giovedì 29 settembre 2022

IL COCCODRILLO Fëdor Dostoevskij


 


IL COCCODRILLO
Fëdor Dostoevskij 

Recensione di Valentina Parisi 

Il «marcio» Occidente nella verve di Dostoevskij

Il 13 febbraio del 1865, in veste di caporedattore della rivista «Epocha», Fëdor Dostoevskij scriveva con la consueta irruenza a Ivan Turgenev: «…mi meraviglio che riteniate il Vostro racconto Il cane così insignificante da pensare che pubblicarlo ora significherebbe guastare la Vostra reputazione letteraria. Mi sembra strano, Ivan Sergeevic! Davvero potreste danneggiarvi con un piccolo racconto?! Alzi la mano chi non ne ha mai scritti!»

Il futuro autore di Delitto e castigo non era, in effetti, fra gli indifferenti al fascino della forma breve: quello stesso mese era uscito, proprio su «Epocha», il suo delizioso raccontino umoristico Il coccodrillo Un avvenimento straordinario ovvero impasse nel passage, ora tradotto da Serena Vitale (Piccola Biblioteca Adelphi, pp. 98, € 12,00). Quello che però Dostoevskij non poteva immaginare è che il rischio paventato dal collega – ovvero veder compromessa la propria fama di romanziere «serio» da un lieve divertissement scritto in punta di penna – lo avrebbe riguardato di lì a breve in prima persona.

I critici più malevoli vollero infatti vedere nell’inverosimile vicenda di Ivan Matveic – un bel gagà pietroburghese che finisce nella pancia di un coccodrillo e decide che, in fondo, non ci si sta poi tanto male – una velata allusione al destino del teorico materialista, nonché socialista rivoluzionario, Nikolaj Chernyševskij, spedito proprio allora al confino in quanto criminale di Stato. Secondo l’interpretazione fornita dalla stampa, le budella del coccodrillo da dove, di punto in bianco, Ivan Matveic inizia a filosofeggiare, altro non sarebbero che la Siberia in cui Chernyševskij era stato esiliato. Dettaglio ancor più piccante, nel racconto la moglie del protagonista, la volubile Elena Ivanovna, vede nell’inopinata prigionia del marito un eccellente pretesto per divorziare e darsi alla bella vita; non diversamente si era comportata nella realtà Ol’ga Sokratovna, compagna di Chernyševskij, la quale, a differenza delle consorti dei decabristi quattro decenni prima, si era rifiutata categoricamente di seguire il marito, abbandonandolo così nella cattiva sorte.

Difficile stabilire se Dostoevskij con la sua arguta parabola volesse davvero farsi beffe dell’autore di Che fare?, su cui Vladimir Nabokov infierirà in maniera più che esplicita settant’anni dopo nel suo romanzo Il dono. Né si sa se la disavventura di Matveich, che nell’unica versione pervenutaci sembra lasciata come in sospeso, dovesse avere un seguito: quel che è certo è che una recensione uscita anonima sul giornale «Golos» scongiurava Dostoevskij – che da pochissimo aveva pubblicato Memorie dal sottosuolo – di fermarsi lì e di non rovinarsi la reputazione con una storia talmente «indecorosa», infarcita di «battute di cattivo gusto» e destinata a esser presa di mira «sia dagli amici, che dai nemici». Evidentemente i critici erano rimasti spiazzati dalla grottesca improbabilità di quelle pagine e non avrebbero in alcun modo condiviso il giudizio a venire dello stesso Nabokov che – pur non essendo, notoriamente, un estimatore della scrittura dostoevskiana – le avrebbe tuttavia riconosciuto «lampi di insuperabile umorismo».

Eppure, al di là della verve satirica e di una predilezione tutta gogoliana per l’iperbole (virata però in una tonalità più caustica), nel Coccodrillo affiorano temi posti ripetutamente da Dostoevskij al centro della propria produzione pubblicistica, in primis il disprezzo per il «marcio» Occidente. Nei vetri del passage pietroburghese dove un avido tedesco senza nome mostra per denaro ai curiosi il portentoso coccodrillo Karl, sembra riflettersi il Crystal Palace dell’Esposizione Universale di Londra del 1862 che in Note invernali su impressioni estive assurgeva a terrificante simbolo della massificazione che l’avvento della società industriale aveva portato con sé, nonché della spettacolarizzazione di ogni cosa. Nel Coccodrillo l’irrisione del mito del progresso e del «principio economico» che tutto governa è affidata agli spassosi sproloqui di Timofej Semenyc, l’alto funzionario diretto superiore di Ivan Matveic che, alla fine, acconsente a considerare l’assenza ingiustificata del sottoposto e la sua permanenza nelle interiora del rettile alla stregua di una trasferta all’estero per motivi di studio.

Non meno gustose sono le tirate che il protagonista, novello Giona, propina dalle viscere dell’animale, ripromettendosi nientemeno che di «migliorare le sorti dell’umanità» e di elaborare una «teoria inedita delle relazioni economiche», ora che né impegni lavorativi, né distrazioni mondane lo assillano più.
Con cattiveria altrettanta sfrenata, Dostoevskij, immagina Karl – e Ivan Matveic dentro di lui – al centro del salotto letterario tenuto da Elena Ivanovna, un simposio che, ça va sans dire, terrà testa a quelli più celebri dell’Europa occidentale, poiché dall’interno del coccodrillo «si vede tutto più chiaramente». Al termine del racconto, spacciato dall’autore sul frontespizio per assolutamente «veritiero», l’io narrante resta basito di fronte alle versioni diametralmente opposte che i quotidiani all’indomani dei fatti forniscono del prodigioso inghiottimento: secondo il «Volos», giornale d’orientamento chiaramente occidentalista (e ante litteram animalista), un russo «eccezionalmente grasso» si sarebbe lasciato proditoriamente divorare da Karl, attentando così alla salute della povera bestia, mentre a detta del «Listok», «piccolo giornale di nessuna particolare tendenza», per lo più disprezzato, «benché da tutti letto», sarebbe stato all’inverso Karl ad essere ingoiato da un certo N., «buongustaio dell’alta società», deciso a imitare i gourmand stranieri, già da tempo noti consumatori di coccodrilli, e perfino di manguste.

La maschera dell’umorista retrogrado, indossata con sorprendente disinvoltura, servì dunque a Dostoevskij a sbeffeggiare anche la stampa pietroburghese, un mondo che, dopo aver ereditato alla morte del fratello Michail la direzione della rivista letteraria «Epocha», gli toccò frequentare sempre più spesso.
Alla godibilità della lettura contribuisce anche la traduzione di Vitale che, nell’accostarsi a quella che nella sua postfazione definisce «birichinata letteraria» sembra scegliere una strada leggermente diversa rispetto a quella imboccata da chi ha lavorato di recente su Dostoevskij (anzitutto da Claudia Zonghetti nella nuova versione dei Fratelli Karamazov), ovvero evitare di limare lo stile del romanziere, com’è noto sciatto, goffo e farraginoso. Una strategia per la quale Vitale dichiarava di aver optato in occasione della resa della Mite e che qui sembra cedere il passo a una maggiore scorrevolezza, come se questo Dostoevskij «minore» non andasse ulteriormente sminuito riproducendo ogni suo singolo inciampo o affanno in nome di uno scrupolo filologico che difficilmente il lettore potrebbe apprezzare.


IL COCCODRILLO 

I

Il tredici gennaio del corrente anno 1865, alle dodici e trenta, Elena Ivanovna, consorte di Ivan Matveič, mio dotto amico, collega e in parte lontano parente, espresse il desiderio di vedere il coccodrillo che veniva mostrato a pagamento nel Passage. Avendo già in tasca il biglietto per un viaggio all’estero (non tanto per motivi di salute quanto per curiosità intellettuale), essendo dunque libero da obblighi di lavoro e disponendo così di tutta una mattina libera, Ivan Matveič non solo non si oppose all’incontenibile desiderio della consorte, ma s’infiammò egli stesso di curiosità. «Splendida idea,» disse con aria molto soddisfatta «andiamo a vedere il coccodrillo! Dal momento che ci apprestiamo a visitare l’Europa, non sarebbe male conoscere ancora qui in patria gli aborigeni che la popolano». E con queste parole, presa a braccetto la moglie, subito si avviò con lei verso il Passage. Li seguii, com’era mia abitudine, in qualità di amico di famiglia. Non avevo ancora mai visto Ivan Matveič in una così gradevole disposizione di spirito come quella mattina per me indimenticabile – è proprio vero che non si può sapere in anticipo che cosa il destino ci riserva! Una volta nel Passage, Ivan Matveič ammirò estasiato la magnificenza dell’edificio e, quando arrivammo al negozio in cui era esposto il mostro di recente portato nella capitale, volle pagare egli stesso al coccodrillaio i venticinque copechi per il mio ingresso, cosa mai avvenuta prima. Entrati in una stanza non molto grande, notammo che oltre al coccodrillo conteneva pappagalli dell’esotica razza dei cacatua e ancora, in uno speciale armadio sistemato in una rientranza del muro, un gruppetto di scimmie. Proprio accanto all’ingresso, sulla parete sinistra, c’era una voluminosa cassa di latta che somigliava a una tinozza da bagno; era coperta da una solida rete di ferro e sul fondo conteneva dell’acqua, meno di un palmo. In quell’angusta pozzanghera veniva tenuto un gigantesco coccodrillo: stava lì come un tronco d’albero, del tutto immobile e visibilmente privato di ogni sua facoltà dal nostro clima umido, non adatto agli stranieri. Sulle prime il mostro non risvegliò in noi una particolare curiosità.

«È dunque questo il coccodrillo!» cantilenò Elena Ivanovna con una vocina che tradiva la delusione. «E io credevo che fosse... non so, che fosse diverso!».

La cosa più probabile è che se lo figurasse di diamanti. Il tedesco padrone del coccodrillo ci venne incontro guardandoci con un’espressione quanto mai orgogliosa.

«Ne ha ben donde,» mi sussurrò Ivan Matveič «perché è consapevole di essere l’unico che in tutta la Russia esibisce un coccodrillo».

