martedì 13 settembre 2022

FLORA Estratto da Casa «la Vita» Di Alberto Savinio

 





FLORA
Estratto da Casa «la Vita»
Di Alberto Savinio

Una luce rossa lo abbagliò. Il portone si riapri. Lei apparve un istante, gridò: «Mi hai rovinata la mano!» e richiuse il portone prima che lui facesse in tempo a entrare. Lui si trovò solo, davanti al portone chiuso, nel rosso che continuava ad abbagliarlo. Chiamò. Tempestò il portone di pugni, di calci... Poi si quietò. Un passante si era fermato in fondo alla strada, stette a guar54 dare, cominciò ad avvicinarsi. Una finestra si apri al terzo piano, una testa domandò «chi faceva quel fracasso». Egli si allontanò dal portone. Voltò nella via adiacente, sulla quale davano le finestre di lei. Erano spente. Aspettò. Una finestra s'illuminò. Chiamò una volta, due volte, tre volte. Cercò un sasso per terra: non lo trovò; prese dalle tasche dei soldi che tirò sulla persiana. la finestra si spense. Ritornò in fretta al caffè ov'erano stati poco prima e che era vicinissimo. Si fece dare un gettone, compose il numero, udì il «pronto» di lei; ma quando lui cominciò a parlare, l'apparecchio dall'altra parte si chiuse. Che altro poteva fare Marco? Nulla. Quando questa conclusione gli si formulò chiara nella mente, dolore, affanno, disperazione crollarono di colpo e subentrò la tranquillità del fatto compiuto. Diremo di più: la soddisfazione.

Dolore, affanno, disperazione, lui in verità li aveva di molto gonfiati. Non c'era cosa al mondo che riuscisse ad accecarlo. Non perdeva la testa né per eccesso di dolore né per eccesso di piacere. I dolori non riuscivano a dominarlo. Marco continuava a guardare «attraverso il dolore », teneva la testa fuori dalle grandi gioie, come il nuotatore dall'acqua.

I ponti erano rotti. Senti il suo petto, la sua testa più leggeri. Era «scarico». Anche la mascella non gli doleva più. Non riusciva però a chiarirsi la ragione di quella segreta contentezza... Infine la scopri: era contento, in fondo, di avere schiacciato la mano di Edmea. Il caso aveva lavorato per lui. Usò anzi una parola più volgare: «acciaccato». Piovve su Roma nella seconda metà della notte, e l'aria lavata che Marco respirò al risveglio, rese più chiaro il suo sentimento di libertà, dopo tre anni di prigionia. Finalmente poteva fare tutte le cose che in quei tre anni aveva dovuto rimandare, alle quali aveva dovuto rinunciare. «Questo stesso sentimento proveranno anche 55 i funzionari,» pensò Marco «che dopo trent'anni di servizio se ne vanno in pensione». E poiché la leggerezza, la verginità di quella nuova atmosfera lo induceva a parlare a voce alta, Marco, annodandosi la cravatta davanti allo specchio con la studiata lentezza di un attore che sta per entrare in scena, e parafrasando la licenza chègli aveva di non andare quella sera all'appuntamento della «mutilata», disse: «Oggi non si va in ufficio!». La «mutilata»... Marco riepilogò la scena della vigilia. «Chi sa quanto la farà lunga,» pensò «quanto la farà palloccolosa! Sarò imputato di tentato omicidiol». E la sera stessa, nell'ora medesima dell'appuntamento, che veduta dalla nuova sponda gli appariva cosi chiusa, cosi buia, cosi pesante, Marco parti per Milano. Aveva fatto un telegramma al Carleu perché l'indomani, a mezzogiorno, venisse a prenderlo alla stazione di Como.

A tavola, oltre al Carleu e a sua moglie, che in cima a un inflessibile collo reggeva una testa di sfinge e della sfinge perpetuava il mutismo, c'era Livio, fratello del Carleu ed eroe del far niente, e un giovane chiamato Valerio, proprietario di una villa vicina a Como, sul confine del

Comasco con la Brianza. Ma nel pomeriggio arrivarono dalle ville circonvicine delle ragazze, alcune in bianche uniformi da tennis e bilanciando la racchetta, altre in prendisole e gli occhi chiusi da lenti enormi in forma di nere margherite. Marco fu coinvolto in un gioco di ozii felici, di leggere schermaglie d'amore, di piacevoli futilità.

