Le non cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale
Byung-Chul Han
Prefazione
Nel romanzo Hisoyaka na kesshō (密やかな結晶, trad. it. L’isola dei senza memoria),
https://mabastainsoma.blogspot.com/2022/09/lisola-dei-senza-memoria-yoko-ogawa.html?m=1
la scrittrice giapponese Yōko Ogawa racconta di un’isola senza nome. Strani incidenti inquietano i suoi abitanti. Le cose spariscono inspiegabilmente, irrimediabilmente. Si tratta di cose aromatiche, fruscianti, splendenti, meravigliose: nastrini per i capelli, copricapi, profumi, campanelle, smeraldi, francobolli, persino rose e uccelli. Le persone non sanno piú a che servono. Insieme a esse spariscono anche i ricordi.
Nell’Isola dei senza memoria, Yōko Ogawa descrive un regime totalitario che bandisce dalla società le cose e i ricordi facendo leva sulla polizia segreta, una polizia del ricordo simile alla polizia del pensiero orwelliana. Gli esseri umani vivono nell’inverno infinito dell’oblio e della perdita. Chi si mette segretamente alla ricerca dei ricordi viene arrestato. Anche la madre della protagonista, che conserva gli oggetti minacciati all’interno di un comò segreto, alla fine viene rintracciata e uccisa dalla polizia segreta.
Hisoyaka na kesshō si presta a un’analogia con il nostro presente. Anche oggi le cose scompaiono costantemente senza che noi ce ne accorgiamo. L’inflazione oggettuale ci inganna simulando l’esatto opposto. Al contrario della distopia immaginata da Yōko Ogawa, noi non viviamo in un regime totalitario dotato di una polizia del pensiero che ci sottrae brutalmente gli oggetti e i ricordi. È piuttosto la nostra ebbrezza comunicativa e informativa a farli sparire. Le informazioni, quindi le non-cose, si piazzano davanti alle cose facendole sbiadire. Noi che non dobbiamo sopportare lo strapotere della violenza assistiamo anzi al dominio dell’informazione che si spaccia per libertà.
Nella distopia di Ogawa il mondo si svuota fino a scomparire del tutto. Ogni cosa svanisce, si disfa pian piano. Scompaiono anche le parti del corpo, e alla fine restano solo voci incorporee, vagabonde, senza meta. L’isola senza nome delle cose e delle memorie perdute assomiglia, per certi versi, al nostro presente. Oggi il mondo si svuota riducendosi a informazioni spettrali quanto quelle voci incorporee. La digitalizzazione derealizza, disincarna il mondo. E bandisce anche i ricordi. Invece di metterci alla loro ricerca, noi salviamo quantità immani di dati. La polizia del ricordo viene cosí sostituita dai media digitali che svolgono il proprio lavoro senza alcun ricorso alla violenza né grande dispendio di forze.
Contrariamente alla distopia di Ogawa, la nostra società dell’informazione non è però cosí monotona. Le informazioni simulano eventi. Si fondano sul brivido della sorpresa. Ma questo brivido non dura a lungo: ben presto emerge il bisogno di nuovi stimoli. Noi ci abituiamo a percepire la realtà in termini di stimoli e sorprese. In veste di cacciatori d’informazioni diventiamo ciechi nei confronti delle cose silenziose, poco appariscenti, vale a dire abituali, secondarie o ordinarie cui manca qualsiasi capacità di stimolare – ma che sanno ancorarci all’essere.
Dalla cosa alla non-cosa
L’ordine terreno, l’ordine planetario, è costituito da cose che assumono una forma durevole e creano un ambiente stabile, abitabile. Sono le «cose del mondo» di cui parla Hannah Arendt e alle quali spetta il compito «di stabilizzare la vita umana»1 offrendole un appiglio. Oggi all’ordine terreno subentra l’ordine digitale. L’ordine digitale derealizza il mondo informatizzandolo. Già alcuni decenni fa, il teorico dei media Vilém Flusser osservava: «Le non-cose stanno penetrando nel nostro ambiente da tutte le direzioni, e scacciano le cose. Queste non-cose si chiamano informazioni»2. Ci troviamo nel periodo di passaggio dall’èra delle cose all’èra delle non-cose. Non sono gli oggetti, bensí le informazioni a predisporre il mondo in cui viviamo. Non abitiamo piú la terra e il cielo, bensí Google Earth e il cloud. Il mondo si fa sempre piú inafferrabile, nuvoloso e spettrale. Niente è piú attendibile e vincolante, nulla offre piú appigli.
Le cose stabilizzano la vita umana fornendole continuità, affinché «gli uomini, malgrado la loro natura sempre mutevole, possano ritrovare il loro sé, cioè la loro identità, riferendosi alla stessa sedia e allo stesso tavolo»3. Le cose sono i punti fermi dell’esistenza, ma oggi le informazioni le hanno completamente insabbiate. Le informazioni non sono certo punti fermi dell’esistenza. Non è possibile indugiare presso di esse. Hanno una validità molto limitata. Si fondano sul brivido della sorpresa. Basta questa loro fuggevolezza a destabilizzare la vita. Oggigiorno, esse richiedono continuamente la nostra attenzione. Lo tsunami delle informazioni getta nell’inquietudine persino il sistema cognitivo. Le informazioni non sono un costrutto stabile: manca loro la saldezza dell’essere. Niklas Luhmann descrive cosí l’informazione: «La sua cosmologia è una cosmologia non dell’essere, bensí della contingenza»4.
Oggi le cose precipitano sempre piú sullo sfondo della nostra attenzione5. L’attuale iperinflazione degli oggetti, che conduce alla loro esplosiva proliferazione, è a sua volta sintomo di una crescente indifferenza nei loro confronti. Le nostre ossessioni non sono piú indirizzate alle cose, bensí alle informazioni e ai dati. Ormai produciamo e consumiamo piú informazioni che cose. C’inebriamo con la comunicazione. Le energie libidiche abbandonano le cose e si lanciano sulle non-cose. La conseguenza di ciò si chiama infomania. Ormai siamo tutti infomani. Il feticismo degli oggetti appartiene probabilmente al passato. Stiamo diventando tutti dei feticisti delle informazioni e dei dati. Si parla addirittura di «datasexuals».
La rivoluzione industriale ha rinsaldato e ampliato l’ambito oggettuale, allontanandoci solo dalla natura e dall’artigianato. La digitalizzazione, invece, ha messo la parola fine al paradigma oggettuale. Essa sottomette le cose alle informazioni. Gli hardware costituiscono le fondamenta ubbidienti dei software. Sono secondari rispetto alle informazioni. Il processo di miniaturizzazione li fa rimpicciolire sempre piú. L’Internet delle cose li trasforma in terminal informativi. La stampante 3D svaluta le cose nel loro essere, degradandole a derivati materiali dell’informazione.
Cosa succede alle cose quando vengono compenetrate dalle informazioni? L’informatizzazione del mondo trasforma le cose in infomi, vale a dire agenti che elaborano informazioni. L’auto del futuro non sarà piú una cosa legata a fantasie di potere e possesso, bensí un «centro di diffusione d’informazioni» mobile, in pratica un infoma che comunica con noi:
È la macchina che vi parla, che vi informa «spontaneamente» sul suo stato generale, e sul vostro (rifiutandosi naturalmente di funzionare se voi non funzionate bene), è la macchina che consulta e delibera, partner in una negoziazione generale del modo della vita […]6.
L’analisi esistenziale compiuta da Heidegger in Essere e tempo andrebbe rivista tenendo conto dell’informatizzazione del mondo. L’«essere-nel-mondo» heideggeriano si compie nella forma di un «commercio manipolante»7 con cose «disponibili» oppure «utilizzabili». La mano rappresenta un’immagine centrale dell’analisi heideggeriana dell’esserci. Il Dasein (che indica ontologicamente l’essere umano) si collega all’ambiente mediante la mano. Il suo mondo è un ambito oggettuale. Oggi invece viviamo in una infosfera. Noi non manipoliamo cose passive, bensí comunichiamo e interagiamo con infomi che a loro volta agiscono e reagiscono. L’essere umano non è piú Dasein, è un Inforg8 che funziona comunicando e scambiando informazioni.
Parlando di smartphone, gli infomi ci assediano amorevolmente in quanto sbrigano per noi qualsiasi incombenza. Chi vive con lo smartphone è privo di crucci. Il telos dell’ordine digitale è probabilmente il superamento del cruccio che secondo Heidegger è il tratto fondamentale dell’esistenza umana. L’esserci è cruccio. Oggi l’intelligenza artificiale è in procinto di smaltire l’esistenza umana, crucci compresi, portando avanti un’ottimizzazione della vita ed eliminando il futuro quale fonte di preoccupazioni: essa debella cioè la contingenza del futuro. Un futuro prevedibile in forma di presente ottimizzato non ci preoccupa piú.
Categorie dell’analisi heideggeriana quali «Storia», «essere gettato» o «fatticità» rientrano tutte nell’ordine terreno. Le informazioni sono additive, non narrative. Si possono contare ma non raccontare. In quanto elementi discontinui muniti di una risicata attualità, non si assemblano nella forma di una storia. Anche il nostro spazio mnemonico assomiglia sempre piú a un disco fisso pieno zeppo d’informazioni d’ogni tipo. L’addizione e l’accumulo scacciano le narrazioni. La storia e la memoria sono invece caratterizzate da una continuità narrativa che si estende su ampi lassi di tempo. Solo le narrazioni generano senso e tenuta. L’ordine digitale, numerico, è privo di storia e memoria. Quindi frammenta la vita.
L’essere umano, quale progetto che si ottimizza e si reinventa, sa innalzarsi al di sopra dell’«essere gettato». L’idea heideggeriana della «fatticità» consiste nel fatto che l’esistenza umana si fonda sull’indisponibile. L’«essere» di Heidegger è un altro nome per l’indisponibile. «Essere gettato» e «fatticità» appartengono all’ordine terreno. L’ordine digitale defatticizza l’esistenza umana. Non accetta alcun fondamento indisponibile dell’essere. La sua massima recita: l’essere è informazione. In questo modo, l’essere è del tutto disponibile e influenzabile. La cosa di Heidegger incarna invece la vincolatezza, la fatticità dell’umana esistenza. La cosa è l’emblema dell’ordine terreno.
L’infosfera è un Giano bifronte. Ci garantisce senza dubbio una maggiore libertà, ma al contempo ci espone a una crescente sorveglianza, che ci influenza. Google presenta la smart home iperconnessa del futuro come una «orchestra elettronica». Chi vi abita funge da «direttore»9. Gli autori di questa utopia digitale descrivono in realtà una prigione smart. All’interno della smart home noi non siamo dei direttori autonomi, veniamo anzi diretti da svariate cose che, invisibili, ci dànno il La. Ci esponiamo a uno sguardo panottico. Lo smart bed con fior di sensori perpetua la sorveglianza anche durante il sonno. La sorveglianza s’insinua sempre piú nel quotidiano, sotto forma di convenience. Nell’atto di svolgere tante incombenze per noi, gli infomi si rivelano efficientissimi informatori che ci sorvegliano e c’influenzano.
Cosí, guidato dagli algoritmi, l’essere umano perde sempre piú il proprio potere di agire, la propria autonomia. Si trova dinanzi a un mondo che sfugge alla sua comprensione. Si attiene a decisioni algoritmiche che non riesce a capire fino in fondo. Gli algoritmi diventano scatole nere. Il mondo si smarrisce negli strati profondi di reti neuronali cui l’essere umano non ha alcun accesso.
Da sole, le informazioni non illuminano il mondo. Anzi, possono oscurarlo. Da un certo momento in avanti le informazioni non informano piú, bensí deformano. Ormai questo punto critico è ampiamente superato. L’entropia informativa con la sua rapidissima crescita, vale a dire il caos informativo, ci scaraventa in una società post-fattuale che pialla la differenziazione tra vero e falso. Ora le informazioni circolano senza alcun appiglio con la realtà, all’interno di uno spazio iperreale. Anche le fake news sono informazioni, probabilmente piú efficaci dei fatti comprovati. Ciò che conta è l’effetto di breve periodo. L’efficacia sostituisce la verità.
Come Heidegger, anche Hannah Arendt si tiene ben stretto l’ordine terreno, di cui evoca spesso la tenuta e la durata. Non solo le cose del mondo, ma anche le verità hanno il compito di stabilizzare la vita umana. Al contrario delle informazioni, la verità sfoggia una saldezza dell’essere. A contraddistinguerla sono la durata e la persistenza. La verità è fatticità. Essa resiste a ogni cambiamento, a ogni manipolazione. In tal modo, crea il fondamento dell’esistenza umana: «Concettualmente, possiamo chiamare verità ciò che non possiamo cambiare; metaforicamente, essa è la terra sulla quale stiamo e il cielo che si stende sopra di noi»10.
È significativo come Arendt collochi la verità tra il cielo e la terra. La verità rientra nell’ordine terreno: essa offre un appiglio alla vita umana. L’ordine digitale mette la parola fine all’epoca della verità e inaugura la società post-fattuale dell’informazione. Il regime post-fattuale dell’informazione si eleva al di sopra della verità comprovata. Essendo di natura post-fattuale, le informazioni rifuggono le cose. E là dove nulla s’aggrappa alle cose, si smarrisce ogni appiglio.
Oggigiorno, le prassi impegnative vanno scomparendo. Anche la verità è impegnativa. Quando un’informazione scaccia l’altra, ecco che non abbiamo piú tempo per la verità. Nella nostra cultura dell’eccitazione post-fattuale, la comunicazione è dominata da impulsi ed emozioni forti, che al contrario della razionalità sono poco persistenti in termini temporali. Per cui destabilizzano la vita. Anche la fiducia, le promesse e le responsabilità sono prassi impegnative, che si estendono oltre il presente giungendo al futuro. Tutto ciò che stabilizza la vita umana è impegnativo. La fedeltà, i legami e i vincoli sono a loro volta prassi impegnative. Il degrado delle architetture temporali stabilizzanti, alle quali appartengono anche i riti, rende instabile la vita. Per stabilizzarla c’è bisogno di un’altra politica temporale.
Tra le prassi impegnative vi è anche l’indugiare. La percezione che aderisce alle informazioni non dispone di uno sguardo lungo e lento. Le informazioni ci accorciano la vista e il respiro. Impossibile indugiarvi. L’indugiare contemplativo presso le cose, quel guardare senza secondi fini che potrebbe essere la ricetta della felicità, cede il passo alla caccia all’informazione. Oggi corriamo dietro alle informazioni senz’approdare ad alcun sapere. Prendiamo nota di tutto senza imparare a conoscerlo. Viaggiamo ovunque senza fare vera esperienza. Comunichiamo ininterrottamente senza prendere parte a una comunità. Salviamo quantità immani di dati senza far risuonare i ricordi. Accumuliamo amici e follower senza mai incontrare l’Altro. Cosí le informazioni generano un modo di vivere privo di tenuta e di durata.
L’infosfera sortisce senza dubbio un effetto emancipatore: ci libera dagli affanni del lavoro molto piú efficacemente dell’ambito oggettuale. La civiltà umana si lascia comprendere nei termini di una crescente smaterializzazione della realtà. L’essere umano trasferisce via via le proprie competenze mentali alle cose, affinché esse lavorino al posto suo. Cosí lo spirito soggettivo si trasforma nello spirito oggettivo. Oggetti come le macchine rappresentano allora un progresso di civiltà in quanto includono in sé, come una forma primitiva di spirito, quella pulsione che le rende automatiche. Nella Filosofia dello spirito scrive Hegel:
Ma lo strumento non ha ancora l’attività in lui stesso; è una cosa inerte […] – Io devo ancora lavorare con esso; io ho inserito l’astuzia tra me e la cosalità esteriore, per risparmiarmi […] e lasciare che lo strumento si consumi […] – ma pure mi vengono i calli; il farmi cosa è ancora un momento necessario; l’attività propria dell’impulso non è ancora nella cosa. Bisogna porre nello strumento anche un’attività propria, per farlo diventare qualcosa che è attivo da sé11.
Lo strumento è una cosa pigra poiché gli manca l’autonomia. L’essere umano che vi armeggia si trasforma a sua volta in una cosa poiché la mano sviluppa calli, logorandosi. Armeggiando con macchine automatiche la mano si tiene alla larga dai calli, eppure esse non la liberano ancora del tutto dal lavoro. Le macchine creano le fabbriche e gli operai.
Il successivo passo di civiltà prevede l’impianto, nella cosa, non solo della pulsione, ma anche dell’intelligenza, forma superiore di spirito. L’intelligenza artificiale trasforma le cose in infomi. L’«astuzia» consiste nel fatto che l’essere umano non fa solo lavorare le cose al posto suo, ma le fa anche pensare. Non sono le macchine, bensí gli infomi a emancipare la mano dal lavoro. L’intelligenza artificiale è inafferrabile per la fantasia hegeliana. Inoltre, Hegel è troppo ossessionato dall’idea del lavoro da poter concepire un altro modo di vivere. Per Hegel vale: lo spirito è lavoro. Lo spirito è la mano. Col suo effetto emancipatore, la digitalizzazione prospetta un modo di vivere equiparabile a un gioco. Essa crea una disoccupazione digitale non motivata da alcuna congiuntura.
Vilém Flusser riassume cosí il nuovo mondo dominato dalle informazioni: «Non possiamo piú attenerci alle cose e, quanto alle informazioni, non sappiamo come rapportarci a esse. Siamo diventati privi di punti di sostegno»12. Dopo un iniziale scetticismo, Flusser s’immagina il futuro a tinte utopiche. La mancanza di appigli inizialmente paventata cede il passo alla gaia leggerezza del gioco. L’essere umano del futuro disinteressato alle cose non è un operaio (homo faber), bensí un giocatore (homo ludens). Non deve superare faticosamente, col lavoro, le resistenze della realtà materiale. Gli apparecchi da lui programmati si fanno carico del lavoro. Gli uomini del futuro sono senza mani: «Questo nuovo essere umano nato tutto attorno a noi e al nostro interno, in realtà è senza mani. Non maneggia piú le cose, per cui nel suo caso non si può piú parlare di manovre»13.
La mano è l’organo del lavoro e dell’azione. Il dito, di contro, è l’organo della scelta. L’uomo senza mani del futuro ricorre solo alle dita. Sceglie invece di agire. Schiaccia dei tasti per soddisfare i propri bisogni. La sua vita non è un dramma che lo spinge ad agire, bensí un gioco. Non vuole nemmeno possedere nulla, solo esperire e divertirsi.
L’uomo senza mani del futuro si avvicina a quel phono sapiens che traffica con le dita sullo smartphone. Lo smartphone è il suo modo di giocare. È affascinante l’idea che l’uomo futuro si limiti a giocare e a divertirsi, vale a dire viva senza alcun «cruccio». Possibile che la crescente gamizzazione del mondo della vita, capace di abbracciare tanto la comunicazione quanto il lavoro, sia interpretabile come la prova che l’èra dell’umanità giocosa è in realtà cominciata da tempo? Dovremmo allora dare il benvenuto al phono sapiens? L’«ultimo uomo» di Nietzsche lo prefigura già: «Si continua a lavorare, perché il lavoro intrattiene. […] Una vogliuzza per il giorno e una vogliuzza per la notte: salva restando la salute»14.
Il phono sapiens che vuole solo esperire, divertirsi e giocare prende congedo dalla libertà come la intende Hannah Arendt, vincolata all’azione manuale. Chi agisce rompe con l’esistente e crea qualcosa di nuovo, di completamente altro. Nel farlo, deve superare delle resistenze. Il gioco invece non affonda le mani nella realtà. L’uomo del futuro che gioca senza mani incarna la fine della storia.
Ogni epoca definisce la libertà in maniera diversa. Nell’antichità, libertà voleva dire non essere schiavi. Nell’epoca moderna la libertà viene interiorizzata quale autonomia del soggetto. È libertà di azione. Oggi tale libertà di azione sprofonda nella libertà di scegliere e consumare. L’uomo senza mani del futuro si dedica a una «libertà in punta di dita»15: «I tasti disponibili sono cosí numerosi che i miei polpastrelli non potranno mai toccarli tutti. Per cui ho l’impressione di scegliere in piena libertà»16. La libertà in punta di dita si rivela un’illusione. La libera scelta è a ben vedere una scelta consumistica. L’uomo del futuro senza mani non ha davvero altra scelta, poiché non agisce. Vive in una post-storia. Non si rende nemmeno conto di essere senza mani. Noi però siamo ancora capaci di criticare in quanto abbiamo ancora le mani, quindi possiamo agire. Solo la mano è in grado di scegliere, di concepire la libertà come azione.
In un regime di controllo totale gli esseri umani si limitano a giocare. Col motto panem et circenses Giovenale descrive una società romana in cui non era piú possibile alcun agire politico. Gli uomini venivano sedati a colpi di cibo gratuito e giochi spettacolari. Il reddito minimo universale e i videogiochi sarebbero la versione moderna del panem et circenses.
Dal possesso all’esperienza
In termini astratti, esperire significa consumare informazioni. Oggi vogliamo piú esperire che possedere, piú essere che avere. L’esperire è una forma di essere. Erich Fromm scrive in Essere o avere: «L’avere si riferisce a cose […] L’essere si riferisce all’esperienza»1. La critica di Fromm, secondo cui la società moderna è piú orientata all’avere che all’essere, oggi non funziona piú poiché viviamo in una società dell’esperienza e della comunicazione che preferisce l’essere all’avere. Non vale piú la vecchia massima dell’avere che recitava «piú ho, piú sono». La nuova massima dell’esperienza recita: piú esperisco, piú sono.
Trasmissioni televisive come Bares für Rares [«contanti in cambio di merce rara», N.d.T.] attestano in maniera eloquente questo cambio di paradigma passato sotto silenzio. Senza alcun dolore, quasi senza pietà ci separiamo dalle cose che a suo tempo ci stavano tanto a cuore. È significativo come la maggioranza dei partecipanti al programma preferisca ricevere le banconote allungate loro dagli «operatori» allo scopo di «viaggiare», come se i viaggi fossero riti di separazione dalle cose. I ricordi conservati nelle cose non hanno improvvisamente valore. Devono cedere il passo a nuove esperienze. Ormai gli uomini non sono piú capaci di indugiare presso gli oggetti o di viverli quali fedeli compagni di viaggio. Le cose del cuore presuppongono un forte legame libidico. Oggi non vogliamo piú legarci né alle cose, né alle persone. I legami sono inattuali. Sminuiscono la possibilità di fare esperienza, ovvero la libertà nel senso consumistico del termine.