Attribuisco anche questa affermazione del tutto insensata all’eccessivo buonumore di Ivan Matveič, persona altrimenti molto invidiosa.

«A me il vostro coccodrillo non sembra vivo» disse Elena Ivanovna, risentita per la scarsa affabilità del coccodrillaio e rivolgendosi a lui con un grazioso sorriso che avrebbe dovuto rabbonire quello screanzato – tipica manovra delle donne.

«Oh nein, madame» rispose quello in un russo storpiato, e subito dopo, sollevata per metà la rete che copriva la cassa, cominciò a punzecchiare con un bastoncino la testa del coccodrillo.

A quel punto, per dimostrare che era in vita, il subdolo mostro mosse leggermente le zampe e la coda, sollevò il muso ed emise qualcosa di simile a un prolungato stronfiare.

«No arrabbiare tu, mio piccolo Karl!» gli disse affettuosamente il padrone, lusingato nel suo amor proprio.

«È ripugnante, questo coccodrillo! Mi sono addirittura spaventata,» cinguettò Elena Ivanovna con una vocina ancora più vezzosa «adesso lo sognerò di notte».

«Nel sogno, madame, lui no mordere voi» disse il tedesco con cerimoniosa galanteria e fu il primo a ridere della propria arguzia, anche se nessuno di noi gli fece eco.

«Venite, Semën Semënyč,» continuò Elena Ivanovna, rivolgendosi soltanto a me «andiamo a vedere le scimmie. Adoro le scimmie; ce n’è che sono veri amori... Il coccodrillo invece è orrendo».

«Oh, non aver paura, mia cara!» gridò alle nostre spalle Ivan Matveič mentre ci allontanavamo, per far mostra del proprio coraggio alla consorte. «Questo sonnacchioso abitante del regno dei faraoni non ci farà nulla», e rimase accanto alla cassa di latta. Non solo: si sfilò un guanto e con quello cominciò a solleticare il naso del coccodrillo per – lo confessò più tardi – sentirlo stronfiare di nuovo. Il padrone invece seguì Elena Ivanovna, come si fa con le signore, fino all’armadio con le scimmie.

Tutto andava dunque per il meglio ed era impossibile prevedere quanto avvenne dopo. Elena Ivanovna si divertiva con le scimmie come una vispa bimbetta e sembrava dedicare loro tutta la sua attenzione. Lanciava gridolini di piacere rivolgendosi di continuo a me come per sottolineare che ignorava il padrone e rideva delle somiglianze che notava tra le scimmie e i suoi più stretti conoscenti e amici. Anche io mi divertivo: la somiglianza era indubbia. Non sapendo se fosse o meno il caso di ridere, il tedesco finì per rabbuiarsi del tutto. Ed ecco che in quel preciso momento un urlo terribile, potrei dire quasi innaturale, squassò improvvisamente la stanza. Non sapevo cosa pensare, e dapprima restai immobile, come raggelato; notando però che urlava anche Elena Ivanovna, mi voltai rapidamente e... cosa vidi! Vidi – oh, mio Dio! – vidi il povero Ivan Matveič nelle spaventose fauci del coccodrillo: azzannato per i fianchi e già in posizione orizzontale per aria, agitava disperatamente le gambe. Un attimo dopo non c’era ormai più. Posso descrivere la scena in ogni particolare perché rimasi immobile tutto il tempo guardando quanto avveniva sotto i miei occhi con un’attenzione e una curiosità che non ricordo di aver mai provato. «Giacché se tutto questo» pensavo in quel fatidico momento «fosse capitato a me invece che a Ivan Matveič, che terribile seccatura!». Ma torniamo ai fatti. Dopo aver rivoltato nelle sue orride fauci il povero Ivan Matveič, il coccodrillo ingoiò dapprima le gambe, quindi, risputando un po’ Ivan Matveič che cercava di saltare fuori e si aggrappava con le mani alla cassa, lo risucchiò di nuovo e questa volta fin sopra i lombi. Dopo averlo eruttato ancora una volta, ne inghiottì un altro pezzo e poi un altro. Ivan Matveič scompariva un po’ per volta sotto i nostri occhi. Alla fine il coccodrillo ingoiò tutto il mio colto amico, e questa volta senza lasciarne fuori neanche un pezzetto. Dalla superficie del coccodrillo si poteva seguire il passaggio nelle viscere dell’animale di Ivan Matveič, con tutte le forme del suo corpo. Stavo per cacciare un altro urlo quando ancora una volta la perfida sorte volle farsi beffe di noi. Con un grande sforzo, probabilmente soffocando per le enormi dimensioni di quanto aveva inghiottito, il coccodrillo spalancò di nuovo le orrende fauci come per un ultimo rigurgito, e da quelle fauci spuntò fuori per un attimo la testa di Ivan Matveič: aveva un’espressione disperata, e per giunta gli caddero dal naso gli occhiali, andando a finire sul fondo della cassa. Sembrava che quella testa disperata fosse saltata fuori soltanto per dare un ultimo sguardo a quanto la circondava e dire mentalmente addio a tutti i piaceri di questo mondo. Ma non ebbe il tempo di farlo: il coccodrillo raccolse di nuovo le proprie forze, deglutì, e in un istante la testa di Ivan Matveič scomparve di nuovo, stavolta per sempre. Questo comparire e scomparire di una testa umana ancora viva era davvero spaventoso ma al tempo stesso – vuoi per la rapidità e l’imprevedibilità del tutto, vuoi per quegli occhiali caduti dal naso – aveva qualcosa di così comico che all’improvviso e inopinatamente scoppiai in una risata; subito dopo, tuttavia, rendendomi conto che in qualità di amico di famiglia era indecoroso ridere in un simile momento, mi voltai verso Elena Ivanovna e le dissi con aria compassionevole:

«Il nostro Ivan Matveič è kaputt!».

Non provo neanche a descrivere l’agitazione di Elena Ivanovna mentre succedeva tutto questo. Dopo il primo urlo osservava pressoché indifferente, quasi impietrita, il putiferio che si era scatenato, anche se gli occhi sembravano schizzarle fuori dalle orbite; poi, di colpo, cacciò un urlo straziante, ma io la presi per le mani. In quell’istante anche il padrone, dapprima lui pure inebetito dall’orrore, spalancò di colpo le braccia e urlò, gli occhi levati al cielo:

«Oh, mio cocotrillo, oh, mein allerliebster Karlchen! Mutter, Mutter, Mutter!».

A questo grido la porta sul retro si aprì e apparve la Mutter, con una cuffia in testa, rubiconda, anziana ma scarmigliata, e strillando si precipitò verso il suo tedesco.

Fu allora che ebbe inizio una vera babilonia: Elena Ivanovna strillava come un’ossessa un’unica parola: «Sventrare, sventrare!», e si precipitava verso il padrone e la Mutter supplicandoli – evidentemente senza rendersi conto di quello che diceva – di punire qualcuno per qualcosa. Il padrone e la Mutter non prestavano attenzione a nessuno di noi: entrambi accanto alla cassa, ululavano come vitelli sgozzati.

«Ora lui morire e scoppiare perché mangiato funzionario tutto intero!» gridava il padrone. «Unser Karlchen, unser allerliebster Karlchen wird sterben!» urlava la padrona.

«Noi ora orfani e senza mangiare!» le faceva eco il padrone.

«Sventrare, sventrare!» strillava Elena Ivanovna aggrappandosi alla giacca del tedesco.

«Vostro marito disturbato mio cocotrillo, perché lui fatto questo?» gridò il tedesco cercando di difendersi. «Voi pagare se Karlchen perde sua vita – das war mein Sohn, das war mein ei nziger Sohn» .

Confesso che ero terribilmente indignato nel vedere un simile egoismo in quel forestiero tedesco e tanta aridità di cuore nella sua scarmigliata Mutter; nondimeno, le urla che Elena Ivanovna andava ripetendo senza sosta – «Sventrare, sventrare!» – aumentavano ulteriormente il mio turbamento e finirono col catturare del tutto la mia attenzione, al punto che addirittura mi spaventai... Lo dirò in anticipo: interpretavo erroneamente le strane esclamazioni di Elena Ivanovna; mi sembrava che urlasse: «Sferzare, sferzare!». Credevo cioè che Elena Ivanovna fosse per un istante uscita di senno e nondimeno, volendo vendicare la morte del suo amato Ivan Matveič, proponesse di sottoporre il coccodrillo alla fustigazione con le verghe quale soddisfacimento a lei dovuto. E invece intendeva tutt’altra cosa. Guardando la porta non senza inquietudine, cominciai a implorarla di calmarsi e, soprattutto, di non usare l’imbarazzante verbo «sferzare». Quel desiderio così retrogrado lì, nel cuore del Passage e della società colta, a due passi dalla sala dove forse in quel momento il signor Lavrov stava tenendo una pubblica conferenza, era impossibile, addirittura impensabile, e da un momento all’altro poteva attirare su di noi i fischi delle persone istruite e le caricature del signor Stepanov. Con orrore vidi subito confermati i miei timorosi sospetti: improvvisamente si scostò la tenda che separava la stanza del coccodrillo dall’angusto locale dove si pagavano i venticinque copechi per l’ingresso e sulla soglia apparve una figura umana baffuta, barbuta, con il berretto in mano; costui piegava il più possibile in avanti la parte superiore del corpo sforzandosi di mantenere i piedi fuori dalla stanza del coccodrillo per conservare il diritto a non pagare l’ingresso.

«Un desiderio così retrogrado, signora,» disse lo sconosciuto, sforzandosi di non cadere verso di noi e di restare al di là della soglia «non fa onore al vostro sviluppo intellettuale; esso è dovuto alla mancanza di fosforo nel vostro cervello. Verrete immediatamente coperta di fischi nelle cronache del progresso e nei nostri fogli satirici...».