Bianche vele posavano sul lago. Le case di Cernobbio brillavano sul monte di rimpetto. Villa d'Este si specchiava nell'acqua immobile. Marco stava in terrazza, accanto a una giovane gigantessa bionda che respirava con certa quale fatica, quasi non aria impalpabile ella espirasse ed aspirasse per le labbra umide e socchiuse ma un leggero pulviscolo d'oro. Il ronzio d'un motoscafo spuntò dalla parte di Como; tracciò un arco sonoro attraverso quella natura leggiadra e riposata, si spense dalle parti di Bellagio. Armanda era mollemente coricata sopra una sdraia, le braccia nude e bianchissime incurvate a lira, le mani riunite sotto la nuca. Si udivano di sotto la terrazza le percussioni secche delle palle di celluloide sulle palette del ping-pong, e le voci di Valerio e di Carla che, parafrasando gli eroi di Omero, si scambiavano ingiurie scherzose e grandi millanterie. Livio, il Carleu e due ragazze, Clotilde e Monica, dolcissima costei nel volto di madonnina e cosi arcuata nelle spalle che chi la vedeva per la prima volta compiva in fretta segreti atti di scongiuro, erano andati in cappella a giocare a boccette. La cappella della villa era sconsacrata dal culto e adibita a sala di biliardo, ma sotto il pavimento di pietra, dentro la piccola cripta nella quale il Carleu custodiva le sue preziose collezioni di Barbera, di Barolo e di Soave, la tomba del primitivo proprietario della villa non era stata rimossa, il quale era stato amico di Bellini e lo aveva ospitato in questa sua casa lacustre, nel tempo in cui il mite musico orchestrava la Norma. Marco e Armanda si conoscevano da appena mezz'ora, e già si parlavano con quel tono obliquo e allusivo, che vuol essere come una velata intimità sessuale. Marco s'irritava e s'intristiva. È per ingenuità di carattere, per illusione di fantasia che egli divideva l'amore in paradisiaco e infernale? Marco aspirava al paradiso dell'amore, e durante la sua lunga relazione con Edmea aveva sospirato un amore alto e puro, come il prigioniero sospira la libertà, come l'infermo sospira la salute. Delle fanciulle aveva un'idea mitica. Fanciulla era Arianna abbandonata a Nasso, era Andromeda incatenata sullo scoglio: bisognose entrambe di un cuore «disinteressato » che le salvi, le protegga, le adori, ma non chieda compenso. Le fanciulle della sua fantasia si erano materializzate poco prima e vive, radiose, erano scese nel giardino del Carleu. C'era Arianna fra loro, c'era Andromeda... Ma perché la natura ha dato anche la voce alla donna, e la facoltà di formulare in parole i pensieri che sbadatamente le traversano la testa? Marco guardava gli occhi celesti di Armanda, la sua bocca aurorale e pensava a un giardino pietrificato, in cui i fiori fossero di maiolica dipinta. Armanda per parte sua credeva che Marco nel suo silenzio pensasse a lei, e lo incoraggiò a rompere quel mutismo che essa imputava a timidezza. Fece mentre parlava un movimento col braccio, che mandò a Marco una zaffata di odore acre.

Marco chinò anche più la testa. Marco andò ad abitare in casa di Valerio.

L'affare fu concluso dal Carleu, con disinvoltura e speditezza. Valerio era un giovane di gran sangue, ma povero in canna. La sua villa era al margine di un paesello situato in collina, a poca distanza dalla casa nativa di Alessandro Volta, che a chi sale da Como mostra sotto la strada i suoi muri rosa e il poderino che la circonda. Il parco della villa scendeva fino al ciglio di un burrone, e laggiù, d'estate, le vipere brulicavano tra i sassi del torrente asciutto. Il paesello serbava il nome che gli avevano dato i suoi antichi abitatori greci e si chiamava Polilenno, forse perché di lassù si vedevano brillare in fondo alla pianura i molti laghi della Brianza. Valerio tenne anzitutto a presentare Marco ai suoi antenati, e cominciò com'è naturale da suo padre, che era ritratto in piedi nella sala da pranzo, in uniforme di capitano di cavalleria, con gli arabeschi d'argento che dalla punta della manica gli salivano fin sulla spalla. Il capitano sguainò la sciabola e salutò ponendosela verticale davanti al naso, la costa rivolta a sé e il taglio opposto all'ospite. Da li passarono nel salotto e si fermarono davanti a un grande ritratto in piedi della mamma di Valerio, dipinto dal professore Barilli, padre del nostro Bruno che porta in giro il suo sensibilissimo e vibrante naso 58 da cavallo e respira gli aggettivi a tre a tre. La signora emergeva con l'abbondante scollatura da un monumentale abito di raso che scendeva a campana fino a terra, spezzato in innumerevoli e rutilanti sfaccettature. Essa tuttavia staccò il braccio ben nutrito dalla tela, e dette la mano da baciare a Marco. Salirono infine sul pianerottolo tra il primo e il secondo piano e si fermarono sotto una mappa stesa sul muro, sulla quale erano schierati in più file i ritratti dei duecento cinquantasette papi, che dalla fondazione del pontificato a Pio IX si sono succeduti sul soglio di San Pietro. «Il mio antenato è il sesto qui a destra» annunciò Valerio, e in cosi dire poggiò la punta del suo bastoncello di bambù su uno dei ritrattini della terza fila, che rappresentava un vecchietto dalle guance cascanti e inzucchettato dal camauro. Stimolato dal bastoncello del pronipote, il pontefice venne fuori col busto dalla mappa, mandò a Valerio e a Marco un buon sorriso paterno, poi, agitando la mano a destra e a sinistra, come il direttore d'orchestra che invita i sonatori a spartire il plauso del pubblico, suscitò i suoi colleghi delle altre file, i quali, uscendo dall'ovalino che li circondava, cominciarono a parlare tutti assieme, chi in italiano, chi in francese, chi in spagnolo, alcuni pochi in tedesco, moltissimi in latino e uno in greco. Due, che si stavano quasi a duetto, perché un solo ovalino li separava, cominciarono a litigare. «Che dicono,» domandò Valerio «tu che sai il latino?». Marco ascoltò. «Quello di sinistra accusa l'altro di averlo tirato fuori dalla tomba, di averlo portato cadavere in mezzo a San Pietro, di averlo processato, di averlo spogliato dei paramenti pontificali, di avergli tagliato tre dita della mano destra e infine di averlo gettato nel Tevere». «Sed ego,» prese a dire il protestatario, entrando nella conversazione dei due giovani, «ma io ritornai su dal 59 fiume non più cadavere putrefatto ma rinutrito di carne e roseo nella faccia addormentata e tranquilla, e in trionfo fra le torce e i cantici fui riportato nella basilica». «Come si chiama questo disgraziato?» domandò Valerio, evidentemente commosso da una cosi macabra vicenda.