Persino dal consumo delle cose ci aspettiamo delle esperienze. Il portato informativo degli oggetti, l’immagine di un marchio, diventa piú importante del loro valore di consumo. Percepiamo le cose primariamente sulla base delle informazioni che contengono. Acquistando cose, compriamo e consumiamo grandi emozioni. I prodotti vengono caricati di emozioni mediante lo storytelling. Per la creazione di valore diventa cruciale la produzione di informazioni distintive che promettono al consumatore esperienze particolari, ovvero l’esperienza di ciò che è particolare. Le informazioni sono sempre piú importanti rispetto alla dimensione reale della merce. Il contenuto estetico è il vero prodotto. L’economia dell’esperienza sostituisce l’economia delle cose.
Le informazioni non si lasciano possedere facilmente come le cose, per cui si fa largo la sensazione che appartengano a tutti. È il possesso a definire il paradigma delle cose, e il mondo fatto di informazioni viene regolato non dal possesso, bensí dall’accesso. I legami a cose o luoghi vengono sostituiti dagli accessi temporanei a reti e piattaforme. Anche la sharing economy indebolisce l’identificazione con le cose che caratterizza il possesso. Il possedere si fonda sullo stare immobili. Basta il costante impulso alla mobilità a complicare l’identificazione con le cose e i luoghi, che esercitano un’influenza sempre minore anche sulla nostra costruzione dell’identità, che oggi passa primariamente per le informazioni. Noi sui social media ci produciamo. L’espressione francese se produire significa mettersi in scena. C’insceniamo. Performiamo la nostra identità.
Per Jeremy Rifkin, il passaggio dal possesso all’accesso è un profondo cambio di paradigma che introduce novità decisive nel mondo della vita. Rifkin profetizza persino l’avvento di una nuova tipologia di essere umano:
L’accesso, access, è il nuovo concetto chiave della nuova epoca. […] L’era dell’accesso, dunque, è governata da un insieme completamente nuovo di assunti economici […] Ma, forse, è ancora piú importante che […] la perdita di importanza della proprietà, da un punto di vista strettamente commerciale, lasci intravedere un cambiamento prodigioso nella maniera in cui le generazioni future percepiranno la natura umana. Un mondo fondato su rapporti di accesso genererà, molto probabilmente, un uomo del tutto diverso da quello attuale2.
L’uomo disinteressato alle cose e al possesso non si sottomette alla «morale cosale»3 fondata sul lavoro e la proprietà. Preferisce il gioco al lavoro, l’esperienza e il divertimento al possesso. Anche l’economia reca tratti giocosi nella sua fase culturale. La messinscena e la performance acquistano un significato sempre maggiore. La produzione culturale, cioè la produzione di informazioni, mutua sempre piú processi artistici. La sua parola d’ordine è creatività.
Nell’epoca delle non-cose si può avvertire un che di utopico nel possesso, caratterizzato da una certa intimità, da una certa interiorità. Solo una relazione intensa con le cose le rende proprietà di qualcuno. Non si possiedono i gadget elettronici. Gli articoli di consumo finiscono in fretta nella spazzatura poiché non li possediamo piú. Il possesso viene interiorizzato e caricato di contenuti psichici. Le cose in mio possesso sono contenitori di emozioni e ricordi. La storia che cresce sulle cose insieme a un loro lungo utilizzo finisce per animare gli oggetti che ci stanno a cuore. Ma solo le cose discrete possono animarsi e starci a cuore mediante un legame intenso e libidico. Gli odierni beni di consumo sono indiscreti, invadenti e ciarlieri. Sono già zeppi di idee ed emozioni precotte che assalgono il consumatore. Non vi penetra quasi nulla della nostra vita.
Secondo Walter Benjamin, il possesso è «il rapporto piú profondo che in assoluto si possa avere con le cose»4. Il collezionista è l’ideale proprietario delle cose. Benjamin lo eleva a figura utopica, a futuro salvatore delle cose che si prefigge il compito di «trasfigurarle». Egli «si trasferisce idealmente, non solo in un mondo remoto nello spazio o nel tempo, ma anche in un mondo migliore, dove gli uomini, è vero, sono altrettanto poco provvisti del necessario che in quello di tutti i giorni, ma dove le cose sono libere dalla schiavitú di essere utili»5.
In quel futuro utopico l’uomo fa un uso diversissimo delle cose, non le consuma piú. Il collezionista quale salvatore degli oggetti si dedica a un’impresa degna di Sisifo: «Togliere alle cose, mediante il suo possesso di esse, il loro carattere di merce»6. Il collezionista di Benjamin s’interessa piú alla storia e alla fisionomia delle cose che al loro valore di consumo, alla loro utilità. L’epoca, la località, il lavoro manuale e il proprietario da cui provengono si cristallizzano nelle mani del collezionista diventando una «magica enciclopedia che nella sua sostanza è il destino dell’oggetto»7.
Il vero collezionista di oggetti funge da contraltare rispetto al consumatore. È un interprete del destino, un fisiognomico del mondo cosale: «Appena li tiene in mano, pare guardare ispirato attraverso di loro, nelle loro lontananze»8.
Benjamin cita il noto proverbio latino habent sua fata libelli (i libri hanno il proprio destino). Secondo lui il libro ha quindi una sorte in quanto cosa, proprietà di qualcuno. Un ebook non è una cosa, bensí un’informazione. Dispone di uno status ontologico ben diverso. Utilizzarlo non equivale a un possesso, ma a un accesso. Nel caso dell’ebook, il libro viene ridotto alle sue informazioni ed è privo d’età, luogo, lavoro manuale e proprietario. Gli manca del tutto quella lontananza auratica dalla quale ci può parlare un destino individuale. Il destino non rientra nell’ordine digitale. Le informazioni non hanno né fisionomia, né destino. Non consentono nemmeno un legame intenso. Non esiste una copia per uso personale dell’ebook. È la mano del proprietario a dotare il libro di un volto inconfondibile, una fisionomia. Gli ebook sono privi di volto e di storia. Vengono letti senza mani. Nello sfogliare è insito quell’elemento tattile costitutivo di qualsiasi relazione. Senza contatto fisico non emergono legami.
Il nostro futuro non corrisponderà molto probabilmente all’utopia ideata da Benjamin, in cui le cose si liberano del loro carattere di merci. Il tempo delle cose è finito. Programmi televisivi come Bares für Rares dimostrano come oggigiorno persino gli oggetti del cuore vengano mercificati. Il capitalismo delle informazioni rappresenta una forma acuita di capitalismo. Al contrario del capitalismo industriale, esso trasforma in merce l’immateriale. Anche la vita assume i contorni di una merce. Tutte le relazioni umane vengono commercializzate. I social media sfruttano interamente la comunicazione. Piattaforme come Airbnb commercializzano l’ospitalità. Il capitalismo delle informazioni conquista ogni angolo della nostra vita, della nostra anima. Le inclinazioni umane vengono sostituite da giudizi e like. Sono soprattutto gli amici a essere contati, e la cultura stessa diventa merce dall’inizio alla fine. Anche la storia di un luogo viene tolta di mezzo mediante lo storytelling, che la rende fonte di valore aggiunto. I prodotti vengono arricchiti di microstorie. La differenza tra cultura e commercio va scomparendo. I luoghi della cultura si consolidano nei termini di marchi redditizi.
La cultura ha la propria origine nella comunità. Essa trasmette i valori simbolici alla base di ogni comunità. Piú la cultura diventa merce, piú si allontana dalla propria origine. La commercializzazione e mercificazione totale della cultura provoca la distruzione della comunità. La «community» spesso evocata dalle piattaforme digitali è una forma merceologica di comunità. Una volta divenuta merce, la comunità cessa di esistere.
Smartphone
All’inizio della sua carriera, il telefono era avvolto in un’aura di potere ineluttabile. Il suo squillo era come un ordine imperioso. In Infanzia berlinese intorno al millenovecento Benjamin descrive come, da bambino, si sentisse inerme dinanzi alla potenza inquietante dell’apparecchio:
A quell’epoca il telefono se ne stava, incompreso ed esiliato, fra il gasometro e il cassone della biancheria sporca, in un angolo del corridoio piú interno, da dove il suo squillo aumentava gli orrori dell’appartamento berlinese. Quando io, quasi piú padrone dei miei sensi, dopo lungo brancolare per il cupo cunicolo arrivavo a bloccare quel tumulto, staccando i due ricevitori pesanti come attrezzi da ginnastica e infilandoci la testa, mi consegnavo senza remissione alla voce che mi arrivava. E nulla mitigava la tremenda violenza con cui mi assaliva. Impotente, pativo che mi sottraesse la coscienza del tempo, del dovere, dei propositi, che annullasse la riflessione, e come il medium obbedisce alla voce che di lui si impossessa dall’aldilà, cosí io mi arrendevo a qualsiasi proposta che mi giungesse attraverso il telefono1.
Il medium è il messaggio. Il telefono che squilla nel corridoio scuro, con i ricevitori pesanti come bilancini, prefigura già il messaggio e gli conferisce un che di inquietante. Cosí, i rumori delle prime conversazioni telefoniche sono «rumori notturni». Il cellulare che oggi ci portiamo appresso nella tasca dei pantaloni non possiede la pesantezza del destino. È leggero e maneggevole. L’abbiamo letteralmente in pugno. Il destino è quel potere estraneo che c’immobilizza. Anche il messaggio in quanto voce del fato ci lascia poco spazio. La mobilità dello smartphone ci dà invece un senso di libertà. Il suo squillo non terrorizza nessuno. Nulla, nel telefono portatile, ci costringe a un’inerme passività. Nessuno è sottoposto alla voce dell’Altro.
Il costante digitare e strisciare delle dita sullo smartphone è un gesto quasi liturgico con effetti ponderosi sul nostro rapporto col mondo. Le informazioni che non m’interessano vengono scacciate alla svelta. I contenuti che mi piacciono vengono invece zoomati con due dita. Ho tutto il mondo in pugno. Il mondo deve orientarsi interamente verso di me. Per cui lo smartphone potenzia l’autoreferenzialità. Digitando come un pazzo, sottometto il mondo ai miei bisogni. Il mondo mi dà l’impressione di una totale disponibilità nell’apparenza digitale.
Il senso del tatto è, secondo Barthes, «il piú demistificante dei nostri sensi, al contrario della vista, che è il piú magico»2. Il bello nel senso enfatico del termine è intoccabile. Impone distanza. Dinanzi all’elevato, noi arretriamo con un senso di riverenza. Preghiamo a mani giunte. Il senso del tatto annulla la distanza. Lo stupore gli è estraneo. Esso demistifica, profana il proprio interlocutore, gli toglie l’aura. Il touch screen elimina la negatività dell’Altro, dell’indisponibile. Esso generalizza l’impulso aptico di rendere ogni cosa a portata di mano. Nell’epoca dello smartphone, persino la vista si sottomette all’impulso aptico e perde il proprio lato magico. Smarrisce ogni stupore. Il vedere che consuma e annulla le distanze assomiglia al tatto, dissacra un mondo che ormai risulta accessibile. L’indice che impazza sul cellullare rende consumabile ogni cosa. L’indice che ordina merci o cibo trasferisce giocoforza il proprio habitus consumistico in altri ambiti. Tutto ciò che tocca assume la forma di una merce. Nel caso di Tinder, si degrada l’Altro a oggetto sessuale. Depredato della propria alterità, anche l’Altro diventa consumabile.
Nella comunicazione digitale, l’Altro è sempre meno presente. Mediante lo smartphone ci ritiriamo in una bolla che ci protegge dall’Altro. Nel quadro della comunicazione digitale spesso scompare anche l’atto di chiamare. L’Altro non viene chiamato appositamente: preferiamo scrivere messaggi di testo invece di chiamare, poiché per iscritto siamo meno esposti all’Altro. In tal modo scompare l’Altro in forma di voce.
La comunicazione via smartphone è senza corpo né sguardo. La comunità ha invece una dimensione corporea. Già a causa della corporeità assente, la comunicazione digitale indebolisce la comunità. Anche lo sguardo consolida la comunità. La digitalizzazione fa scomparire l’Altro come sguardo. L’assenza dello sguardo è corresponsabile della perdita d’empatia nell’epoca digitale. Persino ai bambini piccoli viene impedito l’accesso allo sguardo ogni volta che la loro persona di riferimento fissa lo schermo. Nello sguardo della madre il bimbo trova appiglio, conferma, comunità. Lo sguardo smantella ciò che è estraneo. La mancanza dello sguardo conduce a una relazione distorta con sé e con l’Altro.
Lo smartphone si differenzia dal classico cellulare poiché non è solo un telefono, ma prima di tutto un medium iconico e informativo. Il mondo diventa completamente accessibile e consumabile nel momento in cui viene oggettivato in forma d’immagine:
Bild, immagine […] indica qui […] una forma, come risuona dall’espressione idiomatica tedesca: über etwas im Bilde sein, «essere informati su qualcosa», «vederci chiaro» […] Sich über etwas ins Bild setzen, «informarsi su qualcosa», significa: porsi davanti all’essente stesso, renderselo presente per vedere com’è, e averlo costantemente davanti a sé nel modo in cui è posto3.
Lo smartphone fa il mondo, cioè se ne impadronisce creandolo in forma d’immagini. L’obiettivo fotografico e lo schermo diventano quindi elementi centrali dello smartphone in quanto forzano la trasformazione in immagini del mondo. Le immagini digitali trasformano il mondo in informazioni disponibili. Lo smartphone è un «impianto» nel senso heideggeriano del termine Ge-Stell, poiché racchiude in sé quale essenza della tecnica tutte le forme del rendere disponibile: ordinare, immaginare, creare. Il prossimo passo di civiltà si spingerà oltre la trasformazione del mondo in immagini. Consisterà nel creare il mondo, cioè una realtà iperreale, partendo dalle immagini.
Il mondo è costituito da cose in forma di oggetti. La parola oggetto viene dal verbo latino obicere, che significa opporre, contrapporre, obiettare. In essa è insita la negatività della resistenza. Originariamente, l’oggetto è qualcosa che mi oppone resistenza, mi si contrappone e mi resiste. Gli oggetti digitali non possiedono la negatività dell’obicere. Non li percepisco in quanto resistenza. Lo smartphone è smart poiché sottrae ogni carattere riottoso alla realtà. Basta la sua superficie liscia a trasmettere un senso di resistenza assente. Sul suo levigatissimo touch screen ogni cosa appare docile e gradevole. Con un clic o un colpo di polpastrello tutto diventa disponibile, a portata di mano. Con la sua superficie liscia, esso funge da pietruzza antistress digitale che ci strappa costantemente un mi piace. I media digitali riescono a superare con successo ogni resistenza spazio-temporale, ma è proprio la negatività della resistenza a essere costitutiva dell’esperienza autentica. L’assenza digitale di resistenze e l’ambiente smart portano a una carenza di mondo e di esperienze.
Lo smartphone è il principale infoma del nostro tempo. Esso non rende solo superflue molte cose, bensí derealizza il mondo riducendolo a informazioni. Persino l’aspetto reale dello smartphone arretra a vantaggio delle informazioni. Non viene appositamente percepito. Visti da fuori, gli smartphone sono quasi tutti uguali. Noi osserviamo l’infosfera passando attraverso di essi. Anche un orologio analogico ci fornisce informazioni relative al tempo, ma non è un infoma bensí una cosa, quasi un ornamento. La sua componente essenziale è concreta.
La comunità dominata dalle informazioni e dagli infomi è invece disadorna. Il termine tedesco per ornamento o gioiello, Schmuck, significa in origine «vestito sontuoso». Le non-cose sono nude. L’aspetto caratteristico delle cose è decorativo, ornamentale. Facendo leva su di esso, la vita dimostra insistentemente di non essere pura funzione. Nel barocco, l’ornamentale è un theatrum dei, una messinscena per gli dèi. Noi scacciamo il divino dalla vita sottomettendoci del tutto a funzioni e informazioni. Lo smartphone è un simbolo della nostra epoca. Nulla che lo riguardi è fronzolo. A dominarlo è il liscio e il longilineo. Anche alla sua comunicazione manca la magia delle belle forme. Vi predomina il dritto come un fuso che emerge agendo d’impulso. Lo smartphone acuisce inoltre l’ipercomunicazione che livella, pialla e alla fin fine irreggimenta ogni cosa. Sí, viviamo in una «società delle singolarità», eppure in essa, paradossalmente, si fatica a cogliere il singolare, l’inconfondibile.
Oggi tiriamo fuori lo smartphone dappertutto e deleghiamo a esso le nostre percezioni. Percepiamo la realtà mediante lo schermo. La finestra digitale assottiglia la realtà riducendola a informazioni che noi registriamo. Non avviene alcun contatto fisico con la realtà, derubata della propria presenza. Noi non percepiamo piú le oscillazioni materiali della realtà. La percezione perde corpo. Lo smartphone derealizza il mondo.
Le cose non ci spiano. Ecco perché abbiamo fiducia in esse. Lo smartphone invece non è solo un infoma, bensí anche un efficacissimo informatore che sorveglia senza sosta il suo proprietario. Una volta introdotti nella sua vita interiore algoritmica, ci si sente con giusta ragione perseguitati dal telefono, che ci influenza e ci programma. Non siamo noi a usare lo smartphone, ma viceversa. Il vero agente è lo smartphone. Noi siamo alla mercé di questo informatore digitale dietro la cui superficie numerose figure c’influenzano e ci distraggono.
Lo smartphone non emancipa. La costante raggiungibilità non si differenzia sostanzialmente dalla servitú. Lo smartphone si rivela un campo di lavoro mobile in cui noi c’imprigioniamo di nostra sponte. Inoltre, lo smartphone è un pornophone. Ci denudiamo volontariamente, cosí esso funge anche da confessionale mobile, perpetuando in un’altra forma «il sacro dominio del confessionale»4.
Ogni dominio ha i propri devozionali. Il teologo Ernst Troeltsch parla della «fantasia popolare dei devozionali incatenanti»5. Essi consolidano il dominio trasformandolo in habitus e ancorandolo al corpo. Devoto significa sottomesso. Lo smartphone s’impone come un devozionale del regime neoliberista. Quale dispositivo di sottomissione equivale al rosario, altrettanto mobile e maneggevole. Il like è l’amen digitale. Schiacciando il bottone del mi piace, ci sottomettiamo al contesto dominante.
Le piattaforme come Facebook o Google sono i nuovi feudatari. Noi ariamo instancabili la loro terra e produciamo dati preziosi che loro procedono a cannibalizzare. Ci sentiamo liberi, eppure siamo sfruttati, sorvegliati e influenzati. In un sistema che sfrutta la libertà non si sviluppa alcuna resistenza. Il dominio arriva a compimento nell’attimo in cui coincide con la libertà.
Verso la fine del suo libro Il capitalismo della sorveglianza, Shoshana Zuboff evoca un movimento collettivo di resistenza rimandando alla caduta del muro di Berlino:
Il muro di Berlino è caduto per molti motivi, ma soprattutto perché i cittadini di Berlino Est avevano detto «basta!» Anche noi possiamo dar vita a novità «grandi e belle» che ci permettano di rivendicare il futuro digitale come casa per l’umanità. Basta! Questa dev’essere la nostra dichiarazione6.
Il sistema comunista che opprime la libertà si differenzia in maniera sostanziale dal capitalismo neoliberista della sorveglianza che sfrutta la libertà. Noi siamo troppo obnubilati dalla droga digitale, dall’ebbrezza della comunicazione, per emettere un «basta!», per levare una voce di protesta. Il romanticismo rivoluzionario qui non c’entra nulla. Col suo truism «Protect Me From What I Want», l’artista concettuale Jenny Holzer ha espresso una verità evidentemente sfuggita a Shoshana Zuboff.
Anche il regime neoliberista è smart. Il potere smart non opera mediante ordini e divieti: non ci rende remissivi, bensí dipendenti e drogati. Invece di spezzare la nostra volontà, appaga i bisogni. Vuole piacerci. È permissivo, non repressivo. Non c’impone il silenzio. Anzi, ci viene costantemente, insistentemente richiesto di esternare opinioni, preferenze, bisogni e desideri, di comunicarli, insomma di raccontare la nostra vita. Esso rende invisibile il proprio intento di dominio proponendosi in maniera amichevole, smart. Il soggetto sottomesso non è neppure al corrente della propria sottomissione. Si crede libero. Il capitalismo si compie appieno nel capitalismo del mi piace, che per via della propria permissività non ha bisogno di temere alcuna resistenza, alcuna rivoluzione.
Alla luce della nostra relazione quasi simbiotica con lo smartphone, arriviamo a credere che esso rappresenti un oggetto transizionale. Lo psicoanalista Donald Winnicott descrive in questi termini le cose che permettono al bambino piccolo di approdare in sicurezza alla realtà. È solo grazie agli oggetti transizionali che il bimbo si crea un margine di manovra, una «area intermedia»7 in cui «ci si rilassa come in luogo sicuro, scevro da conflitti»8. Gli oggetti transizionali costruiscono un ponte con la realtà, con l’Altro che si sottrae all’onnipotenza infantile. I bambini piccoli afferrano già molto presto oggetti come il ciuccio, la coperta o il cuscino per metterseli in bocca o accarezzarli. In un secondo momento s’appropriano per intero di un oggetto come può essere una bambola o un orsetto di pezza. Gli oggetti transizionali svolgono una funzione vitale, in quanto dànno al bimbo un senso di sicurezza, gli tolgono la paura di stare da solo, creano fiducia e protezione. Grazie agli oggetti transizionali il bimbo impara a crescere nel mondo. Sono le prime cose del mondo capaci di stabilizzare la vita dei piú piccoli.
Il bambino instaura una relazione molto intensa e intima col proprio oggetto transizionale, che non può né essere modificato né lavato. Nulla ha il permesso di interrompere quell’esperienza ravvicinata. Il bimbo è colto dal panico quando l’amato oggetto gli viene a mancare. Sebbene gli appartenga, l’oggetto transizionale ha per certi versi vita propria. Agli occhi del piccolo si presenta come un interlocutore autonomo, personificato. Gli oggetti transizionali aprono uno spazio dialogico in cui il bimbo incontra l’Altro.
