LE TERRE DELLO SCIACALLO
Amos Oz
Su questa terra cattiva
1.
Iefte nacque sul limitare del deserto. Sempre sul limitare del deserto fu scavata la sua tomba.
Per molti anni Iefte vagò per il deserto con i nomadi, di fronte alla terra di Ammon. Neanche quando gli anziani d’Israele scesero da lui nel deserto, e lo fecero diventare giudice d’Israele, neanche allora Iefte lasciò il deserto. Era un uomo selvatico. Gli anziani della comunità l’avevano scelto come loro capo per la sua selvaticità. Tutte queste cose capitarono in quei tempi arbitrari.
Per sei anni Iefte il ghileadita fu giudice. Vinse tutte le guerre. Ma il suo volto era devastato, lui non amava Israele e non odiava i suoi nemici perché apparteneva soltanto a se stesso, ed era anche estraneo a se stesso. Per tutti i giorni della sua vita, e persino quando sedeva all’ombra di un tetto, a casa, i suoi occhi erano sempre stretti, come per non far entrare la polvere del deserto, per via della luce accecante. Oppure stavano rovesciati, gli occhi, e guardavano dentro, perché tutt’intorno nulla trovavano.
Ecco, nel giorno della nostra vittoria su Ammon, quando tornò al territorio di suo padre, il popolo esultava e le figlie d’Israele cantavano “Iefte ha colpito, Iefte ha colpito”, ma quell’uomo pareva stordito. C’era un vecchio della tribù che dentro di sé pensò: quest’uomo inganna, il suo cuore non è qui con noi, bensì lontano di qui.
Il nome di suo padre era Ghilead il ghileadita. Sua madre era una prostituta ammonita che si chiamava Pitdah figlia di Eitam. Anche la figlia di Iefte si chiamava Pitdah. Alla fine dei suoi giorni, con l’approssimarsi della morte, Iefte vedeva quelle due donne come una soltanto.
Pitdah sua madre morì quando Iefte era un ragazzo. I suoi fratelli, figli di suo padre, lo cacciarono nel deserto perché era figlio di un’altra donna.
Nel deserto si radunarono intorno a lui vagabondi infelici, divenne il loro capo perché lui aveva la dote del comando. Sapeva parlare ai nomadi con una voce calda o, volendo, con una voce fredda e cattiva. Di più: scagliando una freccia, domando un cavallo, piantando una tenda, quell’uomo sembrava muoversi lentamente, quasi con ritardo, per stanchezza, ma quanto falsa era quell’impressione, come un coltello riposto fra pieghe di seta. Era capace di dire a un uomo: alzati. Vai. Vieni. E quello si alzava, andava e veniva, e Iefte il ghileadita non diceva neanche una parola, muoveva solo le labbra. Parlava poco perché non amava le parole, non se ne fidava.
Per molti anni Iefte visse sui monti nel deserto e anche quando si trovava circondato da folle tumultuose lui era sempre solo. Un giorno andarono da lui gli anziani d’Israele, volevano chiedergli che combattesse per loro contro gli ammoniti. Raccolsero l’orlo delle loro tuniche per via della polvere del deserto e si inginocchiarono ai piedi di quell’uomo selvatico. Iefte li affrontò in piedi, ascoltò, tacque, guardò il loro orgoglio spezzato come fosse stata una ferita. Tutt’a un tratto lo prese la tristezza, non per quegli anziani, forse non era neanche tristezza, forse era qualcosa che assomigliava a tenerezza, e disse gentilmente:
Avrete per capo il figlio di una prostituta.
Gli anziani dissero senza voce:
E sia.
Tutto ciò avvenne nel deserto, fuori dalla terra degli ammoniti, fuori dalla terra d’Israele, giù in fondo dentro il silenzio, fra instabili presenze mute: sabbia, vapore, cespugli bassi, monti bianchi e sassi neri.
Iefte sconfisse Ammon, tornò nel territorio di suo padre e rispettò il voto fatto. Era convinto di dover affrontare una prova, e di riuscire ad affrontarla: immolando sua figlia, gli sarebbe stato ingiunto di non stendere la mano contro la fanciulla.
E poi tornò al deserto.
Amava Pitdah, credeva nelle voci notturne che passano per il deserto, ogni notte. Iefte il ghileadita morì sulle montagne, in un posto chiamato terra di Tob. Alcuni nascono e vengono al mondo per vedere con i loro occhi la luce del giorno e la luce della notte e chiamare luce la luce. Ma a volte uno arriva e attraversa triste tutta la propria vita e quando muore lascia dietro di sé una scia di schiuma e di rabbia. Alla morte di Iefte suo padre scavò una tomba e alla tomba disse:
Per sei anni mio figlio ha giudicato Israele per grazia di Dio.
E Ghilead il ghileadita disse ancora:
La grazia di Dio è caos.
Per quattro giorni all’anno le ragazze vanno sui monti a piangere Pitdah, la figlia di Iefte. Un vecchio cieco le segue a distanza. I venti secchi del deserto strappano le sue lacrime dalle rughe. Tutti quei venti non riescono a prendere il sale, che secca, brucia sulle guance del vecchio. Ai monti, le ragazze vanno a gridare al deserto, terre della volpe e della vipera e della iena, distese corrose da una luce bianca. Gente disgraziata, vagabondi della terra di Tob, ascoltano di notte il pianto di quelle fanciulle e di lontano rispondono con un canto amaro.
2.
Il luogo in cui Iefte nacque era in fondo al paese. La proprietà di Ghilead il ghileadita era l’ultima, al confine del territorio della tribù. In quel luogo il deserto lambiva la terra coltivata e a volte penetrava nei frutteti e sfiorava persone e bestiame. La mattina il sole esplodeva dietro i monti orientali e cominciava subito ad arroventare tutta la terra. A metà del giorno cascava come un fulmine di fuoco e accendeva tutto con un furore onnipotente. Alla fine del giorno il sole scendeva a occidente a bruciare i picchi laggiù. Le pietraie cambiavano colore e di lontano assumevano l’aspetto di un moto disperato, come fossero vive.
Ma la notte la terra si quietava. Venti freschi si dispiegavano lentamente su di essa, come una carezza di mano. Rugiada sopra le pietraie. Il vento notturno veniva e poi andava. Quella grazia durava un attimo, e tuttavia tornava ogni volta come il ciclo di nascita e morte, come il vento e l’acqua, come l’avvicendarsi di odio e nostalgia, ombra va e ombra passa.
Ghilead il ghileadita, padrone del territorio, era un uomo grande e grosso. Il sole gli aveva bruciato la pelle del viso. Cercava con tutte le forze di tenere a freno il suo animo, e tuttavia era molto dispotico. Le parole gli uscivano di bocca aggressive o in un bisbiglio velenoso, come se parlando dovesse sempre mettere a tacere altre voci. Se posava la brutta, forte mano sul capo di uno dei suoi figli o sul collo del cavallo o sul fianco di una donna, tutti sapevano che era Ghilead senza bisogno di voltarsi. A volte con quella mano toccava un oggetto inanimato non perché volesse dire o fare qualcosa, ma perché colto da un dubbio: la concretezza di tutte le cose gli destava un inopinato stupore. A volte gli veniva voglia di allungare la mano su cose che non è dato prendere: suoni, nostalgie, odori. Quando calava la notte, capitava che Ghilead dicesse: è venuta la notte. Che senso hanno queste parole. La sera convocava a sé il sacerdote di casa perché gli leggesse un libro sacro e si concentrava nell’ascolto. Anche per cose insulse si rivolgeva a Dio e chiedeva la nascita di un vitello maschio o la riparazione di due orci di coccio crepati. A volte rideva per niente.
Tutte queste cose ispiravano terrore nei suoi servitori. Se capitava improvvisamente nel campo in pieno giorno in piena estate e scoppiava in una fragorosa, rauca risata, i servi ridevano con lui per paura. O a volte la notte Ghilead cadeva improvvisamente in preda a un odio freddo verso la fredda luce delle stelle, allora urlava e chiamava nel cortile tutti gli uomini e le donne. Sotto gli occhi di tutti si chinava, prendeva una grossa pietra, gli occhi sbiancati nel buio come se stesse per scagliare la pietra e uccidere qualcuno. E poi, piano e come sofferente, come se stesse per soffocare, si chinava lentamente e rimetteva la grande pietra sulla terra del cortile, con un gesto morbido come di vetro su vetro, ben attento a non fare del male né alla pietra né alla terra e nemmeno al silenzio della notte, perché in quel luogo le notti erano quiete e se passavano delle voci, ecco, sembravano un’ombra scura che passava muta sotto il pelo dell’acqua.
La moglie di Ghilead era di stirpe di sacerdoti e mercanti, si chiamava Nechushtah figlia di Zebulun. Era bianca bianca e spaventata. Da giovane a casa di suo padre aveva conosciuto sogno e tenebra. Adorava piccoli oggetti, piccole creature, bottoni e farfalle, orecchini, rugiada del mattino, germogli di mela, zampe di gatto, soffice pelo d’agnello, schegge di luce e d’acqua.
Ghilead prese in moglie Nechushtah perché gli era parso di riconoscere in lei segni di una sete interiore che nulla al mondo avrebbe mai potuto placare o mitigare. Quando Nechushtah diceva, ecco un sasso, ecco qui una valle, le parole le uscivano di bocca come se dicesse, vieni vieni. E lui aspirava a toccare quella sete come ansioso di sentire un’idea, una nostalgia, sentirla con le dita delle mani, proprio. E lei seguì Ghilead perché vi aveva visto tristezza e forza.
Nechushtah desiderava spezzare quella forza e penetrare dentro quella tristezza e anche sottomettersi a entrambe. Ma nessuna di quelle cose Ghilead e Nechushtah poterono farsi a vicenda perché il corpo e l’anima non sono altro che corpo e anima e gli uomini non sono in grado di arrivare al fondo di tutto ciò. Solo qualche mese dopo il suo arrivo a Mitzpeh Ghilead, Nechushtah aveva preso l’abitudine di starsene da sola alla finestra a cercare con gli occhi, chissà che oltre i deserti e le montagne non le comparisse davanti la terra piana e nera da cui l’avevano portata via, per venire qui nel deserto. La sera gli diceva:
Quando mi prendi.
E Ghilead rispondeva:
Ma ti ho già presa.
Quando montiamo e ce ne andiamo di qui.
Tutti i luoghi sono uguali.
Ma io non ce la faccio. Basta.
E chi ce la fa. Portami qui il vino e le mele e vattene nella tua stanza o stattene seduta buona alla finestra, solo non guardare il buio con occhi così.
Col passar degli anni, dopo aver partorito Yamin, Yemuel e Azur, Nechushtah si ammalò e pareva trovarsi fra le grinfie della decadenza e della grazia. Era sempre bianca bianca, la pelle sempre più diafana. Odiava il deserto che le sbuffava alla finestra della stanza per tutto il giorno e ogni notte bisbigliava perduto perduto, e odiava anche le canzoni selvagge dei pastori e il muggito delle bestie nel cortile e nei suoi sogni. A volte chiamava suo marito con il nome di quell’uomo morto e i suoi figli li chiamava orfani. A volte diceva di se stessa: ecco anch’io sono morta ormai da tempo, e restava seduta tre giorni alla finestra senza mangiare e senza bere. Il luogo era molto sperduto e dalla finestra di giorno si vedevano solo sabbia e monti, di notte stelle e buio.
Tre figli diede Nechushtah figlia di Zabulun a Ghilead il ghileadita, Yamin, Yemuel e Azur. Era una donna bianca con la pelle sempre più diafana. Non sopportava i cambiamenti d’umore dell’uomo. Se si lamentava e piangeva Ghilead alzava la voce e urlava, buttava l’orcio di vino per terra, e i cocci tintinnavano. Se lei sedeva muta alla finestra accarezzando il gatto di casa o giocando con gli orecchini e i bottoni, Ghilead la guardava e rideva sguaiatamente, e aveva un odore peloso. A volte lei gli faceva pena, diceva:
Chissà che il re non senta la tua doglianza. Chissà che non mandi carri e cavalli a portarti da lui. Chissà che oggi o domani non si vedano le torce in lontananza e non arrivino i corrieri.
Nechushtah diceva:
Ma quale re. Quali corrieri. Perché mai qualcuno dovrebbe correre. Non c’è niente.
Nell’udire queste cose Ghilead si colmava di compassione per lei e di rabbia tremenda per se stesso per quel che le aveva fatto, così si dava pugni sul petto e malediceva se stesso e la propria memoria. Per pietà finiva per provare un improvviso disgusto per lei, o per se stesso o per quella pena che lei gli faceva, così si rinchiudeva, si teneva nascosto. Lei non lo vedeva per molti giorni, poi una notte sul far dell’alba, quando lei ormai disperava, lui arrivava e la aggrediva d’amore. Durante l’amore stringeva le labbra come uno che cerca di spezzare una catena di ferro con la forza delle mani.
Era un uomo umorale e anche perduto. Se la notte una luce di torcia gli cadeva sul volto, quel volto pareva una maschera di quelle con cui i sacerdoti pagani si coprivano il viso. Capita che uno attraversi la propria vita come un esule in terra straniera, una terra cui non vuole arrivare e da cui non sa come uscire.
D’inverno Ghilead si colmava di malinconia e stava disteso nel letto per un giorno o una settimana, gli occhi contro l’alcova del tetto, a guardare e non guardare e non vedere. Allora Nechushtah pensava ogni tanto di salire da lui nello stanzino, e amarlo con le sue dita diafane, come se fosse uno dei suoi animaletti. Le sue labbra erano bianche come una malattia, lui consegnava loro il proprio corpo, lui vagava stanco e lei era una donna di strada in un ostello. Silenzio, per tutti e due.
