e fioche della Reazione... ». Fondò la « Scaramuccia », giornale teatrale. Ottimo cuoco e vero figlio di suo padre, imbandiva cene luculliane in casa sua, sbevazzava con gli amici, particolarmente con un altro celebre fiaschettaro: Giuseppe Rigutini. Questi, assieme col libraio Paggi, induce Collodi, che si credeva destinato alla polemica gazzettiera, a scrivere per i ragazzi. Non tutti gli amici sono falsi.
A questo punto uno di noi domanda: « E quella storia che si racconta, del Pinocchio scritto in una notte per pagare un debito di gioco? ».
« Fandonie! » risponde la voce cavernosa di Frateschi. « Lorenzini cominciò a pubblicare il Pinocchio a puntate nel “ Giornale dei Bambini ”, edito dal Peri-no e diretto da Ferdinando Martini ».
Lorenzini era musicista finissimo, leggeva a prima vista ch’era una meraviglia. La musica nessuno sa dove l’avesse imparata né quando, ma sta di fatto che la conosceva in ogni sfumatura e modulazione.
Nel quartierino in cui Lorenzini confondeva i fraterni culti di Venere e di Bacco, un piccolo pianoforte nero e collocato di sghembo riempiva di sé un angolo del salotto. Popolavano il coperchio, sul quale le foglie piovevano di un’asparagus sterilizzata, fotografie di primedonne dalle capigliature a vascello, dal petto a pallone e con la dedica vergata in diagonale. Là, nell’attesa dell’amante che fra poco arriverà fremente di frufrù e odorosa di vento, e come piovra gli avvingherà le braccia intorno all’altissimo solirio inamidato, il padre di Pinocchio, l’occhio revulso, il baffo irrorato di saliva che sgorga assieme col canto, si abbandona a lunghe improvvisazioni arpeggiate che ricadono sui turcacci accoccolati sul tappeto a fumare il narghilè e sulle poltrone raccolte intorno al tavolino come signore riunite a giocare a quadrigliato. Poteva un intenditore così fine mancare alla prima della Cavalleria rusticana a Livorno?
Dopo la fine trionfale dello spettacolo, il cielo aprì le sue cateratte e Lorenzini tornò a Firenze in mezzo ai tuoni e alle saette. Gli amici lo aspettavano in stazione, lo spinsero dentro il Doney.
« È veramente quel gran capolavoro che dicono a Roma? ».
« La stoffa c’è, » risponde Lorenzini « ma è un pazzo ».
« Un pazzo? ».
« Figuratevi che il tenore canta la sua romanza a sipario chiuso! ».
Prima del cinquantanove, Lorenzini vestiva come gli affiliati alla Giovane Italia: collettone rovesciato, panciotto sbottonato a metà, calzoni alla francese, larghi sui fianchi e accollati al ponte del piede. Di poi, la foggia del vestire egli la ricalcò su quella del direttore del circo equestre presso il quale Pinocchio, trasformato in ciuchino, fu messo a « lavorare ». I suoi completi irrimutabilmente marroni, variavano soltanto nei disegni, dai rigoni ai quadroni.
Il pomeriggio Lorenzini lo passava fuori del Caffè Falchetto, di fronte all’attuale Bottegone, nel cosiddetto « canto dei lavoratori », chiamato così perché ivi si riunivano i più celebri sfaccendati di Firenze. Là, in compagnia di Pier Coccoluto Ferrigni detto Yorick e di altri capiscarichi, Carlo Lorenzini beveva a sorsetti l’assenzio e tagliava i panni addosso ai passanti, a imitazione di quei cinici dell’antica Atene che erano chiamati « sali », perché i loro commenti sapevano di sale.
D’inverno portava il tubino di feltro, d’estate il tubino di paglia. Lo portava o sulle ventitré, o calato sugli occhi, o ributtato sulla nuca. Aveva inventato una specie di linguaggio del tubino. Il tubino era un quinto arto della sua persona. Non se lo toglieva nemmeno a letto.
Lorenzini non andava a dormire se prima non aveva ricevuto la benedizione dalle mani di sua madre. Questa per parte sua non s’addormentava se non aveva sentito rincasare il suo Carlino. Ma perché Carlino rincasa così tardi?
Carlino era bevitore e giocatore. Le partite a terziglio si prolungavano tardi nella notte al Casino Borghese di via Ghibellina. I campanili delle chiese battevano le tre, quando dal letto a baldacchino ove se ne stava in angustia e con l’orecchio teso, Angiolina Orzali in Lorenzini udiva scricchiolare la porta di casa.
« Carlino? ».
« Sì, mamma! ».
Le gambe a fisarmonica e il tubino a sghimbescio, Carlo Lorenzini traversa le camere, si va a inginocchiare davanti al letto della mamma.
« Sii benedetto, figliolo! ».
« Hoòp!... Hoòp!... ».
I    vapori del Chianti fanno groppo nella gola di Carlino, si risolvono in piccole esplosioni.
La benedizione materna non era la sola obbligazione alla quale Lorenzini si sobbarcava prima di andare a letto. La candela nella sinistra e nella destra il pisto-lone che gli era rimasto dal suo passaggio al Cavalleria Novara, il focoso polemista faceva il giro delle stanze, guardava sotto i letti e i divani, apriva gli armadi e la madia della cucina, e solo quando era sicuro che nessun malintenzionato era nascosto in casa, deponeva il pistolone sul comodino accanto al fiasco del vino, e la gota sul braccio come un Endimione al quale sono spuntati i baffi, si abbandonava ai sogni.
Quando la mamma morì, Carlo aumentò di bere.
II    novembre 1890 fu particolarmente freddo a Firenze. Carlo Lorenzini abitava al numero 7 di via Rondinelli, assieme con Paolo il fratello « serio ». Questi aveva la famiglia ancora in campagna, ma quel giorno era venuto in città a prendere delle coperte e degl’indumenti di lana.
In piena notte Paolo Lorenzini è svegliato di soprassalto dal campanello che squilla disperatamente. S’affaccia alla finestra, e nel vento che sibila nella stretta gola della via, sente due volte gridare: « Muoio!... Muoio!... ».
Trovarono Carlo Lorenzini appoggiato allo stipite del portone, « col capo girato da una parte, con un braccio ciondoloni, con le gambe incrociate e ripiegate a mezzo da parere un miracolo se stava ritto », e la mano rattratta sul campanello che continuava a squillare lassù nella casa vuota. Lo portarono di sopra, stecchito come un grosso burattino.
Ma questa era una finzione per la famiglia, per gli amici, per la gente. Il vero Lorenzini, colui che firmava « Collodi » e aveva scritto quel Pinocchio che gl’intenditori hanno definito la « Bibbia del cuore », era arrivato intanto in fondo a via Rondinelli, aveva preso a destra in via Cerretani, aveva iniziato il suo cammino nell’immortalità.