«Formoso» rispose Marco. «Formoso?» ripeté Valerio con stupore. Poi ripeté più piano e per sé: «Formoso...». Questo nome evidentemente gli riusciva strano, gli suscitava idee incompatibili con quella di un papa in istato di avanzata putrefazione. «Formoso!» disse una terza volta Valerio, e con i pollici ricurvi delineò nell'aria ineffabili rotondità.

La villa era coperta d'ipoteche, ma l'acqua del cielo pioveva egualmente nelle vaste camere deserte, nei lunghi corridoi bui. I temporali portavano via dal tetto gli ultimi embrici, le folgori squarciavano le querce del parco inselvatichito. Tornato il sereno, Valerio usciva dalla villa bilanciando una vecchia racchetta, e andava sui campi di tennis a galanteggiare le ereditiere dei dintorni. In principio Marco lo segui, ma a vedere ogni volta che Valerio e Armanda, oppure Clotilde e il Carleu si davano quel gran da fare, si consultavano a vicenda: «Ready?... Ready!» e infine scambiavano senza abilità alcune palle di gomma, Marco si stancò. I pasti erano magrissimi ma consumati con solennità a una tavola immensa, ove Valerio e Marco sedevano ai due capi estremi, dentro una sala grande in proporzione. Arrivavano in tavola dei brodini acquosi, delle frittate pallidissime, delle polpette nelle quali primeggiava la mollica di pane, degli spezzatini fatti con le parti meno pregiate del castrato, delle susine misurate in ragione di due a testa. Il servizio era disimpegnato a regola d'arte dalla Masa, la figlia dei casieri. Costoro abitavano in un fabbricato più basso che si staccava dal fianco della villa e chiudeva ad angolo il cortile, in mezzo al quale sorgeva il pozzo col suo coronamento di ferro e la conca di rame appesa alla fune. Da più anni i casieri non percepivano stipendio, ma in compenso continuavano a prestare i loro risparmi al «signor contino», senza di che costui non avrebbe potuto sfoggiare il suo bel completo di cascami di seta, né quella sciarpa turchina a pasticche bianche che gli usciva dalla maglia ed elegantemente gli si attorceva al collo, né quei sandali sui quali due bande di cuoio s'incrociavano a ponte e tra le quali le dita dei piedi giocavano liberamente. La Masa serviva a tavola scalza i piedi, ma la testa diademata da una cresta a cannoncelli, molto sudicia del resto. Dai buchi dei guanti di filo, sporgevano le unghie globose e nere. Marco riconobbe tra i lombi della Masa, la testimonianza di una evidente fecondità. Per opera di chi la figlia dei casieri nutriva quella seconda vita in seno? Le risposte di Valerio smuovevano la nebbia, ma non la diradavano. L'imbroglio e la sua oscurità stimolarono la curiosità di Marco. Ogni luogo ha il suo mistero, e il mistero di «Villa Costanza», dal nome della madre di Valerio, era la gravidanza della Masa. Valerio, si capiva, avrebbe voluto che la Masa sposasse un suo ex fidanzato, giovane lavoratore della gleba un po' corto di mente, che in quel mentre serviva l'esercito in qualità di zappatore. I genitori della Masa per parte loro non circondavano la colpa della loro figliola di quei velami che la morale richiede, ma la ostentavano invece e lasciavano capire che la creatura prossima a venire al mondo era stata concepita mercé della collaborazione del «signor contino». In paese poi tutti sapevano che se il signor contino voleva continuare a dirsi proprietario della villa, doveva sposare la Masa tanto per «riparare», quanto per diventare genero dei suoi casieri, possessori delle ipote61 che che a lui, Valerio, non lasciavano più della villa se non la proprietà nominale. La villa se ne andava a pezzi, e cosi pure i pochi mobili che ancora essa ospitava. Il grosso e il meglio del mobilio era passato nel fabbricato più basso, nel quale abitavano i casieri assieme con la loro figliola feconda e redditizia. Al primo piano, ov'era la camera di Marco, gli specchi conservavano ancora le loro cornici ovali, ma avevano perduta la luce; e un giorno che Marco fece per sedersi in una specie di poltrona storica, severa d'aspetto e vestita di falpalà come una nonna, egli non incontrò base solida, ma sprofondò nel sedile e si trovò con le ginocchia in bocca. Sotto il portico che dava sul cortile, alcune sdraie di vimini stavano raccolte intorno a una tavola da giardino, e le loro giunture, stanche di aver sopportato per tanti anni gli ozii del «contino», e prima quelli del padre colonnello, e prima ancora quelli, del nonno generale, avevano ceduto ed era stato necessario legarle con lo spago. La desolazione della casa operava sull'animo dei suoi abitatori, scioglieva