Non riuscì però a finire il suo discorso: tornato in sé, scoprendo con orrore un uomo che parlava nella stanza del coccodrillo senza aver pagato, il padrone si scagliò con rabbia contro lo sconosciuto progressista e a suon di pugni lo cacciò fuori. Per un minuto sparirono entrambi dietro la tenda, e solo allora mi resi conto che tutto quel pandemonio era nato dal nulla. Elena Ivanovna era innocente: non aveva per nulla pensato, come ho già fatto notare prima, che si dovesse sottoporre il coccodrillo al retrogrado e umiliante castigo delle verghe, ma aveva soltanto espresso il desiderio che gli venisse aperta la pancia con un coltello per liberare Ivan Matveič dalle sue viscere.

«Come? Volete che mio cocotrillo crepa?!» urlò il padrone rientrando di corsa. «No, meglio crepare prima vostro marito e poi cocotrillo! Mein Vater mostrare cocotrillo, mein Grossvater mostrare cocotrillo, mein Sohn mostrare cocotrillo, e anche io mostrare cocotrillo! Tutti mostrare cocotrillo! Io conosciuto in ganz Europa e voi no, voi pagare multa».

«Ja, ja!» rincalzò la tedesca con rabbia. «Noi no lasciare voi andare, per voi multa se Karlchen morire».

«E comunque è inutile aprirgli la pancia,» aggiunsi io tranquillamente, nel tentativo di ricondurre a casa Elena Ivanovna il prima possibile «perché con ogni probabilità il nostro caro Ivan Matveič ora sta già volando da qualche parte negli empirei».

«Amico mio,» risuonò allora del tutto inattesa, lasciandoci esterrefatti, la voce di Ivan Matveič «amico mio, ritengo che sia meglio rivolgersi direttamente al commissariato, giacché senza l’aiuto della polizia il tedesco non intenderà ragione».

Pronunciate con voce ferma e autorevole, queste parole testimoniavano una straordinaria presenza di spirito, e dapprima ci stupirono al punto che quasi ci rifiutammo di credere alle nostre orecchie. Tuttavia, com’era naturale, corremmo subito verso la cassa del coccodrillo e ascoltammo con religiosa devozione e al tempo stesso incredulità lo sfortunato prigioniero. La sua voce era ovattata, esile, perfino stridula, quasi provenisse da molto lontano. Era come quando un burlone se ne va in un’altra stanza e, coprendosi la bocca con un normalissimo cuscino, si mette a urlare cercando di imitare, per far ridere le persone rimaste nella stanza attigua, come si chiamano tra loro due mugicchi nel deserto o divisi da un profondo burrone – cosa a cui una volta avevo avuto il piacere di assistere a casa di certi miei conoscenti durante le feste natalizie.

«Ivan Matveič, mio caro, allora sei vivo!» farfugliava Elena Ivanovna.

«Vivo e vegeto,» rispose Ivan Matveič «per grazia del Signore sono stato inghiottito senza subire alcun danno. La mia unica preoccupazione è come prenderanno la cosa i miei superiori: ritrovarmi in un coccodrillo dopo aver ricevuto il permesso di andare all’estero... non è neanche spiritoso...».

«Ora non preoccuparti dell’umorismo, caro, prima di tutto dobbiamo in qualche modo cavarti fuori da lì» lo interruppe Elena Ivanovna. «Scavare?» gridò il padrone. «No lascio te scavare mio cocotrillo. Ora publico venire molto di più, io fare pagare fünfzig copechi, e Karlchen smette di crepare».

«Gott sei Dank!» aggiunse la Mutter.

«Hanno ragione,» osservò con voce tranquilla Ivan Matveič «il principio economico prima di tutto».

«Amico mio!» gridai. «Corro immediatamente dalle autorità a sporgere denuncia perché ho la sensazione che da soli non ce la faremo a sbrogliare questa matassa».

«Lo penso anch’io,» disse Ivan Matveič «ma nel nostro secolo di crisi commerciale è difficile aprire la pancia di un coccodrillo gratis, senza una compensazione economica, e inevitabile sorge una domanda: quanto chiederà il padrone per il suo coccodrillo? E subito dopo ne sorge una seconda: chi pagherà? Perché sai bene che io non ho mezzi...».

«Chiedere un anticipo sullo stipendio?» proposi timidamente, ma il padrone mi interruppe:

«Io no vendere mio cocotrillo, io vendo per tremila, quattromila rubli! Ora publico arivare molto. Per cinquemila vendo mio cocotrillo!».

Stava alzando la cresta in modo intollerabile; cupidigia e infame avidità brillavano gioiose nei suoi occhi.

«Ci vado ora!» urlai indignato.

«Anche io, anche io! Andrò da Andrej Osipyč in persona, lo intenerirò con le mie lacrime» disse Elena Ivanovna piagnucolando.

«Non farlo, cara» la interruppe Ivan Matveič, poiché già da tempo era geloso di Andrej Osipyč e sapeva che la consorte sarebbe stata felice di andare a piangere davanti a un uomo istruito, perché le lacrime la rendevano più seducente. «E neanche a te consiglio» continuò rivolgendosi a me «di andare così, di punto in bianco, dalle autorità: la cosa potrebbe provocare altri problemi. Vai piuttosto oggi stesso a far visita, in forma privata, a Timofej Semënyč. È un uomo all’antica, non una cima, certo, ma è affidabile e soprattutto sincero. Salutalo da parte mia e descrivigli i fatti. Gli devo sette rubli dall’ultima partita a carte, daglieli tu, è il momento giusto: addolcirà il vecchio, che è piuttosto severo. In ogni caso il suo consiglio può servirci da guida. E ora porta via Elena Ivanovna... Calmati, cara,» continuò rivolto alla moglie «sono stanco di tutte queste urla e di questi bisticci da donnette, vorrei fare un sonnellino. Qui sto al caldo e al morbido, anche se non ho ancora avuto il tempo di guardarmi bene intorno in questo inatteso rifugio...».

«Guardarti intorno?! C’è luce, lì dentro?» esclamò Elena Ivanovna rallegrandosi.

«Sono circondato da una notte impenetrabile,» rispose il povero prigioniero «ma posso tastare e, per così dire, vedere con le mani... Addio, sta’ tranquilla e cerca di distrarti. A domani! Tu, Semën Semënyč, vieni a trovarmi stasera, ma siccome sei distratto e rischi di dimenticarlo, fatti un nodo al fazzoletto...».

Confesso che ero quasi contento di andarmene: ero molto stanco e tutta quella storia cominciava un po’ ad annoiarmi. Presi subito sottobraccio Elena Ivanovna, afflitta ma abbellita dall’emozione, e la condussi al più presto fuori dalla stanza del coccodrillo.

«Stasera voi pagare ancora cinque e venti copechi!» ci gridò dietro il padrone.

«Mio Dio, che avidità!» esclamò Elena Ivanovna rimirandosi in ogni specchio del Passage, chiaramente consapevole di essere diventata ancora più bella.

«È il principio economico» risposi leggermente emozionato, orgoglioso, davanti ai passanti, della dama al mio fianco.

«Il principio economico...» cantilenò Elena Ivanovna con la sua tenera vocina. «Non ho capito nulla di quello che Ivan Matveič diceva poco fa a proposito di questo dannato principio economico».

«Ve lo spiegherò io» risposi, e subito cominciai a illustrarle gli effetti benefici dell’afflusso di capitali stranieri nella nostra patria, cosa che avevo letto quella mattina nelle «Peterburgskie izvestija» e nel «Volos».

«Com’è strano tutto questo!» mi interruppe dopo avermi ascoltato per un po’. «Ma ora smettetela, cattivone; andate raccontando certe sciocchezze... Ditemi, piuttosto, sono molto rossa in viso?».

«Rossa come una rosa» risposi, approfittando dell’occasione per farle un complimento.

«Birichino!» cinguettò compiaciuta. «Povero Ivan Matveič,» aggiunse dopo un minuto, inclinando con civetteria la testolina sulla spalla «mi dispiace tanto per lui... Oh, mio Dio!» gridò improvvisamente. «Ditemi, come farà a mangiare e a... e a... come farà, insomma, se avrà bisogno di qualcosa?».

«Domanda imprevista» risposi, anche io perplesso. A dire il vero non ci avevo minimamente pensato; le donne sono molto più pratiche di noi uomini nell’affrontare i problemi della vita quotidiana!

«Poveretto, in che guaio si è cacciato... non uno svago, niente luce... che peccato, non mi è rimasta una sua fotografia... E dunque ora io sono una specie di vedova» aggiunse con un sorriso ammaliante, chiaramente interessata alla sua nuova condizione. «Hmm... comunque mi fa tanta pena!».

Esprimeva insomma la ben comprensibile e naturale tristezza di una giovane e bella moglie per il marito ormai perduto. Arrivati finalmente a casa sua, la tranquillizzai e, dopo aver pranzato tête-à-tête con lei e bevuto una tazza di aromatico caffè, alle sei andai da Timofej Semënyč, considerando che a quell’ora tutti gli uomini sposati che lavorano sono a casa, ancora in piedi o a letto.

Dopo aver scritto questo primo capitolo nello stile più adatto all’avvenimento, intendo proseguire usando uno stile forse meno elevato ma in compenso più naturale, cosa di cui avviso in anticipo il lettore.


II

Il rispettabile Timofej Semënyč mi accolse come se avesse fretta e con un certo imbarazzo. Dopo avermi fatto entrare nel suo piccolo studio chiuse bene la porta: «Così i bambini non ci disturberanno» disse con palese inquietudine. Poi mi offrì la sedia davanti alla scrivania, mentre lui si accomodò in poltrona, incrociò i lembi della sua vecchia vestaglia imbottita e a ogni buon conto prese un’aria piuttosto ufficiale, quasi severa, benché non fosse un superiore né mio né di Ivan Matveič; fino a quel momento lo avevamo considerato soltanto un normale collega, un conoscente.

«Prima di tutto,» cominciò «dovete tener conto che io non sono un superiore, ma un funzionario subalterno, esattamente come voi, come Ivan Matveič... Questa faccenda non mi riguarda e non ho la minima intenzione di esservi coinvolto».