Ma quando le energie montavano in lui e gli rivoltavano contro il proprio corpo, allora Nechushtah si nascondeva dentro uno stanzino e Ghilead irrompeva nella residenza delle ancelle per placare con esse quel furore velenoso. Per tutta la notte la residenza fremeva di suoni umidi e di un ruggito basso e tremulo e degli strilli delle serve sino alla luce dell’alba. La mattina Ghilead spuntava fuori e svegliava brutalmente il sacerdote di casa, per prostrarsi ai suoi piedi e piangere di sensi di colpa. Poi, le lacrime ancora sul viso, spingeva via con il dorso della mano il sacerdote di casa, lo faceva cascare faccia a terra e partiva come una furia a sellare il suo cavallo per correre fino in fondo alle colline a oriente.
Nella dimora delle ancelle c’era una piccola concubina ammonita che si chiamava Pitdah figlia di Eitam; i ghileaditi l’avevano rapita una volta quando erano andati a razziare nei villaggi ammoniti oltre il deserto. Pitdah era una donna sottile e forte, con gli occhi ombreggiati da ciglia scure. Se lanciava uno sguardo verdastro alle labbra del padrone o al suo petto, se gli stava di fronte nel cortile sfiorandosi la pancia con la punta delle dita, il padrone tremava e imprecava contro quell’ancella. Mentre ruggiva quelle imprecazioni, le serrava le mani dentro la sua che era grande e le mordeva le labbra con i denti, così gridavano tutti e due. I fianchi di lei erano sempre inquieti, anche quando si presentava sulla soglia della stalla per sentire l’odore di sudore dei cavalli, i fianchi rispondevano sempre a una composta danza interiore. Fuoco e ghiaccio si accendevano di verde nelle pupille dei suoi occhi. E andava sempre scalza.
Col tempo si venne a sapere che l’ammonita praticava la magia. Dalle ancelle che la odiavano si seppe questa cosa, che l’avevano vista di notte preparare delle pozioni con gli occhi spiritati. Pitdah chiamava i morti la notte, li convocava a sé perché sin da piccola era stata consacrata sacerdotessa di Milcom, il dio degli ammoniti. Nel buio gli alberi del frutteto stormivano segretamente e le porte di casa cigolavano nel vento. Lei faceva le sue magie nelle cantine di notte, l’intruglio sobbolliva e sfrigolava e l’ombra della donna fremeva e passava sulle selle marce e sulle botti di vino e sui triboli di legno e sulle catene di ferro.
Quando vennero alla luce queste cose, Ghilead ordinò di darle un otre d’acqua e spedirla nel deserto dai morti che invocava, perché una strega non doveva vivere.
Ma con la prima luce il padrone sellò il suo cavallo e andò a riprenderla per riportarla a casa, imprecando contro le sue divinità e anche picchiandola sul volto con il dorso della sua brutta e grossa mano.
Pitdah gli soffiò in faccia e lo maledisse, lui e il suo popolo e le sue divinità. Un lampo caldo e verde brillava nelle pupille dei suoi occhi.
Tutt’a un tratto i due scoppiarono a ridere, entrarono nella stanza e la porta si chiuse dietro di loro, fuori nitrivano i cavalli.
Nechushtah moglie di Ghilead attizzò i suoi tre figli contro l’ammonita, perché non la sopportava più. Si alzò dal letto e andò alla finestra con il suo vestito bianco, la schiena verso la stanza e i figli, il viso verso il deserto, e sussurrò loro vostra madre è morta e voi tacete, non state zitti.
Ecco, Yamin e Yemuel ebbero paura del loro padre e non alzarono un dito.
Solo Azur, il più piccolo, la ascoltò e tramò il male contro la serva ammonita. Questo Azur si occupava dei cani della tenuta. Dava loro da mangiare e da bere, li ammaestrava a fare trucchi e insegnò loro anche ad attaccare alla gola con i denti. A Mitzpeh Ghilead dicevano di lui: questo Azur capisce la lingua dei cani ed è anche capace di abbaiare o ululare nel buio, come uno di loro. Azur aveva un cucciolo di lupo piccolo e grigio, che mangiava dal suo piatto e beveva dal suo bicchiere, entrambi avevano denti bianchi e affilati.
Un giorno, all’inizio dell’autunno, quando Ghilead scese in un altro campo, Azur lanciò i suoi cani contro Pitdah la concubina ammonita. Lui restò all’ombra della casa, fece un verso gutturale quando passò Pitdah, e i cani, compreso il cucciolo di lupo, saltarono su dal letame e la fecero quasi a pezzi.
Nella notte Ghilead tornò a casa e consegnò il figlio minore Azur a un servo cattivo, avvizzito e calvo, perché lo portasse nel deserto, come è da farsi per gli assassini.
La sera le bestie del deserto gridavano, fuori dal recinto i loro occhi brillavano di giallo nell’oscurità.
Anche questa volta Ghilead saltò in sella al suo cavallo, alla fine della notte, e riportò suo figlio, e anche suo figlio picchiò e imprecò come aveva fatto in precedenza con la concubina.
Ecco, dopo queste cose fece un incantesimo ad Azur: per quaranta giorni abbaiò e latrò senza riuscire a pronunciare neanche una parola.
Anche contro il suo padrone Pitdah svegliò uno spirito nero, perché aveva risparmiato Azur e lei non gli aveva perdonato il suo perdono. Un giovane cupo si buttò sul padrone di casa, e solo bevendo moltissimo vino lo lasciò.
Quando Pitdah mise al mondo Iefte, Ghilead il ghileadita si rinchiuse nella cantina di casa per quattro giorni e cinque notti. Per tutte quelle notti andò brindando un bicchiere con l’altro, se li scolava tutti e due e li riempiva di nuovo. La quinta notte Ghilead cascò per terra. Sognò un cavaliere nero in sella a un cavallo nero con una spada di fuoco nera ma le redini del cavallo le teneva una donna a mezz’aria che non era né Pitdah né Nechushtah, un’altra donna sembrava essere colei che teneva le redini del cavallo e il cavallo e il cavaliere la seguivano muti. Quel sogno Ghilead non lo dimenticò più perché, al pari di alcuni uomini, credeva che i sogni fossero mandati a noi dal luogo da cui l’uomo viene e cui tornerà attraverso la morte.
Quando il piccolo Iefte crebbe e cominciò a uscire dalla residenza delle ancelle per andare a spasso in cortile, imparò a nascondersi da suo padre. Si nascondeva dentro un covone di paglia mentre quell’uomo pesante passava e si allontanava con il suo passo sinistro, per non farsi beccare. Finché Ghilead non se n’era andato, il piccolo masticava paglia o fieno o un dito, dicendosi sottovoce: zitto. Zitto.
Se il bambino non faceva in tempo a nascondersi perché stava dentro i suoi sogni, Ghilead il ghileadita lo agguantava e lo faceva volare tra le proprie spaventose mani, e ruggiva, aveva odore di sudore e peli, e il piccolo strillava di dolore e paura e piantava i dentini nella spalla di suo padre per provare invano a liberarsi da quella presa.
3.
Iefte nacque davanti al deserto. Il territorio di Ghilead il ghileadita era l’ultimo di tutti i territori della tribù, era ai margini del deserto, e oltre quel deserto c’era il paese degli ammoniti.
Ghilead il ghileadita possedeva greggi di capre, campi e vigne con i margini ingialliti dal deserto. Un alto muro di pietra circondava la casa. Anche le pareti della casa erano fatte di pietra nera, pietra vulcanica. Una vecchia vite si arrampicava su tutti quei muri. D’estate la gente sembrava andare e venire dal folto di quegli spessi tralci, perché d’estate il fogliame nascondeva la pietra dei muri.
Sul far dell’alba si udivano le campanelle del bestiame e il flauto dei pastori che spandeva vaghi incantamenti, l’acqua gorgogliava sommessamente in tutti i canali e una luce oscura dimorava nei pozzi.
C’era pace la mattina, su tutto il terreno di Ghilead.
Dentro quella pace fremeva uno spasimo composto. L’ombra dei grandi alberi serbava un crepuscolo algido.
Ma ogni notte gli oscuri pastori dal volto impenetrabile vegliavano sulla fattoria per proteggerla dai nomadi e dall’orso e dai briganti ammoniti. Per tutta la notte bruciavano sul tetto della casa torce di fuoco e una miriade di cani smagriti stava in agguato nel buio dei frutteti. Come un’ombra scura passava fra gli steccati di notte il sacerdote di casa a scongiurare gli spiriti maligni.
Sin da ragazzo Iefte aveva imparato a riconoscere tutte le voci della notte. Tutte le voci della notte venivano nel suo sangue. C’erano le voci del vento, del lupo e degli uccelli predatori, le voci d’uomo mascherate da voce del vento e della volpe e degli uccelli.
Oltre la cinta di casa viveva un altro mondo che nel silenzio tramava giorno e notte per ridurre la casa in polvere e cercava di erodere tutto con furbizia e pazienza infinita, come l’acqua che lentamente corrode le pareti dei canali. Soffice e sommessa in un modo incredibile era quella cosa, soffice più del vapore, sommessa più del vento, e tuttavia onnipresente: forte e trasparente.
Le capre nere tenevano compagnia al ragazzo, lui aveva imparato a condurle al pascolo e a guardarle per tutto il giorno mentre masticavano facendo stridere i denti con le rade erbe di campo che si dannavano sulle strisce di pascolo residue fra gli anfratti della roccia, perché il posto era sul confine del deserto. Anche gli ossuti cani tenevano compagnia a Iefte, i cani di suo fratello Azur. Erano cani rozzi, nella loro ossequiosità stava sempre acquattata una crudeltà repressa. E anche gli uccelli gli tenevano compagnia, gli strillavano dentro le orecchie.
La mattina gli uccelli gridavano di lontano. La sera, al calar del crepuscolo, i grilli parlavano come se avessero qualcosa di urgente e spaventoso da dire, e non potessero tacere. Nel buio Iefte sentiva silenzi sottili, talvolta perforati dall’ululato di una volpe o di uno sciacallo. Nel loro grido rideva la iena.
A volte i nomadi del deserto entravano nella tenuta, la notte. Nella tenebra i pastori di Ghilead facevano la posta al nemico, ma il nemico veniva muto come il respiro, se uccideva fuggiva in silenzio e se ucciso moriva muto. La mattina trovavano un uomo riverso ai piedi degli ulivi, a volte la mano ancora stretta al coltello che aveva piantato nella carne, gli occhi rivoltati. Un pastore, o un nemico.
Iefte guardava il bianco negli occhi di quei morti e pensava: chi muore rovescia gli occhi all’interno e laggiù forse gli si rivelano altre immagini.
A volte Iefte sognava la propria morte, ed era come se delle buone, forti mani lo portassero nella pianura. Dolce e sottile lo sfiorava una specie di pioggerella, e laggiù una pastorella diceva qui adesso ci sediamo a riposare fin dopo la pioggia, dopo la luce.
Ogni estate nei frutteti cresceva una vegetazione selvaggia, e i frutti in maturazione erano sempre più turgidi, sempre più gonfi. Nelle vene del frutto frizzavano succhi potenti. I tralci di vite parevano tremare per la pressione dei succhi incontenibili. Le capre e il montone scorrazzavano per il prato e il toro muggiva e schiumava. Nella residenza delle ancelle e nelle capanne dei pastori c’erano ansimi, verso l’alba il ragazzo riusciva a sentire nel sonno come dei ronfi di un animale morente. Anche nei suoi sogni passavano delle donne: Iefte si colmava di desiderio per forze delicate di cui non conosceva il nome, non era seta, non era acqua, non era pelle, non era pelo, era nostalgia di un contatto caldo e struggente, un toccare non toccare, forse pensiero di fiume, odore, colore, e nulla di tutto ciò.
Non amava le parole e perciò taceva.
Nei suoi sogni da ragazzo, nelle notti d’estate, nuotava dolcemente controcorrente.
La mattina quando si alzava prendeva il pugnale e lo testava lentamente, con quieta pazienza, non forte, su tutti gli oggetti inanimati che trovava nell’aia. Terra. Corteccia d’albero. Lana. Pietra. Specchio d’acqua.
Iefte non era come suo padre. Era un ragazzo di corporatura esile e forte, colori, voci, odori e oggetti lo attiravano molto più delle parole e delle persone. A dodici anni Iefte era capace di maneggiare un’ascia, una pecora, una clava, un morso da cavallo. Una sorta di fremito controllato si notava a volte in quei suoi gesti.
Quand’ecco che l’odio dei suoi fratelli Yamin, Yemuel e Azur andò serrandosi intorno a lui. Gli volevano male perché era figlio di un’altra donna, per via del suo silenzio fiero e per la quiete arrogante che sembrava sempre come serbare un pensiero testardo, nascosto, un pensiero che non accettava di essere condiviso. Anche quando i fratelli lo chiamavano al loro gioco, lui andava a giocare con loro senza parlare. Se vinceva una volta non gioiva né si faceva bello con loro, taceva solo di un silenzio che moltiplicava per sette il loro odio. E se uno dei fratelli vinceva su Iefte, lui dava sempre l’impressione di averlo lasciato vincere e aver rinunciato alla vittoria per calcolo o disprezzo o perché si era distratto, giocando.