Noi siamo colti dal panico piú totale quando ci viene a mancare lo smartphone. Anche nei suoi confronti abbiamo una relazione intima. Per cui lo lasciamo malvolentieri in altre mani. Possibile quindi intenderlo come un oggetto transizionale, una sorta di orsetto di pezza digitale? A contraddire questa ipotesi vi è già il fatto che lo smartphone sia un oggetto narcisistico, mentre l’oggetto transizionale incarna l’Altro. Il bimbo ci parla, lo coccola come se fosse un’altra persona. Allo smartphone è impossibile fare le coccole. Nessuno lo percepisce sul serio come un interlocutore. Al contrario dell’oggetto transizionale, esso non rappresenta nemmeno una cosa del cuore, quindi insostituibile. Del resto ne acquistiamo regolarmente uno nuovo.
Il gioco con l’oggetto transizionale richiama un’analogia con attività creative della vita adulta, come l’arte. Apre uno spazio libero per il gioco. Il bimbo si proietta nell’oggetto transizionale, dà libero sfogo alle proprie fantasie. L’oggetto transizionale viene caricato di simboli dal bambino, s’addensa diventando un contenitore di sogni. Lo smartphone invece, che ci inonda di stimoli, opprime la fantasia. Gli oggetti transizionali sono privi di stimoli, motivo per cui strutturano e intensificano l’attenzione. L’inondazione di stimoli da parte dello smartphone frammenta l’attenzione, destabilizza la psiche, mentre l’oggetto transizionale agisce su di essa in chiave stabilizzante.
Gli oggetti transizionali promuovono una relazione con l’Altro. Con lo smartphone intratteniamo, di contro, una relazione narcisistica. Esso reca molte analogie coi cosiddetti «oggetti autistici», che possiamo anche chiamare oggetti narcisistici. Gli oggetti transizionali sono morbidi: il bimbo vi trova rifugio e nel farlo non percepisce sé stesso, bensí l’Altro. Gli oggetti autistici sono duri: «La durezza dell’oggetto consente al bimbo, pigiando e manipolando, di sentire piú sé stesso che l’oggetto»9. Agli oggetti autistici manca la dimensione dell’Altro. Non stimolano nemmeno la fantasia. Con loro s’instaura un rapporto ripetitivo, non creativo. È proprio la ripetizione, la coazione a caratterizzare la relazione con lo smartphone.
Gli oggetti autistici costituiscono, come quelli transizionali, un sostituto rispetto alla persona di riferimento assente, ma la reificano riducendola a oggetto. La privano di qualsiasi alterità:
Con gli oggetti autistici abbiamo presentato il caso piú estremo in cui le cose prendono il posto delle persone, arrivando a far sí che si sfugga alle imponderabilità e alle separazioni sempre possibili nonché sottintese nelle relazioni tra persone che agiscono liberamente, anzi, in chiave ancor piú radicale consentono di non percepire affatto gli altri esseri umani come tali10.
La somiglianza tra lo smartphone e gli oggetti autistici è indubbia. Al contrario dell’oggetto transizionale, lo smartphone è duro. Lo smartphone non è un orsetto digitale: è piú che altro un oggetto narcisistico e autistico grazie al quale si percepisce soprattutto sé stessi. Cosí facendo, esso distrugge anche l’empatia. Insieme allo smartphone ci ritiriamo in un ambito narcisistico protetto dalle imponderabilità dell’Altro. Esso rende l’Altro disponibile, reificandolo. Dal tu crea un Es. La scomparsa dell’Altro è proprio il motivo ontologico per cui lo smartphone ci rende soli. Oggi comunichiamo in maniera cosí maniacale ed eccessiva proprio perché siamo soli, perché avvertiamo un vuoto. Tale ipercomunicazione non è tuttavia appagante. Non fa che aggravare la solitudine, poiché le manca la presenza dell’Altro.
Selfie
La foto analogica è una cosa. Non di rado la conserviamo con cura come un oggetto che ci sta a cuore. La sua fragile materialità è esposta all’Altro, al degrado. Nasce, e patisce la morte:
Come un organismo vivente, essa nasce dai granuli d’argento che germinano, fiorisce un attimo, poi subito invecchia. Attaccata dalla luce, dall’umidità, essa impallidisce, si attenua, svanisce1.
La fotografia analogica incarna la fugacità anche sul piano del referente. L’oggetto fotografato si allontana inesorabilmente nel passato. La fotografia è a lutto.
La teoria fotografica di Barthes è dominata da un dramma di morte e resurrezione che si lascia leggere come un elogio della fotografia analogica. In quanto cosa fragile, la fotografia è destinata a morire, eppure è al contempo medium di resurrezione. Essa capta i raggi di luce emessi da un referente e li trattiene mediante sali d’argento. Non si limita a riportare alla memoria i morti, rende anzi possibile esperire una presenza facendoli riapparire vivi. È un «ectoplasma», una magica «emanazione del referente»2, una misteriosa alchimia dell’immortalità: «Il corpo amato è immortalato dalla mediazione di un metallo prezioso: l’argento […] E inoltre bisognerebbe aggiungere che questo metallo, come tutti i metalli dell’Alchimia, è vivo»3. La fotografia è il cordone ombelicale che continua a legare il corpo amato all’osservatore anche dopo la morte: gli consente una rinascita, lo salva dal degrado della morte. Per cui la fotografia «ha qualcosa a che vedere con la resurrezione»4.
Alla base del libro La camera chiara vi è una profondissima elaborazione del lutto. Barthes non fa altro che evocarvi la madre morta. Riferendosi a una foto che la ritrae, tuttavia non inserita nel testo (la madre risplende mediante l’assenza), l’autore scrive:
Per quanto smorta sia, la FOTOGRAFIA del Giardino d’Inverno è per me il tesoro dei raggi che emanavano da mia madre bambina, dai suoi capelli, dalla sua pelle, dal suo vestito, dal suo sguardo, quel giorno5.
Barthes scrive FOTOGRAFIA tutto maiuscolo, come se si trattasse di una formula salvifica, uno shibbòleth per la resurrezione.
L’esperienza diretta della caducità della vita umana, rafforzata dalla fotografia, crea un bisogno di salvezza. Cosí anche Agamben lega la fotografia all’idea della resurrezione. La fotografia è una «profezia del corpo glorioso»6. Dalla fotografia emana una «muta apostrofe», una «esigenza di redenzione»7:
Il soggetto ripreso nella foto esige da noi qualcosa […] Anche se la persona fotografata fosse oggi completamente dimenticata, anche se il suo nome fosse cancellato per sempre dalla memoria degli uomini, ebbene malgrado questo – anzi, precisamente per questo – quella persona, quel volto esigono il loro nome, esigono di non essere dimenticate8.
L’angelo della fotografia non fa che rinnovare la promessa di resurrezione. È un angelo del ricordo e della salvezza, che ci eleva al di sopra della caducità della vita.
La fotografia analogica trasferisce dal negativo sulla carta le tracce di luce emanate dall’oggetto. Per sua natura, è quello che in tedesco si chiama Lichtbild [«immagine di luce», termine usato per le fototessere, N.d.T.]. Nella camera oscura, la luce rinasce. Ecco perché è una camera chiara. Il medium digitale trasforma invece i raggi di luce in dati, vale a dire in relazioni numeriche. I dati sono privi di luce: non sono né chiari né scuri. Interrompono la luce vitale. Il medium digitale infrange la relazione magica che lega l’oggetto alla fotografia mediante la luce. Analogico significa analogo. La chimica ha una relazione analogica con la luce. I raggi di luce emanati dall’oggetto si conservano in sali d’argento. Ma non vi è alcuna analogia, alcuna somiglianza tra la luce e i dati. Il medium digitale traspone la luce in dati, e in tal modo essa si perde. Nella fotografia digitale, l’alchimia cede il passo alla matematica, smitizzando la fotografia stessa.
La fotografia analogica è un «certificato di presenza»9. Attesta il noema «È stato»10. Essa è innamorata della realtà:
Quel che mi interessa in una fotografia è solo e soltanto che mi mostri qualcosa che c’è, e che quindi guardandola non mi venga da dire né piú né meno che «Allora esiste!»11.
Se l’«È stato» fosse la verità della fotografia, allora la fotografia digitale sarebbe solo mera apparenza. La fotografia digitale non è un’emanazione, bensí un’eliminazione del referente. Non vanta una relazione intensa, intima, libidica con l’oggetto. Non si approfondisce nell’amore per l’oggetto. Non lo chiama, non v’instaura un dialogo. Alla sua base non vi è un incontro unico, irripetibile e irrevocabile con l’oggetto. L’atto stesso di vedere viene delegato all’apparecchio. La possibilità di una successiva rielaborazione digitale indebolisce il legame col referente, anzi rende impossibile una dedizione alla realtà. Scollata dal referente, la fotografia diventa autoreferenziale. L’intelligenza artificiale genera una nuova realtà espansa che non esiste, un’iperrealtà priva di qualsiasi corrispondenza con la realtà, col referente reale. La fotografia digitale è iperreale.
La fotografia analogica quale medium del ricordo racconta una storia, un destino. Ad avvolgerla è un orizzonte romanzesco:
La data fa parte della foto […] perché induce a far mente locale, a considerare la vita, la morte, l’inesorabile estinguersi delle generazioni: è possibile che Ernest, scolaretto fotografato da Kertész nel 1931, viva ancora oggi (ma dove? come? Che romanzo!)12.
La fotografia digitale non è romanzesca, bensí episodica. Lo smartphone aiuta a creare una fotografia dotata di tutt’altra temporalità, una fotografia senza spessore temporale, senza ambizione romanzesca. Una fotografia senza destino né ricordo, vale a dire la fotografia istantanea.
Walter Benjamin accenna al fatto che nella fotografia il valore espositivo scalzi sempre piú quello cultuale. Il valore di culto non abbandona però la fotografia senza opporre resistenza. Il «volto dell’uomo» è la sua ultima trincea. Ecco perché il ritratto è al centro delle prime fotografie. Il valore cultuale sopravvive nel «culto del ricordo dei cari lontani o defunti». L’«espressione fuggevole di un volto» produce quell’aura che conferisce alla fotografia una «malinconica e incomparabile bellezza»13.
In forma di selfie, il volto umano torna a conquistare la fotografia. Ma il selfie fa di esso una face da esporre su piattaforme digitali come Facebook. Al contrario del ritratto analogico, il selfie si carica di valore espositivo fino a scoppiare. Da esso sparisce del tutto il valore cultuale. Il selfie è il volto esposto privo di aura. Gli manca la bellezza «malinconica»: a caratterizzarlo è un’allegria digitale.
Non basta il narcisismo per cogliere l’essenza dei selfie. La novità del selfie riguarda il suo status ontologico. Il selfie non è una cosa, bensí un’informazione, una non-cosa. Anche per la fotografia vale la regola secondo cui le non-cose scacciano le cose. Lo smartphone fa sparire le cose fotografiche. I selfie in quanto informazioni valgono solo all’interno della comunicazione digitale, mentre i ricordi, i destini e le storie vengono fatti sparire.
La FOTOGRAFIA della madre di Barthes è una cosa, un oggetto che sta cuore. È espressione della sua persona. È la madre. In essa, la madre è realmente presente. Essa incarna la sua presenza. In forma di cosa del cuore resta però estranea alla comunicazione. Qualsiasi esibizione l’annullerebbe. Questo è proprio il motivo per cui Barthes non la inserisce nel libro, malgrado ne parli di continuo. La sua essenza è l’arcano. Arcanum rimanda alla scatola (arca). La FOTOGRAFIA di Barthes viene conservata in una scatolina, come uno scherzo misterioso. Se venisse mostrata ad altri, perderebbe subito la propria magia. Il proprietario la conserva solo per sé. Questo per sé è del tutto estraneo all’essenza dei selfie e delle foto digitali, che sono messaggi visivi, informazioni. Fare selfie è un atto comunicativo, per cui devono essere esposti allo sguardo degli altri, devono essere condivisi. La loro essenza è l’esibizione, mentre a caratterizzare la FOTOGRAFIA è il mistero.
I selfie non vengono fatti per essere conservati. Non sono un medium del ricordo. Non se ne fanno neppure delle copie. Come ogni informazione, sono vincolati all’attualità. Qui le ripetizioni non hanno senso. I selfie vengono presi in considerazione una volta soltanto, dopodiché il loro status equivale a quello di un messaggio già ascoltato sulla segreteria telefonica. La comunicazione iconica digitale li derealizza riducendoli a mere informazioni. Il sistema di messaggistica Snapchat, che cancella le foto dopo pochi secondi, è in piena sintonia con la loro essenza. Essi hanno la medesima temporalità dei messaggi vocali. Anche le altre foto che facciamo con lo smartphone si perdono come informazioni. Non hanno piú nulla di oggettuale. Il loro status ontologico si differenzia fondamentalmente da quello delle fotografie analogiche, che sono piú monumenti cosali che istantanee non-cosali.
Il sistema di messaggistica Snapchat completa la comunicazione istantanea digitale, incarna il tempo del digitale nella sua forma piú pura. Solo l’attimo conta. Nemmeno la sua «story» è una storia nel senso proprio del termine. Non è narrativa, bensí additiva. Si esaurisce in una sfilza di istantanee. Il tempo digitale si disgrega diventando una semplice successione di presente episodico. Gli manca qualsiasi continuità narrativa. Per cui rende fuggevole la vita stessa. Gli oggetti digitali non consentono alcun indugio: in questo si differenziano dalle cose.
I selfie hanno un carattere ludico. La comunicazione digitale reca tratti ludici. Il phono sapiens scopre la comunicazione quale gioco preferito. È piú homo ludens che homo faber. La comunicazione iconica mediante la fotografia digitale è radicalmente piú idonea a giocare e mettersi in scena rispetto alla semplice comunicazione scritta.
Visto che i selfie sono prima di tutto dei messaggi, sono tendenzialmente ciarlieri. Quindi sfoggiano anche pose estreme. Non esiste il selfie taciturno. I ritratti analogici sono invece, di regola, silenti. Non pretendono attenzioni. È proprio questo silenzio a conferire loro potenza espressiva. I selfie sono sí rumorosi, ma poveri d’espressione. Per via del loro sovraccarico, paiono maschere. L’intervento massiccio della comunicazione iconica digitale sul volto umano ha delle conseguenze. Lo rende merciforme. Benjamin direbbe che alla fine perde la propria aura.
I ritratti analogici sono una specie di natura morta. Hanno il compito di far spiccare la persona. Davanti all’obiettivo ce la mettiamo tutta per far coincidere l’immagine con noi stessi, per avvicinarla alla nostra immagine interiore, cercandola tentoni. Ci fermiamo. Ci rivolgiamo verso la nostra interiorità. Cosí facendo, i ritratti analogici sembrano spesso seri. Anche le pose sono discrete. I selfie invece non sono testimonianze della persona. Espressioni standard come la «duckface» non fanno affatto emergere la persona. Con la lingua di fuori e facendo l’occhiolino sembriamo tutti uguali. Noi ci produciamo, vale a dire c’insceniamo in svariate pose, in svariati ruoli.
Il selfie annuncia la scomparsa dell’essere umano munito di un destino e di una storia. Esso mette in risalto un modo di affrontare la vita che si concede giocoso all’attimo. I selfie non sono mai a lutto. La morte e la caducità sono loro fondamentalmente estranee. I funeral selfies rimandano all’assenza del lutto. Con ciò intendo i selfie scattati ai funerali, accanto alla bara, sorrisi sghembi nell’obiettivo. Un sogghignante Io sono scaraventato contro la morte. Potremmo anche chiamarla elaborazione digitale del lutto.
Intelligenza artificiale
A partire dal suo livello piú profondo, il pensiero è un processo decisamente analogico. Prima che esso colga il mondo, è il mondo a toccarlo, a commuoverlo. L’aspetto emotivo è essenziale per il pensiero umano. La prima immagine di pensiero è la pelle d’oca. Proprio per questo l’intelligenza artificiale non può pensare, perché non le viene la pelle d’oca. Le manca la dimensione affettiva e analogica, quel senso di profonda commozione che dati e informazioni non riescono a portare con sé.
Il pensiero scaturisce da un tutto insito nei concetti, nelle idee e nelle informazioni. Si muove già in un «campo di esperienza»1 prima ancora di rivolgersi alle cose e ai fatti che vi si manifestano. L’essente nel suo complesso, proprio del pensiero, viene inizialmente captato da un medium affettivo come può essere l’umore: «La tonalità emotiva ha già sempre aperto l’essere-nel-mondo nella sua totalità, rendendo solo cosí possibile un dirigersi verso…»2. Prima che il pensiero s’indirizzi a qualcosa, si trova già nei confini di uno stato d’animo fondamentale. È questa situazione emotiva a caratterizzare il pensiero umano. Lo stato d’animo non è uno stato soggettivo che si riflette sul mondo oggettivo. È il mondo. Il pensiero articola successivamente in concetti il mondo incluso nello stato d’animo fondamentale. La profonda commozione scaturisce dall’atto di comprendere, dal lavoro della comprensione:
Abbiamo definito il filosofare come interrogare che afferra concettualmente a partire da un essenziale essere-afferrato dell’esser-ci. Ma tale essere-afferrato è possibile soltanto a partire da e in uno stato d’animo fondamentale dell’esser-ci3.
È lo stato d’animo fondamentale a dar da pensare:
Ogni pensare essenziale richiede che i suoi pensieri e le sue proposizioni ricevano ogni volta di nuovo l’impronta, come metallo, dallo stato d’animo fondamentale4.
L’essere umano in quanto «esser-ci» viene sempre gettato in un mondo pre-disposto. L’esistenza, ovvero l’essere disposti, predispone la coscienza. Nella sua iniziale, profonda commozione il pensiero è per cosí dire fuori di sé. Lo stato d’animo fondamentale lo sposta in un fuori. L’intelligenza artificiale non pensa, poiché non è fuori di sé. Spirito significa in origine essere fuori di sé, in uno stato di profonda commozione. L’intelligenza artificiale sa calcolare in fretta, ma le manca lo spirito. Ai fini del calcolo, la profonda commozione sarebbe solo un disturbo.
Analogo significa corrispondente. Il pensiero quale processo analogico corrisponde a una voce che lo predispone e lo connota. Il pensiero non viene affrontato da questo o quell’essente, bensí dall’essente nel suo complesso, dall’essere dell’essente. La fenomenologia heideggeriana dello stato d’animo illustra la differenza fondamentale tra il pensiero umano e l’intelligenza artificiale. In Che cos’è la filosofia?, Heidegger scrive:
Il corrispondere porge l’orecchio alla voce dell’appello. Ciò che come voce dell’Essere si rivolge a noi e ci chiama in causa determina il nostro corrispondere. «Corrispondere» significa allora: essere determinati ad accogliere e a far propria l’ingiunzione che ci è rivolta, être disposé a partire dall’essere dell’essente […] Il corrispondere è necessariamente e sempre, non solo occasionalmente e di tanto in tanto, un corrispondere disposto all’appello. Esso è in un esser-disposto. E solo sul fondamento dell’esser-disposto il dire proprio del corrispondere riceve la sua precisione, la sua determinazione5.
Il pensiero ascolta, anzi origlia, tende l’orecchio. L’intelligenza artificiale è sorda. Non percepisce quella «voce».
L’«inizio di un filosofare effettivo e vitale» equivale, secondo Heidegger, a «destare uno stato d’animo fondamentale […] che ci pervada radicalmente»6. Lo stato d’animo fondamentale è la forza di gravità capace di radunare attorno a sé parole e concetti. Senza di essa viene a mancare al pensiero la cornice che mette ordine: «Se manca lo stato d’animo fondamentale, tutto non è che un artificioso strepito di concetti e di parole vuote»7. La totalità affettiva inclusa nello stato d’animo fondamentale è la dimensione analogica del pensiero, che non si lascia raffigurare dall’intelligenza artificiale.
La storia della filosofia è secondo Heidegger una storia dello stato d’animo fondamentale. Il pensiero cartesiano è predisposto da dubbi, mentre lo stupore platonico connota il pensiero stesso. Alla base del cogito di Descartes vi è lo stato d’animo fondamentale del dubbio. Heidegger descrive cosí l’umore che pervade la filosofia moderna:
Per lui [Descartes] il dubbio diviene quella disposizione in cui l’esser-disposto oscilla in consonanza con l’ens certum, con l’essente nel suo essere assolutamente certo. La certitudo diviene quella fissazione dell’ens qua ens che si ha sul fondamento dell’indubitabilità del cogito (ergo) sum per l’ego dell’uomo. […] La disposizione della fiducia nella certezza assoluta della conoscenza, raggiungibile in ogni tempo, resta il πάθος [pathos] e quindi l’ἀρχή [arché] della filosofia moderna8.
Il pathos è l’inizio del pensiero. L’intelligenza artificiale è apatica, vale a dire senza pathos, senza passione. Essa calcola.
L’intelligenza artificiale non ha alcun accesso a orizzonti che si lasciano piú intuire che delineare con nettezza. Questo «presagire» non è però «il primo gradino della scala del sapere». Con esso s’intende semmai il «padiglione che ricopre tutto lo scibile, vale a dire che lo protegge nascondendolo»9. Heidegger individua questa intuizione nel cuore. L’intelligenza artificiale è senza cuore. Il pensiero accorato misura, tasta con mano degli spazi prima di lavorare ai concetti. In questo si distingue dal calcolo che non abbisogna di spazi:
Se questo sapere «determinato dal cuore» è un presagire, allora non dovremo mai considerare questo presagire come un costituirsi di opinioni che fluttuano in un elemento opaco. Questo presagire ha una chiarezza e una determinatezza sue proprie ed è comunque fondamentalmente diverso dalla sicurezza che l’intelletto calcolante dà a sé stesso10.
Seguendo Heidegger, l’intelligenza artificiale sarebbe quindi incapace di pensare poiché non ha accesso alla totalità da cui prende le mosse il pensiero. Essa è priva di mondo. La totalità quale orizzonte semantico rileva molto di piú rispetto agli obiettivi che si pone l’intelligenza artificiale. Il pensiero in forma d’intelligenza artificiale procede in maniera diversissima. La totalità costruisce la cornice iniziale che consente ai fatti di emergere. Il cambio di stato d’animo quale cambio di cornice equivale a un cambio di paradigma che fa insorgere fatti nuovi11. L’intelligenza artificiale processa invece fatti precostituiti, che restano uguali a sé stessi. Non può munirsi di fatti nuovi.