Mi sorpresi: a quanto pareva era già al corrente di tutto. Ciò nonostante gli raccontai di nuovo tutta la storia in tutti i particolari. Parlavo addirittura con emozione giacché stavo compiendo il dovere di un vero amico. Lui mi ascoltò senza mostrare meraviglia, ma con evidenti segni di sospetto.

«Ho sempre pensato, figuratevi un po’,» disse quando terminai il mio racconto «che gli sarebbe capitato qualcosa del genere...». «Come sarebbe, Timofej Semënyč? Si tratta di un fatto assolutamente straordinario...».

«Certo. Durante tutta la sua carriera, però, Ivan Matveič si è dimostrato propenso a un risultato di questo genere. È un uomo molto sveglio, perfino tracotante. Sempre “progresso”, “progresso”, idee d’ogni tipo, ed ecco dove porta il progresso!».

«Ma si tratta di un caso quanto mai eccezionale: è assolutamente impossibile considerarlo come una regola generale per tutti i progressisti...».

«No, è proprio così. La causa è l’eccessiva istruzione, credetemi. Perché le persone troppo istruite ficcano il naso dappertutto, e principalmente lì dove nessuno richiede la loro presenza. D’altra parte, forse voi ne sapete di più...» aggiunse in tono quasi offeso. «Io non ho una grande cultura e sono vecchio; ho cominciato alla scuola dei figli di soldati e quest’anno ho festeggiato il mio cinquantesimo anno di servizio».

«Ma cosa dite, Timofej Semënyč, per carità! Al contrario, Ivan Matveič desidera ardentemente un vostro consiglio, brama di essere guidato da voi! Con le lacrime, per così dire, agli occhi».

«“Con le lacrime, per così dire, agli occhi”... Hmm... be’, sono lacrime di coccodrillo, e non ci si può fidare troppo. Per quale motivo, ditemi, gli è saltato in mente di andare all’estero? E con quali soldi? Perché non ha altre risorse economiche, vero?».

«Con i suoi risparmi, Timofej Semënyč, e con i soldi dell’ultima gratifica» risposi in tono lamentoso. «Voleva andare per tre mesi... in Svizzera... la patria di Guglielmo Tell».

«Guglielmo Tell? Hmm...».

«Voleva vedere la primavera a Napoli... Visitare i musei, osservare i costumi della gente, gli animali...».

«Gli animali? Io penso invece che l’abbia fatto soltanto per superbia. Quali animali? Animali... Forse non ne abbiamo abbastanza qui da noi? Abbiamo zoo, musei, cammelli. Basta uscire da Pietroburgo per vedere gli orsi. E invece lui va a infilarsi in un coccodrillo...».

«Perdonatemi, Timofej Semënyč: un uomo si trova in grande difficoltà, un uomo si rivolge a voi come a un amico, a un familiare più anziano, desidera ardentemente un vostro consiglio, e voi lo rimproverate... Abbiate almeno pietà della povera Elena Ivanovna!».

«Sua moglie, intendete? Una giovane signora molto graziosa» disse Timofej Semënyč visibilmente rabbonito, fiutando con gusto una presa di tabacco. «Una personcina fine. Bella pienotta, e con la testa sempre così, inclinata da un lato... incantevole. Andrej Osipyč ne parlava giusto due giorni fa».

«Ne parlava?».

«Sissignore, e in termini molto lusinghieri. Il seno, dice, e gli occhi, e i capelli... Un bonbon, dice, non una damina, e a quel punto si è messo a ridere. È ancora giovane...». Timofej Semënyč si soffiò rumorosamente il naso. «È ancora giovane il nostro Andrej Osipyč, e guardate un po’ che carriera sta facendo...».

«Stiamo parlando di tutt’altro, Timofej Semënyč».

«Certo, certo».

«E allora, Timofej Semënyč?».

«Ma io cosa mai potrei fare?».

«Datemi un consiglio, guidatemi, come uomo di esperienza, come un parente! Che fare? Rivolgermi ai superiori oppure...».

«Ai superiori? Assolutamente no, signor mio» s’affrettò a dire Timofej Semënyč. «Se volete il mio consiglio, prima d’ogni altra cosa bisogna mettere tutto a tacere e agire, per così dire, in veste privata. È un caso sospetto, e per giunta senza precedenti. Soprattutto senza precedenti: non se ne conoscono altri esempi e vi presenta in una cattiva luce... E dunque prudenza prima di tutto... Che se ne resti lì dentro tranquillo. Bisogna aspettare, aspettare...».

«Aspettare, Timofej Semënyč? E se lì dentro soffocasse?».

«E perché mai? Avete detto voi stesso, se non sbaglio, che si è addirittura sistemato con un certo confort...».

Gli raccontai tutto di nuovo. Timofej Semënyč si fece pensieroso.

«Hmm...» disse rigirandosi la tabacchiera tra le mani «secondo me è addirittura un bene che resti lì per un po’, invece di andare all’estero. Che sfrutti il tempo libero per riflettere; ovviamente non deve soffocare, e per questo bisogna prendere tutte le misure necessarie a preservare la sua salute – sa cosa intendo, che non gli venga la tosse e così via... Per quanto riguarda il tedesco, la mia opinione personale è che abbia ragione, e perfino più della parte avversa, perché qualcuno si è introdotto nel suo coccodrillo senza averne il permesso, non è stato certo lui a introdursi senza autorizzazione nel coccodrillo di Ivan Matveič, il quale del resto, se ben ricordo, neanche l’aveva, un suo coccodrillo. Il coccodrillo costituisce una proprietà, e dunque non lo si può sventrare senza una compensazione in denaro».

«È per la salvezza dell’umanità, Timofej Semënyč».

«La questione riguarda la polizia. È lì che bisogna rivolgersi».

«Ma, vedete, di Ivan Matveič possono aver bisogno anche da noi in ufficio. Potrebbero chiedere di lui».

«Aver bisogno di Ivan Matveič? Ah ah! Per di più è formalmente in licenza, quindi possiamo anche ignorare tutto e lasciare che visiti in pace le terre europee. Certo, se non si presenta dopo la data convenuta è diverso, allora chiederemo di lui, prenderemo informazioni».

«Tre mesi! Timofej Semënyč, tre mesi!».

«La colpa è sua. In fin dei conti, chi ce lo ha messo là dentro? Di questo passo dovremo assumere per lui un’infermiera a spese dello Stato, e la cosa non è neppure prevista nell’organico. Ma soprattutto: il coccodrillo è una proprietà, ed è qui che entra in gioco il cosiddetto principio economico. E il principio economico viene prima di tutto. A casa di Luka Andreič, qualche sera fa, Ignatij Prokof’ič diceva... ma conoscete Ignatij Prokof’ič? È un capitalista, un uomo d’affari, e sapete, parla così bene: “Abbiamo bisogno di industria” dice. “La nostra è insufficiente. Bisogna crearla. Occorre far nascere i capitali, e questo significa che dobbiamo far nascere la classe media, la cosiddetta borghesia. E siccome non abbiamo capitali, bisogna farli arrivare dall’estero. Dobbiamo, prima di tutto, autorizzare le compagnie straniere a comprare lotti della nostra terra, come ormai all’estero fanno dappertutto. La comunità contadina è un veleno,” dice “è la rovina!”. E ancora, sapete, dice con un tale calore: “Loro, gli stranieri, possono, sono uomini del capitale... e non funzionari dello Stato. Con la comunità contadina” dice “non si potranno sviluppare né l’industria né l’agricoltura. Bisogna” dice “che le compagnie straniere comprino, per quanto possibile, tutta la nostra terra a grossi lotti e poi la frazionino, la frazionino più che possono in piccoli appezzamenti”, e sapete, lo dice in modo così risoluto: “frrra-zio-nare!” dice “e poi venderli come proprietà private. Neanche vendere, anzi, ma semplicemente dare in affitto. Quando” dice “tutta la terra sarà in mano alle compagnie straniere da noi attratte in Russia, allora per l’affitto si potrà chiedere qualsiasi prezzo. Così il contadino lavorerà molto di più per il solo pane quotidiano, e lo si potrà cacciare via in qualsiasi momento. E sarà consapevole, docile, operoso, lavorerà tre volte per gli stessi soldi. Ora, nella sua comunità contadina, che gliene frega! Sa che non morirà di fame, si impigrisce e beve. Nel modo che ho spiegato, invece, qui da noi affluirà il denaro, e si formeranno i capitali, e nascerà la borghesia. Anche il giornale politico e letterario inglese ‘Times’, esaminando le nostre finanze, l’altro giorno osservava che non crescono proprio perché non abbiamo un ceto medio, non abbiamo portafogli ben forniti, non abbiamo proletari servizievoli...”. Parla bene, quell’Ignatij Prokof’ič. Un vero oratore. Ora vuole presentare una relazione ai superiori e poi pubblicarla nelle “Izvestija”. Altro che le poesiole di Ivan Matveič...».

«E allora, per quanto riguarda Ivan Matveič?» intervenni dopo aver lasciato che il vecchio finisse di parlare. A Timofej Semënyč di tanto in tanto piaceva chiacchierare, dimostrando in questo modo che non era rimasto indietro ed era al corrente di tutto.

«Ivan Matveič? È proprio qui che voglio arrivare. Noi ci diamo da fare per attirare i capitali stranieri nella nostra patria, ed ecco, giudicate voi: non appena il capitale del coccodrillaio si è raddoppiato grazie a Ivan Matveič, invece di proteggere il proprietario straniero vorremmo sbudellare giusto quel suo capitale. È ragionevole? Penso che Ivan Matveič, come vero figlio della patria, dovrebbe addirittura essere felice e orgoglioso di aver raddoppiato, se non triplicato, il valore del coccodrillo straniero. È necessario per attirare i capitali stranieri, capite? Se va bene al primo, vedrete che un secondo arriverà con un coccodrillo, e un terzo ne porterà due o tre in una volta sola, e intorno a loro si raggrupperanno i capitali. Ed ecco che nascerà la borghesia! Bisogna incoraggiare, vi dico».