Quei tre fratelli, Yamin, Yemuel e Azur, erano ragazzi corpacciuti e atletici. Sapevano gioire e ridere, a modo loro. Mentre Iefte, figlio di un’altra, era sottile e giallo. Anche quando rideva, pareva altrove. Aveva l’abitudine di fissare lo sguardo sugli altri e di non distoglierlo neanche quando avrebbe dovuto farlo. Ogni tanto si accendeva e si spegneva nei suoi occhi un lampo rapido, giallo, che costringeva il prossimo a lasciar subito perdere.
Per via delle stregonerie di Pitdah o forse per timore del padre, i fratelli non osavano fare male a Iefte, come avrebbero voluto. E solo di lontano, sottovoce, bisbigliavano a denti stretti: tu, aspetta, aspetta.
Una volta Pitdah disse: piangi, Iefte, urla al nostro dio Milcom, lui ascolterà e ti proteggerà dai bisbigli d’odio.
Ma in questo caso Iefte non ubbidì a sua madre. Non pianse a Milcom il dio di Ammon, si mise solo in ginocchio e disse alla madre: signora mia madre. Come se per lui Pitdah fosse la regina di quella casa.
Lei avrebbe voluto portare sul figlio la benedizione di Milcom il dio di Ammon perché aveva visto di lontano la propria morte e il ragazzo solo sperduto fra stranieri. Perciò di notte Pitdah preparava le sue pozioni e le dava a Iefte. Quando le sue dita gli sfioravano le guance, lui tremava.
Iefte non credeva in tutte quelle pozioni, ma non si rifiutava di berle. Adorava l’odore straniero e amaro delle dita di sua madre. E lei gli parlava di Milcom, che gli ammoniti adoravano con vino e seta. Non come il dio di tuo padre, un dio arido che tormentava chi lo amava tanto da annientarlo. Milcom invece ama chi si raduna, ama chi si rallegra con il vino, ama chi dà l’anima nel canto e nella musica in cui la letizia assomiglia alla furia.
Del dio d’Israele Pitdah diceva che guai a coloro che peccano contro di lui e guai a coloro che credono in lui, tanto gli uni quanto gli altri li farà soffrire perché è un dio solingo.
Iefte guardava le stelle nel cielo estivo sopra la proprietà e sopra il deserto. Quelle stelle parevano a Iefte tutte sole, ciascuna per conto suo dentro le nere immensità, alcune di esse ogni notte facevano il giro da un capo all’altro del cielo, altre non si muovevano perché stavano incollate al loro posto. Non c’era tristezza alcuna in tutte quelle stelle, e non c’era neanche gioia. Ma se una di loro improvvisamente cadeva, ecco che tutte le altre non sentivano, non fremevano, brillavano livide e fredde come sempre. La stella che cadeva lasciava dietro di sé una scia di fuoco freddo e anche la scia di fuoco si spegneva e veniva il buio. A stare scalzi in ascolto sino allo spasimo, ad ascoltare così, forse si poteva sentire il silenzio assoluto, fra silenzio e silenzio.
Il sacerdote di casa che istruiva i fratelli insegnò anche a Iefte a leggere e scrivere dai libri sacri. Un giorno Iefte chiese al sacerdote di casa perché Dio era stato compassionevole con Abele e Isacco e Giacobbe e Giuseppe ed Efraim e perché li aveva preferiti ai fratelli maggiori, Caino, Ismaele, Esaù e Manasse: perché da Dio stesso era uscito tutto il male nel libro, a lui gridava il sangue di Abele dalla terra.
Il sacerdote di casa era un uomo corpulento con due occhi piccoli sempre inquieti. Passò la vita a fremere di paura per la collera del padrone. Il sacerdote rispose a Iefte che prodigiose sono le vie del Signore e chi può mai domandare al Signore il perché. Nella notte Iefte sognò che il Signore veniva, era pesante e peloso, un Dio irsuto con fauci di rapace, che gli ringhiava contro e respirava e ansimava come per fame o rabbia ardente. Nel sogno Iefte urlava di notte. A volte la gente urlava nel sonno a casa di Ghilead e in fondo a quel grido veniva il silenzio.
Anche Milcom passava nelle notti estive dentro i sogni di Iefte. Una grazia di corrente calda fremeva nelle vene del suo sangue quando le dita di seta gli sfioravano la pelle e i succhi dolci lo solleticavano sino alla punta dei piedi.
L’indomani mattina Iefte compariva, assente e solitario, nel grande cortile, schivando ombra su ombra, e persino il lampo giallo era spento nelle pupille dei suoi occhi.
Quando aveva quattordici anni a Iefte cominciarono ad apparire i segni. Se si trovava da solo nel campo o quando seguiva il gregge sul fondo di un canale lo aggredivano i segni e lui si sentiva come se a lui, solo a lui fossero rivolti quei segni, era lui che chiamavano. Ma non capiva che cosa fosse, quel segno, chi lo stesse chiamando. A volte cadeva in ginocchio come gli aveva insegnato a fare il sacerdote di casa, si batteva la fronte con una pietra e supplicava ad alta voce: adesso, adesso.
Nei suoi pensieri soppesava l’amore di Dio e quello di Milcom. Scoprì che l’amore di Milcom era molto facile, quell’amore non costava quasi nulla, come l’amore di un cane: ci si gioca un momento, e lo si è conquistato, viene vicino a farsi accarezzare e magari anche a vegliare sul tuo sonno, nel campo.
Ma Iefte non osava chiedere l’amore di Dio, perché non sapeva. Se veniva la sicurezza di un momento e dentro di sé provava a far paragoni, dicendo: io sono piccolo, sono Abele e Isacco e Giacobbe, figli della vecchiaia, ecco che subito si rammentava che lui era figlio di un’altra donna, come Ismaele figlio dell’egiziana.
Un giorno il padrone disse ai suoi famigli che al Signore bisogna arrivare non come una farfalla al fiore ma come una farfalla al fuoco.
Queste cose il ragazzo udì, e ne fece anche esperienza.
Cominciò a cercarsi pericoli da sfidare. Si mise alla prova nei crepacci del monte, fra le dune di sabbie mobili, in un pozzo. Anche con un lupo: una notte uscì da solo a mani nude a cercare un lupo e a combatterci sulla soglia della sua tana, e con le sue mani nude spezzò la schiena dell’animale tornando da quella prova solo con un morso e un graffio. Voleva trovare grazia agli occhi del Signore e nell’autunno si esercitò pure a passare una mano nel fuoco senza gridare.
Alcune di quelle gesta le vide il sacerdote di casa, così andò a riferire al padrone che l’ammonita passava la mano nel fuoco. Ghilead ascoltò le parole del sacerdote, il volto si oscurò di rabbia, lui scoppiò in una risata sfrenata, maledisse quel sacerdote e allungò la sua grande mano per un colpo che lo atterrò.
Quella notte stessa Ghilead il ghileadita ordinò di ritrovargli il figlio della serva e condurlo a sé. Nella stanza ardeva un fuoco perché faceva freddo ed era una di quelle notti del deserto in cui l’aria era fredda e mordente. Sulle pareti della stanza erano appesi selle e catene di ferro, scudi, triboli e lance di ferro battuto. Tutti questi oggetti catturavano la luce del fuoco e la riflettevano opaca, malinconica.
Ghilead fissò il figlio dell’altra con i suoi occhi grigi e lo guardò a lungo, senza riuscire a rammentare come mai aveva voluto vederlo quella notte e come mai i cani abbaiavano là fuori, nell’oscurità. In fondo al suo silenzio, disse Ghilead:
Figlio mio, alcuni dicono che tu passi la mano nel fuoco, che passi e non gridi.
Iefte disse:
La cosa è vera.
Ghilead disse:
Perché fai questa cosa brutta e dolorosa.
Iefte disse:
Per prepararmi, padre mio.
Per prepararti a cosa.
A qualcosa che non so.
Mentre parlava a suo padre Iefte guardava la grande e brutta mano che stava pesante su una tavoletta di coccio. Alla vista di quella mano, la sua, che era gialla e magra, si colmò di timore e nostalgia. Forse immaginava che suo padre cominciasse a parlargli amorevolmente. Forse immaginava che suo padre gli chiedesse amore. In quel momento, per la prima e unica volta in tutta la sua vita, prima e dopo di allora, Iefte desiderò improvvisamente essere una donna. E non sapeva perché. Nel braciere il fuoco ardeva, sprazzi di luce si riflettevano vagamente sugli oggetti di ferro appesi ai muri tutt’intorno e anche negli occhi del ragazzo brillava una scintilla.
Ghilead disse sottovoce:
Allora metti la mano dentro il fuoco, vediamo.
Iefte rivolse al padre uno sguardo supplice, ma il volto di Ghilead il ghileadita era nascosto dall’avvicendarsi di luce e ombra, perché le lingue di fuoco nel braciere tremolavano incessantemente qua e là. Il ragazzo disse:
Tu hai detto, io obbedirò.
Ghilead disse:
Metti la mano, subito.
Iefte disse:
Se mi vorrai bene.
Allungò la mano, i denti sporsero dalle labbra come per una risata ma Iefte non rise.
Il padre urlò improvvisamente:
Figlio mio, non toccare il fuoco. Basta.
Ma Iefte non ne volle sapere, non scostò lo sguardo. Il fuoco toccò la sua pelle e oltre la cinta, laggiù, si dispiegava il deserto, fino in fondo alle alture remote.
Dopo questa cosa Ghilead disse a suo figlio Iefte:
Sei un impuro figlio di un impuro. Ma io, io non sono capace di odiarti.
Allora il padrone versò del vino da un otre di coccio dentro delle tazze grezze e disse:
Tu, Iefte, bevi il vino con me.
E siccome l’uomo e il ragazzo non potevano fidarsi delle parole né le amavano, passò su di loro circa metà della notte senza che dicessero più nulla.
Alla fine Ghilead si alzò e disse così:
Adesso figlio mio vai. Non odiare e non amare tuo padre. È brutta questa cosa, essere ognuno di noi figlio per un padre e padre per un figlio e uomo per una donna. Lontananza su lontananza. E non stare qui a guardare. Vai.
4.
Dopo queste cose capitò talvolta che padre e ragazzo partissero insieme a cavallo, sul far dell’alba, diretti agli spazi aperti. Passavano per il fondo del burrone e per i pendii, verso le sabbie bianche, attraversando l’arida pianura a cavallo, ad andatura molto lenta, come a cavallo di un sogno. Cespugli testardi e disperati crescevano in alcuni punti, nelle crepe della pietra. Quelle piante non sembravano vegetali ma lombi di aridi massi. Una luce bianca, luce funesta, bruciava tutto sotto di sé. Quando arrivavano molto lontano, capitava che si intrecciasse fra loro un dialogo sbrigativo.
A volte Ghilead diceva:
Iefte, in quale posto vuoi andare?
E Iefte, gli occhi stretti per via della luce che tutto consumava, rispondeva in fondo a un silenzio:
Voglio andare al mio posto. A casa.
Ghilead, un accenno di sorriso che gli attraversava il viso di pietra e subito spariva, domandava:
Allora perché non giriamo i cavalli e andiamo a casa.
E Iefte, come sorridendo pure lui, la voce distratta, lontana:
Quella casa non è la mia.
E dove sarebbe casa tua, a quale casa vorresti andare?
Ecco è questa la cosa, padre mio, che io non so.
Dopo questo discorso il silenzio tornava a chiudersi tutt’intorno. Ma ora i due erano dentro lo stesso silenzio e non in due silenzi diversi. Il ragazzo si riempiva d’amore e passava teneramente la mano sulla criniera del cavallo. Una volta, arrivati che furono alla valle di basalto nero, il ragazzo chiese a suo padre:
Che vuole dire il deserto, che pensieri ha la desolazione, perché viene il vento e perché tutt’a un tratto cessa, con quale udito l’uomo deve ascoltare la folla di voci e con quale il silenzio?
Allora Ghilead rispose:
Tu per te stesso, io per me stesso. Ognuno per conto suo.
E dopo un attimo aggiunse, questa volta con un velo di compassione nella voce:
Ecco una lucertola. E già non c’è più.
Con ciò, i due tornarono insieme al loro silenzio.
Al loro rientro nella tenuta, capitava che Ghilead il ghileadita allungasse la sua grande e brutta mano e prendesse per un attimo, forse due, le redini del cavallo del ragazzo. Così cavalcavano vicini.
Poi le lasciava ed entrava dentro, oltre la cinta. Allora Iefte veniva spedito in cortile, dai ragazzi, mentre Ghilead si dirigeva verso la casa interna.
Nell’ultimo inverno Pitdah ogni tanto veniva nella stanza di Iefte, la notte. Arrivava scalza, si sedeva in fondo al suo letto e sussurrava. Sapeva scoppiare improvvisamente in una risata calda e bassa, tanto che il ragazzo non ce la faceva più e rideva anche lui con lei, in silenzio. Oppure gli cantava tristi melodie ammonite di distese d’acqua e montoni nella vigna, di dolore e pietà.
Gli prendeva la mano nella sua e passava le dita di lui piano piano sulla pelle del proprio braccio, piano piano, sulla spalla e sul collo morbido. Lo introduceva a Milcom, dio di delizia, gli sussurrava parole rapide, che gli suonavano strane, era il segreto della sua stessa carne e tutto quello che la carne sa fare. E gli ingiungeva anche di fuggire dal deserto verso luoghi d’ombra e d’acqua, prima che il deserto facesse in tempo a inaridirgli il sangue e la carne, tanto da farlo morire.