Big Data suggerisce un sapere assoluto. Le cose rivelano le loro segrete correlazioni. Ogni cosa diventa calcolabile, prevedibile e influenzabile. Si annuncia una nuovissima èra del sapere. Ma in realtà abbiamo a che fare con una forma davvero primitiva dello stesso. Il data-mining mette a nudo le correlazioni. Secondo la logica di Hegel, la correlazione rappresenta la forma piú bassa di sapere. La correlazione tra A e B significa: A si verifica spesso insieme a B. Nel caso delle correlazioni non si sa come mai le cose avvengano in un determinato modo. È cosí e basta. La correlazione mostra una probabilità, non una necessità, e in questo si differenzia dalla relazione causale alla base di una necessità: A provoca B. Il livello successivo di sapere è rappresentato dall’interazione, ovvero: A e B s’influenzano a vicenda. Cosí si constata un legame obbligato tra A e B. Questo livello di sapere, tuttavia, non dà ancora accesso alla comprensione: «Se ci si limita a considerare un contenuto dato soltanto dal punto di vista dell’azione reciproca, in effetti si segue un procedimento dal quale il concetto è assente»12.
È solo il «concetto» a cogliere il nesso tra A e B. È C a includere davvero A e B. Mediante C si comprende il nesso tra A e B. Il concetto ricostruisce la cornice, la totalità che comprende A e B – e ne chiarisce la relazione. A e B sono solo «momenti di un terzo termine piú alto». Il sapere nel senso proprio del termine è possibile solo al livello del concetto: «Il concetto è immanente alla cosa stessa; è ciò mediante cui le cose sono quelle che sono, e concepire un oggetto, significa diventare consapevoli del suo concetto»13. Solo a partire dal concetto onnicomprensivo C si può capire fino in fondo la relazione tra A e B. La realtà stessa viene traslata nel sapere appena si lascia cogliere dal concetto.
Big Data mette a disposizione un sapere rudimentale che resta limitato a correlazioni e riconoscimenti di schemi, senza tuttavia consentire la comprensione di alcunché. Il concetto forma invece una totalità che include e comprende ogni suo fattore. La totalità è una forma di conclusione. Il concetto è conclusione sillogistica. «Tutto è un sillogismo» significa «Tutto è un concetto»14. Anche la ragione è conclusione: «Il sillogismo è il razionale ed è tutto il razionale». Big Data è additivo. Ciò che è additivo non forma una totalità, una conclusione. Gli manca il concetto, quell’appiglio in grado di radunare tante parti diverse in una totalità. L’intelligenza artificiale non raggiunge mai il livello concettuale del sapere. Non comprende i risultati che calcola. Il calcolo si distingue dal pensiero in quanto non forma concetti e non è in grado di avanzare da una conclusione all’altra.
L’intelligenza artificiale impara dal passato, ma il futuro che essa calcola non è un futuro vero e proprio. L’intelligenza artificiale è cieca dinanzi agli eventi. Il pensiero dispone invece di un proprio carattere di evento, in quanto lancia nel mondo qualcosa di completamente Altro. All’intelligenza artificiale manca proprio la negatività della rottura capace di far decollare il Nuovo enfaticamente inteso. Essa si limita a perpetuare l’Uguale. Intelligenza significa scegliere tra (inter-legere): essa compie solo una scelta tra opzioni precostituite, alla fin fine tra uno e zero. Non si spinge oltre il precostituito per arrivare, cosí, all’ignoto.
Il pensiero nel senso enfatico del termine crea un nuovo mondo. È diretto al completamente Altro, all’Altrove:
La parola del pensiero è povera di immagini e priva di attrattive […] E tuttavia, il pensiero cambia il mondo. Lo trasforma nella profondità sorgiva, sempre piú oscura, di un enigma; proprio in quanto è piú oscura, questa profondità è promessa di una piú grande chiarezza15.
L’intelligenza macchinica non raggiunge quell’oscura profondità sorgiva ed enigmatica. Le informazioni e i dati non recano alcuna profondità. Il pensiero umano è molto di piú del calcolo e della risoluzione dei problemi. Esso rischiara e illumina il mondo. Crea un mondo completamente altro. Dall’intelligenza macchinica emerge soprattutto il pericolo che il pensiero umano le si allinei diventando a sua volta macchinico.
Il pensiero si nutre dell’eros. In Platone, logos ed eros intrattengono una relazione intima. L’eros è precondizione del pensiero. In questo senso, anche Heidegger segue Platone. Sulla strada per l’ignoto, il pensiero viene ispirato dall’eros: «Io lo chiamo Eros, secondo le parole di Parmenide il piú antico tra gli dèi. […] Il colpo d’ala di quel dio mi sfiora ogni volta che compio un passo essenziale nel pensiero e mi avventuro per una strada inesplorata»16. Il calcolo è privo di eros. I dati e le informazioni non seducono.
Secondo Deleuze, la filosofia si eleva mediante un «faire l’idiot»17. Non è l’intelligenza, bensí l’idiozia a caratterizzare il pensiero. Ogni filosofo che crea un nuovo pensiero, un nuovo idioma, una nuova lingua è un idiota. Prende congedo da tutto ciò che è stato. Abita un livello d’immanenza del pensiero ancora vergine, non scritto. Facendo l’idiota, il pensiero azzarda il grande salto nell’assolutamente Altro, nell’ignoto. La storia della filosofia è una storia di idiozie, di balzi idioti:
Il vecchio idiota voleva delle evidenze alle quali sarebbe arrivato da solo: nell’attesa, avrebbe dubitato di tutto […] Il nuovo idiota non vuole nessuna evidenza […] vuole l’assurdo: non è piú la stessa immagine del pensiero18.
L’intelligenza artificiale non riesce a pensare poiché non è in grado di «faire l’idiot». È troppo intelligente per essere idiota.
Vedute delle cose
Che stupefacente sottomissione! Le cose sono sagge come le immagini. Letteralmente: come le immagini! Ormai non turbano piú, proprio per nulla. Cosí non vengono manco prese in considerazione con la coda dell’occhio1.
FRANCIS PONGE
D’abord la chose est l’autre, le tout autre qui dicte ou qui écrit la loi […] une injonction infiniment, insatiablement impérieuse à laquelle je dois m’assujettir […]2.
JACQUES DERRIDA
Insidie delle cose
Nella storica serie di cartoni animati di Topolino, la realtà oggettuale viene rappresentata diversamente nel corso del tempo3. Nei primissimi episodi le cose si comportano in maniera alquanto subdola. Sviluppano una vita propria, un’autentica caparbietà da agenti imprevedibili. L’eroe s’azzuffa di continuo con loro: viene letteralmente scaraventato a destra e a manca dalle cose, che lo maltrattano con gusto. Circondarsene significa andare incontro a dei pericoli. Porte, sedie, letti a ribalta, armadi o veicoli possono trasformarsi in qualsiasi momento in oggetti pericolosi, in trappole. La meccanica porta alle estreme conseguenze i propri lati piú diabolici. Tutto sbatte e fa chiasso. L’eroe è esposto all’arbitrio, all’imprevedibilità delle cose, fonti di frustrazione costante. L’umorismo della serie a cartoni animati è in massima parte riconducibile alle insidie delle cose.
Anche Charlie Chaplin, nei suoi primi film, è a dir poco alla mercé delle insidie degli oggetti che gli svolazzano attorno, gli si mettono di traverso. La comicità della situazione si basa sui duelli con le cose che, strappate al loro classico contesto funzionale, conducono una vita propria. Va in scena un’anarchia delle cose. In Charlot usuraio, Chaplin «visita» una sveglia come se fosse un corpo umano, armato di stetoscopio e martelletto, e finisce per aprirla con un trapano manuale e un apriscatole. Gli ingranaggi della sveglia fatta a pezzi diventano autonomi e si mettono in moto. Sembrano vivi4.
Le insidie delle cose appartengono ormai al passato. Ora non ci bastonano piú, non si comportano in maniera distruttiva e riottosa. Perdono i loro aculei. Non le percepiamo piú nella loro alterità o estraneità. In tal modo s’indebolisce il senso di realtà. È soprattutto la digitalizzazione ad acuire l’evoluzione del mondo, derealizzandolo. Ormai ci spiazza l’affermazione di Derrida secondo cui la cosa è il «completamente Altro» (le tout autre) che ci detta «legge» e al quale dovremmo sottometterci. Oggi le cose sono quanto di piú sottomesso vi sia. Sono piegate ai nostri bisogni.
Anche Topolino conduce oggigiorno una vita digitale, smart, non-cosale. Il suo mondo si digitalizza, s’informatizza. Nella nuova serie La casa di Topolino, la realtà oggettuale viene rappresentata in chiave assai diversa. Le cose perdono d’improvviso la loro vita autonoma diventando volenterosi utensili per la risoluzione di problemi. La vita stessa si riduce a mera risoluzione di problemi. L’atteggiamento nei confronti delle cose smarrisce qualsiasi tratto conflittuale. Esse non appaiono piú in forma di agenti recalcitranti.
Topolino e i suoi amici possono per esempio cadere in una trappola, al che basta loro esclamare «Oh Toodles» e fanno comparire un dispositivo che ha l’aria di uno smartphone a forma di testa di topo. Sullo schermo c’è un menu con quattro «strumentopoli», quattro oggetti da selezionare per risolvere problemi. Per ogni problema, Toodles ha pronta una soluzione. L’eroe non entra piú in rotta di collisione con la realtà oggettuale. Non deve piú confrontarsi con la resistenza delle cose. Quindi persino ai bambini viene inculcato il concetto della fattibilità, in base al quale per ogni cosa esiste una soluzione rapida, cioè una app, e la vita stessa altro non è che una sequela di risoluzioni di problemi.
Il rovescio delle cose
Sindbad naufraga durante il viaggio ma si salva insieme ai compagni su una piccola isola che sembra un giardino dell’Eden. I naufraghi vagabondano e vanno a caccia, ma quando fanno un falò per arrostire la preda, il terreno s’inarca di punto in bianco. Gli alberi si spezzano. L’isola è in realtà il dorso di un enorme pesce che aveva riposato cosí a lungo da farsi crescere addosso un terreno fertile. Il calore del fuoco risveglia la creatura, che s’immerge in profondità. Sindbad e i suoi vengono scaraventati in acqua. Ernst Bloch legge questa favola come un’allegoria della nostra relazione con le cose, e si oppone a qualsiasi atteggiamento strumentale nei loro confronti. Bloch concepisce la cultura umana nei termini di una fragile struttura eretta sul «rovescio delle cose». Noi conosciamo solo «il davanti e il lato superiore della loro compiacenza tecnica, della loro amichevole incorporazione nel nostro mondo», ma non vediamo né il loro «ventre» né l’elemento «in cui tutto fluttua»5.
Bloch soppesa la possibilità che l’estrema disponibilità delle cose altro non sia che il loro dorso rivolto verso di noi, mentre in realtà esse appartengono a «un mondo che si è inserito a strati dentro quello umano»6. L’altra faccia delle cose servizievoli reca invece una vita autonoma e irrazionale che mette i bastoni tra le ruote alle intenzioni umane. Per cui alla fine non siamo piú padroni a casa nostra:
Il fuoco nella stufa scalda anche se noi non ci siamo. Quindi nel frattempo avrà ben continuato a bruciare, nella stanza riscaldata. Ma non è tanto sicuro, è oscuro ciò che il fuoco ha fatto prima, ciò che i mobili hanno fatto durante la nostra assenza. Difficile provare una qualche ipotesi, ma altrettanto difficile confutarne altre, per quanto fantasiose. Ebbene: i topi ballano intorno al tavolo, ma cos’ha fatto o cos’è stato nel frattempo il tavolo? Il fatto piú perturbante potrebbe proprio essere che tutto al nostro ritorno sia lí «come se nulla fosse stato» […] Da sempre è un sentimento angoscioso vedere le cose solo nell’istante in cui siamo noi a vederle7.
Forse, mediante l’Internet delle cose contrastiamo quella paura profondamente insita in noi secondo cui le cose, in nostra assenza, potrebbero far danni. Le infosfere incatenano le cose, e l’Internet delle cose è la loro prigione poiché le addomestica riducendole a volenterosi esecutori dei nostri bisogni.
In passato, gli esseri umani riconoscevano in tutta evidenza una maggiore autonomia alle cose. Nel romanzo di successo Auch Einer (1878) del filosofo Friedrich Theodor Vischer, gli oggetti ne fanno di tutti i colori. Il protagonista si sente costantemente minacciato dall’«insidia dell’oggetto». Le cose lo tormentano, e lui fa loro la guerra. Ogni tanto si vendica ricorrendo a un’esecuzione:
Dall’alba a notte fonda, finché gli uomini sono in giro, l’oggetto pensa ai brutti tiri, alle insidie. Bisogna affrontarlo come fa il domatore con la bestia una volta avventuratosi nella gabbia; non molla per un attimo il suo sguardo, e la bestia non molla il suo […] Cosí tutti gli oggetti sono in agguato, la matita, la penna, il calamaio, la carta, il sigaro, il bicchiere, la lampada – tutti, tutti aspettano il momento in cui abbassiamo la guardia. […] E come la tigre, nell’attimo in cui si sente inosservata, si lancia furibonda sull’infelice, lo stesso fa l’oggetto […]8.
Nella letteratura del passato, le cose agiscono non di rado come soggetti autonomi. Oggi sarebbero impensabili racconti come Adventures of a Shilling (1710) di Joseph Addison, oppure Autobiography of a Pocket-Handkerchief (1843) di James Fenimore Cooper, in cui le cose sono protagoniste e narrano la propria vita. Anche molte figure letterarie del XX secolo devono confrontarsi con la vita autonoma delle cose. In ciò si vede come il progetto dell’èra moderna, vale a dire la totale strumentalizzazione delle cose affinché diventino passive e disponibili, mostri ancora delle crepe. La percezione si lascia permeare dal fondo delle cose, dal loro dorso.
L’anima del Törless di Musil possiede per certi versi la «misteriosa qualità […] di sentirsi talvolta assalita anche dalle cose inanimate, dai semplici oggetti, come da cento occhi silenziosi e indagatori»9. Törless viene adocchiato dalle cose. Gli oggetti piú comuni sortiscono su di lui un effetto particolare, come se avessero la parola. Il mondo è «pieno di voci senza suono»10. L’Altro come sguardo, l’Altro come voce era ancora presente a quei tempi. Anche Sartre sa cosa vuol dire lasciarsi toccare dalle cose. Il protagonista della Nausea entra costantemente in contatto con le cose, tanto da esserne inorridito:
Gli oggetti son cose che non dovrebbero commuovere, poiché non sono vive. Ci se ne serve, li si rimette a posto, si vive in mezzo ad essi: sono utili, niente di piú. E a me, mi commuovono, è insopportabile. Ho paura di venire in contatto con essi proprio come se fossero bestie vive11.
Nel mondo di Sartre, l’Altro è ancora intatto. L’Altro come sguardo è costitutivo della relazione col mondo. Persino lo stormire delle frasche, una finestra socchiusa o un lieve movimento delle tende vengono percepiti come uno sguardo12. Oggi il mondo è del tutto privo di sguardo. Non ci osserva piú. Smarrisce qualsiasi alterità.
Per Rilke le cose emanano calore, tant’è che sogna di dormirci accanto:
Voglio assopirmi, una volta almeno, accanto a ogni cosa, stancarmi del suo calore, sognare al ritmo del suo respiro, su tutte le mie membra sentire quella cara, libera, ignuda vicinanza, rafforzarmi al profumo del suo sonno, e presto, di mattina, prima che si desti, prima di ogni addio, riprendere il cammino, riprendere il cammino…13.
Le belle cose artigianali scaldano il cuore. Il calore delle mani si trasferisce nelle cose. Il gelo macchinico fa invece scomparire il calore cosale. Nell’epoca moderna, le cose si raffreddano diventando oggetti riottosi. Anche Walter Benjamin constata questo raffreddamento delle cose:
Dalle cose svanisce il calore. In maniera lenta ma ostinata gli oggetti d’uso giornaliero allontanano l’uomo da sé. Insomma, giorno dopo giorno, il superamento delle resistenze segrete – non soltanto quelle manifeste – che essi gli oppongono lo costringe a un lavoro immane. Per non esserne irrigidito, al loro gelo deve far fronte con il proprio calore, e deve afferrare i loro aculei con destrezza infinita per non restare dissanguato14.
È passato da molto il tempo in cui le cose avevano degli «aculei». La digitalizzazione strappa alle cose ogni materialità «recalcitrante», ogni riottosità. Il carattere dell’obicere viene a mancare del tutto. Esse non ci oppongono alcuna resistenza. Gli infomi non hanno aculei tali da costringerci a toccarli facendo grande attenzione. Anzi, aderiscono ai nostri bisogni. Nessuno può ferirsi toccando un liscissimo smartphone.
Oggi le cose non sono nemmeno fredde. Non sono né calde né fredde. Sono per cosí dire fiacche, prive di qualsiasi vitalità. Non rappresentano piú un interlocutore, un controcorpo. Chi si sente oggi adocchiato, chiamato in causa dalle cose? Chi le percepisce come dotate di un volto? Chi vi riconosce una fisionomia viva? A chi, le cose, paiono animate? Chi vi subodora un’esistenza autonoma? Chi si sente minacciato o ammaliato dalle cose? Chi gioisce del caldo sguardo delle cose? Chi le ammira nella loro alterità? I bambini di oggi entrano forse di soppiatto, col cuore che batte, nella stanza in penombra in cui tavoli, armadi e tende sembrano fare smorfie grottesche?
Il mondo odierno è molto povero di sguardo e di voce. Esso non ci guarda, né si rivolge a noi. Perde qualsiasi alterità. Lo schermo digitale che definisce la nostra esperienza del mondo ci protegge dalla realtà. Il mondo diventa irreale, viene derealizzato e disincarnato. L’ego che va potenziandosi non si lascia piú toccare dall’Altro: si limita a specchiarsi sul dorso delle cose.
Il fatto che l’Altro scompaia è davvero un evento tragico. Eppure si compie in maniera cosí impercettibile che non ne siamo nemmeno consci. L’Altro come mistero, l’Altro come sguardo, l’Altro come voce scompare. Privato della propria alterità, l’Altro si degrada al livello di oggetto disponibile, da consumare. La scomparsa dell’Altro riguarda anche il mondo delle cose, che smarriscono il proprio peso specifico, la propria vita, la propria cocciutaggine.
Se il mondo è unicamente costituito da oggetti disponibili e consumabili, non possiamo entrarvi in relazione. Non è neppure possibile instaurare una relazione con le informazioni. Ogni relazione presuppone un interlocutore autonomo, una reciprocità, un tu: «Quando parla il tu, non ha un qualcosa, non ha nulla. Ma è in relazione»15. Un oggetto disponibile e consumabile non è un tu, bensí un Es. La mancanza di relazione e di legame provoca una crescente povertà di mondo. Basta il diluvio di oggetti digitali a innescare una perdita di mondo. Lo schermo è assai povero di mondo e realtà. Senza un interlocutore, senza un tu non facciamo che girare intorno a noi stessi. La depressione è povertà di mondo a livelli patologici, e la digitalizzazione contribuisce a diffonderla. Le infosfere acuiscono la nostra autoreferenzialità. Sottomettiamo ogni cosa ai nostri bisogni. Ma basterebbe una rianimazione dell’Altro per liberarci da questa povertà di mondo.
Spettri
Nel racconto di Kafka La preoccupazione di un padre di famiglia, una creatura riottosa di nome Odradek infesta la casa e allarma il narratore eponimo. Odradek è un rocchetto a forma di stella che si muove da solo su degli stecchini, come se fossero gambe. Gli manca qualsiasi propensione al servizio o alla sottomissione. È sí una cosa, ma sfugge a ogni contesto funzionale. Nulla, in lui, rimanda a una qualche funzionalità:
Si sarebbe tentati di credere che un tempo questa figura avesse avuta una conformazione funzionale ad alcunché; e che ora fosse soltanto guasta. Ma non pare sia cosí; non se ne vede, almeno, nessun indizio. A sostegno di una ipotesi simile non vi sono né giunture né fratture. L’insieme appare bensí come privo di senso ma, a suo modo, completo. Impossibile dire qualcosa di piú, perché Odradek è straordinariamente mobile e non riesci a prenderlo16.
Odradek si sottrae anche a qualsiasi categorizzazione spaziale, in quanto è «senza fissa dimora». Di solito si trattiene negli interstizi, come la tromba delle scale o il corridoio. A volte non lo si vede per mesi interi. Odradek rappresenta la caparbietà dell’oggetto. Incarna l’Altro, il completamente Altro. Segue leggi proprie.
Per quanto cocciuto, osserva il narratore, Odradek «davvero, non fa male a nessuno». Kafka riserva ben altri pensieri alle non-cose. In una lettera a Milena scrive come tutta l’infelicità della sua vita derivi dallo scrivere lettere17. Le lettere avrebbero portato nel mondo un terribile logoramento dell’anima. Scrivere lettere equivarrebbe a un contatto tra fantasmi18. Si può pensare a una persona lontana, si può toccare una persona vicina, ma tutto il resto va oltre ogni umana risorsa. I baci scritti non arrivano a destinazione. Vengono ogni volta acchiappati dagli spettri lungo la via e risucchiati. L’umanità sente tutto questo, e lo combatte. Per eliminare il piú possibile gli spettri tra le persone e raggiungere la pace dell’anima si è fatto ricorso a invenzioni quali la ferrovia, l’automobile e l’aeroplano, eppure non basta, non sono che stratagemmi improvvisati durante il crollo. La controparte è molto piú forte. Dopo la posta sono stati inventati il telegrafo, il telefono e il telegrafo senza fili. Cosí gli spettri non moriranno mai di fame mentre l’umanità, conclude Kafka, è condannata.
Dinanzi alla digitalizzazione, Kafka constaterebbe rassegnato che gli spettri hanno ottenuto il loro trionfo definitivo sugli uomini, in quanto hanno pure inventato Internet, l’email e lo smartphone. Nella rete, del resto, sguazzano spettri. Le infosfere sono davvero spettrali. Impossibile trattenervi qualcosa. Le non-cose sono cibo per spettri.
La comunicazione digitale danneggia considerevolmente le relazioni umane. Oggi siamo ovunque collegati senza tuttavia essere legati gli uni agli altri. La comunicazione digitale è estensiva. Le manca qualsiasi intensità. Connessione non è sinonimo di relazione. Il tu viene sostituito ovunque dall’Es. La comunicazione digitale abolisce l’interlocutore personale, il volto, lo sguardo, la presenza corporea. In tal modo, accelera la scomparsa dell’Altro. Gli spettri abitano l’inferno dell’Uguale.