«Di grazia, Timofej Semënyč!» urlai. «Voi pretendete dal povero Ivan Matveič un sacrificio quasi sovrumano!».

«Io non pretendo assolutamente nulla e prima di tutto vi prego, come ho già fatto poc’anzi, di considerare che non sono un superiore e che quindi non posso pretendere nulla da nessuno. Parlo come figlio della patria, cioè non come “Il figlio della patria”, ma semplicemente come un figlio della patria. Ancora una volta: chi gli ha ordinato di ficcarsi nel coccodrillo? Un uomo rispettabile, di una certa posizione sociale, legalmente coniugato, e all’improvviso un gesto del genere! Vi sembra ragionevole?».

«Ma non lo ha fatto con intenzione!».

«E chi lo sa? E poi con quale denaro verrà pagato il coccodrillaio, ditemi?».

«Magari con il suo stipendio, Timofej Semënyč?».

«Basterà?».

«No, Timofej Semënyč» risposi tristemente.

«All’inizio il coccodrillaio aveva paura che l’animale scoppiasse, ma poi, convintosi che andava tutto bene, è montato in superbia ed è stato ben felice di poter raddoppiare il prezzo».

«Triplicare, e magari quadruplicare! Ora ci sarà un grande afflusso di pubblico, e i coccodrillai sono gente scaltra. Per di più è carnevale, la gente vuole divertirsi, e per questo motivo, ripeto, bisogna innanzitutto che Ivan Matveič conservi l’incognito e non abbia fretta! Che tutti sappiano, diciamo, che è dentro il coccodrillo, ma non ufficialmente. Da questo punto di vista Ivan Matveič si trova addirittura in condizioni particolarmente favorevoli, giacché viene considerato all’estero. Diranno che sta dentro un coccodrillo, e noi fingeremo di non crederci. La cosa si può combinare così. L’importante è che aspetti: che fretta ha?».

«Va bene, ma se...».

«Non preoccupatevi, è di complessione robusta...».

«E poi, quando avrà aspettato?».

«Non vi nascondo che è un caso estremamente complesso. È impossibile vederci chiaro e, quel che è peggio, non esiste un precedente analogo. Se lo avessimo ci potrebbe in qualche modo servire da guida. Ma così, come facciamo a decidere? E mentre uno cerca di venirne a capo, la cosa si trascina per le lunghe».

Un’idea felice balenò nella mia testa.

«Non si potrebbe fare in modo,» dissi «se davvero è destinato a rimanere nelle viscere del mostro e per volontà della Provvidenza resterà in vita, non si potrebbe chiedere che venga comunque considerato in servizio?».

«Hmm... forse sotto forma di congedo temporaneo senza retribuzione...».

«No, no, con lo stipendio...».

«Ma su quale base?».

«Quella di una trasferta di lavoro...».

«Quale trasferta? E dove sarebbe stato inviato?».

«Ma nelle viscere, vivaddio! Nelle viscere del coccodrillo... A scopo informativo, per studiare, diciamo così, i fatti in loco. Certo, sarebbe una novità, ma una novità progressista, e al tempo stesso dimostrerebbe che da noi ci si prende cura dell’istruzione...».

Timofej Semënyč si fece pensieroso.

«Mandare in trasferta un funzionario» disse infine «negli organi interni di un coccodrillo è assurdo, secondo la mia personale opinione. Lo statuto non lo prevede. E che tipo di incarico potrebbe mai avere?».

«Quello di indagare la natura, per così dire, in modo naturale, in loco, dal vivo. Oggi non si parla d’altro che di scienze naturali, di botanica e questo genere di cose... Vivrebbe lì e ci darebbe informazioni... sulla funzione digestiva, per esempio, o semplicemente sugli usi e costumi. Per accumulare dati».

«Una cosa che riguarda la statistica, insomma. Be’, questo campo non è il mio forte, né sono un filosofo. Voi dite: i dati. Ma siamo già sovraccarichi di dati e non sappiamo che farcene. Per di più questa statistica è pericolosa...».

«Come sarebbe?».

«È pericolosa. Inoltre, concorderete, lui ci comunicherà i dati, per così dire, in panciolle. Un funzionario può servire lo Stato standosene in panciolle? Sarebbe ancora una volta un’innovazione, e un’innovazione pericolosa; e ancora una volta: non esistono precedenti. Se solo avessimo un qualche precedente, anche minimo, credo che sarebbe possibile mandarlo in trasferta».

«Ma finora, Timofej Semënyč, nessuno aveva mai portato coccodrilli vivi».

«Hmm, sì...» e si fece di nuovo pensieroso.

«La vostra obiezione, se volete, è giusta, e potrebbe addirittura servire come base per un ulteriore svolgimento della pratica. Ma riflettete anche su questo: con la comparsa di coccodrilli vivi inizieranno a scomparire i funzionari: dato che lì dentro si sta al caldo e al morbido, chiederanno di esservi mandati in trasferta e poi se ne staranno in panciolle... Converrete che è un cattivo esempio. In questo modo chiunque si farà inghiottire per guadagnare soldi senza muovere un dito».

«Fate il possibile, Timofej Semënyč! A proposito: Ivan Matveič mi ha chiesto di restituirvi quel suo debituccio di gioco, sette rubli...».

«Ah sì! Li ha persi l’altro giorno, a casa di Nikifor Nikiforyč! Ricordo. Come era allegro allora, ci faceva ridere, e ora...!».

Il vecchio era sinceramente commosso. «Fate il possibile, Timofej Semënyč!».

«Lo farò. Parlerò a mio nome, in via privata, come se volessi assumere informazioni. Nel frattempo voi cercate di sapere, così, ufficiosamente, quale cifra chiederebbe il padrone per il suo coccodrillo».

Timofej Semënyč si era visibilmente rabbonito.

«Senza fallo,» risposi «e tornerò subito per riferirvi».

«E la moglie... è tutta sola adesso? Si annoia?».

«Dovreste farle visita, Timofej Semënyč».

«Lo farò senza meno. Ci stavo pensando già dianzi, e poi l’occasione è propizia... Ma come diavolo gli è venuto in mente di andare a vedere il coccodrillo! Del resto, anche io volevo andare a vederlo...».

«Andate a trovare quel poveretto, Timofej Semënyč».

«Lo farò. Ovviamente col mio gesto non vorrei alimentare le sue speranze. Ci andrò da privato cittadino... Arrivederci, allora, io vado di nuovo da Nikifor Nikiforyč, venite anche voi?».

«No, torno dal prigioniero».

«Già, dal prigioniero... Oh, quale sventatezza!».

Mi congedai dal vecchio. Pensieri d’ogni sorta mi attraversavano la mente. Era un uomo buono e davvero molto onesto, Timofej Semënyč; uscendo dalla sua casa, tuttavia, mi rallegrai del fatto che avesse già cinquant’anni di servizio alle spalle e che i Timofej Semënyč fossero ormai una rarità. Come è ovvio, corsi immediatamente al Passage per raccontare tutto al povero Ivan Matveič. E poi mi divorava la curiosità: com’era riuscito a sistemarsi là dentro, com’era possibile vivere in un coccodrillo? Ed è mai possibile vivere davvero in un coccodrillo? A tratti, devo dire, mi sembrava che fosse tutto un sogno mostruoso, tanto più che di un mostro appunto si trattava...

III

E invece non era un sogno ma verissima, indubitabile realtà. Altrimenti non starei a raccontarla! Ma continuo...

Arrivai al Passage che era già tardi, intorno alle nove, e dovetti entrare nella stanza del coccodrillo dal retrobottega perché quella sera il tedesco aveva chiuso prima del solito. Passeggiava su e giù vestito da casa – una palandrana vecchia e bisunta –, ma con un’espressione tre volte più soddisfatta di quella che aveva la mattina. Era chiaro che non aveva più paura di nulla e che «pubblico molto venuto». La Mutter si presentò più tardi, evidentemente per tenermi d’occhio. Il tedesco continuava a parlottare con lei. Benché il negozio fosse già chiuso, pretese da me il quarto di rublo per l’ingresso. Quale inutile pignoleria!

«Voi sempre pagare; publico pagare un rublo, voi solo un quarto, perché voi buono amico di vostro buono amico, e io qvesto rispetto...».

«È vivo, è vivo il mio dotto amico?» dissi a voce molto alta avvicinandomi al coccodrillo, nella speranza che le mie parole arrivassero a Ivan Matveič già da lontano e lusingassero il suo amor proprio.

«Vivo e vegeto,» rispose lui come da lontano o come da sotto un letto, anche se ormai gli ero proprio accanto «vivo e vegeto, ma di questo parleremo dopo... Come stai?».

Quasi fingendo di non aver sentito la sua domanda, cominciai a interrogarlo a mia volta, rapidamente e con affettuosa sollecitudine: come stava, cosa faceva, come si sentiva nel coccodrillo e, in generale, che cosa c’era all’interno del coccodrillo? Era quanto esigevano l’amicizia e la più elementare cortesia. Ma lui mi interruppe, capriccioso e stizzito.

«Come va la mia faccenda?» gridò con la sua solita voce stridula e autoritaria, questa volta estremamente sgradevole.

Gli raccontai la mia conversazione con Timofej Semënyč fin nei minimi particolari. E raccontando cercai di assumere un tono alquanto offeso.

«Il vecchio ha ragione» concluse Ivan Matveič, brusco come sempre quando parlava con me. «Mi piacciono le persone pratiche e non sopporto le smancerie mielose. Sono tuttavia pronto ad ammettere che anche la tua idea della trasferta di lavoro non è del tutto assurda. Sono realmente in grado di riferire molte cose, sul piano scientifico come su quello morale. Ma ora tutto prende un aspetto nuovo e inatteso e non vale la pena di preoccuparsi soltanto dello stipendio. Ascoltami attentamente. Sei seduto?».

«No, sono in piedi».

«Siediti su qualcosa, magari sul pavimento, e ascolta con attenzione».

Presi di malavoglia una sedia e nell’ira la sbattei sul pavimento.