a poco a poco le giunture della loro volontà, li adagiava in una vita molle e abbandonata. Marco consumava lunghe ore a leggere, sdraiato sul letto cigolante, e se il suo occhio talvolta si spiccava dalla pagina, incontrava la punta del suo piede nudo, che usciva a giocare fuori dei buchi del lenzuolo. Che letture erano quelle! Il padre di Valerio aveva comandato in un periodo della sua carriera militare la guarnigione di un'isola adibita d'altra parte a colonia penale, e poiché egli era un appassionato lettore e uno scrupoloso raccoglitore del «Romanzo mensile», si era fatto rilegare dalle mani dei galeotti le annate della sua cara pubblicazione; e Marco, esplorando un giorno i segreti di quel villone agonizzante, scopri in un sottoscala, tra le sciabole arrugginite, i fioretti spuntati e i tirastivali pronti ancora a stringere il calcagno del signor colon62 nello tra le loro branche di lira senza corde, la schierata serie di quei volumi grossi come elenchi del telefono, che nel desolato grigiore della loro rivestitura di tela e nel numero dell'annata stampato in nero sul dorso come una grossa matricola, serbavano essi pure un aspetto di galeotti. Marco lesse le avventure di Sherlock Holmes e del suo amico Watson, Eckermann di quel Goethe dell'investigazione poliziesca, alcuni romanzi di Gaston Leroux, la Primula rossa della baronessa Orczy. Leggeva ma non serbava traccia della lettura, come se facesse passare dell'acqua attraverso un tubo vuoto.

Infine non lesse più. Stava immobile sul letto. E non pensava neppure.

Al pari della morte di una persona cara, anche la morte di un amore lascia dietro a sé una grande malinconia, una spossatezza distesa di cui a tutta prima non ci accorgiamo, e che ci piega a poco a poco a una pigrizia lunga, a un'indolenza grigia, a una bonaccia che sul mare dei nostri sentimenti spegne i venti della speranza, dell'ambizione, della volontà di vivere. Marco era sempre più riluttante ad aggregarsi alla brigata del Carleu, di Valerio, di Livio, delle ragazze; non tanto perché il suo pudore, il suo istinto di conservazione gli rappresentassero la non pertinenza, lo stonato, il pericolo di una troppa fusione della sua vita con quella di gente tanto più giovane di lui e diversa per indole, per casta mentale, per somma e qualità di aspirazioni; quanto perché un malinconico umore. Perseverante e progressivo, lo portava a isolarsi e a nascondersi sotto un'ala nera. Armanda aveva invertite le parti, manifestava nei riguardi di Marco un umore freddo e sprezzante. Seppero gli altri che Marco era stato brutale con lei, volgare. «Sono stata costretta a rimetterlo a posto!». Poi venne l'indifferenza da ambo le parti. Marco cominciò a saltare i turni della barba. Si radeva ogni due giorni, poi ogni tre; restò più di sei giorni senza farsi la barba e il prurito gli arrossava la pelle sotto il pelo ispido del mento. Non si lavava quasi più. Il contatto dell'acqua gli rammentava la vita e la gioia, cose ormai estranee a lui e nemiche. Si vestiva appena. S'infilava un paio di calzoni di tela e una vecchia maglia a strisce brune, che dalla cintola in su gli dava l'aspetto di una zebra verticale. Non si metteva più le scarpe, girava in ciabatte per il parco sciattato come lui, e ogni tanto tirava su una gamba con un gesto di trampoliere e una smorfia di dolore, e vuotava la ciabatta di tutta la ghiaietta che ci era entrata. Sedeva lungamente sopra una panca a mezzaluna, collocata di spalle dentro una conca di bosso, e dietro la quale sorgeva la statua di una giovane Flora, mutila nel naso ma sorridente, combusta dal tempo e impelosita dal muschio, in atteggiamento di camminare e spandere i fiori che teneva in grembo. Marco gareggiava d'immobilità con la retrostante Flora. Non mutava posizione nemmeno quando il sole superava la barriera degli olmi e lo dardeggiava negli occhi. I calabroni gli ronzavano intorno senza sospetto. Le lucertole gli passavano tra le gambe, alzavano la testina a guardarlo, l'occhio lucido e la gola palpitante. Marco s'orfeizzava. Nulla gli sfuggiva dei rumori minuscoli che, tutti assieme, compongono il silenzio della natura, come il complesso dei puntini variegati compone il quadro divisionista. I sussurri, i fruscii, i tonfi minuscoli, i crissi e i bissi sui quali il frinire di una cicala, il gorgheggio di un uccello, il canto lontano di un contadino giganteggiavano come voci sopraterrestri. E un giorno, tra quelle piccole voci, una ne individuò Marco di sonorità insolita, e solo dopo che ripetute volte essa ebbe pronunciato:

