martedì 13 settembre 2022

VERDI UOMO QUERCIA Estratto da "Narrate, uomini, la vostra storia" di Alberto Savinio

 


VERDI UOMO QUERCIA 

Estratto da "Narrate, uomini, la vostra storia" di Alberto Savinio

 

La musica è una società segreta. I musici si riconoscono tra loro per segni d’intesa come altre volte i franchi muratori, e un musico di Pretoria che arriva a Valparaíso, uno di Stoccolma che arriva a Chicago è sicuro di trovare in stazione dei fratelli che lo aspettano, gli danno il vitto e l’alloggio, lo forniscono di soldi.

Un musico si porta dietro il proprio ambiente, l’aria adatta ai suoi polmoni, la temperatura che si affà al suo organismo e che di solito è alta, perché contrariamente a quanto credono i più il musico è un animale a sangue freddo.

Il musico si riconosce al pallore e madore diaccio delle dita, alla torbida liquidità dell’occhio, che somiglia a una palla di celluloide piena di latte battezzato.

Fredde e pallide le dita di tutti i musici, ma particolarmente quelle del flautista. Secondo che l’articolazione è semplice o doppia, il flautista pronuncia nel buchino del suo strumento te te te o te che te che. Se le donne fossero meno gelose dei loro segreti, sarebbe bello sapere che sapore hanno i baci del flautista.

Il musico si riconosce anche all’odore. All’odore nel quale domina secondo i casi l’odore del sudore digitale sull’avorio dei tasti, della colofonia passata sull’archetto, della saliva che scola nei tubi degli ottoni.

Strane deformazioni segnano i musicisti: la macchia in ispecie di voglia di fragole sotto la ganascia dei violinisti, i duroni sulle dita gentili delle arpiste, la camminata a gambe arcuate dei violoncellisti, che pur arieggiando quella dei cavallerizzi, si distingue da questa per inconfondibili segni.

Una mia cognata, diplomata di Santa Cecilia, ha consumato l’infanzia e l’adolescenza al pianoforte, e se tanto faceva di allontanarsi un minuto da quella specie di credenzone nero, sbarrato nel mezzo da una dentatura di cannibale e che a guisa di braccine atrofizzate sporgeva dal petto lustro due piccoli candelabri gialli, sua madre, dal fondo della cucina nella quale stava ammannendo quei gommosi polpi ripieni che a me pure toccò ripetutamente mandare giù durante il periodo del mio fidanzamento, le gridava: « Delia, le tue fughe! »; onde alla povera giovinetta si appiattirono a tal segno i piedi, che di poi essa è costretta a portare dentro la scarpa una piastrella di metallo a forma di ponte.

Nei Conservatorii, o come dire nelle scuole in cui s’insegna l’arte segreta della musica, spira un’aria iniziatica, un’atmosfera tempiaria, un venticello eleusino, che alle altre scuole manca; e chi iniziato non è a quei misteri ne percepisce appena la confusa sonorità, se in un materno pomeriggio d’autunno imbottito di molle bontà, o in una torbida mattina di primavera striata di inquietudini mortali passa lungo il muro di un Conservatorio, traversa i suoni che grondano dalle finestre e nei quali si aggrovigliano polacche di Chopin e rapsodie ungheresi di Liszt, ciaccone di Bach e flautati sulla quarta corda di Wieniawski, scale cromatiche di clarinetti e a soli di corni inglesi.

Si aggiunga il linguaggio segreto della musica, la sua scrittura indecifrabile a chi non è iniziato, i segni delle crome e delle biscrome, le chiavi, i diesis, i bequadri, le fughe a più voci e i canoni, la partita e il contrappunto; e si avrà la giustificazione di quel che di astratto è nei musici, di assente nel loro sguardo, di incongregabile nel loro comportamento; e la complicità fra musici, e il loro distacco dal resto dell’umanità.

Singolare e segreta anche la vita che i musici vivono nelle loro abitazioni, simile a quella una volta degli alchimisti, fra metronomi, strumentini per il la perpetuo, e grandi fogli pentagrammati.

Il fascino della musica è nel suo mistero.