«Ascolta,» iniziò con tono imperioso «oggi è venuta una marea di gente. Verso sera non c’era più spazio, e così è arrivata la polizia per riportare l’ordine. Alle otto, cioè prima del solito, il padrone ha perfino ritenuto necessario chiudere il negozio e interrompere lo spettacolo, per contare il denaro incassato e prepararsi più comodamente alla giornata di domani. So che domani nel negozio si radunerà una moltitudine di visitatori. E dunque c’è da aspettarsi che verranno tutte le persone più colte della capitale, signore dell’alta società, ambasciatori stranieri, giuristi e così via. Non solo: comincerà ad arrivare gente anche dalle tante province del nostro impero, smisurato quanto desideroso di conoscere. Insomma, sono sotto gli occhi di tutti e, benché nascosto, primeggio. Ammaestrerò l’oziosa folla. Forte della mia esperienza, diverrò un esempio di grandezza e umiltà di fronte al destino! Sarò, per così dire, una cattedra, dall’alto della quale comincerò a istruire l’umanità. Già soltanto le nozioni di scienza naturale che oggi posso comunicare a proposito del mostro in cui abito sono preziose. E perciò, lungi dal lamentarmi del caso che mi ha recentemente coinvolto, spero fermamente nella più brillante delle carriere».

«Non finirai per annoiarti?» osservai con una punta di fiele nella voce.

Più di tutto mi stizzì che si pavoneggiasse usando quello stile così forbito. Tutto questo mi disorientava. «Ma perché, perché questo sconsiderato alza tanto la cresta?» bisbigliavo tra me. «Qui c’è da piangere, altro che fare il gradasso!».

«No,» rispose sempre bruscamente alla mia domanda «perché sono tutto pervaso di grandi idee e soltanto adesso posso meditare a mio agio su come migliorare le sorti dell’intera umanità. Dal coccodrillo, adesso, verranno la verità e la luce. Inventerò per certo una mia inedita teoria personale delle nuove relazioni economiche e ne andrò fiero, cosa che fino a oggi non ho potuto fare perché tutto il mio tempo era preso dal lavoro e dalle volgari distrazioni mondane. Confuterò tutto e sarò il nuovo Fourier. A proposito, hai dato i sette rubli a Timofej Semënyč?».

«Sì, certo» risposi, cercando di far capire anche dal tono che avevo pagato di tasca mia.

«Te li restituirò» disse lui con arroganza. «Mi aspetto senza fallo un aumento dello stipendio, giacché chi altri lo merita se non io? La mia utilità è ora infinita. Ma veniamo al punto. Moglie?».

«Stai chiedendo, immagino, di Elena Ivanovna».

«Moglie?!» ripeté, questa volta quasi strillando.

Non c’era niente da fare... Rassegnato, ma pur sempre digrignando i denti, raccontai come avevo lasciato Elena Ivanovna. Lui neppure ascoltò fino in fondo.

«Ho dei progetti speciali per lei» cominciò impaziente. «Se io divento famoso qui, voglio che lei sia famosa . Scienziati, poeti, filosofi, mineralogisti stranieri e uomini di Stato, dopo aver conversato con me il mattino, la sera frequenteranno il suo salotto. Dalla prossima settimana deve cominciare a ricevere tutte le sere. Il mio stipendio raddoppiato fornirà i mezzi per ricevere, e poiché le spese saranno limitate al solo tè e ai camerieri assunti per poche ore, la questione è risolta. Qui come lì si parlerà di me. Da molto tempo desideravo un’occasione che facesse parlare tutti di me, ma non ci riuscivo, incatenato com’ero dalla mia modesta importanza e dal mio non alto grado... E ora ci sono riuscito semplicemente passando attraverso le fauci di un coccodrillo. Ogni mia parola sarà ascoltata, ogni mia sentenza ponderata, tramandata, stampata. Mi farò conoscere! Capiranno finalmente quali talenti hanno lasciato scomparire nelle viscere del mostro. “Quest’uomo avrebbe potuto essere un ministro straniero e amministrare un regno” diranno alcuni. “E un uomo simile non amministrava un regno straniero?” diranno altri. In cosa, ditemi, in cosa sarei peggiore di un qualunque Garnier-Pagesik, o come altro si chiama...? Mia moglie dovrebbe farmi da pendant – io ho l’intelligenza, lei la bellezza e l’affabilità. “È tanto bella, per questo è sua moglie” diranno alcuni. “È così bella perché è sua moglie” li correggeranno altri. Per sicurezza, comunque, Elena Ivanovna già domani dovrà comprare il dizionario enciclopedico a cura di Andrej Kraevskij, così da poter parlare di qualsiasi argomento. Ma soprattutto legga l’editoriale politico delle “S.-Peterburgskie izvestija”, comparandolo ogni giorno con quello del “Volos”. Suppongo che il padrone acconsentirà a portarmi di tanto in tanto, insieme con il coccodrillo, nel brillante salotto di mia moglie. In piedi nella cassa, al centro del magnifico salone, sciorinerò le arguzie che avrò preparato il mattino. All’uomo di Stato confiderò i miei progetti; con il poeta parlerò in rima; con le signore sarò divertente e moralmente amabile, del tutto inoffensivo per i loro mariti. A tutti gli altri servirò da esempio di rassegnazione al destino e ai disegni della Provvidenza. Di mia moglie farò una brillante dama letteraria; la promuoverò in ogni modo e la presenterò al pubblico; essendo mia moglie, deve essere colma delle più alte qualità, e se Andrej Aleksandrovič viene giustamente chiamato l’Alfred de Musset russo, a maggior ragione lei verrà chiamata la nostra Evgenija Tur russa».

Lo confesso: anche se tutte queste assurdità ricordavano alquanto l’Ivan Matveič di sempre, pensai che avesse la febbre e delirasse. Era il solito Ivan Matveič, quello di ogni giorno, ma come osservato con una lente, ingrandito venti volte.

«Amico mio,» gli chiesi «speri di vivere molto a lungo? Ma in generale, dimmi, ti senti bene? Come mangi, come dormi, come respiri? Io ti sono amico e, ne converrai, quanto ti è successo è fin troppo soprannaturale, di modo che la mia curiosità è fin troppo naturale».

«Oziosa curiosità, la tua, nulla di più,» rispose in tono sentenzioso «ma sarai soddisfatto. Chiedi come mi sono installato nelle viscere del mostro? In primo luogo, con mia grande sorpresa, il coccodrillo si è rivelato completamente vuoto. Il suo interno consiste in una specie di enorme sacco vuoto fatto di gomma, come certi articoli che vendono qui a Pietroburgo in via Gorochovaja, in via Morskaja e, se non sbaglio, anche sul Voznesenskij prospekt. Altrimenti, riflettici, come avrei potuto trovarvi posto?».

«È mai possibile?» gridai con comprensibile stupore. «Davvero il coccodrillo è completamente vuoto?».

«Completamente» rispose Ivan Matveič in tono severo e autorevole. «E con ogni probabilità lo è in base alle leggi della natura stessa. Ha soltanto fauci munite di denti affilati e, oltre alle fauci, una coda notevolmente lunga – ecco tutto. Nel mezzo, fra le due estremità, c’è uno spazio vuoto rivestito di qualcosa simile al caucciù, sì, molto verosimilmente si tratta proprio di caucciù».

«E le costole, e lo stomaco, e l’intestino, e il fegato, e il cuore?» lo interruppi quasi con rabbia.

«N-niente, non c’è assolutamente niente del genere, ed è probabile che non ci sia mai stato. È soltanto l’oziosa fantasia di sprovveduti esploratori. Esattamente come si gonfia un cuscino emorroidale, io ora gonfio il coccodrillo con la mia persona. È elastico oltre ogni immaginazione. Anche tu, se avessi il dono della magnanimità, in quanto amico di famiglia potresti sistemarti accanto a me, e persino così resterebbe ancora spazio. Sto anche pensando, in caso estremo, di far trasferire qui Elena Ivanovna. Questa vuotezza nella struttura del coccodrillo, del resto, è perfettamente in accordo con le scienze naturali. Supponiamo infatti, per esempio, che tu debba creare un nuovo coccodrillo; ti si presenta ovviamente una domanda: qual è la caratteristica principale di un coccodrillo? La risposta è chiara: ingoiare le persone. Come ottenere una struttura che permetta al coccodrillo di ingoiare le persone? La risposta è ancora più chiara: costruendolo vuoto. La fisica ha stabilito da tempo che la natura non tollera il vuoto. Analogamente l’interno del coccodrillo deve appunto essere vuoto per non tollerare il vuoto, e di conseguenza ingoiare e riempirsi in continuazione di tutto ciò che gli viene a tiro. Ed ecco l’unica ragionevole causa che spiega perché tutti i coccodrilli ingoiano i nostri simili. Non è così nella struttura umana: più è vuota, per esempio, la testa di un uomo, meno brama di essere riempita, ed è questa l’unica eccezione alla regola generale. Tutto ciò oggi mi è chiaro come la luce del giorno, a tutto ciò sono arrivato con la mia intelligenza, la mia esperienza, trovandomi, per così dire, nel seno della natura, nel suo alambicco, ascoltando il battito del suo polso. Anche l’etimologia mi dà ragione, perché il nome stesso del coccodrillo ne denota la voracità. Krokodil, «coccodrillo», è una parola evidentemente italiana, forse contemporanea degli antichi faraoni egizi, ed evidentemente derivata dalla radice francese croquer, che significa “mangiare”, “sgranocchiare”, in genere “usare come nutrimento”. Tutto questo ho intenzione di esporlo nella mia prima conferenza al pubblico riunito nel salotto di Elena Ivanovna, quando verrò portato lì nella mia cassa».

«Amico mio, non dovresti almeno prendere un lassativo?» esclamai involontariamente. «Ha la febbre, la febbre, è in preda alla febbre!» ripetevo sgomento fra me.

«Sciocchezze,» rispose sprezzante «e inoltre, nella mia situazione attuale, è del tutto sconveniente. Ero quasi certo, comunque, che avresti parlato di purganti».

«Amico mio, ma come... come ti nutri adesso? Hai pranzato oggi?».