Gli esseri umani sono creature della vicinanza, ma la vicinanza non è eliminazione della distanza. La lontananza le appartiene. Vicinanza e lontananza sono la stessa cosa. Per cui l’essere umano, quale creatura della vicinanza, è al contempo una creatura della lontananza. Ecco perché Kafka sostiene che si possa toccare una persona vicina o pensare a una lontana, mentre tutto il resto va oltre le nostre risorse. La comunicazione digitale distrugge sia la vicinanza, sia la lontananza, rendendo ogni cosa priva di distanza. La relazione con l’Altro presuppone una distanza. Essa fa sí che il tu non precipiti nell’Es. Nell’epoca dell’assenza di distanza, la relazione cede il passo al contatto privo di distacco.
Agli infomi manca del tutto la caparbietà dell’oggetto. Essi sono l’esatto contrario di Odradek, la cosa riottosa. Si dedicano interamente alla propria funzionalità, sottomettendosi agli ordini. L’infoma di nome Alexa, che al contrario di Odradek ha un domicilio fisso, è molto ciarliero. E mentre al muto Odradek, come scrive Kafka, «non possono porre domande difficili», Alexa accetta anche i quesiti piú complessi ed è felice di fornire una risposta. Nella nostra smart home, nessuna cosa allarmerà il «padre di famiglia».
Magia delle cose
Oggi percepiamo la realtà soprattutto in termini di informazioni. Lo strato informativo, posato sulle cose come una membrana senza pori, scherma la percezione da qualsiasi intensità. L’informazione rappresenta la realtà, ma la sua predominanza rende difficile esperire la presenza19. Noi consumiamo informazioni senza sosta, ed esse riducono i contatti fisici. La percezione perde profondità e intensità, corpo e volume. Non si approfondisce nello strato di presenza della realtà. Si limita ad accarezzare la sua superficie informativa.
La massa d’informazioni che si piazza davanti alla realtà ne scalza lo strato cosale. Già Hugo von Hofmannstahl constata: «[…] le parole si sono messe davanti alle cose. Il sentito dire ha inghiottito il mondo»20. Nella sua celebre Lettera di Lord Chandos, il narratore finzionale racconta esperienze di presenza aventi forza di epifanie. Cose poco appariscenti come una caraffa, un insetto che vi nuota dentro, un melo deperito, una pietra ricoperta di muschio o un erpice abbandonato sul campo, «su cui altrimenti lo sguardo scivola con ovvia indifferenza», assumono d’improvviso «un carattere tanto elevato e commovente» e scuotono l’osservatore con «un flusso di divino sentire, che cresce soave e repentino»21. Le epifanie intense suscitano nell’osservatore un «pensiero febbrile […] piú immediato, piú fluido, piú ardente delle parole»22. In tal modo si evoca una magica relazione col mondo fondata non sulle rappresentazioni intese come idee e significati, bensí sul contatto fisico diretto, sulla presenza.
Né la «vista del cielo stellato», né il «maestoso suono dell’organo»23 suscitano un’esperienza di presenza. È piuttosto l’«insieme di cose da nulla»24 a provocare una delizia enigmatica e muta. In questi attimi di epifania l’essere umano entra in un «rapporto nuovo e presago con l’intera esistenza» e inizia a «pensare con il cuore»25. Ciò porta con sé anche momenti di profonda «beatitudine»26. Il narratore aspira alla lingua cosale «con cui mi parlano le cose mute e che forse un giorno, nella tomba, userò per rispondere davanti a un giudice sconosciuto»27.
L’incremento dell’attenzione verso le cose coincide con una dimenticanza, una perdita di sé. Là dove l’Io s’indebolisce, diventa ricettivo dinanzi al muto linguaggio delle cose. L’esperienza della presenza presuppone un’esposizione, una vulnerabilità. Senza ferite, alla fin fine odo solo l’eco di me stesso. La ferita è l’apertura, l’orecchio teso all’Altro. Oggi tali attimi epifanici non sono piú possibili, anche solo per il fatto che l’ego va rafforzandosi. Non si lascia quasi piú toccare dalle cose.
La teoria fotografica di Barthes è trasferibile alla realtà stessa. Egli distingue due elementi della fotografia. Il primo, lo studium, riguarda quell’ampio campo di informazioni che registriamo osservando una fotografia. Si tratta del «vastissimo campo del desiderio noncurante, dell’interesse diverso, del gusto incoerente: mi piace / non mi piace, I like / I don’t»28. Lo studium rientra nell’ambito del to like e non del to love. Vi si accompagna un «interesse svagato, piano, irresponsabile»29. Le informazioni visive possono ampiamente scuotere, ma non «feriscono». Non emerge alcuno «sgomento». Allo studium manca qualsiasi tipo di impetuosità. Non crea delle intensità. La percezione alla sua base è estensiva, additiva e cumulativa. Lo studium è una lettura. Gli manca qualsiasi magia.
Il secondo elemento della fotografia si chiama punctum. Esso interrompe lo studium. Qualcosa, «partendo dalla scena, come una freccia, mi trafigge»30. Il punctum lacera il continuum informativo: è un luogo di massima intensità e densità, vi è insito un che di indefinibile che si sottrae a qualsiasi rappresentazione: «La impossibilità di definire è un buon sintomo di turbamento […] L’effetto è sicuro, ma inindividuabile: esso non trova il suo segno, il suo nome; è netto e tuttavia plana in una zona indefinita di me stesso»31.
Lo studium è dotato di una «coscienza superiore»32. Io lascio che la mia attenzione scivoli, disinvolta, sul vasto campo delle informazioni. Il punctum invece mi riduce in uno stato di assoluta passività. M’indebolisce. Soffro una perdita di ego. Qualcosa mi «punge» in maniera preconscia. Qualcosa mi «incanta», mi «ferisce». Una singolarità mi tocca, mi colpisce: è senza nome e fa breccia in un’area ignota dell’Io che si sottrae al mio controllo.
Barthes chiama le fotografie che si esauriscono a livello di studium «unarie», in quanto trasportano solo informazioni facilmente comprensibili. Una volta ridotta a informazioni consumabili, la realtà stessa diventa uniforme. La realtà quale informazione rientra nell’ambito del to like, non in quello del to love. Il mi piace inonda il mondo. La negatività dell’Altro è invece insita in ogni esperienza intensa. La positività del like trasforma il mondo in un inferno dell’Uguale.
Barthes annovera anche la fotografia pornografica tra quelle unarie: essa è liscia, mentre la fotografia erotica è un’immagine «alterata, intaccata»33. Nessuna informazione reca fratture, per cui non esiste l’informazione erotica. Per loro natura, le informazioni sono pornografiche. Ciò che è sempre disponibile e viene esposto senza sosta non seduce. L’erotismo presuppone invece un «campo cieco» che si sottrae alla visibilità, all’evidenza: «La presenza (la dinamica) di questo campo cieco è, credo, ciò che distingue la foto erotica dalla foto pornografica»34. Il «campo cieco» è il luogo della fantasia, che si apre solo quando si chiudono gli occhi.
Il punctum della realtà fora il campo della rappresentazione e fa irrompere la presenza. Esso crea attimi epifanici. La digitalizzazione assolutizza lo studium riducendo la realtà a informazioni. Dallo schermo digitale non spunta una freccia che trafigge l’osservatore. Le informazioni non sono appuntite come frecce, anzi rimbalzano contro l’ego che va rafforzandosi. La massa d’informazioni che riveste la realtà protegge la percezione dal punctum della realtà. Il baccano informativo impedisce esperienze di presenza, vere e proprie rivelazioni in cui è insito un momento di silenzio.
Freud descrive la «cosa» nei termini di un complesso di percezioni che si sottraggono alla rappresentazione35. Essa «si impone» rifiutando che le venga attribuita qualsiasi caratteristica. A definirla è invece questa singolarità che s’impone, la negatività del completamente Altro. In tal modo essa segna una frattura nel campo del simbolico, vale a dire nello studium. Anche Lacan osserva, in merito alla cosa: «In das Ding c’è il vero segreto»36. La cosa quale punto cieco rappresenta l’esatto contrario dell’informazione e della trasparenza. È l’intrasparente puro e semplice, descrive qualcosa che si ritira con decisione in clandestinità. Se le cose abituali, che tutti i giorni raggiungono la nostra percezione, fossero rappresentazioni dell’ordine simbolico, ecco che la misteriosa cosa in sé sarebbe una NON COSA (achose). La NON COSA è il reale che sfugge al simbolico passando attraverso la rete della rappresentazione. È il punctum della realtà, quel «campo cieco» (champ aveugle) o «sottile fuori-campo» (hors-champ subtil )37 che intralcia lo studium, il vasto campo delle informazioni.
Oblio delle cose nell’arte
Le opere d’arte sono cose. Persino le opere d’arte linguistiche come le poesie, che noi normalmente non trattiamo come oggetti, hanno un carattere cosale. In una lettera a Lou Andreas-Salomé, Rilke scrive: «In qualche modo devo arrivare anch’io a fare delle cose; cose non plastiche, scritte, – realtà che nascono dal mestiere»38. La poesia quale costrutto formale di significanti, di segni parlanti, è quindi una cosa in quanto non si lascia risolvere mediante significati. Possiamo sí leggere una poesia puntando al significato, ma non è questo ad animarla. La poesia dispone di una dimensione sensuale e corporea che si sottrae al senso, al significato in senso stretto. È proprio l’eccesso del significante ad addensare la poesia in una cosa.
Non possiamo leggere una cosa. La poesia in quanto cosa oppone resistenza alla lettura che consuma senso ed emozioni, come capita coi gialli o i romanzi piú accessibili. È una lettura, quest’ultima, che vuole scoprire. È pornografica. La poesia si sottrae invece a qualsiasi «soddisfazione romanzesca»39, a qualsiasi consumo. La lettura pornografica si oppone a quella lettura erotica che indugia presso il testo come se fosse un corpo, una cosa. Le poesie non vanno d’accordo con la nostra èra pornografica e consumistica. Proprio per questo motivo oggi non le leggiamo quasi piú.
Robert Walser descrive la poesia nei termini di un bel corpo, come una cosa corporea:
A mio modo di vedere, la bella poesia dev’essere un bel corpo che […] fiorisce sulla carta a partire da parole smemorate, quasi prive di idee. Tali parole formano la pelle che va a ricoprire il contenuto, cioè il corpo. L’arte non consiste nel dire delle parole, bensí nel formare un corpo poetico, cioè nel far sí che le parole non siano che lo strumento per la costruzione di un corpo-poesia […]40.
Una volta trasferite sulla carta, le parole divengono «prive di idee» e «smemorate». La scrittura viene quindi liberata dall’intento di munire le parole di un senso inequivocabile. L’autore si lascia andare a un processo quasi inconscio. La poesia s’intesse di significanti liberi dalla fatica di produrre senso. Il poeta opera senza idee: a caratterizzarlo è una ingenuità mimetica. Il suo impegno è orientato alla formazione di un corpo, di una cosa, partendo dalle parole. Queste, come fossero pelle, non abbracciano un significato, bensí si tendono aderendo al corpo. Poetare è un atto amoroso, un gioco erotico col corpo.
Il materialismo di Walser consiste nell’intendere la poesia come un corpo. La lirica non lavora quindi alla costruzione di senso, bensí a quella di un corpo. I significanti non rimandano primariamente a un significato, anzi si addensano e vanno oltre, fino a creare un corpo bello e misterioso che seduce. La lettura allora non è ermeneutica, bensí aptica: è un tocco, una carezza. Si accoccola a contatto con la pelle della poesia. Gode del suo corpo. La poesia come corpo, come cosa offre una particolare presenza antecedente alla rappresentazione cui si dedica l’ermeneutica.
L’arte si allontana sempre piú da quel materialismo che concepisce l’opera come una cosa. Andando oltre il dovere di produrre senso, esso consente un gioco spensierato coi significanti e vede nella lingua una materia ludica. Francis Ponge condividerebbe senza indugi il materialismo di Walser:
A partire dal momento in cui si osservano parole (e le espressioni verbali) come un materiale, occuparsene diventa molto piacevole. Proprio come può essere piacevole per un pittore lavorare coi colori e le forme: giocarvi è quanto di piú divertente41.
La lingua è un parco giochi, un «luogo dato ai divertimenti». Le parole non sono primariamente portatrici di significati. Anzi, bisogna «trarne il massimo piacere al di là del loro significato»42. Ecco perché l’arte che si consacra al senso è avversa al piacere.
La poetica di Ponge fa di tutto per portare le cose nella loro alterità, nella loro caparbietà, in seno alla lingua e oltre la loro utilità. La lingua non ha la funzione di descriverle, di rappresentarle. L’ottica cosale di Ponge reifica anzi le parole, le avvicina a uno status di cosa. Mediante una mimetica naïf, essa instaura la corrispondenza segreta tra lingua e cosa. Ecco allora che, come nel caso di Walser, l’autore è privo di idee.
Anche la voce possiede una dimensione cosale-corporea che si rivela proprio nella sua «grana», nella «voluttà dei suoi suoni-significanti»43. L’aspetto cosale della voce rende udibile la lingua intesa come organo fatto di mucose, rende udibile il suo desiderio. Esso forma la pelle sensuale della voce, che in tal modo non solo si articola, ma s’incarna. La lingua del tutto dedita al significato è senza corpo, senza godimento, senza desiderio. Come Walser, anche Barthes parla in maniera esplicita di pelle, di corpo della lingua:
C’è qualcosa, manifesto e ostinato (non si sente che questo), che è al di là (o al di qua) del senso delle parole […] qualcosa che è direttamente il corpo del cantore, portato con uno stesso movimento al vostro ascolto, dal fondo delle cavità, dei muscoli, delle mucose, delle cartilagini […] come se una stessa pelle tappezzasse la carne interiore dell’esecutore e la musica che egli canta44.
Barthes distingue due forme di canto. Il «geno-canto» è dominato dal principio del piacere, dal corpo, dal desiderio, mentre il «feno-canto» si consacra alla comunicazione, alla trasmissione di senso. Nel feno-canto imperversano le consonanti che lavorano al senso, al significato. Il geno-canto usa invece le consonanti come semplice «trampolino della vocale ammirevole»45. Le vocali abitano il corpo lussurioso, il desiderio. Formano la pelle della lingua. Fanno venire la pelle d’oca. Il feno-canto fatto di consonanti non tocca nessuno.
L’opera d’arte come cosa non è una mera latrice di pensieri. Non illustra nulla. A guidare il processo espressivo non è un concetto chiaro, bensí uno stato febbrile non ben specificato, un delirio, un’intensità, un impulso non articolabile, un desiderio. Nel saggio Il dubbio di Cézanne, Merleau-Ponty scrive:
L’espressione non può essere allora la traduzione di un pensiero già chiaro, perché i pensieri chiari sono quelli che sono già stati detti in noi stessi o da altri. La «concezione» non può precedere l’«esecuzione». Prima dell’espressione, non c’è nient’altro che una febbre vaga46.
Un’opera d’arte significa piú di tutti i significati che se ne possono evincere. Questo eccesso di significati è paradossalmente dovuto alla rinuncia al significato stesso. Si fonda sull’eccesso del significante.
L’aspetto problematico dell’arte odierna consiste nella sua tendenza a comunicare un’opinione precostituita, una convinzione morale o politica. Essa cerca cioè di comunicare informazioni47. La concezione anticipa la realizzazione. Cosí facendo, l’arte si riduce a mera illustrazione. Non vi è alcun indefinibile stato febbrile a guidare il processo espressivo. L’arte non è piú artigianato che, privo di intenzioni, modella la materia in una cosa, bensí un’opera di pensiero che trasmette un’idea precostituita. L’arte è colta da una smemoratezza cosale: si lascia sequestrare dalla comunicazione, diventa gravida di informazioni e discorsi. Vuole insegnare invece di sedurre.
Le informazioni distruggono il silenzio dell’opera d’arte in quanto cosa: i dipinti «sono muti e immobili in un senso che è del tutto estraneo all’informazione»48. Se osserviamo un’immagine solo a partire dalle informazioni, ci sfugge la sua caparbietà, la sua magia. È proprio l’eccesso del significante a far apparire l’opera d’arte magica e misteriosa. Il mistero dell’opera d’arte non consiste tuttavia nel celare informazioni che altrimenti si lascerebbero scoprire. Il mistero è dato piuttosto dal fatto che i significanti circolano senza essere fermati da un significato, dal senso:
Il segreto. Qualità seduttrice, iniziatica, di qualcosa che non può essere detto perché non ha senso, qualcosa di non detto che pure circola. […] Una complicità che non ha niente a che fare con un’informazione tenuta nascosta. D’altronde se pure i due partner volessero svelare il segreto, non potrebbero farlo, perché non c’è niente da dire… Tutto quello che può essere rivelato passa a lato del segreto […] [il segreto] è il contrario della comunicazione, eppure lo si condivide49.
Il regime dell’informazione e della comunicazione non va d’accordo col mistero, che rappresenta un avversario dell’informazione. Il mistero è un mormorio della lingua che non ha nulla da dire. Cruciale ai fini dell’arte è la «seduzione sotto il discorso, invisibile, di segno in segno, circolazione segreta»50. La seduzione si verifica al di sotto del senso, al di qua dell’ermeneutica: è piú rapida, piú agile del senso e del significato.
L’opera d’arte ha due livelli, quello rivolto alla rappresentazione e il lato che le dà le spalle. Potremmo chiamarli rispettivamente feno-strato e geno-strato. L’arte moralizzante, politicizzata, gravida di discorsi non dispone di un geno-strato. Ha delle opinioni ma nessun desiderio. Il geno-strato quale luogo del mistero dota l’opera d’arte di un’aura da NON COSA, in quanto esso rifiuta qualsiasi attribuzione di senso. La NON COSA impressiona poiché non informa. È il ventre, il misterioso cortile interno, il «sottile fuori-campo» (hors-champ subtil ) dell’opera d’arte, il suo inconscio. Resiste alla smitizzazione dell’arte.
La mano di Heidegger
Heidegger si riconosce enfaticamente nel lavoro e nella mano, come se avesse intuito che l’uomo del futuro sarebbe stato senza mani e, invece di lavorare, avrebbe propeso per il gioco. Una sua lezione su Aristotele riportata da Hannah Arendt iniziava con le seguenti parole: «Nacque, lavorò e morí»51. Pensare è lavorare. In un secondo momento, Heidegger descrive il pensiero come una forma di lavoro manuale: «Forse pensare è semplicemente la stessa cosa che costruire un armadio. È comunque un mestiere (Hand-Werk)»52. La mano rende il pensiero un procedimento decisamente analogico. Heidegger direbbe: l’intelligenza artificiale non pensa poiché è senza mani.
La mano di Heidegger difende con decisione l’ordine terreno da quello digitale. Il termine digitale viene da digitus, dito in latino. Noi contiamo e calcoliamo con le dita, che sono numeriche, cioè digitali. Heidegger distingue esplicitamente la mano dalle dita. La macchina da scrivere per la quale sono necessarie solo le dita «sottrae all’uomo la dignità essenziale della mano»53. Essa distrugge la «parola» degradandola a «veicolo di trasporto», a «informazione»54. Il ticchettio dei tasti «va e viene non piú tramite la mano che scrive e propriamente agisce»55. Solo la «grafia» si avvicina all’essenza della parola. Secondo Heidegger, la macchina da scrivere è una «nube priva di segni»56 quindi digitale, un cloud che cela l’essenza stessa della parola. La mano è invece un «segno» in quanto indica «ciò che si rivolge al pensiero»57. Solo la mano capta il dono del pensiero. La macchina da scrivere è agli occhi di Heidegger un’antesignana del computer: fa della «parola» una «informazione». Si avvicina cosí all’apparecchio digitale. La fabbricazione del computer viene resa possibile dal «processo per cui il linguaggio diventa sempre piú mero strumento di informazione»58. La mano non conta, non fa di conto. Rappresenta il non contabile, il non calcolabile, il «singolare puro e semplice, il quale nella sua singolarità uninumerale è unicamente l’Uno unicamente unente prima di ogni numerazione»59.
Già l’analisi che in Essere e tempo Heidegger fa dello «strumento» dimostra come sia la mano a svelarci l’ambiente nella sua forma originaria. Una cosa si mostra inizialmente come un ente a portata di mano, «usabile». Se afferro d’improvviso una matita, essa non mi appare come un oggetto con determinate caratteristiche. Devo innanzitutto ritirare la mano e fissare con calma la matita, se me la voglio immaginare come un oggetto. La mano che afferra esperisce la cosa in maniera piú originaria rispetto all’osservazione immaginifica:
Quanto meno la cosa-martello è solo oggetto di uno stare a guardare, quanto piú adeguatamente viene adoperata, e tanto piú originario si fa il rapporto ad essa e maggiore il disvelamento in cui essa ci viene incontro in ciò che è, cioè come mezzo. È il martellare a scoprire la specifica «usabilità» del martello. Il modo di essere del mezzo, in cui questo si manifesta da sé stesso, lo chiamiamo utilizzabilità60.
La mano precede qualsiasi idea. Il pensiero di Heidegger cerca costantemente di penetrare in un ambito esperienziale reso inaccessibile dal pensiero che immagina e materializza, e che viene prima di esso. È proprio la mano ad avere accesso all’ambito originario dell’essere, antecedente a qualsiasi forma di materializzazione.
La cosa in quanto strumento viene esperita in Essere e tempo nella sua servibilità. Nell’Origine dell’opera d’arte, analizzando lo «strumento» per la seconda volta, Heidegger tenta di farsi largo in un ambito ancora piú profondo dell’essere, che anticipa persino la servibilità: «La strumentabilità dello strumento consiste certamente nella sua servibilità. Ma la stessa servibilità quiesce nella pienezza di un essere essenziale dello strumento. Noi chiamiamo questo essere: l’affidabilità»61. L’«affidabilità» è l’esperienza primaria della cosa, antecedente alla servibilità stessa. Heidegger illustra il concetto di «affidabilità» rifacendosi a un dipinto di van Gogh che raffigura un paio di scarpe di cuoio. Come mai Heidegger sceglie come esempio proprio delle scarpe? Le scarpe proteggono il piede, per molti versi legato alla mano. È interessante come Heidegger sposti l’attenzione sul piede, cosa che sarebbe del tutto superflua visto che tutti sanno a cosa servono le scarpe: «Come esempio scegliamo uno strumento abituale: un paio di scarpe contadine. […] Questo strumento serve da rivestimento dei piedi»62.