Un giorno i crotoniati si radunarono in piazza, poi tutti assieme andarono a incendiare la casa nella quale si riunivano i pitagorici, teosofi vestiti di candido lino e astinenti dalle fave. Così narra Vincenzo Cuoco nel suo Platone in Italia, uno dei pochi libri «azzurri» della narrativa italiana; ma dimentica di dire che i pitagorici formavano una setta di musici, i quali non solo studiavano e calcolavano le musiche che si fanno quaggiù, ma misuravano anche quelle che fanno gli astri nelle loro celesti rivoluzioni.

Che figura ci avrebbe fatto tra questi stralunati metafisici il piccolo Peppino Verdi, il paesanotto delle Roncole, frazione del comune di Busseto?

 

Scrittore leggero e direttore della Comédie Française, Jules Claretie era un finissimo imbecille, aveva un’accentuata asimmetria facciale, ma in compenso ha « scritto » un ritratto fisico di Giuseppe Verdi di una somiglianza perfetta. Era il 1867 e Verdi si trovava a Parigi per le prove del Don Carlo, che andò in scena all’Opéra o meglio alla grande Boutique, come la chiamava Verdi.

Scrive Claretie:

« Verdi è di alta statura e d’una magrezza nervosa, le sue spalle di Atlante sembra che reggano delle montagne. I capelli lunghi e folti grondano sulle tempie in ciocche massicce, la barba lucida e nera comincia a brizzolare sotto il mento. Due rughe profonde scavano le guance, viso affossato, sopracciglia spesse, ciglia mobilissime, bocca larga, amara, sdegnosa, aspetto maschio e fiero, atteggiamenti severi e dispettosi ».

Dove abbiamo veduto Giuseppe Verdi?

Una volta, molti anni sono, andavo da Parma a Borgo San Donnino che ancora non si chiamava Fidenza, a prendere il trenino per Salsomaggiore. Era un accelerato che si fermava alle più piccole stazioni, e a ogni fermata caricava e scaricava lenti e inesorabili uomini « di alta statura, d’una magrezza nervosa, con spalle da Atlanti che sembrava reggessero delle montagne ». Seduti sulla panchina, le mani nodose poggiate sul fagottello che si portavano appresso, composti come statue di faraoni, non sapevi che pensassero né se pensassero, che guardassero né se guardassero. La camicia sbottonata scopriva la corteccia del collo corso da lunghe tubature, e la pergamena del petto.

Non si domanda se un leccio è sudicio o pulito. E se qualche odore veniva da quei corpi cotti dal sole e lavati dalla pioggia, era l’odore stesso della terra. Uno, nel traversare lo scompartimento mi pestò un piede, ma non si fermò, ignorò il mio strazio, si comportò come se non esistessi neppure; e fu come se sul mio povero piede fosse passata una quercia.

Ora e quello del piede, e i suoi simili che salivano e scendevano dall’accelerato tra Parma e Borgo San Donnino, erano altrettanti Giuseppe Verdi. Solo che non avevano scritto il Don Carlo né si erano fatti fare il ritratto da Jules Claretie.

 

Nel Museo teatrale della Scala, nel mezzo della sala dedicata a Verdi, c’è una specie di piccola madia poggiata su due zampette a X e aperta su una tastiera rossa, quasi questo piccolo quadrupede di legno ami cibarsi di mattoni triturati.

Questo curioso strumento, chiuso preziosamente fra pareti di vetro, dà pure l’idea di una piroga dell’età lacustre custodita in un museo di paleontologia; ma prima che questa idea prenda stabile dimora nella nostra testa, leggiamo sul cartellino poggiato sul vetro: « La prima spinetta di Verdi ».

Ha mai emesso suono questa spinetta, da quella sua orribile bocca tinta del sangue dei mattoni divorati? È lecito dubitarne.

Questa spinetta la comprò Carlo Verdi che teneva osteria con stallatico alle Roncole presso Busseto, e ne lece dono a suo figlio Peppino; perché Peppino, quando una fisarmonica passava sullo stradone, questo strumento che ha la voce di un cuore straziato, usciva di casa come un piccolo matto, e si metteva a correre dietro al sonatore.