Iefte non vide mai il mare in vita sua, mai conobbe il suo odore e il suono delle onde di notte, ma sua madre la chiamava mare, mare.
Un giorno, dopo che lei se n’era ormai andata, Iefte fece un sogno. C’era un servo vizzoso e calvo che tosava una pecora, poi la tosava di nuovo, fino alla pelle, che era rosea e malaticcia, aveva un fitto reticolo di vene, e quel servo la tosava ancora, la macellava non sul collo ma nella pancia, del sangue nero colava schiumando e si incollava alla pelle di Iefte in quel sogno, quand’ecco che arrivava Dio pesante, spalle di ferro rivestite di pelo d’orso, era caldo, arido e acido. Su un tappeto di foglie di vite stava disteso Milcom, ricco di monili e seta, e Iefte vide Dio aggredire la seta come un montone infuriato, con gli occhi iniettati di sangue, verso il ventre di una capra supina, sottomessa, come inebetita da quella furia su di lei.
Iefte si svegliò da quel brutto sogno madido di sudore. Aprì gli occhi e rimase disteso tremante e febbricitante, era buio, chiuse di nuovo gli occhi e rivide soltanto buio, allora prese a bisbigliare una preghiera che gli aveva insegnato il sacerdote di casa, ma vedeva ancora soltanto buio, tentò allora con le melodie di sua madre, ma il buio non se ne andava via da lui, che era come impietrito nel letto, perché era convinto che durante il suo sogno tutti indistintamente, suo padre e sua madre e il sacerdote e le serve e il gregge e i pastori e i suoi fratellastri e i cani della fattoria e persino i nomadi che vagavano al di fuori, tutti fossero morti e solo lui fosse rimasto, l’unico e solo, con il deserto fuori nell’oscurità, fino in fondo alla terra.
Una notte verso la fine di quell’inverno Pitdah morì. Le serve dissero; la puttana ammonita è morta per una sua stregoneria. Perciò l’indomani la seppellirono nel lotto dei nomadi.
Laggiù sull’orizzonte, in fondo alla pianura, quella mattina si vide un turbine di sabbia tutto grigio che poi si eresse, alto e furioso, e tutta l’aria si riempì di polvere e odore di bufera imminente. Tutta la terra si ricoprì di una polvere sottile. Qualcosa ancora cercava di racimolare le poche forze che restavano. Nel frattempo il sacerdote di casa buttò della terra sulla tomba della defunta e pronunciò un oscuro giuramento: tu vattene da noi ora, vattene nei luoghi maledetti da cui sei stata presa e non tornare da noi né nel buio né in sogno, altrimenti ti perseguiterà la maledizione del Signore anche da morta, e i demoni della distruzione ti atterriranno. Vattene, vattene maledetta, vai e non tornare a noi, lasciaci in pace. Amen.
Nell’udire queste cose il giovane Iefte prese una pietruzza, la sfiorò con le labbra e implorò dal profondo di sé, in silenzio: Signore tu ama me e io sarò il tuo servo, toccami e io sarò per te il più smagrito e terribile dei tuoi cani, solo non starmi lontano.
Dopo la sepoltura il cielo si abbassò. Cumuli neri venivano sospinti nel vento, parevano spediti di lassù per spezzare le creste dei monti a oriente o sfondare il muro stesso. In seguito venne un lampo bianco, seguito da tuoni bassi. In quella bufera la casa tutta di pietra vulcanica nera sembrava fosse stata ormai bruciata dal fuoco.
Iefte tornò dal campo di sepoltura, entrò in casa. Stretti contro il muro scuro, nel buio dell’alcova d’ingresso, c’erano i suoi tre fratelli, figli di suo padre, Yamin, Yemuel e Azur. Pareva lo stessero aspettando. Lui gli passò in mezzo nello stretto ingresso, quasi sfiorando loro il petto con le spalle, ma nessuno si mosse, si spostò. Solo gli sguardi dei loro occhi erano come lupi sulla pelle di Iefte mentre passava fra loro nell’ingresso di casa. Lui non parlò e loro non gli rivolsero la parola, non si parlarono neanche, neanche un bisbiglio passò. Per tutto quel giorno i tre andarono avanti e indietro per i corridoi della casa, e una incommensurabile delicatezza si riconosceva nei loro passi: eppure quei fratelli erano sempre stati assai goffi.
In punta di piedi Yamin, Yemuel e Azur passarono su e giù per la casa tutto il giorno, come se il loro fratello Iefte fosse gravemente malato.
Verso sera la loro madre Nechushtah si alzò dal letto, lasciò la stanza del letto e andò alla finestra. Ma, diversamente dal solito, non andò alla finestra per vedere cosa c’era fuori, no, si fermò con le spalle alla finestra e gli occhi fissi sull’orfano. Con una mano cerea Nechushtah figlia di Zebulun si accarezzò i capelli. Disse ai figli:
D’ora in poi anche lui è un cucciolo orfano.
E i figli dissero:
Perché sua madre è morta.
Lei aggiunse bisbigliando:
Voi siete grandi e scuri, ma uno di voi è completamente diverso, tutto biondo e anche magrissimo.
Yamin, il primogenito, disse:
Magro e biondo, ma non uno di noi. Ecco che sta venendo buio.
Quella notte stessa la sua matrigna Nechushtah comparve tutt’a un tratto per vedere Iefte, nella sua stanza in soffitta. Aprì la porta e si fermò scalza sulla soglia, come faceva Pitdah con lui, ma fra le bianche dita Nechushath teneva una candela bianca che spandeva una luce tremula. Iefte vide il suo sorriso pallido mentre si avvicinava al suo giaciglio e gli accarezzava la fronte con una mano fredda come muffa. Lei gli sussurrò:
Orfano. Adesso dormi, dormi, orfano.
Lui non sapeva cosa dirle.
Adesso sei mio, magro cucciolo orfano. Adesso dormi, dormi.
Con la punta delle dita gli sfiorò per un istante i riccioli sul petto. E si scostò.
Uscendo dalla soffitta, la matrigna spense il lume. Prese con sé tanto la lampada quanto la candela. Era buio.
Per tutta la notte infuriò la tempesta, fuori. Un vento folle attentava ai muri della casa. Le colonne ringhiavano e il soffitto di legno cigolava, fischiava. Fuori i cani erano ammattiti. Nell’oscurità il bestiame ruggiva, piangeva spaventato.
Verso mattina Iefte andò dietro la porta a sentire se venivano da lui. Teneva il suo coltello fra i denti. Gli parve di udire oltre la porta dei passi felpati andare avanti e indietro, un fruscio di tessuto sfregato contro la pietra, un fremito sommesso in cima alle scale. Fuori una iena rideva, un uccello strillava, del ferro tintinnava in fondo agli altri suoni. La casa e la fattoria, tutto era strano e sinistro.
Con la prima luce Iefte uscì dalla finestra della soffitta, scese fra i tralci della vite, il coltello fra i denti, prese nel cortile dell’acqua e del pane, un cavallo e un pugnale, e scappò nel deserto sfuggendo a Yamin, Yemuel e Azur, i suoi fratelli figli di suo padre.
Il padrone della tenuta, Ghilead il ghileadita, non s’era visto nel luogo dove avevano sepolto la sua serva Pitdah, nel lotto dei nomadi, né dopo la sepoltura, né la sera e nemmeno nella notte.
Uscì il sole, la tempesta era finita. Le sabbie del deserto divorarono tutte le pozze d’acqua e tutto tornò a essere arido e inondato di una luce tremenda.
Il biancore di quelle immensità era assoluto, impietoso.
Solo negli anfratti delle pietraie c’era ancora qua e là un goccio d’acqua, che il sole colpiva ciecamente. Per un attimo Iefte credette che quegli anfratti di pietra trattenessero i residui dei lampi che avevano solcato il cielo nella notte. Tutte quelle immagini le aveva già viste prima, in sogno. Tutto, i monti e le dune di sabbia e il vento e le scintille, tutto lo chiamava a sé, vieni, vieni.
Dopo qualche ora, quando il cavallo l’aveva ormai condotto lontano dalla casa di suo padre, tutt’a un tratto capì: dagli ammoniti. Ora doveva andare dai figli di Ammon. Con le bande ammonite sarebbe tornato un giorno, per bruciare col fuoco tutta la proprietà. Il fuoco avrebbe distrutto tutto, e intanto Iefte l’ammonita sarebbe passato in mezzo alle fiamme, portando in braccio, dentro il fuoco, il vecchio svenuto, l’avrebbe posato fra le braci, nella cenere, si sarebbe chinato su di lui per dargli acqua e bendargli le ferite. Perduti moglie, proprietà e figli, che cosa sarebbe rimasto a Ghilead, oltre a quell’ultimo figlio che l’aveva salvato?
Ecco, allora i due sarebbero andati insieme a cercare il mare.
La notte successiva, alla luce di una lampada di coccio, lo scrivano di casa scrisse sul libro di casa: Iefte non avrà parte della casa di suo padre perché figlio di un’altra donna. E scrisse anche il segretario di casa nel libro di casa: oscurità e furia non generano altro che furia e oscurità. Male è tutta questa cosa, male è chi fugge e male coloro che restano. Male sarà la nostra fine: che Iddio perdoni il suo servo.
5.
Per molti giorni Iefte visse fra gli ammoniti, nella città di Abel-Keramim. Iefte aveva imparato da piccolo a parlare la loro lingua e conosceva le loro leggi e canzoni, perché sua madre era una donna ammonita che i ghileaditi avevano rapito facendo razzia nei villaggi ammoniti al di là del deserto.
Ad Abel-Keramim trovò anche il padre di sua madre e tutti i suoi fratelli, erano tutti uomini grandi, che adottarono Iefte e lo portarono dentro i palazzi e i santuari. I principi ammoniti onoravano e rispettavano Iefte perché il suono della sua voce era freddo e autoritario, e dentro la pupilla del suo occhio passava ogni tanto un lampo giallo, e poi parlava pochissimo.
Dicevano:
Quest’uomo è nato per essere padrone.
E anche:
Sembra davvero che quest’uomo sia sempre in pace.
E anche:
È così difficile sapere.
Quando si tirava di frecce, nei convivi, a volte chi gli stava intorno aveva l’impressione che Iefte si muovesse lentamente, quasi con stanchezza, con un lieve ritardo. Quanto era falsa questa impressione: era come un coltello posato fra pieghe di seta.
Lui era capace di dire a uno straniero: alzati. Vai. Vieni. E quello si alzava, veniva e andava, e Iefte non apriva bocca, solo le labbra si muovevano. Perfino quando si rivolgeva al più vecchio della città e diceva: adesso parla, io ascolto, o: non parlare, non ascolto, l’anziano sentiva l’impulso interiore di rispondere:
Sì, signore.
Molte donne lo amarono, nella città di Abel-Keramim. Come suo padre Ghilead prima di lui, anche Iefte aveva i poteri della tristezza e del dominio muto. Le donne erano ansiose di spezzare quella forza e penetrare quella tristezza, sottometterla a loro. La notte, fra le lenzuola di seta, le donne sussurravano al suo orecchio: straniero, straniero. Quando la sua pelle toccava la loro, venivano grida. E lui, muto e pensieroso come se fosse stato altrove, sapeva estrarre da loro una melodia traboccante e anche note lente, come una tortura, un’eccitazione sinuosa, ribollente e incontenibile, come un navigare paziente sulla corrente, notte dopo notte sino allo spasimo.
A quel tempo Gatel regnava sulla terra dei figli di Ammon. Era un re ragazzino. Quando Iefte arrivò al cospetto del re Gatel, questi lo guardò come un giovinetto malaticcio guarda un cavaliere in corsa e gli chiese di raccontargli delle storie: che lo straniero racconti al re delle storie per addolcirgli il sonno, la notte.
Così a volte Iefte andava da Gatel il re, alla fine del giorno, per raccontargli di quando aveva scuoiato un lupo a mani nude, delle guerre fra nomadi e pastori, delle ossa sbiancate nel deserto a mezzogiorno, del terrore dei suoni notturni che vengono nel deserto, nelle ore piccole.
A volte il re giovanetto implorava ancora, ancora, a volte lo supplicava, non andare via da me Iefte, torna qui sino a che non mi addormento, per via del buio, a volte scoppiava improvvisamente in una risata pallida, come di chi è braccato e non riusciva a smettere fino a che Iefte non gli posava una mano sulla spalla e gli diceva:
Gatel, basta ridere.
Allora il re di Ammon smetteva di ridere e volgeva a Iefte i suoi pietosi occhi celesti chiedendo: ancora, ancora.
Col passar del tempo il re Gatel tenne con sé Iefte, e guardava sempre con timore il lampo giallo che passava o non passava nei suoi occhi.
Agli anziani della città tutte queste cose non piacevano: un giovane schiavo è arrivato dalle sabbie del deserto in città ed ecco che il re è nelle sue mani, e noi vediamo e non possiamo dire niente.
Gatel leggeva spesso le cronache dei tempi passati. Si era messo in testa di diventare come uno di quei re duri e tremendi che incutevano paura a molte terre. Ma siccome amava le parole con tutto se stesso ed era sempre più attento alle parole delle cronache più che alle gesta di trionfo stesse, finiva per nutrire atroci dubbi anche sulle questioni più semplici. Se doveva scegliersi un nuovo stalliere, o ordinare la costruzione di una torre in un angolo delle mura, o scegliere fra due azioni diverse, si tormentava per tutta la notte nel dubbio, perché vedeva sempre i pro e i contro.