Il dipinto di van Gogh raffigura proprio le sue scarpe. Si tratta in tutta evidenza di scarpe da uomo. Heidegger fa tuttavia delle osservazioni molto personali:
La contadina porta le scarpe nel campo. Solo qui esse sono ciò che sono. Lo sono tanto piú schiettamente quanto meno la contadina, lavorando, pensi alle scarpe, le guardi oppure anche solo le senta. La contadina sta e cammina con esse ai piedi. È cosí che le scarpe servono realmente63.
Questo passo ricorda la summenzionata analisi in Essere e tempo. Il martello mi appare per quello che è, cioè come un arnese, nell’esatto momento in cui io, invece di fissarlo, lo prendo in mano e martello. Allo stesso modo le scarpe funzionano sul serio solo quando la contadina le infila e va. L’essenza della cosa-scarpa non è tuttavia l’utilità. Usando un linguaggio visivo, Heidegger rimanda a un livello esperienziale antecedente a quello della servibilità:
Nell’oscura apertura dell’interno scalcagnato dello strumento-scarpa è impressa la fatica dei passi compiuti lavorando. Nella massiccia pesantezza dello strumento-scarpa è trattenuta la tenacia del lento cammino lungo gli estesi e sempre uguali solchi del campo, che un vento aspro percuote. Sul cuoio ristagna l’umidità e fecondità del terreno. Sotto le suole si trascina la solitudine del sentiero campestre al calar della sera. Nello strumento-scarpa vibra il tacito e segreto appello della terra, il suo silente dono di messi maturande e il suo inesplicato rifiutarsi nella deserta aridità del campo invernale. Da questo strumento traspirano la dignitosa apprensione per la sicurezza del pane, la muta gioia del sopravvivere al bisogno, la trepidazione all’annuncio della nascita e l’angoscia per l’incombente minaccia della morte. Questo strumento appartiene alla terra ed è custodito nel mondo della contadina64.
L’«affidabilità» della cosa consiste nel fatto che essa immerge le persone in quelle relazioni col mondo capaci di offrire un appiglio. La cosa, con la sua «affidabilità», è una cosa del mondo. Rientra nell’ordine terreno. Se, come oggi, essa viene scollegata da quella pienezza relazionale che crea mondi esaurendosi nella mera funzionalità, ecco che scompare anche l’affidabilità: «Il singolo strumento viene consunto e usurato […] Cosí la strumentità va incontro alla desolazione, decade a mero strumento. Tale desolazione della strumentità è lo svanire dell’affidabilità […] A questo punto è visibile ormai solo la cruda servibilità»65.
L’esistenza umana va a piedi sulla terra. Il piede di Heidegger simboleggia lo stare coi piedi per terra: unisce l’essere umano alla terra, che gli offre appiglio e rifugio. Il sentiero di campagna di Heidegger ci aiuta «a incedere lungo la vastità di quell’umile paesaggio»66. Mediante la propria affidabilità, la cosa consente all’essere umano di mettere piede sulla terra. Il piede offre peraltro un ulteriore indizio del perché Heidegger si aggrappi con tale forza alla mano. Mani e piedi rimandano al luogo del pensiero di Heidegger. Incarnano l’ordine terreno. L’uomo senza mani del futuro è anche senza piedi. Sfugge alla terra librandosi nel cloud digitale.
La cosa di Heidegger è una cosa del mondo: «La cosa coseggia e riunisce il mondo»67. Il verbo dingen, letteralmente «cosare», significa «riunire». E allora la cosa «raduna» i nessi di senso in cui trova spazio l’esistenza umana. Heidegger chiama «quadratura» la struttura del mondo latrice di senso, in quanto il mondo è costituito da quattro elementi che offrono un appiglio: la «terra», il «cielo», i «divini» e i «mortali». Secondo Heidegger, le cose sono «il ruscello e la montagna (Bach und Berg)», «l’airone e il cervo (Reiher und Reh)», «lo specchio e la fibbia (Spiegel und Spange)», «il libro e il quadro (Buch und Bild)» o «la corona e la croce (Krone und Kreuz)»68. Le continue allitterazioni del tedesco suggeriscono un ordine del mondo semplice, che deve rispecchiarsi nelle cose. Heidegger ci sprona ad affidarci alla metrica, al ritmo dell’ordine terreno, al peso del mondo.
Heidegger insiste sulla misura interiore della terra. La sua fede si fonda sull’esistenza di «un approvare e un ordinare»69 che va oltre la volontà umana e a cui l’essere umano si deve piegare. La permanenza sulla terra non viene prodotta, bensí approvata. Il tardo Heidegger ha in mente un’esistenza senza cruccio, un «esser-sicuro» che si sottrae tuttavia alla volontà umana:
Sicuro, securus, sine cura, significa: senza cura. Il procurare ha qui il modo dell’imporsi premeditato lungo le vie e con i mezzi dell’incondizionato dis-porre […] L’esser-sicuro è il recondito requiescere nella rete dell’intero nesso70.
A detta di Heidegger, gli esseri umani sono i «condizionati». La «cosa» alberga nella «rete dell’intero nesso» che fornisce appiglio, l’«esser-sicuro». Il filosofo si scaglia con decisione contro l’incipiente ordine digitale in cui il mondo resta «impiegabile come un sistema di informazioni»71. L’ordine digitale punta all’incondizionato, mentre l’ordine terreno stabilisce il condizionamento umano:
L’uomo è sul punto di abbattersi su tutta la terra e di lanciarsi nella sua atmosfera, di usurpare la nascosta vigenza della natura, riducendo quest’ultima alla forma di un insieme di forze […] Questo stesso uomo insorgente e sovrastante è extrastante, non piú in grado di dire semplicemente che cosa è, di dire che cosa è il fatto che una cosa è72.
La mano di Heidegger è vincolata all’ordine terreno, per cui non afferra il futuro umano. Da tempo ormai l’uomo non abita la «terra» e il «cielo». Diretto com’è all’assenza di vincoli, si lascia alle spalle anche i «mortali» e i «divini». Bisognerà eliminare anche le ultime cose (ta eschata). L’essere umano si lancia in volo verso l’incondizionato. Ci stiamo dirigendo verso un’epoca trans- e post-umana in cui la vita altro non è che mero scambio di informazioni. L’uomo si libera della propria vincolatezza, della fatticità, che però fa di lui quel che è. Umano viene da humus, quindi dalla terra. La digitalizzazione è un passaggio coerente verso l’abolizione dell’humanum. Probabile che il futuro umano sia già segnato: l’essere umano si distrugge per assolutizzarsi.
Cose del cuore
Nel Piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry c’è una scena che illustra bene cos’è una cosa che sta a cuore. Il piccolo principe incontra una volpe e le propone di giocare. La volpe sostiene di non poterlo fare, in quanto lui non l’ha ancora «addomesticata». Al che il piccolo principe chiede alla volpe cosa significa «addomesticare» (apprivoiser). La volpe risponde:
È una cosa che ormai non si usa piú […] Vuol dire «creare legami» […] Tu per me ora non sei altro che un ragazzino identico a centomila altri ragazzini. E io non ho bisogno di te. E neanche tu hai bisogno di me. Per te io non sono altro che una volpe uguale a centomila altre volpi. Ma se tu mi addomestichi, avremo bisogno l’uno dell’altra. Tu diventeresti per me unico al mondo. Io diventerei per te unica al mondo…73.
Oggi i legami intensi perdono sempre piú di significato. Sono soprattutto improduttivi, poiché solo quelli deboli accelerano il consumo e la comunicazione. Cosí il capitalismo distrugge sistematicamente i legami. Oggi anche le cose del cuore sono rare. Cedono il passo agli articoli usa e getta. Prosegue la volpe: «Gli uomini non hanno piú tempo di conoscere niente. Comprano dai mercanti cose già bell’e fatte. Ma visto che non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno piú amici»74. Oggi Saint-Exupéry avrebbe potuto affermare che esistono pure i negozi per gli amici, chiamati Facebook o Tinder.
Solo dopo aver incontrato la volpe il piccolo principe si rende conto come mai la rosa per lui è cosí unica: «È lei che io ho protetto con un paravento […] È lei che ho ascoltato lamentarsi, vantarsi, o persino ogni tanto stare zitta. Perché è la mia rosa»75. Il piccolo principe le dà tempo dandole «ascolto». L’ascolto è rivolto all’Altro. Il vero ascoltatore si espone all’Altro senza riserve: in assenza di questa esposizione all’Altro, l’Io rialza il capo. La debolezza meta-fisica per l’Altro è costitutiva di un’etica dell’ascolto quale etica della responsabilità. L’ego che va rafforzandosi non riesce ad ascoltare poiché sente parlare, ovunque, solo sé stesso.
Il cuore batte per l’Altro. Anche nelle cose del cuore incontriamo l’Altro. Spesso, sono proprio un dono dell’Altro. Oggi invece non abbiamo tempo per l’Altro. Il tempo, inteso come tempo del sé, ci acceca nei confronti dell’Altro. Solo il tempo dell’Altro riesce a creare un legame intenso, amicizia, comunità. È tempo buono. Cosí parla la volpe: «È il tempo perso per la tua rosa che rende la tua rosa cosí importante. Gli uomini si sono dimenticati di questa verità […] ma tu non la devi dimenticare. Tu sarai per sempre responsabile di quel che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa»76.
La volpe spera che il piccolo principe le faccia visita sempre allo stesso orario, rendendo la visita un rito. Il piccolo principe le chiede cos’è un rito, e la volpe risponde: «È un’altra cosa che non si usa piú. […] È ciò che rende un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora dalle altre ore»77. I riti sono tecniche temporali di accasamento78. Fanno dell’essere-nel-mondo un essere-a-casa. Sono nel tempo ciò che le cose sono nello spazio. Essi stabilizzano la vita strutturando il tempo. Sono architetture di tempo: rendono il tempo abitabile, calpestabile come una casa. Oggi al tempo manca una struttura solida. Non è una casa, bensí un flusso trascinante. Nulla gli offre appiglio. Il tempo che precipita in avanti non è abitabile.
Sia i riti, sia le cose del cuore sono punti fermi dell’esistenza, in grado di stabilizzarla. A caratterizzarli è la ripetizione. La coazione a produrre e consumare elimina le ripetizioni, genera un impulso verso il nuovo. Nemmeno le informazioni sono ripetibili. Esse smantellano la durata già a partire dal loro respiro cosí corto, sviluppano un impulso rivolto a stimoli sempre nuovi. Le cose del cuore non contengono stimoli, per cui sono ripetibili.
L’espressione francese apprendre par cœur (imparare a memoria) significa impossessarsi mediante la ripetizione. Solo le ripetizioni arrivano al cuore, che deve il proprio ritmo proprio alla ripetizione. La vita da cui viene eliminata qualsiasi ripetizione è priva di ritmo, di battito. Il ritmo stabilizza anche la psiche. Esso conferisce una forma al tempo, agli elementi in sé instabili: «Il ritmo è la riuscita della forma alle (aggravanti) condizioni della temporalità»79. Nell’epoca delle grandi emozioni, degli impulsi e degli eventi irripetibili, la vita perde forma e ritmo. Diventa radicalmente volatile.
Il tempo delle cose che stanno a cuore, il tempo del cuore appartiene al passato. Il cuore rientra nell’ordine terreno. Sulla porta di casa di Heidegger è affisso il motto biblico: «Custodisci il tuo cuore piú di ogni altra cosa, poiché da esso provengono le sorgenti della vita»80. Anche Saint-Exupéry evoca una forza del cuore capace di creare vita. Prima di congedarsi, la volpe confida un segreto al piccolo principe: «È molto semplice: si vede bene soltanto col cuore. L’essenziale non lo vedono, gli occhi»81.
Silenzio
Il sacro è un fenomeno del silenzio. Ci fa tendere l’orecchio: «Myein, iniziare, significa etimologicamente “chiudere” – gli occhi, ma soprattutto la bocca. All’inizio dei riti sacri, l’araldo “comandava il silenzio” (epitattei ten siopen)»1. Oggi viviamo in un tempo senza consacrazione. Il verbo fondamentale del nostro tempo non è «chiudere» bensí aprire, «gli occhi, ma soprattutto la bocca». L’ipercomunicazione, il baccano comunicativo sconsacrano e profanano il mondo. Nessuno sta in ascolto. Ciascuno produce sé stesso. Ecco perché il capitalismo non ama il silenzio. Il capitalismo informativo ingenera la coazione a comunicare.
Il silenzio acuisce l’attenzione nei confronti dell’ordine superiore, che tuttavia non dev’essere necessariamente una struttura di dominio e potere. Il silenzio può essere quanto di piú pacifico, affabile, foriero di gioia. Chi comanda può costringere i sottoposti a tacere, ma il silenzio imposto non è silenzio. Il vero silenzio è libero da imposizioni. Non opprime, bensí eleva. Non deruba: regala.
Cézanne vede nel fare silenzio il compito stesso del pittore. La montagna Saint-Victoire gli appare come uno svettante massiccio di silenzio al quale egli deve obbedire. Cézanne fa silenzio ritirandosi e diventando nessuno. Diventa una persona che sta in ascolto:
Tutta la sua volontà deve essere silenziosa. L’artista deve far tacere in sé stesso tutte le voci dei pregiudizi, deve dimenticare, dimenticare, fare silenzio, essere un’eco perfetta. Allora, sulla sua lastra sensibile si potrà inscrivere tutto il paesaggio2.
Lo stare in ascolto è l’atteggiamento religioso per eccellenza. L’Hyperion di Hölderlin dichiara:
Tutto il mio essere tace e si tende in ascolto, quando l’onda lieve dell’aria scherza sul mio petto. Perso nel vasto azzurro, levo spesso lo sguardo all’etere o lo affondo nel sacro mare, ed è come se uno spirito fraterno mi abbracciasse, e il dolore della solitudine si sciogliesse nella vita della divinità. Essere uno col Tutto: è questa, la vita della divinità, questo il paradiso dell’uomo. Essere uno col Tutto ciò che vive, ritornare in un beato oblio di sé nel Tutto della Natura: questo è il culmine dei pensieri e delle gioie, la sacra cima del monte, il luogo della calma eterna3.
Noi non conosciamo piú quel sacro tacere che ci eleva alla vita divina, fino al cielo. La beata dimenticanza di sé cede il passo all’eccessiva autoproduzione dell’ego. L’ipercomunicazione digitale, la connessione senza confini non crea legami, non crea mondi. Anzi, ha un effetto isolante e accentua la solitudine. L’Io isolato, privo di mondo, depresso, si allontana da quell’esser soli foriero di gioia, da quella sacra cima del monte.
Abbiamo eliminato qualsiasi trascendenza, qualsiasi ordine verticale che necessiti del silenzio. Il verticale cede il passo all’orizzontale. Nulla svetta. Nulla si approfondisce. La realtà viene livellata riducendosi a flussi di informazioni e dati. Ogni cosa s’allarga e prolifera. Il silenzio è un fenomeno della negatività. Esso è esclusivo, mentre il baccano deriva da una comunicazione permissiva, estensiva, eccessiva.
Il silenzio scaturisce dall’indisponibile, che accentua e approfondisce l’attenzione creando uno sguardo contemplativo dotato della pazienza per il lungo e il lento. Là dove ogni cosa è disponibile e raggiungibile non si crea alcuna attenzione profonda. Lo sguardo non indugia: vaga come quello di un cacciatore.
Per Nicolas Malebranche, l’attenzione è la preghiera naturale dell’anima. Oggi l’anima non prega piú. Si produce. La comunicazione estensiva distrae l’anima. Col silenzio sono possibili solo attività simili alla preghiera. Ma la contemplazione si oppone alla produzione. La coazione a produrre e comunicare distrugge l’inabissamento contemplativo.
Secondo Barthes, la fotografia deve essere «silenziosa». Lui non ama le foto «reboanti». Allora «per vedere bene una fotografia, è meglio alzare la testa o chiudere gli occhi»4. Il punctum, la verità di una fotografia si manifesta nel silenzio, quando si chiudono gli occhi. Le informazioni perseguite dallo studium sono invece rumorose, s’impongono alla percezione. È solo il silenzio, il chiudere gli occhi a mettere in moto la fantasia. Barthes cita Kafka: «Si fotografano le cose per scacciarle dalla mente. Le mie storie sono un modo per chiudere gli occhi»5.
Senza fantasia c’è solo pornografia. Oggi persino la percezione reca tratti pornografici. Si compie nei termini di un contatto diretto, una copula di immagine e occhio. L’erotismo ha invece luogo a occhi chiusi. Solo il silenzio, solo la fantasia apre dinanzi alla soggettività i profondi spazi interiori del desiderio:
La soggettività assoluta si raggiunge solo in uno stato, in uno sforzo di silenzio (chiudere gli occhi, è far parlare l’immagine nel silenzio). La foto mi colpisce se io la tolgo dal suo solito bla-bla […] non dire niente, chiudere gli occhi […]6.
Il disastro della comunicazione digitale prende le mosse dal fatto che non abbiamo piú tempo per chiudere gli occhi, i quali anzi sono costretti a una «voracità continua»7. Essi smarriscono il silenzio, la profonda attenzione. L’anima non prega piú.
Il baccano è spazzatura acustica e visiva che colma l’attenzione fino all’orlo. Michel Serres riconduce l’inquinamento planetario alla volontà d’appropriazione di origine animale:
La tigre orina sul confine della propria tana. Lo stesso fanno il leone e il cane. Come questi carnivori, molti animali – nostri cugini – marcano il territorio con la loro urina, forte, puzzolente, e con latrati e dolci gorgheggi, proprio come i fringuelli e gli usignoli8.
Sputiamo nella zuppa per godercela da soli. Ma il mondo non è solo inquinato da escrementi e rifiuti materiali, bensí anche da spazzatura comunicativa e informativa. Viene tappezzato di pubblicità, ogni singola cosa strepita in cerca di attenzione:
Il pianeta totalmente invaso da spazzatura e cartelloni […] su ogni roccia di montagna, su ogni foglia d’albero, in ogni parcella arabile… si imprime un messaggio pubblicitario; su ogni filo d’erba si inscrivono lettere […] Come la leggendaria cattedrale, il paesaggio viene inghiottito nello tsunami dei segni9.
Le non-cose si buttano davanti alle cose e le inzaccherano. La spazzatura informativa e comunicativa distrugge il panorama silenzioso, la lingua discreta delle cose:
Arroganti, le immagini e le lettere obbligano a leggere, mentre le cose del mondo mendicano supplichevoli ai nostri sensi di riconoscere loro un senso. Queste ci domandano, quelle ci comandano. […] I nostri prodotti hanno già un senso, piatto; tanto piú facili da percepire quanto meno sono elaborati, attigui alla spazzatura. L’immagine: spazzatura dei quadri; il logo: spazzatura della scrittura; la pubblicità: spazzatura della vista; i jingles: spazzatura della musica. Imponendosi alla percezione, questi segni, facili e infimi, occultano il paesaggio, spesso incomprensibile, discreto, muto, morente poiché non visto, dato che è la percezione a salvare le cose10.
La conquista territoriale nella rete fa molto chiasso. Ora la lotta per accaparrarsi terreno cede il passo a quella per l’attenzione. Anche l’appropriazione assume una forma del tutto nuova. Noi produciamo senza sosta informazioni che devono piacere agli altri. Gli usignoli odierni non cinguettano piú per scacciare gli estranei, anzi, twittano per attirarli. Noi non sputiamo piú nella zuppa per godercela da soli: la nuova massima si chiama sharing. Vogliamo condividere tutto con gli altri, e questo provoca un chiassoso tsunami di informazioni.
Le cose e i territori definiscono l’ordine terreno. Non fanno chiasso. L’ordine terreno è silenzioso. L’ordine digitale è dominato dalle informazioni. Il silenzio è estraneo alle informazioni, in quanto si oppone alla loro indole. «Informazione muta» è un ossimoro. Le informazioni ci derubano del silenzio imponendosi alla nostra attenzione. Il silenzio è un fenomeno dell’attenzione. Solo la profonda attenzione produce silenzio, mentre le informazioni frammentano l’attenzione.
Secondo Nietzsche, spetta alla «cultura aristocratica […] non reagire subito a uno stimolo». Essa sviluppa «istinti che inibiscono e precludono». «Quietamente ostili lasceremo in primo luogo venire a noi ogni sorta di cose conosciute, nuove». Il «tenere tutte le porte aperte», l’«essere sempre pronti a introdursi in esso con un balzo, precipitarsi addentro in altri e in altro», vale a dire l’«incapacità di opporre resistenza a uno stimolo» finisce per distruggere lo spirito. L’incapacità di «non reagire» è un «fatto morboso», «decadenza», «sintomo di esaurimento»11. La totale permissività e permeabilità distrugge la cultura raffinata. Stiamo perdendo sempre piú gli istinti di chiusura, la capacità di dire no agli stimoli pressanti.
Vanno distinte due forme di potenza. La potenza positiva consiste nel fare qualcosa. La potenza negativa è il potere di non fare nulla. Non collima tuttavia con l’incapacità di fare qualcosa, in quanto non è una negazione della potenza positiva, bensí una potenza autonoma. Essa rende lo spirito in grado di indugiare nel silenzio e nella contemplazione, cioè nella profonda attenzione. Qualora manchi la potenza negativa, cadiamo in una distruttiva iperattività. Sprofondiamo nel baccano. Solo il rafforzamento della potenza negativa può ripristinare il silenzio. La coazione dominante a comunicare, che si rivela nei termini di una coazione a produrre, distrugge volontariamente la potenza negativa.