«No, ma sono sazio ed è molto probabile che non mangerò più. E anche questo è perfettamente comprensibile: riempiendo del mio corpo tutto l’interno del coccodrillo, lo sazio per sempre. Ora si può non dargli da mangiare per anni. D’altra parte, sazio di me, lui trasmetterà naturalmente anche a me tutte le linfe vitali del suo corpo; è un po’ come certe raffinate coquettes che per la notte fasciano di cotolette crude se stesse e tutte le loro forme e poi, dopo il bagno mattutino, appaiono fresche, sode, succose e incantevoli. In questo modo, nutrendo di me il coccodrillo, ricevo in cambio da lui di che nutrirmi; ne consegue che ci nutriamo a vicenda. Ma poiché è difficile persino per un coccodrillo digerire un uomo come me, è comprensibile che senta un certo peso sullo stomaco – stomaco di cui peraltro è sprovvisto –, ed è per questo, per non causare al mostro dolori superflui, che raramente mi giro da un fianco sull’altro, e anche se potrei farlo me ne astengo per umanità. Questo è l’unico svantaggio della mia situazione attuale, e in senso allegorico Timofej Semënyč ha ragione nel definirmi un fannullone. Ma io dimostrerò che anche un fannullone – anzi, di più – che soltanto un fannullone può capovolgere le sorti dell’umanità. Tutte le grandi idee, così come le tendenze dei nostri giornali e delle nostre riviste, è evidente, sono nate da poltroni nullafacenti come sono io adesso – ecco perché li chiamano filosofi da poltrona... io però me ne infischio! Ora inventerò tutto un sistema sociale – non puoi immaginare quanto sia facile! Basta ritirarsi da qualche parte, lontano, o almeno finire in un coccodrillo, chiudere gli occhi, ed ecco che ipso facto inventi tutto un paradiso per l’intera umanità. Ho già inventato tre sistemi da quando, poco fa, tu e mia moglie ve ne siete andati, e ora ne sto elaborando un quarto. È vero: prima bisogna confutare tutto, ma è così facile confutare tutto dall’interno di un coccodrillo; di più: è come se da dentro il coccodrillo si vedesse tutto più distintamente... Ci sono tuttavia alcuni inconvenienti nella mia situazione, seppur minori: l’interno del coccodrillo è un po’ umido, tutto sembra ricoperto di una specie di muco, e per di più si sente ancora odore di gomma, esattamente come quello delle mie galosce dell’anno scorso. Questo è tutto, non ci sono altri problemi».

«Ivan Matveič,» lo interruppi «sono tutti prodigi cui stento a credere. Davvero, davvero hai intenzione di non mangiare per tutta la vita?».

«Di quali stupidaggini ti preoccupi, testa futile e oziosa! Io ti parlo di grandi idee e tu... Sappi dunque: a saziarmi bastano le grandi idee che illuminano la notte intorno a me. Tuttavia, il buon padrone della bestia e la sua generosa Mutter poco fa hanno deciso tra loro che ogni mattina infileranno nelle fauci del coccodrillo un piccolo tubo ricurvo di metallo, come una specie di zufolo, attraverso il quale potrò ingerire caffè o brodo con un po’ di pane bianco ammollato. Lo zufolo è stato già ordinato in un negozio qui vicino, ma io trovo che sia un lusso superfluo. Quanto a vivere, spero di vivere almeno mille anni, se è vero che i coccodrilli vivono così a lungo; e già che me l’hai ricordato, domani informati su questo argomento consultando un qualsiasi libro di storia naturale, perché potrei essermi sbagliato e aver confuso il coccodrillo con un altro animale fossile. Una sola considerazione mi turba un po’: poiché sono vestito di panno e ho gli stivali, il coccodrillo non può digerirmi, è ovvio. Per di più sono vivo, e quindi con tutta la mia volontà mi oppongo a essere digerito, poiché è chiaro che non voglio diventare ciò in cui si trasforma ogni cibo: per me sarebbe troppo umiliante. Ma ho paura di una cosa: da qui a mille anni la stoffa del mio cappotto, purtroppo di manifattura russa, potrebbe decomporsi, e allora, rimasto senza vestiti, nonostante tutta la mia indignazione potrei cominciare a essere digerito; e anche se di giorno non lo permetterò e lo impedirò a ogni costo, di notte, mentre dormo, quando la volontà dell’uomo s’invola, potrebbe toccarmi l’umiliantissimo destino di una patata, di una frittella, di una fetta di vitello. Tale idea mi fa andare su tutte le furie. Già soltanto per questo motivo le tariffe doganali dovrebbero essere cambiate e andrebbe incoraggiata l’importazione delle stoffe britanniche: sono più robuste, e di conseguenza resisteranno più a lungo all’azione della natura nel caso che uno finisca in un coccodrillo. Alla prima occasione metterò a parte del mio pensiero qualcuno degli uomini di governo e anche i commentatori politici dei nostri quotidiani pietroburghesi. Che lo strombazzino. Spero che adesso non facciano tesoro di questo soltanto. Prevedo che ogni mattina sarà una folla intera, armata delle monete da venticinque copechi fornite dalle redazioni, ad assieparsi intorno a me per conoscere la mia opinione sui dispacci del giorno precedente. In breve, l’avvenire mi si presenta nella luce più rosea».

«Ha la febbre, la febbre!» sussurravo fra me e me.

«E la libertà, amico mio?» chiesi, desiderando conoscere a fondo il suo pensiero. «Sei in prigione, per così dire, mentre un uomo deve godersi la propria libertà».

«Sei uno stupido!» rispose. «Sono le creature selvagge quelle che amano l’indipendenza, mentre i saggi amano l’ordine, ed è proprio l’ordine che manca...».

«Ivan Matveič, ti prego, abbi pietà di me!».

«Sta’ zitto e ascoltami!» gridò, infastidito che lo avessi interrotto. «Il mio spirito non si è mai librato tanto in alto come adesso. Una sola cosa temo, nel mio angusto rifugio: la critica letteraria delle riviste e i fischi dei nostri giornali satirici. Temo che i visitatori frivoli, gli sciocchi, gli invidiosi e in generale i nichilisti mi deridano. Ma prenderò delle misure. Non vedo l’ora di sentire i giudizi del pubblico, domani, e soprattutto di conoscere l’opinione dei giornali. Dei giornali informami subito, domani».

«Va bene, ti porterò un mucchio di giornali».

«Domani è ancora troppo presto per conoscere i giudizi dei giornali, perché li pubblicano solo tre giorni dopo. Ma d’ora in poi vieni a trovarmi ogni sera dall’entrata di servizio in cortile. Ho intenzione di impiegarti come segretario. Tu mi leggerai giornali e riviste, io ti detterò i miei pensieri e ti affiderò delle commissioni. Soprattutto, non dimenticare i dispacci. Che ogni giorno siano qui da me tutti i dispacci dall’Europa! Ma basta così; probabilmente ora hai sonno. Va’ a casa e non pensare a quello che ho detto sulla critica: non ne ho paura, perché essa stessa si trova in una situazione critica. Basta essere saggi e virtuosi per essere sicuramente innalzati su un piedistallo. Se non Socrate, almeno Diogene, oppure tutti e due insieme: ecco chi sarò in futuro per l’umanità».

Così, con leggerezza e molesta insistenza (vero è che aveva la febbre), Ivan Matveič si affrettava a esprimersi davanti a me, simile a quelle donnette dal carattere debole incapaci di mantenere un segreto. E poi tutto quello che aveva detto a proposito del coccodrillo mi era sembrato molto sospetto. Come può un coccodrillo essere completamente vuoto? Scommetto che si trattava di una smargiassata detta per vanità e in parte per umiliarmi. È vero che era un uomo malato e che i malati bisogna accontentarli, ma, lo confesso apertamente, non ho mai potuto soffrire Ivan Matveič. Per tutta la vita, fin da bambino, ho desiderato liberarmi della sua tutela senza mai riuscirvi. Mille volte sono stato sul punto di rompere con lui definitivamente, ma ogni volta mi sentivo di nuovo attratto da lui, come se continuassi a sperare di dimostrargli qualcosa, di vendicarmi per non so cosa. Davvero strana, questa amicizia! Posso dire con certezza che al novanta per cento gli ero amico per astio. Questa volta, però, ci salutammo con una certa emozione.

«Vostro amico uomo molto inteligente» mi disse sottovoce il tedesco accingendosi ad accompagnarmi; per tutto il tempo aveva ascoltato attentamente la nostra conversazione.

«À propos,» gli dissi «non vorrei dimenticarmi: quanto chiedereste per il vostro coccodrillo, se a qualcuno venisse in mente di comprarlo?».

Ivan Matveič aveva sentito la domanda e aspettava con curiosità la risposta. Era chiaro: non voleva che il tedesco chiedesse troppo poco; quantomeno dopo la mia domanda aveva emesso una specie di grugnito.

Dapprima il tedesco non volle neanche sentir parlare di vendita, e addirittura si infuriò.

«Nessuno potersi permettere comprare mio privato cocotrillo!» gridò con rabbia, arrossendo come un gambero bollito. «Io mai vendere mio cocotrillo! Per milione talleri no vendo mio cocotrillo. Oggi io preso dal publico un centotrenta talleri, diecimila prendo domani, poi centomila talleri ogni giorno. Io no vendo!».

Ivan Matveič, dal piacere, si mise perfino a ridacchiare.

A malincuore, in tono freddo e giudizioso – stavo compiendo il mio dovere di vero amico –, diedi a intendere a quello strampalato tedesco che i suoi calcoli non erano del tutto giusti, e se davvero avesse raccolto centomila talleri al giorno, in quattro giorni sarebbe andata da lui tutta Pietroburgo, dopo di che, di conseguenza, non avrebbe più incassato un solo tallero; dissi che della vita e della morte è padrone solo Dio, che un giorno o l’altro il coccodrillo poteva scoppiare, oppure Ivan Matveič ammalarsi e morire, e così via.

Il tedesco si fece pensieroso.

«Io prendo a lui gocce in farmacia,» disse dopo averci riflettuto «e vostro amico no morire».