Se Iefte si degnava di lasciargli intendere che cosa era meglio fare e che cosa invece sarebbe stato male, Gatel traboccava di gratitudine e affetto che non sapeva neanche minimamente esprimere a Iefte, perché le parole deludono l’uomo che le corteggia sempre.
Diceva:
Dai, andiamo a cavallo ad Aroer o Rabat-Ammon, a vedere se i fichi sono maturi.
E aggiungeva:
O no, non a cavallo, perché le stelle in cielo non annunciano nulla di buono oggi.
E sì.
L’orecchio e il ginocchio mi hanno fatto male tutta la notte. Adesso un dente e la pancia. Tu, raccontami di quel bambino di cui dicevi, quello che sapeva parlare la lingua dei cani. Non andare via da me.
Così avvenne che il re Gatel cadde in preda ad amore e confusione, e pestava i piedi per la nostalgia se Iefte non veniva la mattina a palazzo. E nel palazzo cominciò a tramarsi un astio occulto. Si dicevano l’uno con l’altro:
Queste cose non porteranno nulla di buono.
La città di Abel-Keramim era grande e felice. Il suo vino era abbondante, le sue donne formose e con un profumo dolce, i suoi servi allegri e pronti alla gioia, le serve leggere e i cavalli tutti veloci. Chemosh e Milcom avevano benedetto la città. Ogni sera le trombe chiamavano a un festino e nella notte si udivano le voci di chi giocava e cantava, torce ardevano nelle piazze sino alla luce del mattino, quando le carovane uscivano dalle porte della città.
Iefte non si asteneva dai piaceri di Abel-Keramim. Tutto provò, tutto vide, ma solo come in punta di dita, perché il suo spirito era lontano e lui si diceva in cuor suo: che gli ammoniti giochino pure prima di me. Tre o quattro donne andavano da lui nella notte, e Iefte amava scatenarsi con loro, possederle una per una mentre loro si possedevano a vicenda con tutta la bocca e lui fra di loro in mezzo, sferzata di passione e verga furiosa. A volte quelle donne alla fine di tutti i suoni e della passione cantavano per lui canzoni di Ammon su distese d’acqua e montoni nella vigna, su dolore e pietà e lui stava in mezzo a loro come un bambino tormentato dai sogni e loro madri: mare, mare. Con la prima luce diceva a tutte quelle donne, adesso andate, adesso basta. E si sedeva alla finestra a guardare le dita di luce e il pallore dei monti e l’esplosione in lontananza e alla fine anche il sole.
Venne l’estate e passò. Venti autunnali scuotevano le fronde degli alberi. I cavalli più vecchi si alzavano improvvisamente sulle zampe e nitrivano. Iefte si sedette alla finestra, a ricordare la casa di suo padre. Aveva tutt’a un tratto desiderio di ritrovarsi seduto nella stalla con il sacerdote di casa, i suoi tre fratelli Yamin, Yemuel e Azur, mentre il sacerdote leggeva loro una storia sacra e fuori l’acqua scorreva nei canali e i frutteti erano avvolti di una malinconia grigia e l’odore dell’autunno risaliva dalle vigne, le foglie cadute. Ecco che la fitta di nostalgia lo trafiggeva come una freccia e l’anima si tormentava.
Si alzò e andò alla finestra mentre alle sue spalle, sul letto, dentro la stanza, giaceva addormentata una delle donne più belle con i capelli sul viso e il respiro calmo. Lui fece per ascoltare il suono di quel respiro, era come una brezza serale, quando all’improvviso non riuscì più a ricordare chi fosse quella donna e nemmeno se era già stato con lei o doveva ancora farlo e perché mai avrebbe voluto andare da lei.
Allora Iefte si sedette sul fondo del letto e cominciò a cantare per quella donna addormentata una delle canzoni che gli cantava sua madre Pitdah. Ma lui aveva una voce dura e il canto uscì amaro, pungente. Portò la mano alla guancia della donna, ma lei non si svegliò. Allora lui si alzò e tornò alla finestra, vide delle nuvole scure che correvano concitate verso est, come se stesse avvenendo qualcosa oltre l’orizzonte orientale, e lui dovesse alzarsi e andare in quel momento stesso, prima che fosse troppo tardi. Ma lui non sapeva quale fosse il posto e quale il tempo e chi lo stesse chiamando, disse solo fra sé e sé:
Non qui.
In seguito Iefte pensò: mio fratello Azur non è Abele, io non sono Caino, Dio della vipera nel deserto, non nasconderti a me. Chiamami, chiamami, raccogli a te anche me. Se non sono degno di essere il tuo eletto, allora fammi diventare il tuo sicario: io di notte con il coltello verrò in nome tuo sui tuoi nemici e tu ti nasconderai a tuo piacimento da me alla luce del giorno, l’indomani, come se fossimo estranei. Tu sei il Dio della volpe e dell’avvoltoio e io amo la tua collera e non ti chiedo di essere benevolo con me. Solo la tua ira e il tuo solitario dolore desidero. Di certo il furore e la tristezza sono stati per me un segno che sono fatto a tua immagine, sono tuo figlio, sono tuo e tu portami a te la notte perché io sono fatto a immagine del tuo odio, Dio dei lupi la notte nel deserto. Tu sei un Dio stanco, un Dio disperato, e colui che ami brucerà nel fuoco perché sei geloso. Ti dico maledetto il tuo amore Dio e maledetto il mio amarti. Conosco il tuo segreto perché io sono nel tuo segreto: tu hai pensato ad Abele e alla sua offerta, ma dentro di te è Caino, Caino che amavi, e perciò hai elargito la tua grazia furibonda su Caino e non sul suo innocente fratello. Tu scegliesti Caino, e non Abele, per farne un esule e nomade su questa terra cattiva, tu ponesti il sigillo della tua immagine sulla sua fronte, perché vagasse per tutta la terra e imprimesse la tua immagine, l’immagine di un Dio arido sulle persone e le colline, tu sei il Dio di Caino, il Dio di Iefte figlio di Pitdah. Caino è testimone, io sono testimone della tua immagine, Dio del fulmine nel bosco, del fuoco nel granaio, dell’urlo dei cani impazziti di notte, io ti conosco perché tu sei in me. Io figlio di un’ammonita ho amato mia madre e mia madre adorava mio padre dalle profondità e mio padre dalle profondità gridava a te. Dammi un segno.
La città di Abel-Keramim era al crocevia delle rotte carovaniere, così al calar della sera alle sue porte comparivano carovane giunte di lontano, cariche di ogni bene d’Egitto, spezie e balsami e rame dell’Assiria, e vetro di Tiro e Sidone, e aromi dal sud della terra di Edom, e dalla Giudea vite e olivo, e vino dell’Eufrate, e seta da Aleppo, e ragazzini dagli occhi blu delle isole blu del mare, e prostitute ittite e braccialetti, mirra e concubine, tutto si raccoglieva per la notte dentro le mura, i portoni si chiudevano e la città si riempiva della luce delle torce e di fermento. A volte le cupole d’oro catturavano sprazzi luminosi che riflettevano schegge di sangue e fuoco e da tutti i santuari sbucavano melodie fino allo spasimo.
Iefte era immerso nel piacere delle donne, del vino e della corte. Tutta questa gioia gli passava sul viso, ma il suo viso pareva scorticato dal fuoco. Nel suo giaciglio di notte passavano sulla sua pelle le donne più belle del paese, che bevevano le sue cupe energie come se quelle donne fossero state uccelli storditi. Le loro labbra passavano nel pelo del suo petto, gli dicevano straniero, straniero. Lui stava zitto e rovesciava gli occhi per guardare dentro, perché intorno a sé non trovava nulla da guardare.
Col tempo in città montò la gelosia. I notabili di Ammon erano gelosi per le loro mogli e le loro figlie, e anche per il loro re. Gli anziani dicevano in conciliabolo: Ammon è servo di re Gatel, e il re Gatel è come una donna nelle mani di Iefte il ghileadita, e questo Iefte non è uno di noi, appartiene solo a se stesso.
Queste cose giunsero anche alle orecchie del re, che già si disprezzava per il troppo amore che portava a Iefte. A volte, di notte diceva fra sé e sé: ecco ora mi alzo e faccio uccidere quell’uomo biondo.
Ma esitava perché vedeva sempre le due facce della medaglia.
Quando le parole degli anziani giunsero alle sue orecchie, e le malelingue dicevano che il re era come una puttana ai piedi di quello straniero, gli occhi del re si riempirono di lacrime. Per tutta la giovinezza aveva sognato di ingaggiare grandi battaglie, come uno di quei tremendi re che c’erano una volta, ma lui non sapeva fare la guerra e quando usciva dalle sue stanze alla luce del sole gli girava la testa e l’odore dei cavalli gli faceva sempre battere i denti. Perciò un giorno chiamò Iefte e gli disse: prenditi dei soldati, carri e lance, prendi cavalli e cavalieri, prendi maghi e sacerdoti e vai, sali per me alla terra di Ghilead, prendimi la terra dove fu condotta tua madre rapita a fare da serva. Se ti rifiuti di andare saprò che sono giuste le parole degli anziani, che tu non sei dei nostri, che sei uno straniero. Io sono il re, io ho parlato. Dammi un bicchiere d’acqua, voglio bere.
Quella notte Iefte sognò il deserto. Nel sogno si arrampicava su un dirupo nel deserto e restava bloccato a metà della parete perché la pietra era scivolosa come vetro di Sidone e lui non riusciva più né a salire né a scendere, solo chiudeva gli occhi perché sotto di lui c’era un precipizio liscio tutto di sassi bianchi appuntiti. Intorno il vento ruggiva come una bestia feroce. Allora la mano di una donna lo toccava sulla schiena, gli accarezzava la pelle e lui, sdilinquito da quella carezza, mollava un poco la presa delle unghie conficcate nella roccia, il cuore smaniava per cedere e andare nel posto cui lo chiamava quella donna. Nella profondità della grotta alitava la muffa, la luce della grotta era verdastra e venefica, ma la donna era lì accanto a lui, e c’era anche silenzio, acqua fresca e quiete.
La mattina al suo risveglio, Iefte seppe che erano terminati i suoi giorni qui nella terra di Ammon, che doveva partire. La città si ergeva contro il cielo con una selva di palme e con le sue torri dalle cupole d’oro. Quando il sole del mattino toccò quell’oro, tutta la città cominciò ad ardere di una luce di fuoco. C’era una tristezza che Iefte non si aspettava. Pensava ingenuamente che un uomo potesse prendere e andarsene senza guardarsi indietro. Quasi ci ripensò: era come se la città di Abel-Keramim piantasse le sue unghie affilate di nostalgia e lo tenesse per la veste per non farlo andare.
Ma il re Gatel mandò a rincorrerlo: quand’è che fai una guerra per me, per rallegrarmi, un giorno intero ho aspettato, e non c’è nessuna guerra, quanto ancora intendi aspettare, Iefte.
Iefte non aspettò più.
Prese e fuggì nel deserto. Non da solo vi andò ma portò con sé la figlia che gli aveva generato una delle donne prostrate ai suoi piedi.
Aveva sette anni Pitdah quando fu portata sul cavallo di suo padre via dalla città, verso il deserto. Ammonita figlia di un’ammonita era quella bambina, fra serve, eunuchi e sete preziose aveva trascorso il tempo dell’infanzia, perché per dieci anni Iefte era vissuto ad Abel-Keramim.
Quando lasciarono la città dalla porta della spazzatura Pitdah rideva di gioia perché adorava andare a cavallo ed era convinta di andare a cavallo nel deserto per tutto il giorno ma che la sera sarebbe tornata da sua madre e dal gatto. Solo che al calar della prima notte nel deserto si spaventò e cominciò a urlare e pestare i piedi e imprecare contro suo padre, dava calci anche al cavallo con il suo piede piccolo e forte. Quella bocca increspata dalla rabbia era toccante.
Continuò a urlare sino a che non arrivarono le voci del deserto che la addormentarono. La mattina Iefte le diede un piccolo flauto che le aveva fatto con una canna di papiro. Pitdah sapeva suonare le canzoni di Abel-Keramim, quelle che cantavano le concubine e le prostitute nelle piazze della città di notte. Anche le canzoni che Pitdah sua madre gli suonava, la bambina conosceva. Lei suonava e Iefte ascoltava il gorgoglio dell’acqua che scorreva nei canali dei frutteti, nella proprietà di Ghilead. Si sciolse per lei quando gli disse: padre mio. Lui cavalcava lentamente e le raccontava per tutto il giorno, lungo tutta la strada, per farle scordare la calura e la stanchezza di quell’infinito viaggiare, le raccontava del lupo e delle mani nude e di suo fratello Azur che capiva la lingua dei cani. Quel giorno Iefte usò più parole di quante non ne avesse mai usate in tutta la sua vita, né prima né dopo.
Qualche giorno più tardi Pitdah smise di chiedere di sua madre e della casa di sua madre. Lui le rivelò che la loro meta era il mare. Quando lei gli chiese che cos’era il mare, lui le rispose che il mare era una vasta terra di colline ma non colline di terra, colline d’acqua. Quando lei gli chiese che cosa c’era nel mare lui le rispose che c’era forse pace. E quando lei volle sapere come mai la terra non assorbiva il mare come faceva subito con tutta l’acqua, lui non seppe cosa rispondere, disse soltanto:
Adesso copriti la testa per via del sole.
Pitdah disse:
Quando arriviamo al mare che hai detto.
Iefte disse:
Non lo so. Non ci sono mai stato. Ecco, Pitdah, una lucertola. Ed ecco, guarda, non c’è più.