Oggi ci produciamo senza sosta. Questa autoproduzione è chiassosa. Fare silenzio significa ritirarsi. Il silenzio è inoltre un fenomeno dell’essere senza nome. Io non sono padrone di me stesso, del mio nome. Io sono ospite presso me stesso, mi limito ad affittare la mia nominatività. Michel Serres fa silenzio decostruendo il proprio stesso nome:
Mi chiamo Michel Serres. Chiamandolo nome proprio, la mia lingua e la società mi fanno credere che potrei detenere la proprietà di queste due parole. Ora, conosco centinaia di Michel, Miguel, Michaël, Mike o Mikhaïl… Conoscete d’altra parte dei Serres, dei Sierra, dei Junipero Serra… da un nome uralo-altaico che indica la montagna. Ho incontrato qualche volta dei perfetti omonimi. […] Cosí i nomi propri, a volte, mimano o ripetono dei nomi comuni, a volte proprio dei luoghi. Cosí il mio cita il Mont-Saint-Michel di Francia, dell’Italia o della Cornovaglia, tre punti allineati. Abitiamo dei siti piú o meno prestigiosi. Mi chiamo Michel Serres, nient’affatto in proprio, ma in locazione12.
È l’appropriazione del nome a provocare tanto baccano. L’ego che va rafforzandosi distrugge il silenzio predominante là dove mi ritiro, dove mi perdo nell’anonimato, là dove divento debolissimo: «Per dolce intendo aereo e volatile. Cioè perduto e fragile. Dolce, bianco. Dolce, pacifico»13.
Nietzsche sapeva bene che il silenzio va di pari passo con la ritirata dell’Io. Esso m’insegna ad ascoltare, a tendere l’orecchio. Nietzsche contrappone alla chiassosa appropriazione del nome il «genio del cuore […] che fa ammutolire ogni voce troppo sonora e ogni compiacimento di sé e insegna a porsi in ascolto, che leviga le anime scabre e infonde loro un nuovo desiderio da assaporare – quello di starsene taciturne come uno specchio affinché in esse si rispecchi il profondo cielo […] [Il genio del cuore] dal cui tocco ognuno si diparte piú ricco […] forse piú insicuro, piú delicato, piú fragile, piú infranto»14.
Il «genio del cuore» nietzschiano non si produce, anzi si ritira nell’anonimato. La volontà di appropriazione quale volontà di potenza fa un passo indietro. Il potere diventa affabilità. Il «genio del cuore» scopre la forza della debolezza, che si manifesta come splendore del silenzio.
Solo nel silenzio, nel grande silenzio entriamo in contatto con ciò che è anonimo e che svetta su di noi, tanto da far impallidire i nostri sforzi per appropriarci del nome. Al di sopra del nome si eleva anche quel genio «a cui ciascuno viene affidato al momento della nascita»15. Il genio fa sí che la vita sia qualcosa di piú della misera sopravvivenza dell’Io, anzi raffigura un presente senza tempo:
Il viso da giovinetto di Genius, le sue lunghe, trepide ali significano che egli non conosce il tempo […] Per questo il compleanno non può essere la commemorazione di un giorno passato, ma, come ogni vera festa, abolizione del tempo, epifania e presenza di Genius. È questa presenza indisvicinabile che ci impedisce di chiuderci in una identità sostanziale, è Genius che spezza la pretesa dell’Io di bastare a sé stesso16.
La percezione assolutamente silenziosa equivale a uno scatto fotografico dalla lunghissima esposizione. La fotografia Boulevard du Temple di Daguerre raffigura una vivace strada parigina, ma a causa della protratta esposizione tipica della dagherrotipia, tutto ciò che si muove scompare. Si vede solo quel che sta fermo. Boulevard du Temple emana una sorta di quiete paesana. Accanto agli edifici e agli alberi si riconosce solo una figura umana, vale a dire un uomo che si sta facendo lucidare le scarpe e resta immobile. Quindi la percezione del lungo e del lento riconosce solo le cose ferme. Tutto ciò che s’affretta è condannato alla scomparsa. Boulevard du Temple si lascia interpretare come un mondo visto con occhi divini: lo sguardo salvifico si posa solo su coloro che indugiano nella quiete contemplativa. È il silenzio a salvare.
Il juke-box: una digressione
In un tardo pomeriggio d’autunno del 2017 stavo facendo un giro in bicicletta nel quartiere di Schöneberg, a Berlino, quand’ecco che ci fu un forte rovescio. Stavo scendendo lungo la Crellerstraße, una via scoscesa. Scivolai e rovinai a terra. Quando mi tirai su faticosamente, vidi davanti a me un negozio mezzo abbandonato pieno di juke-box. Dato che fino a quel momento conoscevo il juke-box solo grazie ai libri e ai film, una grande curiosità mi spinse al suo interno. L’anziana coppia di proprietari fu abbastanza sorpresa da quella mia visita: evidentemente era ben raro che qualcuno capitasse lí per caso. Mi parve di essere in un sogno. Quel cumulo di vecchi oggetti e accessori sparpagliati mi fece precipitare fuori dal tempo. Forse le mie percezioni erano cosí vaghe e astratte anche per via del doloroso capitombolo che aveva provocato una lacerazione nel tessuto temporale, regalandomi un viaggio nel mondo delle cose.
Il fascino dei juke-box mi colpí nel profondo. Passavo dall’uno all’altro come in un paese dei balocchi pieno di cose meravigliose. Il negozio si chiamava «Jukeland». Le cose irradiavano una bellezza estranea. Un juke-box turchese della marca AM1 mi colpí particolarmente. Era un modello degli anni Cinquanta. Durante la cosiddetta «epoca argentea», i juke-box mutuarono dal campo del design automobilistico elementi stilistici quali pinne, parabrezza avvolgenti o luci posteriori. Anche oggi sembrano delle auto d’epoca, pieni come sono di dettagli cromati e luccicanti. M’innamorai subito di quel juke-box turchese dotato di enorme pseudo-parabrezza avvolgente e decisi all’istante di possederlo.
All’epoca dell’acquisto avevo un appartamento arredato unicamente con un vecchio pianoforte a coda e un tavolo ospedaliero in metallo. Non c’era nient’altro. Era un periodo in cui sentivo il bisogno di vivere in una casa vuota. Né il pianoforte, né il tavolo riuscivano a interrompere il vuoto. Anzi, lo accentuavano. Io non ero altro che il terzo della compagnia. Essere una cosa silenziosa e senza nome in uno spazio abitativo equivale alla salvezza. Vuoto non significa che non vi è nulla nello spazio: è piuttosto un’intensità, una presenza intensa. È l’incarnazione spaziale del silenzio. Vuoto e silenzio sono affratellati. Nemmeno il silenzio significa che non si percepiscono suoni. Determinati suoni possono addirittura sottolinearlo. Il silenzio è una forma intensa dell’attenzione. Cose come la scrivania o il pianoforte a coda creano silenzio vincolando e strutturando l’attenzione. Oggi siamo circondati da non-cose, da distrazioni informative che fanno a pezzi la nostra attenzione e in tal modo annullano il silenzio, anche quando sono mute.
Sistemai il juke-box in camera insieme al vecchio pianoforte. All’epoca mi esercitavo senza sosta con l’aria delle Variazioni Goldberg. Un’impresa molto difficile per una persona che non era mai andata a lezione di pianoforte. Mi sentivo come un bimbo che impara per la prima volta a scrivere. Imparare a scrivere ricorda la preghiera. Mi ci sono voluti piú di due anni prima che potessi suonare a memoria l’intera aria. Da allora, la ripeto come una preghiera. Il bell’oggetto con l’ampia coda divenne la mia ruota della preghiera.
Di notte andavo spesso nella stanza della musica e tendevo l’orecchio al juke-box nell’oscurità. Solo al buio i diversi colori della grata con l’altoparlante spiccano come si deve, conferendo al dispositivo un che di erotico. Il juke-box illuminava l’oscurità con luci coloratissime, creando una magia oggettuale alla quale mi abbandonavo.
Il juke-box trasforma l’ascolto musicale in una spassosissima esperienza visiva, acustica e tattile. È macchinoso e impegnativo. Visto che a casa mia il juke-box non va tutto il tempo, bisogna innanzitutto collegarlo alla presa. Ci vuole un po’ prima che i tubi si scaldino. Inserisco la monetina e schiaccio i tasti con cautela, dopodiché il congegno meccanico si mette in moto con un forte tric-trac. Parte il ronzio del piatto che inizia a girare, il pick-up afferra un disco nuovo e lo mette su con un movimento precisissimo. Prima che il braccio del pick-up cali sul disco, accarezza una minuscola spazzola che spolvera l’ago. Tutto ciò equivale a un incantesimo, una magia degli oggetti che ogni volta mi stupisce.
Il juke-box crea rumori cosali. Sembra quasi voler comunicare di propria sponte che è una cosa. Possiede un corpo voluminoso. Il rimbombo gli esce dal basso ventre, quasi fosse espressione di lussuria. Il suono digitale è invece scevro di qualsiasi rumore cosale. È incorporeo, liscio. Il suono prodotto dal juke-box mediante il disco e gli amplificatori si distingue nettamente da quello digitale. È cosale e corporeo. Un suono rombante che mi commuove, mi fa venire la pelle d’oca.
Il juke-box va a formare un autentico interlocutore. È un controcorpo, come il pesante pianoforte a coda. Quando mi trovo dinanzi al juke-box o suono al piano, penso tra me e me: per essere felici abbiamo bisogno di un interlocutore svettante, che s’imponga sopra di noi. La digitalizzazione fa fuori qualsiasi controparte, qualsiasi contro. In tal modo perdiamo la sensibilità nei confronti di ciò che regge, svetta, si eleva. Per via dell’interlocutore mancante non facciamo che ricadere nel nostro ego, e questo ci rende privi di mondo, cioè depressi.
Il juke-box mi condusse nel mondo estraneo della musica pop anni Sessanta e Settanta. Non conoscevo nemmeno una delle canzoni indicate sui cartoncini. Cosí, inizialmente, componevo codici a caso e mi lasciavo trasportare in un mondo sconosciuto. La scelta era tra titoli come Cry di Johnnie Ray, Dream Lover di Bobby Darin, Wonderful World di Sam Cooke, In the Mood di Glenn Miller, Rama Lama Ding Dong degli Edsels, Ich weiß, es wird einmal ein Wunder geschehen di Zarah Leander, Here in My Heart di Al Martino, Then He Kissed Me delle Crystals o Tell Me That You Love Me di Paul Anka. Questi titoli mi fecero intuire vagamente che il mondo, all’epoca, fosse per certi versi piú romantico e trasognato.
Al centro del juke-box si trova il cartellino del prezzo, rosso, in pfennig e marchi tedeschi. Visto che io sono il felice proprietario dell’oggetto, ho accesso a un tasto che mi consente di ovviare al pagamento. Finora vi ho tuttavia rinunciato. Il rumore caratteristico provocato dalla monetina che cade appartiene al juke-box come il tric-trac del disco. È uno dei bei rumori cosali di cui non vorrei sentire la mancanza. In particolare nell’epoca di YouTube, mi piace l’idea di pagare un prezzo per della bella musica. La moneta è infatti il biglietto d’ingresso in un mondo incantato.
Malgrado tutta questa euforia, mi chiedo sempre: quali luoghi, nel corso della sua vita, avrà mai visto il mio juke-box? Deve aver avuto una vita piena di cambiamenti. Reca tracce di una lunga storia. Quanto mi piacerebbe essere l’interprete dei destini delle cose, il fisiognomico del mondo oggettuale. Probabile che la mia camera silenziosa non sia il luogo piú adatto per il juke-box. Quando sono alla scrivania, a volte sento dietro di me la sua solitudine, il suo senso di abbandono. Spesso mi coglie la sensazione di aver strappato il juke-box dal suo luogo di appartenenza, come se il possesso in questo caso fosse una sorta di sacrilegio. Ma dove potrebbe stare, oggi, il juke-box? Insieme alle cose stiamo smarrendo anche i luoghi. Mi consolo col pensiero che il mio possesso abbia salvato il juke-box dalla definitiva scomparsa, che l’abbia sollevato dalla faticaccia di essere utile, gli abbia cioè tolto il carattere di merce trasformandolo in una cosa del cuore.
Per Peter Handke il juke-box non è una cosa isolata, bensí una creatura locale che va a formare il centro di un luogo. Il protagonista di Saggio sul juke-box è in viaggio verso «luoghi-juke-box». Come un centro gravitazionale, il juke-box raduna e connota ogni cosa che lo circonda, facendone un luogo. È un creatore di luoghi, che conferisce loro contorni silenziosi. Il lettore presenzia a questa trasformazione della cosa in luogo e mondo:
Il juke-box è nel bar, sotto la finestra spalancata dopo la calura del giorno; aperta anche la porta verso i binari. Per il resto nel locale non c’è quasi mobilio; quel poco che c’è è stato spostato di lato, si sta già pulendo. Le luci del juke-box si rispecchiano nel pavimento a terrazzo bagnato, un luccichio che scompare via via che il pavimento s’asciuga. Alla finestra il volto della giovane cameriera appare pallidissimo, soprattutto se paragonato a quelli abbronzati dei pochi viaggiatori in attesa fuori. Poi, dopo la partenza del rapido Trieste-Venezia, l’edificio si presenta vuoto; solo su una panchina due adolescenti, il cui parco-giochi in quel momento è la stazione, lottano urlando a squarciagola. Dall’oscurità fra i pini del Carso già sbucano le falene. Sferragliando, passa un lungo treno merci sigillato, fuori sui vagoni, unica traccia chiara, sventolando i piombini fissati alle loro cordicine. Lí, con il silenzio che segue – è l’ora tra le ultime rondini e i primi pipistrelli – attacca il suono del juke-box1.
Handke chiama espressamente il juke-box una cosa: parla della «sua cosa»2, di «oggetto della quiete»3 «sfavillante in tutti i colori dell’arcobaleno»4. Il protagonista è convinto del profondo significato della cosa, che nel frattempo ci è del tutto venuto a mancare:
Intendeva dire che rimpiangeva la scomparsa dei suoi juke-box, di questi oggetti superati e probabilmente destinati a non avere un secondo futuro? No. Voleva solo, prima che sfuggisse anche al suo sguardo, fissare e far valere cosa può significare un oggetto per un individuo e, soprattutto, cosa può emanare da un semplice oggetto5.
Solo tramite le cose il mondo diventa visibile. Esse creano visibilità, mentre le non-cose la distruggono. Aprono lo sguardo, lo sguardo locale. Mediante il juke-box si rivelano al narratore delle forme che altrimenti gli sfuggirebbero. Tutti, sia gli esseri umani sia gli animali, si trasformano negli abitanti, nei residenti del luogo. Nasce cosí una natura morta locale in cui ogni cosa è vicina all’altra, nella cornice di una silenziosa comunità delle cose:
All’improvviso in tutto il perimetro appaiono figure prima non viste. Sulla panchina vicino al bosco un tale che dorme. Nell’erba dietro i gabinetti è accampato un intero gruppo di soldati, senza traccia di bagaglio. Al binario per Udine, appoggiato a un pilastro, un nero massiccio, anch’egli senza bagaglio, solo in camicia e pantaloni, immerso nella lettura di un libro. Piú oltre, dal boschetto di pini, volteggiando esce di continuo una coppia di colombi. È come se tutte quelle persone non fossero dei viaggiatori ma gli abitanti, o i coloni dell’area della stazione6.
I residenti sono «senza bagaglio». Non viaggiano. Indugiano. Il juke-box in quanto cosa emana la magia dell’indugiare.
Handke sottolinea come il juke-box conferisca a tutto ciò che lo circonda una presenza intensa. Nei suoi pressi, qualsiasi normalità diventa un fenomeno della presenza. La cosa irradia una forza di gravità che addensa e approfondisce le fuggevoli apparizioni sotto il segno della presenza. È la creazione di una presenza rafforzata e intensa a caratterizzare la magia delle cose:
Accanto alla sua cosa, l’ambiente circostante assumeva una presenza tutta propria. Quando era possibile, in quei posti si sedeva in modo da poter vedere tutto il locale e anche parte dell’esterno. In questi casi, in associazione al juke-box, insieme al fantasticare, senza l’osservare da lui tanto avversato, si verificava un rafforzamento, o appunto un farsi presente anche delle altre cose che vedeva. E quanto in loro si faceva presente non erano tanto gli aspetti appariscenti o i pregi, quanto le cose consuete, magari anche solo le forme e i colori abituali, e tale presenza rafforzata gli appariva come qualcosa di prezioso – nulla era piú ricco e degno di essere tramandato […] Significava qualcosa anche quando un uomo camminava, un arbusto si piegava, il pullman era giallo e svoltava verso la stazione, l’incrocio stradale formava un triangolo, la cameriera se ne stava sulla porta, il gessetto era sul bordo del biliardo, pioveva, e, e, e7.
La magia del juke-box consiste nel conferire presenza e intensità alle cose secondarie, alle nullità, alle cose piú normali ed effimere. La cosa rafforza l’essere. Gli sguardi fuggevoli vengono per cosí dire dotati di «articolazioni», ossa e scheletri. In tal modo acquistano durata.
Un altro juke-box viene descritto nei termini di un particolare evento spaziale. Il protagonista vi s’imbatte in un seminterrato di una stradina parallela della Calle Cervantes, a Linares. Il locale in sé ha le dimensioni di un ripostiglio, eppure il juke-box compie un miracolo. I suoni ampliano lo spazio. Rientra infatti nella sua essenza la capacità di creare spazio:
Il padrone, un vecchio (accendeva la luce principale solo quando arrivava un cliente), il piú delle volte solo con il juke-box. Questo presentava l’insolita caratteristica che tutte le targhette erano vuote […] all’inizio di quelle strisce vuote, soltanto le combinazioni lettera-cifra. In compenso però alle pareti erano attaccate ovunque, in ogni direzione, sino al soffitto, copertine di dischi, con le relative combinazioni scritte a mano accanto ai titoli, e cosí dopo che l’apparecchio, sempre solo su richiesta, era stato acceso, si poteva selezionare il disco desiderato: la pancia di quella cosa apparentemente sventrata ne era piena. Quanto spazio c’era all’improvviso, grazie al monotono rimbombo nelle viscere d’acciaio, nel piccolo rifugio, quanta quiete si diffondeva in quel luogo, nel bel mezzo dell’agitazione spagnola e dell’agitazione propria8.
Faccio fatica a seguire la critica heideggeriana della tecnologia. Heidegger non vorrebbe sicuramente aggiungere il juke-box alla sua collezione di cose. Gli esempi che fa sono: specchio e fibbia, libro e quadro, corona e croce. Le allitterazioni del tedesco suggeriscono un’armonia tra le cose. I dispositivi non rientrano nella sua collezione di oggetti. Nemmeno l’allitterazione tra gioiello ( Juwel ) e juke-box riuscirebbe a rendere quest’ultimo una cosa. La tecnologia ha un lato magico. Persino la metallurgia, che ho studiato anni fa, mi pare una sorta di alchimia. Non è un caso che Novalis abbia studiato mineralogia e industria mineraria. Nell’Enrico di Ofterdingen, il protagonista coglie nei passaggi sotterranei «questo meraviglioso godimento di cose che debbono avere una prossima relazione col nostro essere segreto»9.
Il juke-box è un automa, appartiene alla lunga tradizione degli automi musicali. I romantici erano affascinati dagli automi. Un racconto di E. T. A. Hoffmann s’intitola proprio Gli automi e ha come protagonista la bambola meccanica di un oracolo turco le cui risposte «ogni volta colpivano nel segno, andando a penetrare con sguardo acuto la personalità di chi faceva le domande. A volte ci riusciva con un umorismo tagliente, ma sempre in un modo cosí meravigliosamente calzante che poteva anche essere doloroso»10.
La Alexa di Amazon non è un automa, bensí un infoma. Le manca qualsiasi magia oggettuale. È anzi possibilissimo che l’intelligenza artificiale le insegnerà anche a fungere da oracolo, perlomeno nei termini di un calcolo algoritmico – privo, però, d’incanto. Se ogni cosa è preventivabile, la felicità scompare. La felicità è un evento che si sottrae a qualsiasi calcolo. Vi è un legame interiore tra magia e felicità11. La vita prevedibile e ottimizzata è priva di magia, quindi di felicità.
Il mio juke-box è costituito per metà di metallo in quanto risale alla «silver age». Ha una carrozzeria davvero bella. I metalli sono materiali affascinanti. Per anni ho studiato la loro misteriosa vita interiore. Mentre studiavo metallurgia notavo spesso come i metalli si comportino a mo di organismi viventi. Per esempio, spesso si trasformano. Si può parlare di metamorfosi anche per i metalli. Nella mia libreria casalinga, accanto ai volumi di filosofia c’è Transformations in Metals di Paul G. Shewmon. È stato l’ultimo libro che ho letto durante il mio studio universitario della metallurgia, prima che mi decidessi a passare alla filosofia. Lo conservo come un cimelio. Se a suo tempo lo avessi letto in forma di ebook ora avrei una cosa del cuore in meno, una cosa cioè che non posso riprendere in mano per ricordare. Già, le cose rendono il tempo tangibile, i riti lo rendono calpestabile. La carta ingiallita e il suo odore mi scaldano il cuore. La digitalizzazione distrugge ricordi e contatti fisici.
È sbagliato credere che la materia non sia viva. Io ne sono affascinato. Oggi siamo del tutto ciechi dinanzi alla magia della materia. La smaterializzazione digitale del mondo è dolorosa, per gli amanti della materia. Sono d’accordo con Barthes quando dice che ogni metallo alchemico è vivo.
Come scrive Deleuze in Millepiani, la «prodigiosa idea di una Vita non organica» è «l’intuizione della metallurgia»12. Tutto è vivo agli occhi del metallurgo. Egli è un romantico, un «itinerante, perché segue la materia-flusso del sottosuolo». In tema di metallurgia come alchimia, Deleuze scrive:
Il rapporto della metallurgia con l’alchimia non si basa, come credeva Jung, sul valore simbolico del metallo e sulla sua corrispondenza con un’anima organica, ma sulla potenza di corporeità immanente a tutta la materia, e sullo spirito di corpo che l’accompagna13.
Nel corso della digitalizzazione abbiamo smarrito qualsiasi coscienza materiale, per cui una ri-romanticizzazione del mondo dovrebbe avere come presupposto una sua ri-materializzazione. Noi sfruttiamo la terra in maniera cosí brutale proprio perché consideriamo morta la materia, e degradiamo la terra a una gamma di risorse. Da sola, la «sostenibilità» non basta per rivedere radicalmente il nostro atteggiamento nei confronti della terra. È quindi necessaria una concezione diversissima della terra e della materia. Nel suo libro Vibrant Matter, la filosofa americana Jane Bennett parte dall’ipotesi che «l’idea di una materia morta o del tutto strumentalizzata alimenta la hybris umana e le nostre fantasie di conquista e consumo, che finiscono per distruggere la Terra»14. Prima dell’ecologia deve emergere una nuova ontologia della materia che la esperisca come viva.