«Marce...». Chi lo chiamava? Cosi fuori del consueto era quella voce che Marco, per spiegarsene la natura e la   provenienza, s'inabissò nei suoi anni passati, ritornò bambino, e pensando che con quella voce trasparente, con quella voce di spirito soltanto il suo angelo custode lo poteva chiamare, d'istinto ma con estrema delicatezza, e con una leggerissima paura pure si passò la mano sulla spalla destra. «Marce...». Era brusio di foglie? Era voce di piante? Era il linguaggio di qualche animale nascosto? «Marce...». Un formicolio freddo s'arrampicò su per le spalle di Marco, gli sali nei capelli. Uno stimolo di riso gl'irritava le mascelle. Marco s'allontanò dalla conca di bosso, camminando a ritroso. Superata la siepe, si mise a correre. La villa era al suo solito posto. Guardò il cielo, gli alberi: nulla era mutato. Raccattò un sasso, lo tirò al tronco di un faggio, e la corteccia, infatti, sonò dura e secca. Si tastò il petto, si toccò gli occhi con le dita, si chiamò: «Marco... » e mentre stava chino, in ascolto, udì da più lontano, da li: «Marce...». Marco, tremante di commozione, fissava la statua che si animava a poco a poco. Ascoltava quella voce opaca, velatissima; quella voce che veniva di lontano, dal cuore della pietra, dal fondo delle montagne, e nella quale trapelava l'ombra del latino. Gli occhi di Flora brillavano più vivi, le sue labbra sbocciarono al sorriso. Era dunque lui, uomo, che aveva operato quel miracolo? Pian piano, con stenti infiniti e uno sforzo che faceva palpitare sotto la tunica di marmo le sue giovani mammelle, Flora raccontò a Marco la vita misteriosa delle statue; le quali non sono materia inanimata come crede il volgare, ma creature che già furono vive e poi imbalsamate nella pietra, ov'esse abitano per sempre, in compagnia della loro anima e dei ricordi della loro vita mortale. Ma la vita ridottissima delle statue, impercettibile dall'esterno, quella goccia di vita in mezzo alla fredda pietra, che cosa l'aveva scaldata ed enfiata cosi da spanderla per tutto quel corpo di marmo, e intiepidirlo, e dare colore alle labbra e luce agli occhi? Il lembo della tunica si arricciava dietro il passo della fanciulla per simulare il movimento della marcia, ma per l'ammorbidimento progressivo del marmo Marco vide la tunica disarricciarsi a poco a poco e cadere diritta sullo zoccolo, vide colorarsi i fiori che Flora teneva in grembo, e quelli pure che essa teneva in mano e fingeva di spargere sul suo cammino. Ma perché solo a lui era stata rivelata quell'esistenza straordinaria? Perché lui e non altri essa aveva chiamato? Perché vedendolo cosi immobile e taciturno, essa aveva creduto che egli pure fosse statua, sebbene più sciolto nei movimenti e libero di aggirarsi tra i mortali. Valerio quel giorno mangiò solo, a un capo della tavola immensa, e nel pomeriggio andò a Blevio, sperando di trovare Marco in casa del Carleu. Quando scese la notte, e Marco senti che la sua faccia non era più visibile, egli disse alla fanciulla di pietra ciò che uno dice alla propria anima, ma a un'altra creatura, a una donna, mai. Come descrivere il bacio di una statua? Le ricerche andarono avanti nella notte.