Ogni tanto levava lo sguardo verso suo padre e una luce stanca le brillava nelle pupille. Forse era malata di sabbia e sole, forse solo stordita. Ogni notte lui la stringeva a sé dentro il mantello, per la morsa del freddo.
Quando la luna cominciò a calare Iefte portò sua figlia in una grotta sul pendio del monte, in un posto chiamato terra di Tob. Là c’era una sorgente e c’erano delle querce che gettavano un’ombra dolce e larga. Accanto a quella sorgente c’erano degli anfratti di pietra muschiosa dove i nomadi del deserto venivano ad abbeverare il loro smunto gregge. Quando arrivavano piantavano sul pendio le tende nere fatte di pelle di capra. Laggiù Pitdah figlia di Iefte imparò a raccogliere ramoscelli e ad accendere il fuoco sulla soglia della grotta. Iefte andava a caccia e la sera arrostiva sul fuoco la carne di un capriolo, la pancia di una tartaruga.
La notte si vedeva una luna mozza sorgere lentamente sulle cime dei monti, come testando con prudenza il suolo del deserto, prima di aprirsi e spandere sulla terra il proprio languido pallore d’argento. A quel chiaro di luna le vette parevano fauci assetate.
La mattina Pitdah si alzava e scendeva a prendere acqua fresca alla fonte, tornava scalza da suo padre per svegliarlo dal sonno con degli spruzzi d’acqua a piene mani. Mentre lui si alzava lei suonava il flauto, poi Iefte si sedeva ad ascoltare, come se quelle note fossero vino.
I nomadi del deserto che erano nella terra di Tob erano tutti malmostosi e reietti. Iefte si unì a loro. Donne ossute stavano intorno alla bambina e la viziavano tutto il giorno perché nella terra di Tob non ne nasceva nessuno, tutti i suoi abitanti vagavano fra i pianori del deserto e i crepacci dei monti. Ogni tanto invadevano la terra di Tob bande di Ammon, gruppi di giovani israeliti, per uccidere i nomadi. Quei nomadi erano gente perduta: vi erano fra loro assassini e fuggiaschi da assassini, odiatori il cui odio la terra abitata non poteva contenere, e odiati con i cani alle calcagna, nonché profeti storditi che si cibavano di radici ed erbe per non aggiungere sofferenza al mondo.
Sopra quella terra si dispiegava un cielo di ferro arroventato. E la terra era terra di bronzo: arida e fissurata. Ma le notti nella terra di Tob erano potenti come un liquore nero. Una silenziosa frescura di grazia scendeva su tutto ogni notte a portare sollievo a quella gente disgraziata, al gregge smagrito, all’arida terra disperata.
Un giorno Iefte e sua figlia vennero portati al cospetto dell’anziano dei nomadi.
L’anziano dei nomadi era un vecchio avvizzito e ossuto con un viso che pareva di pergamena e solo la linea degli zigomi aveva ancora memoria di potenza o brutalità. Dentro il letto di un fiume morto Iefte si presentò al cospetto di quel vecchio. Tacque perché aveva deciso di sentire dapprima le cose che il vecchio aveva da dirgli. Anche l’anziano se ne stava come appisolato sul dorso del suo cammello grigio, in attesa di sentire le parole di quello straniero. I due tacquero a lungo, cercando di tastare con ostinata pazienza la forza del silenzio l’uno dell’altro, con un cerchio di esili donne serrato tutt’intorno a loro a distanza.
Il vecchio sedeva come un ramarro sotto il sole, senza battere ciglio. Iefte stava piantato in piedi davanti al cammello, il viso di pietra. Ai suoi piedi, nella sabbia, c’era sua figlia Pitdah che scavava cercando di trovare il punto da cui uscivano le formiche. C’era silenzio. Solo l’ombra dell’uomo a dorso di cammello e di quello in piedi che si muovevano lentamente insieme al sole, su nel cielo bianco. Fu un silenzio lunghissimo. Alla fine del silenzio l’anziano parlò con una voce arrochita:
Chi sei, straniero.
Iefte disse:
Sono figlio di Ghilead il ghileadita, signore, il figlio che gli ha dato una serva ammonita.
Non il tuo nome né il nome di tuo padre io ti domando, ti domando chi sei, straniero.
Sono straniero, come hai detto, mio signore.
E perché sei venuto in questo posto. Gli ammoniti o i figli d’Israele ti hanno mandato a stare in mezzo a noi per consegnarci a chi ci vuole annientare.
Non ho parte in Israele e nemmeno nel territorio dei figli di Ammon.
Anche disperato sei, straniero, vedo che i tuoi occhi stanno rivoltati e guardano dentro, come fanno le persone disperate. Chi adori.
Non Milcom.
Chi adori.
Il dio dei lupi nel deserto di notte. A immagine del suo odio, sono fatto.
E la bambina.
Pitdah, mia figlia. Assomiglia sempre di più al deserto, ogni giorno che passa.
Sei un uomo battagliero, tu. Vieni con noi a uccidere e depredare, come uno di questi giovani. Vieni con noi stanotte.
Sono straniero, mio signore, fra stranieri ho vissuto tutti i giorni della mia vita.
6.
Iefte trovò favore presso i nomadi nella terra di Tob.
Col passar del tempo si trovò a combattere con loro contro i loro persecutori, scese anche con loro più volte a razziare le terre abitate, perché quei nomadi detestavano tutti coloro che abitavano nelle case. La notte oltrepassavano le recinzioni dei poderi e vi entravano silenziosi come spettri. Il morto agonizzava in silenzio, l’assassino sfuggiva in silenzio. Con un coltello o un pugnale arrivavano. E con il fuoco. La mattina le ceneri fumavano ancora nelle rovine dell’abitato, al confine con la terra di Ammon o d’Israele. E Iefte si distingueva sempre più fra loro, perché aveva i requisiti del dominatore. Era forte tanto da imporre solo con la propria voce, senza un cenno del capo, la propria forza su quella degli altri. Come al solito, anche ora parlava pochissimo perché non amava le parole, non se ne fidava.
Una notte la gente di Iefte s’infiltrò nel territorio di Ghilead il ghileadita, in fondo alla terra di Ghilead, al confine del deserto.
Per lungo tempo le ombre attraversarono i sentieri della tenuta, fra i frutteti neri, nel folto della vigna, sino alla soglia di casa con i muri di pietra lavica. Ma Iefte non permise di bruciare la casa e i suoi abitanti, perché dentro il suo odio affiorò improvvisamente una specie di nostalgia, e si ricordò delle parole che suo padre gli aveva detto quella notte lontana, quel giorno lontano, tu sei un impuro figlio di un impuro. Tu per te stesso. Io per me stesso. Ognuno per conto proprio. Ecco una lucertola, ecco guarda, già non c’è più.
Scese carponi e bevve l’acqua dal canale. Poi lanciò un fischio da uccello notturno, i suoi uomini si radunarono e se ne andarono verso il deserto, senza appiccare il fuoco.
I nomadi razziavano tanto Ammon quanto Israele, tutti erano contro di loro, chiunque li trovasse li ammazzava. Durante il giorno gli uomini giacevano addormentati nei crepacci, nelle nicchie, nelle grotte, il loro misero gregge nero sparso all’ombra delle querce presso le sacche d’acqua scavate nella pietra corrosa dalla muffa verde. Donne smunte dalla tunica scura badavano di giorno a quel bestiame e il sole scioglieva tutto con il suo odio incandescente. Ma la notte i nomadi sbucavano dai loro nascondigli e invadevano i luoghi abitati. Al loro ritorno cantavano una canzone triste, una sorta di lungo lamento. Ogni tanto qualcuno gridava in mezzo alla canzone e dopo il suo grido si zittiva improvvisamente.
Anche Pitdah trovò favore presso i nomadi. Era una bambina bella e tenebrosa e tutti i suoi gesti erano trasognati, come se lei fosse fatta di una materia fragile e tanto la terra sotto i suoi piedi quanto gli oggetti inanimati fra le sue mani, e tutto volesse rompersi, e lei doveva essere sempre cauta.
Le donne infelici si attaccarono a Pitdah, l’amavano perché nella terra di Tob non nascevano figli. Lei suonava il flauto sul pendio e sulle pietraie anche quando nessuno la ascoltava. Se il suono del flauto giungeva alle orecchie di Iefte, lontano dov’era, a lui sembrava la voce del vento nella vigna di suo padre, e il gorgoglio dell’acqua nel canale, all’ombra degli alberi nel frutteto. Pitdah sognava anche da sveglia, e Iefte si commuoveva se lei gli raccontava un sogno o se tutt’a un tratto gli diceva:
Padre mio.
L’amava selvaggiamente. Ma accarezzandole il capo o stringendole le spalle era attento, perché si ricordava di come lo teneva suo padre Ghilead quando lui era un bambino piccolo. Diceva:
Non voglio farti male. Dammi la mano.
E la bambina replicava:
Ma tu mi guardi così, e io debbo ridere.
L’amava selvaggiamente. Se pensava a un uomo straniero che un giorno sarebbe venuto a prendersi Pitdah, quel pensiero gli faceva ribollire il sangue. Un uomo basso, magari grasso, sarebbe venuto a stringere Pitdah fra le sue braccia pelose, emanando odore di sudore e cipolla, leccando e mordendo le sue labbra, scendendo con la mano goffa a frugare nelle membra gentili. Gli occhi di Iefte si iniettavano di sangue, allora lei vedeva e rideva, lui si rinfrescava la fronte febbricitante con la lama del pugnale e le sussurrava, suona Pitdah, suona, e come un cieco che cammina lui ascoltava le melodie fino a che la rabbia non si era spenta e restava solo una specie di arida malinconia, come un sapore di cenere in gola. Capitava che per il tanto amore Iefte cominciasse a muggire pazzamente come aveva fatto Ghilead suo padre davanti a lui, e talvolta avrebbe anche voluto essere capace di prepararle delle pozioni, di notte, per scongiurare il male.
Lei andava crescendo sotto gli occhi di lui e dei nomadi. Quando non raccoglieva ramoscelli per il fuoco e non abbeverava il gregge insieme alle donne ossute, stava seduta in fondo al letto di un fiume a fare con i sassi delle torri, dei muri, dei castelli, dei portali, ma poi improvvisamente distruggeva tutto di colpo e scoppiava a ridere. Si dava anche a intrecciare rami di arbusti, quando erano in fiore. Tutto come in un sogno, le labbra increspate che non si toccavano ma erano appena schiuse. Talvolta trovava un osso sbiancato e con le sue mani abbronzate se lo portava davanti al viso e cantava una canzone all’osso e ci soffiava sopra il suo alito, se lo metteva anche fra i capelli.
Sapeva creare piccole figure con i rami degli arbusti: un cavallo al galoppo, un agnellino accucciato, un anziano nero curvo sul suo bastone. Talvolta delle cose strane che non facevano affatto ridere destavano nella figlia di Iefte una risata fragorosa: se una donna legava un fascio al dorso del cammello e il cammello si spaventava e faceva cascare tutto, Pitdah se ne usciva con una risata bassa e calda. O quando un nomade pisciava fra i sassi, con le spalle a lei e la testa china, immobile, come immerso in un pensiero profondo, allora Pitdah rideva e non riusciva più a smettere neanche se quell’uomo s’arrabbiava e la sgridava.
Se improvvisamente un uomo la osservava di sottecchi, con gli occhi umidi, le labbra schiuse e la punta della lingua che sbucava fra i denti, quello sguardo la faceva ridere come una matta. Ma se Iefte si accorgeva del volto dell’uomo che guardava sua figlia e i suoi occhi cominciavano a schizzare una rabbia fredda, allora Pitdah passava lo sguardo fra i due uomini, come tendendo un filo, e rideva più che mai. Anche quando lui gridava basta dai, lei non smetteva di ridere e a volte contagiava anche lui con quella ilarità e così neanche lui riusciva più a smettere. I giovani nomadi vedevano in tutte quelle cose un segno di felicità, ma per le donne non di felicità si trattava bensì di qualcosa che non portava a nulla di buono. Le donne nomadi insegnarono a Pitdah a tessere e cucinare e mungere le capre, ma anche a domare un capro riottoso. La ragazza imparò facilmente tutte queste cose ma sembrava sempre distratta con la mente.
Una volta disse a suo padre Iefte:
La notte tu vai a combattere e torni vittorioso, di giorno dormi e persino le mosche sulla tua faccia sono più forti di te, quando dormi.
Iefte disse:
A tutti capita di dormire, a volte.
Pitdah disse:
Ma il serpente non dorme mai, non può neanche chiudere gli occhi, mai, perché non ha le palpebre.
Iefte disse:
Sta scritto nei libri sacri che il serpente è il più astuto di tutti gli animali.
Pitdah:
Dev’essere triste essere il più astuto di tutti gli animali. E che triste dev’essere non dormire mai, non chiudere mai gli occhi, non sognare mai di notte. Se il serpente fosse astuto davvero, troverebbe un modo per chiudere gli occhi.
E tu?
Io adoro vederti che dormi per terra dopo le battaglie notturne, con le mosche che ti passeggiano sulla faccia. Ti voglio bene, padre mio. E voglio bene anche a me stessa. I posti dove non mi porti, dove il sole cala la sera. Tu ti sei dimenticato il mare e io me lo ricordo. Adesso mettiti il mantello sulla testa e muggisci, così io ti guardo e rido.