La musica del juke-box è, come la FOTOGRAFIA di Barthes, un ectoplasma, un’emanazione del referente. Ha qualcosa a che vedere con la resurrezione. Una volta riportati in vita, i morti calcano il palcoscenico girevole. Io avevo sempre voglia di riportare in vita la cantante francese Barbara, mediante il juke-box. La amo molto. Fino a qualche anno fa intendevo girare un film su di lei. Cosí mi sono recato con la macchina da presa a Parigi in occasione del ventesimo anniversario della morte e ho fatto delle riprese mentre cantavo le sue canzoni per la città, davanti alla sua tomba al cimitero di Bagneux o sul Pont neuf. Il juke-box rende Barbara di nuovo presente in corpo. È un medium della presenza. Considero i solchi dei dischi alla stregua di tracce corporee: sono le vibrazioni emesse dal gracile corpo di Barbara.
I dischi da juke-box di Barbara li ho comprati ordinandoli da ogni angolo d’Europa, e i venditori si sono sempre rivelati degli amici delle cose. Il belga da cui ho comprato il disco Dis, quand reviendras-tu, ha appiccicato al pacchetto trenta vecchi, bellissimi francobolli del suo Paese, trasformando la spedizione stessa in una bella cosa. Uno dei francobolli l’ho persino riconosciuto: lo avevo nella mia collezione da bambino.
Il pacco belga ha trovato posto in un cassetto insieme ad altri oggetti: un vecchio orologio da taschino cesellato che acquistai a Friburgo trentacinque anni or sono mentre studiavo all’università, un orologio da polso in argento di marca Junghans regalo di un amico (che porta lo stesso modello), una lente d’ingrandimento in stile liberty con la quale leggo la vecchia Bibbia di Lutero con i lacci in pelle, un piccolo portacenere con una rosa fatta all’uncinetto, un portasigari art-déco regalatomi tanti anni fa e un timbro in legno con i tre ideogrammi cinesi del mio nome. Un artigiano coreano l’ha fatto a partire da un legno speciale, quello di una palma da datteri colpita da un fulmine, considerata latrice di poteri magici. Dovrebbe proteggere dalla sventura. L’artigiano mi diede anche un altro paio di frammenti lignei. Uno lo tengo nel portafoglio. Questo piccolo oggetto ligneo è il mio amuleto.
In passato i giapponesi si separavano dalle cose che avevano posseduto a lungo, come un paio di occhiali o un pennello calligrafico, con un apposito cerimoniale. Ormai non esistono piú cose alle quali saremmo disposti a concedere un addio dignitoso. Le cose nascono, per cosí dire, morte. Non vengono usate, bensí consumate. Solo un lungo utilizzo dà loro un’anima. Solo le cose del cuore sono animate. Flaubert voleva essere sepolto insieme al suo calamaio. Il juke-box è troppo grosso per portarmelo nella tomba. Credo che abbia la mia stessa età, ma mi sopravvivrà di sicuro. Un pensiero grossomodo confortante…
Prefazione
1. H. Arendt, Vita activa, trad. di S. Finzi, Bompiani, Milano 2017 (1a ed. 1964), p. 156.
2. V. Flusser, Dinge und Undinge. Phänomenologische Skizzen, Hanser, Monaco 1993, p. 81.
3. Arendt, Vita activa, cit.
4. N. Luhmann, Entscheidungen in der «Informationsgesellschaft», https://www.fen.ch/texte/gast_luhmann_informationsgesellschaft.htm
5. Da alcuni decenni si osserva un crescente interesse per le cose nell’ambito degli studi culturali. Questo interesse teorico non indica tuttavia che esse, nel mondo di tutti i giorni, stiano acquistando maggiore significato. Il fatto che le cose vengano elevate a oggetto della riflessione teorica è anzi un sintomo della loro scomparsa. Tali inni di lode alle cose sono in realtà canti del cigno. Bandite dalla vita reale, esse cercano rifugio nella teoria. Anche concetti come material culture o material turn vanno intesi come reazioni alla smaterializzazione causata dal digitale, alla derealizzazione del mondo.
6. J. Baudrillard, L’altro visto da sé, trad. di M. T. Carbone, costa & nolan, Genova 1988, pp. 8 sg [brano parzialmente ritradotto, N.d.T.].
7. M. Heidegger, Essere e tempo, trad. di F. Volpi sulla versione di P. Chiodi, Milano, Longanesi 2005, pp. 418 sg.
8. L. Floridi, La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, trad. di M. Durante, Raffaello Cortina, Milano 2017, pp. 106 sg.
9. E. Schmidt e J. Cohen, La nuova era digitale. La sfida del futuro per cittadini, imprese e nazioni, trad. di M. Carozzi, I. Katerinov e R. Merlini, Rizzoli Etas, Milano 2013, pp. 22-25: «Il vostro appartamento è un’orchestra elettronica, e voi il direttore. Con semplici movimenti del polso e qualche comando vocale, controllate temperatura, umidità, musica di sottofondo e illuminazione. Potete passare in rassegna le notizie del giorno su schermi traslucidi, mentre dall’armadio automatizzato prendete un vestito fresco di bucato perché il calendario dice che quel giorno avete un appuntamento importante […] Il computer centrale vi suggerisce una lista di faccende che i vostri robot domestici dovrebbero sbrigare in giornata, e voi le approvate tutte […] Vi resta ancora un po’ di tempo prima di dover uscire di casa e raggiungere l’ufficio, cosa che farete a bordo di una macchina che non ha bisogno di autista, ovviamente. La vostra auto sa già a che ora dovete arrivare ogni mattina in base al vostro calendario e, dopo aver calcolato anche il traffico, comunica al vostro orologio da polso di far partire un conto alla rovescia da 60 minuti per avvertirvi di quando dovete imboccare la porta […] Mentre uscite afferrate al volo una mela, che gusterete sul sedile passeggero dell’auto che vi porterà tranquilla in ufficio».
10. H. Arendt, Verità e politica – La conquista dello spazio e la statura dell’uomo, trad. di V. Sorrentino, Bollati Boringhieri, Torino 1995, p. 76.
11. G. W. F. Hegel, Filosofia dello spirito jenese, trad. di G. Cantillo, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 90.
12. V. Flusser, La cultura dei media, trad. di T. Cavallo, Bruno Mondadori, Milano 2004, p. 204.
13. Flusser, Dinge und Undinge, cit., p. 84.
14. F. Nietzsche, Cosí parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, trad. di M. Montinari, Adelphi, Milano 1976, pp. 11 sg.
15. Flusser, Dinge und Undinge, cit., p. 88.
16. Ibid.
Capitolo 1
1. E. Fromm, Avere o essere?, trad. di F. Saba Sardi, Mondadori, Milano 1996 (1a ed. 1977), p. 101.
2. J. Rifkin, L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy, trad. di P. Canton, Mondadori, Milano 2000, pp. 9 sg.
3. Flusser, Dinge und Undinge, cit., p. 82.
4. W. Benjamin, Tolgo la mia biblioteca dalle casse, in Opere complete IV. Scritti 1930-1931, a cura di E. Ganni, trad. di F. Desideri, Einaudi, Torino 2002, p. 463.
5. W. Benjamin, I «passages» di Parigi, in Opere complete IX, a cura di R. Tiedemann, ed. it. a cura di E. Ganni, trad. di R. Solmi, Einaudi, Torino 2000, p. 12.
6. Ibid.
7. Benjamin, Tolgo la mia biblioteca dalle casse, cit., p. 457.
8. Ibid.
Capitolo 2
1. W. Benjamin, Infanzia berlinese intorno al millenovecento, in Opere complete V. Scritti 1932-1933, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, ed. it a cura di E. Ganni con la collaborazione di H. Riediger, trad. di E. Ganni, Torino, Einaudi 2003, p. 366.
2. R. Barthes, La nuova Citroën, in Miti d’oggi, trad. di L. Lonzi, Torino, Einaudi 1974, p. 149.
3. M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in Holzwege. Sentieri erranti nella selva, a cura di V. Cicero, Bompiani, Milano 2002, pp. 107 sg. I corsivi finali per l’enfasi sono di Han.
4. E. Troeltsch, Epochen und Typen der Sozialphilosophie des Christentums, in Gesammelte Schriften, a cura di H. Baron, vol. IV, Aufsätze zur Geistesgeschichte und Religionssoziologie, Mohr, Tubinga, 1925, p. 122-55, qui p. 134.
5. Ibid., p. 135.
6. S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’èra dei nuovi poteri, trad. di P. Bassotti, Luiss, Roma 2019, p. 539.
7. D. Winnicott, Gioco e realtà, trad. di L. Tabanelli, Armando, Roma 2019, p. 8.
8. T. Habermas, Geliebte Objekte. Symbole und Instrumente der Identitätsbildung, de Gruyter, Berlino / New York 1996, p. 325.
9. Ibid., p. 336.
10. Ibid., p. 337.
Capitolo 3
1. R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, trad. di R. Guidieri, Einaudi, Torino 2003 (1a ed. 1980), p. 94.
2. Ibid., p. 81.
3. Ibid., p. 82.
4. Ibid., p. 83.
5. Ibid.
6. G. Agamben, Profanazioni, nottetempo, Milano 2005, p. 29.
7. Ibid., pp. 28 sg.
8. Ibid., p. 28.
9. Barthes, La camera chiara, cit., p. 87.
10. Ibid., p. 81.
11. W. Wenders, Landschaften. Photographien, Schirmer / Mosel, Düsseldorf 2015, p. 229.
12. Barthes, La camera chiara, cit., p. 84.
13. W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, trad. di E. Filippini, Torino, Einaudi 1991 (1a ed. 1966), p. 28.
Capitolo 4
1. H. L. Dreyfus, Che cosa non possono fare i computer. I limiti dell’intelligenza artificiale, trad. di G. Alessandrini, Armando, Roma 1988, p. 358.
2. M. Heidegger, Essere e tempo, trad. di F. Volpi sulla versione di P. Chiodi, Milano, Longanesi 2005, p. 170.
3. M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine, trad. di P. Coriando, il melangolo, Genova 1992, p. 175.
4. M. Heidegger, Contributi alla filosofia (dall’evento), a cura di F. Volpi, trad. di A. Iadicicco, Adelphi, Milano 2007, p. 49.
5. M. Heidegger, Che cos’è la filosofia?, trad. di C. Angelino, il melangolo, Genova 1981, pp. 37-39.
6. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine, cit., pp. 80, 81, 93.
7. Heidegger, Contributi alla filosofia (dall’evento), cit., p. 49.
8. Heidegger, Che cos’è la filosofia?, cit., p. 43.
9. M. Heidegger, Che cosa significa pensare?, trad. di U. Ugazio e G. Vattimo, Sugarco, Milano 1996, p. 280.
10. M. Heidegger, L’inno Der Ister di Hölderlin, trad. di C. Sandrin e U. Ugazio, Mursia, Milano 2003, p. 98.
11. Dreyfus, Che cosa non possono fare i computer – I limiti dell’intelligenza artificiale, cit., p. 378.
12. G. W. F. Hegel, La scienza della logica, trad. di V. Verra, Utet, Torino 1981, p. 373 (aggiunta al par. 156).
13. Ibid., p. 389 (aggiunta al par. 166).
14. Ibid., p. 402.
15. M. Heidegger, Logos (Eraclito, frammento 50), in Saggi e discorsi, trad. di G. Vattimo, Mursia, Milano 2014 (1a ed. 1976), p. 157.
16. M. Heidegger, «Anima mia diletta!» – Lettere di Martin Heidegger alla moglie Elfride 1915-1970, a cura di G. Heidegger, trad. di P. Massardo e P. Severi, il nuovo melangolo, Genova 2007, p. 243 (lettera del 14 febbraio 1950).
17. www2.univ-paris8.fr/deleuze/article.php3?id_article=131
18. G. Deleuze e F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, trad. di Angela de Lorenzis, Einaudi, Torino 1996, p. 52.
Capitolo 5
1. F. Ponge, Pratiques d’écriture ou l’inachèvement perpétuel, Hermann, Parigi 1984, p. 76.
2. J. Derrida, Signéponge, Columbia University Press, New York 1984, p. 13.
3. M. B. Crawford, The World Beyond Your Head: On Becoming an Individual in an Age of Distraction, Farrar, Straus and Giroux, New York 2015, pp. 69 sg.
4. D. Kimmich, Lebendige Dinge in der Moderne, Konstanz University Press, Costanza 2011, p. 92.
5. E. Bloch, Il rovescio delle cose, in Tracce, trad. di L. Boella, Coliseum, Milano 1989, pp. 181-4, qui 184.
6. Ibid., p. 183.
7. Ibid., p. 182.
8. F. T. Vischer, Auch Einer. Eine Reisebekanntschaft, vol. I, Hallberger, Stoccarda / Lipsia 1879, pp. 32 sg.
9. R. Musil, I turbamenti dell’allievo Törless, trad. di E. Ganni, Feltrinelli, Milano 2009 (1a ed. 1994), p. 97.
10. Ibid., p. 94.
11. J. P. Sartre, La nausea, trad. di B. Fonzi, Einaudi, Torino 1967, pp. 22 sg.
12. J. P. Sartre, L’essere e il nulla. La condizione umana secondo l’esistenzialismo, trad. di G. Del Bo, Il Saggiatore, Milano 2014, p. 310.
13. R. M. Rilke, Diario di Schmargendorf, in Diari (1898-1900), trad. di N. Dacrema, Mursia, Milano 1994, p. 95 (appunti del 10 marzo 1899).
14. W. Benjamin, Strada a senso unico, trad. di B. Cetti Marinoni, Einaudi, Torino 2006 (1a ed. 1983), p. 18.
15. M. Buber, Ich und Du, Reclam, Stoccarda 1995, p. 5.
16. F. Kafka, La preoccupazione del padre di famiiglia, pp. 195 sg., in Nella colonia penale e altri racconti, trad. di F. Fortini, Einaudi, Torino 1986.
17. F. Kafka, Lettere a Milena, in Lettere, trad. di E. Pocar e E. Ganni, Milano, Mondadori 2017, p. 893 (lettera del gennaio / febbraio 1923).
18. Franz Kafka, Lettere, trad. di F. Masini, Mondadori, Milano 1988, pp. 881 sg.
19. Gumbrecht rimanda giustamente alla «tendenza dominante nella cultura odierna di rinunciare a, o persino di cancellare dalla memoria la possibilità di una relazione col mondo fondata sulla presenza». H. U. Gumbrecht, Diesseits der Hermeneutik. Die Produktion von Präsenz, Suhrkamp, Francoforte 2004, p. 12.
20. H. von Hofmannsthal, Eine Monographie, in Gesammelte Werke, a cura di B. Schoeller, Fischer, Francoforte 1986, pp. 479-83, qui p. 479.
21. H. von Hofmannsthal, Lettera di Lord Chandos e altri scritti, trad. di M. Rispoli, Marsilio, Venezia 2017, pp. 81-3.
22. Ibid., p. 91.
23. Ibid., p. 89.
24. Ibid., p. 85.
25. Ibid., p. 87.
26. Ibid.
27. Ibid., p. 93.
28. Barthes, La camera chiara, cit., p. 29.
29. Ibid.
30. Ibid., p. 28.
31. Ibid., p. 52.
32. Ibid., p. 28.
33. Ibid., p. 42.
34. Ibid., p. 58.
35. S. Freud, Progetto di una psicologia e altri scritti, in Opere 1892-1899, a cura di C. L. Musatti, Bollati Boringhieri, Torino 1968, p. 235.
36. J. Lacan, Introduzione della cosa. «Das Ding», in Il seminario, libro VII. L’etica della psicoanalisi 1959-1960, trad. di M. D. Contri, Einaudi, Torino 2008, p. 56.
37. Barthes, La camera chiara, cit., pp. 58, 60.
38. R. M. Rilke e L. A. Salomé, Epistolario 1897-1926, trad. di C. Groff e P. M. Filippi, La Tartaruga, Milano 1984, p. 74.
39. R. Barthes, Il piacere del testo, in Variazioni sulla scrittura seguite da Il piacere del testo, trad. di L. Lonzi, Einaudi, Torino 1999, p. 80.
40. R. Walser, Briefe, Suhrkamp, Zurigo 1979, p. 266.
41. Ponge, Pratiques d’écriture ou l’inachèvement perpétuel, cit., p. 89.
42. Ibid., p. 13.
43. R. Barthes, La grana della voce, in L’ovvio e l’ottuso. Saggi critici III, trad. di D. De Agostini, Einaudi, Torino 2001 (1a ed. 1985) p. 260.
44. Ibid., p. 259.
45. Ibid., p. 260.
46. M. Merleau-Ponty, Il dubbio di Cézanne, in Senso e non senso, trad. di P. Caruso, Il Saggiatore, Milano 2016, p. 37.
47. È proprio la politicizzazione dell’arte a contribuire alla sua smitizzazione. Cfr. R. Pfaller, Die blitzenden Waffen. Über die Macht der Form, Fischer, Francoforte 2020, p. 93.
48. J. Berger, Questione di sguardi. Sette inviti al vedere fra storia dell’arte e quotidianità, trad. di M. Nadotti, Il Saggiatore, Milano 2015, p. 33.
49. J. Baudrillard, Della seduzione, trad. di P. Lalli, Cappelli, Bologna 1980, pp. 109 sg.
50. Ibid., p. 111.
51. Testo per l’ottantesimo compleanno di Heidegger (26 settembre 1969), in H. Arendt e M. Heidegger, Lettere 1925-1975 e altre testimonianze, trad. di M. Bonola, Einaudi, Torino 2000-2007, p. 143.
52. Heidegger, Che cosa significa pensare?, cit., p. 108.
53. M. Heidegger, Parmenide, trad. di G. Gurisatti, Adelphi, Milano 1999, p. 164.
54. Ibid., p. 157.
55. Ibid., p. 156.
56. Ibid., p. 164,
57. Heidegger, Che cosa significa pensare?, cit., p. 109.
58. M. Heidegger, «Johann Peter Hebel», in Discorsi e altre testimonianze del cammino di una vita 1910-1976, trad. di N. Curcio, il nuovo melangolo, Genova 2005, p. 478.
59. Heidegger, La locuzione di Anassimandro, in Holzwege, cit., p. 407.
60. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 92.
61. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, in Holzwege, cit., p. 26.
62. Ibid., p. 24.
63. Ibid., p. 25.
64. Ibid., pp. 25 sg.
65. Ibid., p. 27.
66. M. Heidegger, Il sentiero di campagna, in Dall’esperienza del pensiero. 1910-1976, trad. di N. Curcio, il melangolo, Genova 2011, p. 79.
67. Heidegger, La cosa, in Saggi e discorsi, cit., p. 120.
68. Ibid., pp. 122 sg.
69. Heidegger, La locuzione di Anassimandro, in Holzwege, cit., p. 433.
70. Heidegger, A che poeti?, in Holzwege, cit., p. 351 [parte finale ritradotta, N.d.T.].
71. Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, cit., p. 17.
72. Heidegger, La locuzione di Anassimandro, in Holzwege, cit., p. 440.
73. A. de Saint-Exupéry, Il piccolo principe, trad. di A. Bajani, Einaudi, Torino 2015, p. 90.
74. Ibid., pag. 92.
75. Ibid., pag. 94.
76. Ibid., pag. 95.
77. Ibid., pag. 92.
78. A. de Saint-Exupéry, Cittadella, trad. di E. L. Gaya, Borla, Roma 1999, pp. 24 sg.
79. H.U. Gumbrecht, Präsenz, Suhrkamp, Francoforte 2012, p. 227.
80. Proverbi 4:23 (Nuova Riveduta).
81. De Saint-Exupéry, Il piccolo principe, cit., p. 94.
Capitolo 6
1. G. Agamben e M. Ferrando, La ragazza indicibile. Mito e mistero di Kore, Electa, Milano 2010, p. 12.
2. J. Gasquet, Cézanne. Dialogo di un’amicizia, trad. di M. Ghilardi, mimesis, Sesto San Giovanni 2010, pp. 110 sg.
3. F. Hölderlin, Hyperion ovvero l’eremita in Grecia, in Prose, teatro e lettere, a cura di L. Reitani, trad. di A. Netti, Mondadori, Milano 2019, pp. 38 sg.
4. Barthes, La camera chiara, cit., pp. 55 sg.
5. G. Janouch, Conversazioni con Kafka, trad. di M.G. Galli, Guanda, Milano 2005 (1a ed. 1991), p. 36.
6. Barthes, La camera chiara, cit., p. 56.
7. Ibid.
8. M. Serres, Il mal sano. Contaminiamo per possedere?, trad. di E. Schiano di Pepe, il melangolo, Genova 2009, p. 7.
9. Ibid., p. 89.
10. Ibid., pp. 66 sg.
11. F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, in Opere, vol. VI, tomo III, trad. di F. Masini, Adelphi, Milano 1975, pp. 104 sg.
12. Serres, Il mal sano, cit., pp. 108 sg.
13. Ibid., p. 110.
14. F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, in Al di là del bene e del male – Genealogia della morale, in Opere, vol. VI, tomo II, trad. di F. Masini, Adelphi, Milano 1986, p. 203.
15. Agamben, Profanazioni, cit., p. 7.
16. Ibid., p. 10.
Capitolo 7
1. P. Handke, Saggio sul juke-box, trad. di E. Ganni, Garzanti, Milano 1992, p. 63.
2. Ibid., p. 56.
3. Ibid., p. 48.
4. Ibid., p. 13.
5. Ibid., p. 60.
6. Ibid., p. 63.
7. Ibid., p. 56.
8. Ibid., p. 73.
9. Novalis, Enrico di Ofterdingen, trad. di T. Landolfi, Adelphi, Milano 1997, p. 69.
10. E. T. A. Hoffmann, Gli automi, in I fratelli di Serapione, vol. I, libro 2, trad. di S. Costagli, L’orma, Roma 2020, p. 325.
11. Agamben, Magia e felicità, in Profanazioni, cit., pp. 19-23.
12. G. Deleuze e F. Guattari, Trattato di nomadologia: la macchina da guerra, in Mille piani, trad. di G. Passerone, Orthotes, Nocera inferiore 2017, p. 566.
13. Ibid.
14. Jane Bennett, Vibrant Matter: A Political Ecology of Things, Duke University Press, Durham, North Carolina 2010, p. IX.