«Marco!» si udì gridare lontano, dalla villa. E Flora, piano piano, con la sua voce dura, profondissima eppur piena di dolcezza, ripeté: «Marce...».

Quando Marco finalmente tornò a casa e Valerio gli chiese la cagione della sua assenza e della sua faccia stravolta, Marco balbettò alcune parole che Valerio non capi, e sali nella sua camera. L'indomani Marco tornò nel parco, usando precauzioni da assassino. Fu incerto se non aveva fatto un so66 gno, finché non ritrovò Flora come l'aveva veduta in quel sogno appunto, e anche più morbida, più tèpida, più viva, più illuminata dall'aurora del suo amore. Si era lavato, si era sbarbato e inzuppato di colonia. Ma una strana preoccupazione gli gravò addosso, quando seppe che là, in quello stesso parco, c'era il padre e la madre di Flora, statue essi pure, e una zia. E fratelli ne aveva? «Ita» rispose la fanciulla. Uno solo ma in un altro giardino, lontano, dalla parte dove c'è tutta quell'acqua. Dal che Marco inferi che Flora voleva parlare del lago di Como. La preoccupazione che gli dava la vicinanza dei suoi eventuali suoceri, il sospetto di sentirsi spiato fra gli alberi dal loro sguardo freddo e severo, il timore di incorrere in qualche loro redarguizione non si staccavano dalla mente di Marco. Che è la purezza della carne in confronto alla purezza del marmo? Marco era troppo nuovo ancora al mondo delle statue, troppo ignaro dei loro umori per non temere le reazioni di questi personaggi «più grandi del vero». Le leggi dell'onore di quel mondo duro, pesante, misterioso erano intuibili però, e Marco temeva che nel ponte di luce che univa la sua anima all'anima della fanciulla, potesse apparire anche alcuna macchia che violava quella sovrumana purità. Dovette badare a non destar sospetti. A farsi vedere di frequente nella villa. A sedere a tavola per i pasti. A scambiare con Valerio i soliti discorsi e a eludere le sue domande sul «mistero» del giorno avanti. A non farsi scorgere quando andava ai suoi inconfessabili, ai suoi inenarrabili, ai suoi incomprensibili convegni. Di sera, quando gli alberi cominciarono a raccogliere le ombre della notte nel loro fogliame, steso nell'aria come una rete immensa, Marco, quatto quatto, passando da tronco a tronco con passi da cacciatore di quaglie, andò là ove sapeva di trovare le altre statue, e spiando 67 tra gli spiragli di una vecchia siepe di mortella, guardò a lungo e con rispetto, e con un certo qual fremito di timore pure il severo e impaludato vegliardo, la formosa matrona che un giorno, forse, avrebbe dovuto chiamare «babbo» e «mamma». Trovò anche la zia, vestita di una grave tunica di vestale, ma costei

lo impressionò meno. Valerio quella sera si comportò da guardia del corpo. Non parlò di uscire. Non lasciò Marco un minuto. E quando costui disse che andava a dormire, Valerio gli tenne dietro con la scusa di non interrompere il discorso che stava facendo, e che del resto era del tutto privo d'interesse; gli s'infilò in camera, sedé da piedi al letto, e continuò a parlare, a parlare, a parlare, finché s'accorse che Marco dormiva.

Non poté vietare però, che Marco ritornasse al mondo delle statue per la via dei sogni. Marco si ritrovò nella grande sala da pranzo, senza neppure aver scesa la scala. La sala era piena di gente in un'aria di cerimonia. I mobili erano più ricchi e maestosi. Un enorme lampadario, scintillante di luci e di cristalli pènduli, si librava a mezz'aria, tra la tavola sontuosamente imbandita e il soffitto sul quale brillava l'oro dei cassettoni.

Il padre e la madre di Flora erano già seduti ai posti d'onore, e gl'invitati umani, in abito da sera le signore e gli uomini in frac, li circondavano con deferenza e conservando una certa distanza. C'era anche la zia e il fratello venuto dal suo giardino di Como, giovane di fini e atletiche forme, con capelli formati di chioccioline e una breve asta in mano, i quali si aggiravano tra gl'invitati e si movevano dentro un magico vuoto, dentro una zona incolmabile d'altro, che dalla loro propria atmosfera. Ma Flora dov'era?... Marco sapeva che Flora lo aspettava laggiù, nel loro nascondiglio geloso, e l'assenza della fanciulla, contrastando al dovere che costringeva lui ad assistere a quel pranzo «di fidanzamento», lo torturava.