Iefte sognò una processione di principi e notabili che venivano da lui a chiedergli la mano di sua figlia. Erano tutti deformi in viso, come cani andavano cacciati con un bastone o un sasso perché Pitdah non era per loro. Pesante e lento saliva suo padre Ghilead nei sogni di Iefte, anche lui allungava la sua mano grande e brutta per toccare la bambina, ma lei scappava a nascondersi fra le rocce e lui all’inseguimento, e poi Iefte gridò nel sonno. Oppure comparivano i ragazzi, Azur e Yamin e Gatel e Yemuel, accerchiavano Pitdah nel sogno, avevano una moltitudine di dita bianche per strapparle tutti i vestiti, lei rideva con loro e lui vedeva e gridava perché non avevano palpebre e i loro occhi erano sgranati su di lei e non si chiudevano né sbattevano le palpebre e si serravano su di lei, allora lui si svegliò con un urlo, il pugnale nella mano che tremava.
Dio tu toccami, non mi hai ancora toccato, quanto ancora ti aspetteremo. Tendi la tua mano a me, le tue dita di fuoco. Ecco, sono davanti a te su una montagna, tengo un agnello per l’olocausto e qui c’è il fuoco, qui c’è la legna, ma dove è il coltello. Io spasimo per la tua ombra tutti i giorni della mia vita. Se tu ti riveli sul monte io sarò cenere ardente. Se nella falce di luna o nel riflesso di luna sull’acqua compari, lì sarà il tuo servo nelle sabbie bianche o in fondo all’acqua. Se i cani urlano e danno l’anima urlando, è un segno che tu sei amorevole e collerico. Dammi la tua rabbia Signore, per esserne intaccato, sì, tu sei un Dio solitario e anche io sono solo, solo. Non avrai altro servo al mio cospetto. Io sono tuo figlio e testimone sarò tutti i giorni della mia vita dei vaneggiamenti dei tuoi terrori, dio del gatto selvatico che la notte s’acquatta nei morti anfratti, notte dopo notte.
Col passar del tempo Iefte divenne il capo dei nomadi. Parlava poco e la sua voce quando parlava era bassissima. A volerlo ascoltare, bisognava chinarsi verso di lui e tendere bene le orecchie.
In quell’epoca il re di Ammon entrò nella terra d’Israele. Conquistò tutte le città e le fattorie e fece schiavi gli abitanti. Qualcuno fuggì, ma chi rimase divenne suddito di re Gatel. Lui non usciva mai dal suo palazzo, non faceva che redigere rotoli e rotoli di parole per i capi del suo esercito, compose anche il libro delle guerre di Gatel re.
Un giorno arrivarono al deserto della terra di Tob, il luogo di Iefte, i suoi tre fratelli Yamin, Yemuel e Azur. In fuga dagli ammoniti arrivarono laggiù perché il nome di Iefte era ormai famoso in tutta la terra, lui e i suoi nomadi ieftetiti stavano alle calcagna dell’esercito di Ammon, assaltavano le carovane e si prendevano gioco delle guardie reali come un uccellino quando scherza con un orso.
Iefte non si negò ai suoi fratelli giunti a lui. Non li abbracciò nemmeno. Col passare degli anni i due maggiori si erano fatti ancora più massicci. Yamin il più grande era un uomo grande e grosso, che non assomigliava né a sua madre né a suo padre ma al sacerdote di casa. Yemuel aveva perennemente stampato sul viso un sorriso strisciante con l’occhio che ammicava in modo disgustoso, e quella smorfia pareva dire vieni amico mio a casa mia, che tramiamo qualcosa di sconcio. Solo Azur, il minore dei fratelli, aveva in sé una rapidità aspra, come di freccia scoccata, e assomigliava al fratellastro, figlio della donna ammonita, più che ai due figli di Nechushtah figlia di Zabulon.
Quando i tre si prostrarono faccia a terra al cospetto del signore dei nomadi, Iefte disse:
Alzatevi, profughi, non prostratevi a me perché io non sono Giuseppe e voi non siete i figli di Giacobbe. Alzatevi in piedi. Subito.
Yamin il maggiore prese a dire, come se stesse leggendo da un testo scritto:
Mio signore, siamo venuti a dirti che il nemico ammonita ha conquistato la terra di nostro padre. Nostro padre, sai, è un uomo anziano, non può più combattere contro di loro. Noi che siamo tuoi servi ti diciamo, alzati Iefte e salva la casa di tuo padre e la terra di tuo padre, perché solo tu puoi sopraffare il serpente ammonita, nessun altro può.
Implorarono a lungo Iefte, Iefte taceva. Si limitò a ordinare di ospitare i tre nel campo. Ogni giorno gli dicevano: quanto ancor indugerà il nostro signore. E lui non rispondeva, ma nemmeno li rimproverava. In cuor suo si diceva: Dio mi darà un segno.
Gli uomini di Iefte incutevano paura alle truppe di Ammon. Terrore e tremore cadevano la notte su Abel-Keramim per gli uomini di Iefte che razziavano le carovane. Costoro erano lesti e scaltri perché lesto e scaltro era il loro signore e i suoi passi di notte sembravano vapore, o carezza. Di notte Iefte mandava ai capi di Ammon gli assassini dal coltello muto. I soldati di Gatel tremavano di paura se di notte udivano la voce del vento, del lupo, di un uccello da preda, poteva sempre essere un nomade di Iefte che faceva il verso di un uccello, di un lupo, del vento. Fin fra le mura di Rabat Ammon si infiltravano gli uomini di Iefte, fin nelle piazze della città di Abel-Keramim e nei suoi santuari: di giorno arrivavano con le carovane. Fin dentro la città, travestiti da innocenti mercanti, di notte seminavano il terrore e la mattina il vento li portava via con sé, non c’erano più, allora Gatel mandò di nuovo il suo esercito a inseguire il vento. E sul libro delle sue guerre il re scrisse:
Questo è il modo del codardo, colpire e scappare. Vengano alla luce del giorno, guardiamoci in faccia, li sconfiggerò e avrò pace.
Ma gli uomini di Iefte non volevano venire alla luce del giorno. Ogni giorno il signore dei nomadi si recava da solo sulla collina, dava le spalle al campo e guardava il deserto, come aspettando un suono, un odore.
Allora il re Gatel mandò a dire a Iefte:
Tu sei un ammonita, Iefte. Noi siamo fratelli, allora perché ci facciamo la guerra. Se vuoi, vieni e io ti metto a sedere sul secondo carro, e senza di te nessuno alzi mano o piede in tutte le città di Ammon e Israele.
Per mano di Azur suo scudiero, il signore dei nomadi inviò questa risposta a Gatel re di Ammon:
Gatel, io non sono tuo fratello né il figlio di tuo padre. Tu sai che io sono uno straniero. Non combatto per i figli d’Israele, bensì per qualcuno che non conosci, io combatto. In suo onore io passerò a fil di spada tanto te quanto i tuoi nemici, perché straniero sono stato per tutto il tempo della mia vita.
7.
Una notte, nella tenda in terra di Tob, Pitdah fece un sogno. Sognò che era una sposa in abito nuziale. Le ragazze danzavano intorno a lei con cetre e tamburelli, lei aveva dei braccialetti.
Raccontò a suo padre di quel sogno e Iefte si agitò moltissimo. Le scosse le spalle con tutte e due le mani e bisbigliò con una voce piena di paura, dimmi chi sarà il tuo sposo. Mentre la supplicava così le scuoteva forte le spalle con le mani, allora lei cominciò a ridere come suo solito, senza motivo. Così lui la schiaffeggiò brutalmente con il dorso della mano, urlando: chi sarà il tuo sposo.
Pitdah disse:
Mi stai guardando con occhi di assassino.
Chi sarà, dimmi chi sarà.
Non ho visto la sua faccia nel sogno, solo il suo respiro caldo su di me. Tu, la bocca è piena di schiuma, ora vai via da me, metti la testa nell’acqua del torrente.
Chi era.
Non picchiarmi più perché riderò forte e il campo sentirà.
Chi era.
Ma tu lo sai chi è il mio sposo, perché urli contro di me e perché tremi tutto, adesso.
Lei continuò a ridere e lui le stava di fronte come inebetito, gli occhi chiusi e le labbra che gli dicevano: certo che lo so, perché mi sono spaventato. Erano ancora lì quando gli anziani di Israele scesero a prostrarsi al cospetto di Iefte.
Lui aprì gli occhi e li vide arrivare e vide anche suo padre Ghilead che scendeva con loro, pesante e largo e brutto come era a suo tempo, solo con la barba grigia.
Per via della polvere del deserto, gli anziani d’Israele avevano raccolto i lembi delle tuniche. Ora caddero faccia a terra al cospetto del signore dei nomadi. Solo Ghilead non si prostrò e non si inchinò al cospetto di suo figlio. Allora montò in Iefte una gioia frizzante, e questa gioia impazzì nelle sue vene, non aveva mai conosciuto una gioia così potente in tutta la sua vita, né prima né dopo di allora.
Con una certa fatica Iefte controllò la propria voce, mentre diceva agli anziani:
Alzatevi, anziani d’Israele. È il figlio di una prostituta, l’uomo di fronte al quale vi state prostrando.
Ma loro rimasero in ginocchio, non volevano alzarsi, si guardavano fra loro senza sapere che cosa fare. In fondo al silenzio Ghilead il ghileadita disse:
Tu sei mio figlio, che salverà Israele dalle mani di Ammon.
Iefte rimirò di lontano l’orgoglio spezzato, come fosse una ferita. Tutt’a un tratto lo prese tristezza, non per quegli anziani, forse non era neanche tristezza, forse era qualcosa che assomigliava a tenerezza, e disse gentilmente:
Straniero sono io, anziani d’Israele, non sia uno straniero alla vostra testa nelle vostre guerre, per non rendere impuro il campo.
Nell’udire queste cose gli anziani si alzarono. Dissero:
Tu sei nostro fratello Iefte, tu sei nostro fratello. Ecco, quest’oggi abbiamo posto tuo padre Ghilead come giudice in Israele, e tu sei nostro fratello e sarai il capo del nostro esercito e combatterai per noi contro l’Ammonita; capo dell’esercito di tuo padre, generale sarai per noi, tu sarai alla testa di tutti i tuoi fratelli, Iefte, perché sin da ragazzo sapevi fare la guerra. Ancor oggi intorno al fuoco i pastori raccontano delle tue gesta, di quando squarciasti un lupo a mani nude.
Ma voi mi odiate, oh anziani, e dopo che avrò debellato per voi l’Ammonita mi caccerete via come un servo riottoso e mio padre mi metterà in catene perché è giudice d’Israele e io sono straniero, nomade e figlio di una prostituta.
Figlio mio tu sei, Iefte. Tu sei il mio ragazzo che passava la mano nel fuoco senza gridare e squartava un lupo a mani nude. Se verrai a combattere per noi contro gli ammoniti io ti benedirò su tutti i tuoi fratelli e tu sarai davanti a tutti per tutti i giorni della tua vita.
Ma lasciatemi, su, anziani. E anche tu, giudice d’Israele, piantala di implorarmi. Non siete dei fanciulli, allora perché giocate con me. Andatevene finché potete e salvate la vostra canizie, voi con i vostri sacerdoti e con tutti i vostri scribacchini, lasciatemi in pace. La vedo la vostra trama. Iefte non farà il cavallo da guerra d’Israele, questo anziano non mi monterà in sella per farvi da cavaliere.
Allora Ghilead il ghileadita parlò e mentre parlava teneva le labbra strette come se stesse tendendo una catena di ferro fra le braccia:
Tuo padre non sarà giudice in Israele. Tu combatterai e tu giudicherai.
Gli anziani tacquero perché la loro lingua li tradiva, all’udire quelle cose.
Iefte parlò sommessamente, come una volpe, e quando parlava il lampo giallo brillava nelle pupille dei suoi occhi:
Se per davvero e sinceramente voi mi ponete oggi come giudice in Israele, allora giuratemelo in nome del nostro Dio.
Dio ascolta ed è testimone: tu giudicherai.
Avrete a capo il figlio di una prostituta, disse Iefte ridendo a gran voce, tanto che i cavalli si spaventarono.
Gli anziani dissero senza voce:
Sia a capo.
Dunque mettete in catene subito quest’uomo. Un giudice in Israele ve lo comanda.
Iefte, figlio mio.
E calatelo dentro il pozzo. Ho detto.
L’indomani Iefte passò in rassegna il suo esercito e vi nominò capitani e comandanti. I suoi due fratelli Yamin e Yemuel li spedì di corsa a radunare tutti gli uomini in armi delle tribù d’Israele. E il suo scudiero Azur il ghileadita Iefte lo spedì da Gatel, re di Ammon, a dire:
Esci dalla mia terra.
Al calar della sera dell’indomani, il giudice in Israele ordinò anche di montare una grande tenda d’onore in mezzo al campo, di far risalire suo padre Ghilead dal pozzo e metterlo in quella tenda, dandogli del vino e anche delle serve. A sua figlia Pitdah Iefte disse: se il vecchio butta la brocca di vino a terra e la fa in pezzi, tu ordina subito ai servi che portino presto dentro la tenda un’altra brocca. E se rompe anche la seconda, se ne porti a lui un’altra ancora, perché a volte quel vecchio si diverte a sentire il rumore del vetro che va in frantumi, dunque rompa quel che vuole. Solo tu non osare entrare dentro la tenda e ora piantala di ridere. Vai.