In quale momento della sua vita si spense nel cuore di Verdi l’amore per la fisarmonica? Non sappiamo, ma in ogni modo nel 1857 questo amore gli durava ancora, e la barcarola di Gabriele nel primo atto del Simon Boccanegra, Verdi, per darle accento popolaresco, la scrisse con accompagnamento di fisarmonica.

I critici del tempo imputarono in parte alla fisarmonica l’esito infelice del Boccanegra, e Verdi ventitré anni dopo, ricordando ancora le imputazioni dei Maz-zucato, dei Locatelli, degli Achille Montignani, sostituì nel secondo Boccanegra l’arpa alla fisarmonica.

Questa sostituzione mette a nudo l’« evoluzione » di Verdi. La fisarmonica era una trovata. Era nella partitura del Boccanegra quello che il pianoforte è nella partitura di Petruska: un suono inaspettato e « fuori dell’orchestra ». Sostituendo l’arpa alla fisarmonica, Verdi spense quella trovata, l’affogò nella generica sonorità orchestrale del melodramma ottocentesco. E credè di affinare la partitura, come coloro che scrivono giunse e credono di essere più eleganti che se scrivessero arrivò. Ma al tempo del secondo Boccanegra Verdi era già sotto l’influenza nera di Arrigo Boito, che sotto il nome di Tobia Gorio gli aveva affinato per parte sua il libretto di Piave.

Quanto male è stato detto del povero Piave! Ora udite questa quartina del primo Boccanegra, e dite se non è degna di Metastasio:

Ogni letizia in terra

È menzognero incanto,

D’interminato pianto

Fonte è l’umano cor.

Euterpe no perché Euterpe protegge i musici della setta segreta, ma un dio forte e sano, privo d’isterismi e fornito di prodigiosa e calma intelligenza, ha salvato Verdi da altri « affinamenti » di questo genere.

A Milano Giuseppe Maria Piave abitò per molti anni in quella Galleria De Cristoforis che era una chiusa via di Bagdad, e nella quale brillavano rossi e rigonfi i polmoni di cartapesta e i cuori coronati dalle coronarie nelle vetrine della ditta Paravia. Forse egli abitò in quella medesima casa nella quale molti anni dopo abitammo anche noi, in quella pensione « per artisti » nella quale da ogni camera usciva un vocalizzo, e ove di notte se pioveva bisognava stare a letto con l’ombrello.

A documentare la stupidità di Piave si cita « Il balen del tuo sorriso », « Raggiante di pallor », « Sento l’orma dei passi spietati », « Il raggio lunare del miele ». E pensare che se un giorno vorremo trovare un equivalente di Rimbaud, di Hölderlin, di Nietzsche poeta, ci toccherà tirare fuori il povero Piave!

Nicceana anche la fine di Piave. Un giorno la paralisi colpi lo sventurato librettista, l’ignorato poeta, il mìsero Giove la cui fantasia lampeggiava più strana e più alta, quanto più nero era il cielo della sua stupidità, e lo inchiodò per otto anni su una sedia. E quando Verdi saliva al numero 7 della via Solferino e andava a trovare questo piccolo Prometeo inchiodato a una sedia di paglia, Piave si sgrullava come poteva con una parte sola del corpo, e mugolava come un cane che rivede il padrone ma non può parlare, non può muoversi perché sta alla catena.

Piave, non Boito, fu il vero librettista di Verdi. Fu il librettista « verdiano » per eccellenza. In Piave c’era l’intelligenza della stupidità, in Boito la stupidità dell’intelligenza. Chiniamoci a guardare: i momenti più strani, più alti, più memorabili di Verdi, sono nella musica quello che nella poesia sono « Il balen del tuo sorriso », « Raggiante di pallor », « Sento l’orma dei passi spietati ».

Quando Piave cadde morto giù dalla sedia, Verdi scrisse alla contessa Maffei: « Povero Piave! Era buono! ». Buono è più sinonimo di poveraccio che di calo-cagatòs. Quanto pagheremmo una frase, una parola, un accenno che rivelassero in Giuseppe Verdi una intelligenza pari ai lampi che traversano la sua opera!