Anche la Masa si era perfezionata per la circostanza, e appariva nella specie di un magnifico maggiordomo in polpe. Dal terzo bottone, abbottonato sullo sterno, la livrea si allargava per voltare nelle falde, e faceva cortina ai due lati del ventre, più gonfio del solito e trasparente, dentro il quale si vedeva un minuscolo Valerio tutto raggomitolato su se stesso, le ginocchia in bocca e i piccoli pugni stretti alla faccia, nella positura dei morti nelle tombe della Puglia primitiva, e che a occhi chiusi stava succhiando un lunghissimo tubo. Tra gl'invitati c'era anche Achille Campanile, e quando tutti furono seduti e qualcuno domandò dal fondo della tavola che cosa mangiano le statue, Campanile, citando, com'è giusto, se stesso, disse che le statue, per ovvie necessità di digestione, mangiano sassi al sugo. Entrò in quel mentre la Masa, reggendo un immenso piatto d'argento sul quale a piramide si levavano i bianchi sassi, e sui quali era sparsa una salsa essa pure bianchissima. Per prima si servi la madre di Flora, ma nel servirsi un sasso cadde sulla tavola con un tonfo sordo. La matrona non ci badò e continuò a servirsi ma un secondo, poi un terzo sasso caddero sulla tavola, con altrettanti tonfi sordi.

Al terzo sasso, Marco scese dal letto e andò ad aprire. Trovò la Masa con un telegramma in mano che gli disse: «Avete il sonno duro, è tanto che busso». Marco apri il telegramma e lesse: «Arrivo Como ore diciotto.

Edmea». Le nubi scendevano a strasciconi il fianco del monte. La luce s'ingrigi, si metallizzò, diventò spettrale. Marco cominciava a intravedere sulla discesa inferiore del monte la casa di Alessandro Volta, quando d'un tratto, per la pressione probabilmente del dito sopra un tasto di comando, questo signore delle potenze elettriche fece scoppiare il temporale. Dentro la corriera che faticava su per la salita, tutta piena del frastuono dei suoi vetri e frustata dalla pioggia, le facce dei contadini si illividiro69 no e il prete seduto nell'angolo attaccò a masticare le colonnine del breviario con furia disperata. Per salire dalla fermata della corriera alla villa, Edmea si tirò la veste sulla testa e diguazzò con le gambe magre nelle pozzanghere, come un uccello da palude. Arrivarono al viale delle mortelle, corsero verso il portico che li avrebbe finalmente riparati da quel diluvio, ma Edmea ebbe un'idea drammatica e bislacca: si fermò sotto l'acqua, mise sotto gli occhi di Marco il mignolo della destra coperto di un dito di guanto, e gli gridò attraverso la bufera: Hai visto? Potevo perdere la mano! Cattivo!». Poi lo afferrò per la giacca fradicia, lo tirò a sé, lo baciò sulla bocca. Aspettava quell'atto la natura, l'atto inopportuno di quella piccola donna, per dare pieno sfogo al suo furore?

Il cielo urlò e tremò la terra. E mentre Marco, attaccato a quelle labbra gelide e sottili, spingeva lo sguardo nella scura muraglia della foresta, una colonna d'aria arrivò ululando e apri una breccia tra gli alberi, e dentro a quella, nel bagliore d'un lampo, brillò il volto bianco di Flora, stravolto dal dolore. Marco si svegliò di soprassalto. La camera era piena di luce, ma non era giorno: la luna enorme e prossima al tramonto, dilungava attraverso la finestra spalancata la sua luce metallica. Edmea rannicchiata nel sonno era volta di spalle. I capelli corti e nerissimi sparsi sul guanciale, davano alla sua testa piccola un che di serpentinamente cattivo. L'ombra delle narici si mangiava il naso brevissimo, segnava in mezzo alla faccia il triangolo nero del teschio. La luce lunare, bianca e senza vita, appesantiva i globi delle palpebre, scavava una larga fossa sotto il pomello. Marco guardò Edmea a lungo, e stupì che per tre anni egli fosse stato legato a quella donna. La luna tramontò e la luce si spense nella camera. Rimase un chiarore cinereo e diffuso. Un chiarore lontanissimo. Un chiarore da mondo finito. 70 Marco scese piano dal letto. Arrivò in punta di piedi all'uscio e già piegava cautamente la maniglia, allorché si ricordò che non poteva uscire vestito a quel modo. Il pensiero di Flora gli dava una commozione di bene, gli suggeriva doveri di pudicizia, gl'ispirava idee di profonda onestà. Si mise le scarpe, s'infilò i calzoni e la giacca, si ravviò i capelli; e poiché il collo nudo nella svasatura della giacca gli sembrò indecoroso, prese dalla sedia la sciarpa di Edmea e se l'avvoltolò sotto il mento. Il chiarore del mondo finito posava sulle masse pesanti degli alberi, fuso a un immenso silenzio, a un altissimo vuoto. Marco traversò il portico del cortile, avanzò verso gli alberi camminando leggero per non far scricchiolare la ghiaia; ma prima di inoltrarsi nella loro ombra si fermò, esplorò con l'orecchio quel vasto silenzio, quell'altissimo vuoto, e nel cuore di questo scopri finalmente il moto appena percettibile di un respiro tenuissimo, l'arcana freschezza di un'anima nascente, il palpito di un cuore che dal fondo del silenzio, dal fondo dell'inerzia, dal fondo dell'oscurità cercava a poco a poco, casto e fidente, di riaffiorare alla vita. L'intero universo irruppe in quel momento nel petto di Marco. Si riaccesero i paradisi spenti, e le luci che l'avvenire tiene in serbo per le felicità future, brillarono di colpo e tutte assieme. E Marco, pieno d'immenso amore, penetrò nell'ombra degli alberi.