Gatel re di Ammon diventava matto per via di quegli uomini di Iefte che ogni notte decimavano la sua truppa e di giorno parevano inghiottiti dalla terra. Mandò il suo esercito all’inseguimento, ma fu come andar dietro al vento, al confine di Moab Gatel era lo zimbello, in terra di Edom una battuta spiritosa, la mosca punge e l’orso danza.
Per mano del suo scudiero Azur, Gatel mandò a dire a Iefte: lasciami Iefte, tu sei un ammonita e perché mi vuoi male, io ti ho voluto tanto bene. Ma Iefte conosceva l’animo di re Gatel, sapeva che si era messo in testa di essere come uno di quei re tremendi che c’erano una volta, ma che gli bastava sentire l’odore dei cavalli di lontano e perdeva la testa. Con tutta calma il giudice in Israele ingaggiò una guerra di parole con il re di Ammon, per mano di messi che andavano avanti e indietro, a chi apparteneva veramente la terra, quali avi si erano insediati per primi, e cosa stava scritto in tutte le cronache, a chi il diritto, a chi la giustizia, tanto che Gatel fu indotto a pensare che stava affrontando una guerra di parole, e così compose un rotolo dopo l’altro.
Gli anziani d’Israele vennero alla tenda del giudice, a dirgli: vai in nome del Signore, insomma il tempo passa, gli ammoniti si stanno mangiando tutta la terra e se tu indugi che cosa ci resterà mai in salvo. Iefte ascoltò in silenzio. Gli anziani parlarono ancora al giudice, manda agli edomiti, manda agli arabi, manda agli egiziani e a Damasco, manda a dire che da soli non ce la facciamo perché è forte il dominio di Ammon. E Iefte taceva.
Ma in cuor suo pensò:
Dammi un solo segno, Signore, e io ti darò le loro carogne riverse sul campo, come amavi, tu sei il dio dei lupi di notte nel deserto.
Una notte Pitdah fece un altro sogno: il suo sposo veniva nell’oscurità e le parlava con un silenzio sottile: vieni sposa perché è giunto il momento.
La mattina Iefte ascoltò il suo sogno, questa volta rimase zitto ma il viso si adombrò. Per tutto il tempo della sua vita i sogni lo avevano braccato. E come Ghilead suo padre prima di lui, anch’egli credeva che i sogni venissero dal luogo da cui viene l’uomo e cui torna attraverso la morte. Così Iefte pensò fra sé: adesso, adesso. E la ragazza rise.
Un’ora più tardi la tromba tuonò.
Tutto il campo si radunò sul pendio della roccia, il sole giocava con le lance e gli scudi. Gli anziani delle tribù erano atterriti, cercavano parole giuste per impedirgli di tentare il tutto per tutto contro le mura di Ammon in un attacco solo, perché grande era la forza di Ammon, e Israele non si sarebbe più riavuto dopo quella disfatta, allora quell’uomo selvaggio doveva aver deciso di spezzare la testa di Israele contro le pietre del muro di Ammon. Ma il giudice in Israele si levò e uscì dalla tenda in mezzo alle loro suppliche, poi si fermò davanti all’esercito, questa volta con sua figlia Pitdah al suo fianco. Lui le mise una mano sulla spalla e fu come se la voce di sua madre morta risuonasse nella sua, mentre diceva: Signore, se darai i figli di Ammon nella mia mano, allora colui che uscirà dalla porta della mia casa per venirmi incontro al mio ritorno in pace dai figli di Ammon, sarà per Dio, sarà offerto in olocausto.
Lui darà i figli di Ammon nella tua mano e voi preparatemi l’abito nuziale, ora, disse quella bellezza oscura. Il popolo tuonò e i cavalli nitrirono e lei rise e non smetteva più di ridere.
Iefte il ghileadita sbucò dal suo nascondiglio in terra di Tob e balzò a distruggere le mura di Ammon, a ridurle in polvere, perché forte era il dominio di Ammon. Lui spazzò via villaggi, abbatté torri e i templi bruciò, pinnacoli e cupole ridusse in frantumi, mogli, concubine e prostitute diede in pasto agli uccelli del cielo.
Ora che venne la calura del giorno Gatel era passato a fil di spada e Ammon distrutto da Aroer sino a Minnit, venti città, e fino a Abel-Keramim, che gran massacro, e prima di notte Ammon era sconfitta e Gatel morto e Iefte ancora taceva.
8.
I giorni della vita di un uomo sono come acqua che si assorbe nella sabbia: si perde l’uomo nella terra, sconosciuto al suo arrivo e ignoto quando se ne va. Come un’ombra che si spegne il suo giorno si spegne e l’ombra più non torna. Ma a volte vengono a noi i sogni, di notte, e nei nostri sogni sappiamo che niente passa davvero e niente se ne va dimenticato, tutto è sempre presente come è stato.
Anche i morti tornano a casa, nei sogni. Anche i giorni che sono trascorsi e dimenticati tornano pieni e pregnanti nei sogni la notte, neanche una goccia manca, neanche una lettera si perde. Odore di terra bagnata una remota mattina d’autunno, vista di case bruciate la cui cenere da tempo il vento s’è portato via, curva dei fianchi di donne morte, latrato di cani alla luna, in una notte remota, antenati dei cani che sono ora qui con noi, tutto torna, respira e vive nei sogni.
Come un uomo che passa in un sogno, Iefte il ghileadita si fermò all’ingresso della proprietà di suo padre, entro quei confini era nato, all’ombra dei suoi frutteti una mano l’aveva toccato per la prima volta, ma di laggiù era fuggito per salvarsi, tanti anni prima: neanche una goccia mancava, neanche una lettera s’era persa. Tanto la cinta quanto i frutteti gli stavano davanti come allora, e la vite ancora si arrampicava su tutti i muri di casa, tanto che la nera pietra di lava stava nascosta dietro la carezza dei tralci di vite. E l’acqua scorreva nei canali e ai piedi degli alberi c’era un’amabile frescura ombrosa.
Come un uomo posseduto da un sogno si fermò Iefte davanti a casa, vedeva e non vedeva la bella tenebrosa scendere a lui con un canto. Ed ecco dopo di lei le ragazze con i tamburelli e i pastori con i flauti ed ecco suo padre Ghilead, un uomo amareggiato, grosso. Anche Yamin, Yemuel e Azur scendevano per il sentiero, e la loro madre Nechushtah figlia di Zabulon tutta bianca con un vestito bianco che si intravedeva alla finestra, un sorriso pallido sulle labbra. E tutti i cani abbaiavano e il bestiame muggiva e anche lo scriba di casa e il sacerdote di casa e il servo calvo, tutti come in un sogno la notte, nulla che mancasse.
E le ragazze che la seguivano in abiti bianchi, picchiando sui tamburelli e cantando Iefte ha colpito, Iefte ha colpito, e il popolo che giubilava e le torce che splendevano su tutta Mitzpeh Ghilead.
Lei scendeva e i suoi piedi parevano volare, come se non volessero toccare la terra della via. Come una gazzella che scende ad abbeverarsi, così Pitdah andava incontro a suo padre. Il candido abito nuziale, l’ombra delle sue ciglia sugli occhi, e quando levò a lui lo sguardo e la sua risata giunse alle orecchie di lui, Iefte vide il fuoco e il ghiaccio bruciare di verde nelle pupille dei suoi occhi. Intanto le fanciulle cantavano: ha colpito, colpito, colpito Iefte, mentre i fianchi di Pitdah non stavano in pace, come al ritmo di una danza interiore, nascosta, e lei sottile e scalza...
Come stordito, il giudice in Israele si fermò davanti all’ingresso della proprietà di suo padre. Il volto era ustionato e inaridito, gli occhi rovesciati: pareva stanco da morire, quell’uomo. Come dentro un sogno.
La voce giubilante del popolo era sempre più alta mentre Ghilead veniva condotto fuori su una portantina, con Yamin e Yemuel e Azur che la sostenevano, e le truppe tuonavano beato il padre, beato il padre. La luce delle torce si spandeva su tutta Mitzpeh Ghilead e le note dei tamburelli impazzivano di gioia.
Che bella e tenebrosa che era Pitdah mentre deponeva la corona dei vincitori sulla testa di suo padre. Allora posò tutte e due le mani sugli occhi del padre, in silenzio, e poi gli disse:
Padre mio.
Come una pietra incandescente nel deserto toccata dall’acqua gelida Iefte si sentì d’un tratto quando le dita di sua figlia si posarono sui suoi occhi. Ma non voleva svegliarsi da quel sonno.
Stanco e assetato era, e sporco di sangue e cenere. Per un attimo morì di nostalgia per la città cui oggi aveva dato fuoco, Abel-Keramim che era diventata fumo salito in cielo con tutte le sue torri dalle cupole d’oro, e il sole che la mattina aveva toccato quell’oro, e il re bambino, malato, che l’aveva supplicato, non lasciarmi ti prego, Iefte, raccontami una storia perché è buio, e le carovane che passavano dalle porte della città al crepuscolo con il tintinnio delle campane dei cammelli, e le labbra delle donne che passavano sui peli del suo petto sussurrando straniero, straniero, e la luce di notte e la musica, e la sua spada che fendeva il collo del re malato e usciva ansimando dalla nuca, e Gatel che diceva con le labbra morenti che brutta che è questa storia, e la città in fiamme, le donne in fiamme che si gettavano dai tetti e l’odore di carne bruciata e il grido.
Muto se ne stava, e immobile all’ingresso della proprietà di suo padre, gli occhi chiusi.
Poi Ghilead l’anziano levò la mano per zittire i canti e le melodie e gli strepiti, affinché il giudice in Israele parlasse al popolo.
Tutto il popolo ammutolì, per ascoltare. Solo il fuoco delle torce tremolava nella brezza silenziosa.
Il giudice in Israele aprì la bocca per parlare al popolo e tutt’a un tratto crollò a terra ululando come un lupo trafitto da una freccia.
Signora mia madre, dissero le sue labbra. C’era un vecchio, uno degli anziani della tribù, che in cuor suo pensò:
Quest’uomo ha nostalgia e non è uno di noi.
9.
Per due mesi gli chiese, e lui come dimentico di tutto le diceva:
Vattene di qui in un’altra terra, non tornare più da me.
La ragazza rideva e gli rispondeva:
Mettiti questo mantello sulla testa e sugli occhi e fai muuu, e noi ti guardiamo e ridiamo.
E lui, perduto nelle sue nostalgie, diceva:
Ecco qui, sullo steccato, Pitdah, c’è una lucertola. E ora già non c’è più.
Per due mesi lei vagò per le montagne, scortata dalle ragazze. I pastori delle greggi fuggivano via da loro. Se passavano in un villaggio, stanza dopo stanza si nascondevano gli abitanti. In silenzio andavano vestite di bianco per i crepacci inondati dalla luna. Che cosa veniva a dire quel pallore spettrale, luce d’argento morta sulle colline morte. Nessuna bestia le toccò. Ulivi scossi dalla vecchiaia non osavano graffiarle. I loro passi venivano assorbiti dalla terra come uno stormire di foglie nel vento. Con quale senso bisogna ascoltare la folla di voci, con quale ascoltare il silenzio... Uomo e donna, padre e madre e figlio, padre e madre e figlia, fratello e fratelli, inverno e autunno e primavera ed estate, acqua e vento, tutto è solo lontananze su lontananze e se tacere o urlare o ridere, tutto senza distinzione si assorbirà nel silenzio delle stelle, nella malinconia di queste colline.
Bella e oscura Pitdah, che camminava e rideva con la sua corona nuziale, e i nomadi disgraziati la vedevano di lontano e dicevano: è straniera figlia di straniero, nessuno si avvicini a lei e viva.
Trascorsi due mesi, Iefte preparò un altare su una montagna e il fuoco e il coltello in mano. Col passar del tempo i nomadi avrebbero raccontato intorno al fuoco, di notte, della grande gioia di entrambi, lei la sposa sul cocchio nuziale e lui il giovane innamorato che tende la mano per toccare, è la prima volta. E ridevano i due, come ridono le bestie al buio, di notte, e non parlavano, Iefte le diceva solo mare, mare.
Me hai scelto, me hai santificato fra tutti i miei fratelli. Non avrai altro servo al mio cospetto. Ecco qui la bellezza oscura sotto il mio coltello, non ti ho negato la mia unica figlia. Dammi un segno, metti, su, il tuo servo alla prova.
Poi le bestie della notte urlarono fra i sassi e il deserto fu solo, sino in cima alle colline remote.
10.
Per sei anni Iefte il ghileadita fu giudice in Israele. Venne nel sangue fino al collo, lanciò Ghilead contro Efraim per distruggere Israele, tutto come aveva detto Iefte da giovane a Gatel re di Ammon, quando gli aveva detto: non ho parte in Israele né eredità fra i figli di Ammon, tanto te quanto i tuoi nemici passerò a fil di spada perché straniero sono stato per tutti i giorni della mia vita.
E dopo sei anni si stancò di giudicare e se ne tornò nel deserto, da solo. Nessuno si avvicinava più a lui perché tutti i nomadi della terra di Tob incutevano una paura tremenda. Solo il suo fratellastro Azur scendeva da lui per porgli davanti pane e acqua, ma di lontano. E i cani ossuti scendevano sempre con Azur.
Per un anno Iefte rimase solo dentro una grotta in terra di Tob. Studiò tutte le voci della notte che risalgono dal deserto, quando il deserto freme, e imparò a produrre tutti quei suoni da dentro di sé, poi disse basta.
Nelle cronache della casa lo scriba appuntò:
“E dopo di lui giudicò Israele Ibzan di Betlemme, che ebbe trenta figli e trenta figlie”.
1966
1974-1975