La spinetta di Peppino non funzionava. Si dovette far venire uno specialista per ripararla, e costui, terminata la riparazione, incollò dentro il torace dell’afono strumento un cartellino che dice così: « Da me Stefano Cavalletti fu fatto di nuovo questi saltarelli e impenati a corame, e vi adattai la pedagliera che io ci ho regalato; come anche gratuitamente ci ho fatto di nuovo li detti saltarelli, vedendo la buona disposizione che ha il giovinetto Giuseppe Verdi d’imparare a suonare questo strumento, che questo mi basta per essere del tutto soddisfatto. Anno Domini 1821 ».

Negli anni stessi in cui un grande popolo rinasceva all’indipendenza, Verdi nasceva alla musica. Basta questo a spiegare il « patriottismo » di Verdi.

Fosse stato di quegli altri musici, che quando li chiami non rispondono, quando li guardi non ti vedono, e cui la Musica, questa strega, ha insterilito ogni umano sentimento, Verdi a quest’ora, sotto il cappellone a larghe tese e dentro la giacca a doppio petto, non figurerebbe tra i protagonisti del Risorgimento, al fianco di Cavour, di Mazzini, di Garibaldi; mentre intorno, sopra un campo sterminato, sotto un cielo turchino e popolato di santi in poltrone rosso e oro, migliaia e migliaia di organetti di Barberia ripetono vicino, poi lontano, poi più lontano, e infine lontanissimo: « Va’ pensiero sull’ali dora-a-a-te... ».

Cappellone e giacca a doppio petto sono custoditi nel Museo della Scala, e benché a tutta prima, collocati come sono, il cappello in alto, la giacca in basso e tra cappello e giacca lo spazio vuoto della testa, diano sembianza dell’Uomo Invisibile arrestato e messo sotto vetro, si capisce senza sforzo che in questi indumenti non c’è niente di diabolicamente musicale, ma sono il cappello e la giacca che il Buon Rurale, l’Uomo Quercia, prima di uscirsene, anima nuda, il 27 gennaio 1901, abbandonò sulla sedia della sua camera dell’Albergo Milano.

 

Della morte di Verdi c’è un documento spoglio e tragicissimo: i disegni che Hohenstein fece della testa di Verdi in agonia, e sotto i quali una annotazione oraria e una data segnano il passaggio dalla vita alla morte:

ore 20 25-1-1901

ore 91/2 26-1-1901

ore 10 26-1-1901

ore 16 26-1-1901

ore 20 26-1-1901.

E si ferma qui.

La musica di Verdi non sta nelle dita di chi la volesse sonare al pianoforte. Fa eccezione Falstaff nella riduzione per piano. Ma è merito di Verdi o del bravo maestro Carignani? Certi incontri di seconde diminuite, come nell’accompagnamento alle parole del Doge « Tu piangi » nel Simon Boccanegra, stupiscono come cose non sue.

Anche la sua vita non aveva il chimico, l’astratto, l’astrale della cabalistica vita dei musici. La sua musica è di canto, ossia diretta e naturale. Se la diceva con soprani, tenori, bassi: mammiferi grassi con begli anelli alle dita e il cervello in perpetua bonaccia.

Questa la salute e « singolarità » del suo destino.

Rurale, Verdi non ingrassò la sua terra con concimi chimici, ma con buon concime naturale.

Nemmeno lui si conosceva. E giudicando la sua musica secondo criterio musicale, le dava appena dieci anni di vita.

Eppure le altre musiche morranno ma la sua continuerà a vivere. Perché non è staccata dal mondo come le altre e sterile, ma plasmata e riplasmata con forti e grosse mani di rurale, impastata con gli elementi stessi della terra: il bene e il male della terra, il suo amore e il suo odio, la sua dolcezza e la sua crudeltà, la sua stupidità, la sua indifferenza, la sua pazzia.

Gli uomini più alti di mente, più straordinari di pensiero ignorano talvolta Bach, ignorano Mozart, ignorano Wagner; ma si fermano stupiti e affascinati dalla pazzia dell’Universo: dalla pazzia di Giuseppe Verdi.