Impaurita e irritata, Edmea si ostinava a dirigere le ricerche, contro la passiva ostilità dei casieri, della Masa, dei contadini attirati dalla voce che il signor Marco non si trovava più, e che stavano immoti in mezzo al cortile battuto dal sole. In considerazione del suo stato, la Masa conteneva le proprie perlustrazioni dentro un raggio brevissimo. Mancava l'autorità di Valerio, che aveva pernottato a Blevio e non sarebbe rincasato se non nel pomeriggio. A un ordine più diretto di Edmea, la casiera scrollò le spalle. Come si permetteva costei di comandare in casa d'altri? Chi era? Quali le sue relazioni col signor Marco? Erano sposati forse?... Il senso morale della casiera, che riusciva a piegarsi e a sopirsi dinanzi alla proficua gravidanza della figliola, ritrovava di fronte alla «sconosciuta» la sua piena e intransigente energia. Tre volte il casiere passò davanti alla conca di bosso, e solo alla quarta si fermò, guardò la statua, e si domandò perché le avessero buttato addosso quel panno nero. La testa di Marco era infilata sotto il braccio di Flora ripiegato al petto per reggere la gonna piena di fiori, e il corpo pendeva inerte.

Fu necessario rompere il braccio della statua, per liberare il cadavere di Marco. L'arto fu spezzato poco sopra il cubito, e dalla frattura sprizzò una goccia di umore. Sarebbe improprio parlare di sangue. Era un liquido denso e impercettibilmente rosato. Da Como arrivarono le autorità, in una piccola automobile grigia. Il cadavere fu portato in un locale terreno della villa, deposto sopra tre assi posate su cavalletti di ferro. Il pavimento era occupato dal raccolto delle mele, le trecce delle cipolle facevano festoni sui muri. Una enorme ragnatela velava lo stretto rettangolo della finestra sbarrata, si gonfiava e sgonfiava al respiro dell'aria.

La porta della camera «mortuaria» dava sul portico, a guardia era stato posto un carabiniere che sedeva in una delle vecchie sdraie di vimini, nelle quali Valerio faceva il chilo dopo i suoi frugalissimi pasti. Gli aspetti del mondo esteriore non turbavano il giovane milite. Questi non abbandonava il teatro dei suo mondo interiore, se non per seguire con gli occhi la Masa, quando costei traversava il cortile e il portico, sia per recarsi dalla portineria alla villa,  « sia per compiere il cammino inverso. Se i suoi superiori gli avessero dato l'ordine di seguire tutti i movimenti della Masa per stenderne regolare rapporto, egli non avrebbe posto attenzione maggiore all'osservazione della ragazza. Il suo occhio bruno e malinconico indugiava particolarmente sui piedi nudi e sudici della Masa, infilati nel ponticello di cuoio degli zoccoli, e sulla pancia a globo. La Masa entrava infine nella villa o in portineria, e usciva dal campo visivo del milite; ma sulla breve fronte di costui, i segni di cupi e ostinati pensieri tardavano a cancellarsi. Nel tardo pomeriggio arrivò un furgoncino, e il cadavere di Marco, avvolto in un telo grigio, fu trasportato a Como per l'autopsia. Edmea litigò col commissario, per riavere la sua sciarpa di seta, rimasta al collo del morto. Avutala, scese a prendere la corriera che si fermava sotto il paese, davanti a un'osteria con stallazzo e gioco di bocce. Poiché la Masa, pigliando pretesto dal suo stato di gravidanza, si rifiutò di portarle la valigia, Edmea si avviò giù per la ripida discesa con la valigia in mano, traballando sui tacchi altissimi e seguita dagli sguardi lunghi, impassibili dei paesani raccolti nella strada, o affacciati alle soglie e alle finestre. Dopo il tramonto del sole gli uccelli smisero di cantare e si addormentarono negli alberi, ma gli uomini continuarono a parlare fino a notte alta. Poi anche gli uomini tacquero, e più non si udì se non il canto di un assiolo. Infine anche l'assiolo tacque, e la notte alta e pura non fu abitata più se non da quella voce lacerata da un immenso dolore, che dal fondo delle montagne, dal cuore della pietra continuava a chiamare: «Marce!...