«Le gocce, va bene,» dissi «ma considerate anche che potrebbe esserci un procedimento giudiziario. La moglie di Ivan Matveič può esigere la restituzione del suo legittimo sposo. Voi volete arricchirvi, capisco, ma intendete forse dare una qualche pensione a Elena Ivanovna?».

«No, io no intendere!» rispose con fermezza e severità il tedesco.

«No-o, no pensione!» gli fece eco la Mutter quasi con rabbia.

«E allora non sarebbe meglio intascare subito qualcosa, una somma ragionevole ma sicura e di tutto rispetto, invece che fare un salto nel buio? Considero mio dovere aggiungere che non ve lo chiedo solo per oziosa curiosità».

Il tedesco prese da parte la Mutter e si appartò con lei, per consigliarsi, nell’angolo dove c’era l’armadio con la scimmia più grande e mostruosa della sua collezione.

«Ora vedrai!» mi disse Ivan Matveič.

Quanto a me, in quel momento ardevo dalla voglia di pestare in primo luogo il tedesco, in secondo luogo e ancora più violentemente la Mutter, e in terzo luogo, lui a sangue, Ivan Matveič – per la smisuratezza del suo ego. Ma tutto questo era nulla in confronto alla risposta dell’avido tedesco.

Dopo essersi consigliato con la Mutter, per il suo coccodrillo chiese cinquantamila rubli in biglietti dell’ultimo prestito nazionale con lotteria, una casa di pietra con annessa farmacia in via Gorochovaja, e per giunta il grado di colonnello russo.

«Vedi!» gridò trionfante Ivan Matveič. «Te lo dicevo! A parte il suo ultimo, delirante desiderio di essere nominato colonnello, ha assolutamente ragione perché comprende appieno il valore attuale del mostro che esibisce. Il principio economico prima di tutto!».

«Ma per cortesia!» gridai furioso al tedesco.

«Perché mai dovrebbero farvi colonnello? Quali gesta eroiche avete compiuto, in quale servizio vi siete distinto, quale gloria militare avete conseguito? Ma vi rendete conto che siete pazzo?».

«Pazzo!» esclamò offeso il tedesco. «No, io essere uomo molto inteligente, e tu molto stupido! Io meritare colonello perché mostrato cocotrillo con dentro Hofrat vivo, e un russo no può mostrare cocotrillo con dentro Hofrat vivo. Io molto inteligente e molto voglio essere colonello!».

«Addio, Ivan Matveič!» gridai tremando di rabbia, e quasi di corsa mi precipitai fuori dalla stanza del coccodrillo. Sentivo che ancora un minuto e non avrei più potuto rispondere delle mie azioni. Le assurde speranze di quei due idioti erano intollerabili. L’aria fredda mi rinfrescò e placò alquanto la mia indignazione. Alla fine, dopo aver sputato energicamente a destra e a sinistra una quindicina di volte, presi una carrozza a nolo; arrivato a casa, mi spogliai e mi buttai sul letto. Più di tutto mi indispettiva essere finito a fargli da segretario. Ora mi toccava morire di noia lì da lui ogni sera, compiendo il mio dovere di vero amico! Ero pronto a picchiarmi per questo e difatti, dopo aver spento la candela ed essermi avvolto nella coperta, mi diedi qualche pugno sulla testa e in altre parti del corpo. Questo mi procurò un po’ di sollievo e finalmente, essendo molto stanco, mi addormentai di un sonno abbastanza profondo. Tutta la notte non sognai altro che scimmie, ma prima dell’alba mi apparve in sogno Elena Ivanovna...

IV

Le scimmie, suppongo, le avevo sognate perché erano chiuse nell’armadio dentro la stanza del coccodrillo, ma Elena Ivanovna era un capitolo a parte.

Lo dirò in anticipo: amavo quella signora; ma mi affretto – mi precipito, anzi – a precisare: la amavo come un padre, né più né meno. Lo deduco dal fatto che più d’una volta ho provato l’irresistibile desiderio di baciarla sulla testolina o sulla piccola guancia rosea. E anche se non l’ho mai fatto, lo confesso: non mi sarei rifiutato di baciare perfino le sue piccole labbra. E non tanto le labbra, quanto i dentini, che con grazia si mettevano in mostra, quasi una fila di belle perline scelte, quando rideva. E lei rideva incredibilmente spesso. Nei momenti di tenerezza Ivan Matveič la chiamava «mia dolce scioccherella», epiteto quanto mai giusto e caratteristico. Era una donna-zuccherino e niente di più. Per questo motivo non riesco proprio a capire come mai adesso a quello stesso Ivan Matveič fosse saltato in mente di vedere nella consorte la nostra Evgenija Tur russa. Il sogno, se non consideriamo le scimmie, produsse comunque in me un’impressione delle più gradevoli, e il mattino seguente, ripensando a tutti gli avvenimenti della vigilia davanti alla mia tazza di tè, decisi di fare subito, mentre andavo in ufficio, una capatina da Elena Ivanovna, cosa che del resto ero obbligato a fare anche in qualità di amico di famiglia.

In una minuscola stanza davanti alla camera da letto – la stanza che chiamavano salottino, benché fosse piccolo anche il loro salotto più grande –, seduta a un tavolino da tè, su un elegante divanetto e con indosso una vaporosa liseuse, Elena Ivanovna beveva il caffè da una piccola tazza in cui inzuppava un minuscolo biscottino. Era di una bellezza ammaliante, ma al tempo stesso mi sembrò anche un po’ pensierosa.

«Ah, siete voi, birichino!» mi salutò con un sorriso distratto. «Accomodatevi, buontempone, bevete il caffè. Che cosa avete fatto ieri sera? Siete andato al ballo in maschera?».

«E voi ci siete stata? Io non ci vado mai... Tra l’altro ieri sono andato a trovare il nostro prigioniero...».

Feci un sospiro e, bevendo il caffè, presi un’aria contrita.

«Chi? Quale prigioniero? Ah, sì, il poverino! E come sta? Si annoia? Sapete... volevo domandarvi... Adesso io posso chiedere il divorzio, vero?».

«Il divorzio!» gridai indignato e per poco non rovesciai il caffè. «Dev’essere per via di quel moretto...» pensai trame e me, furibondo.

Da noi, nella divisione edilizia, c’era un tipo – capelli scuri, baffetti – che andava a trovare Ivan Matveič e la moglie un po’ troppo spesso e aveva una straordinaria abilità nel far ridere Elena Ivanovna. Confesso che lo odiavo, e non v’era dubbio che già il giorno precedente si fosse incontrato con Elena Ivanovna, al ballo in maschera o magari anche lì a casa, e le avesse raccontato chissà quali sciocchezze!

«Perché insomma,» disse all’improvviso e in gran fretta Elena Ivanovna, come se qualcuno le avesse suggerito le parole «lui starà lì nel coccodrillo e magari non tornerà più da me per tutta la vita, e io dovrei stare qui ad aspettarlo?! Un marito dovrebbe abitare nella sua casa, non in un coccodrillo...».

«Ma è stato un caso del tutto imprevisto» cominciai a spiegarle in preda a una comprensibile emozione.

«Oh, no, non ditelo, non voglio, non voglio!» si mise a gridare andando improvvisamente in collera. «Siete sempre contro di me, cattivo! Non c’è nulla da fare, non mi darete mai un consiglio! Perfino gli estranei mi dicono che otterrò il divorzio perché Ivan Matveič non avrà più lo stipendio».

«Elena Ivanovna! Siete davvero voi a parlare così?» gridai in tono patetico. «Quale sciagurato può avervi detto questo? E poi un divorzio per un motivo inconsistente come lo stipendio è assolutamente impossibile. E il povero, povero Ivan Matveič brucia, per così dire, d’amore per voi, anche nelle viscere del mostro. Di più: si scioglie d’amore, come una zolletta di zucchero. Ancora ieri sera, mentre vi stavate divertendo al ballo in maschera, diceva che forse, in caso estremo, potrebbe farsi raggiungere da voi là, nelle sue latebre, in qualità di legittima consorte, tanto più che il coccodrillo, a quanto pare, può contenere non soltanto due ma addirittura tre persone...».

A quel punto le raccontai tutta quella parte interessante della mia conversazione del giorno prima con Ivan Matveič.

«Come sarebbe?» gridò sorpresa. «Volete che mi infili anche io là dentro, da Ivan Matveič? Ma cosa vi salta in mente?! E come farei a entrare nella bestia con il cappello e la crinolina? Signore Iddio, che stupidaggine! E che figura farò entrando là dentro mentre magari c’è qualcuno che guarda?... È ridicolo! E cosa mangerò? E... e cosa dovrei fare quando... oh mio Dio, che cosa sono andati a inventarsi!... E quali svaghi ci sono, là?... Dite che c’è odore di caucciù? E cosa dovrei fare nel caso che litigassimo, là dentro – restare comunque accanto a lui? Puah, è disgustoso!».

«Sono d’accordo, sono d’accordo con tutti i vostri argomenti, carissima Elena Ivanovna,» la interruppi cercando di esprimermi con il legittimo entusiasmo che sempre s’impadronisce di un uomo quando sente che la verità è dalla sua parte «ma in tutto questo non avete saputo apprezzare una cosa, e cioè che lui non può vivere senza di voi, dal momento che vi invita a raggiungerlo; si tratta dunque di amore, un amore appassionato, fedele, impetuoso... Non avete apprezzato l’amore, cara Elena Ivanovna, l’amore!».

«Non voglio, non voglio, non voglio neppure sentirne parlare!» ripeteva agitando la sua piccola, graziosa manina sulla quale brillavano le unghiette rosee, appena lavate e strofinate con lo spazzolino. «Siete un uomo odioso! Finirete per farmi piangere. Entrateci voi là dentro, se vi piace. Dopotutto siete suo amico, e allora andate a sdraiarvi accanto a lui per amicizia, e discutete per tutta la vita di noiosi problemi scientifici...».

«Sbagliate a ridere di questa ipotesi» interruppi con aria grave la bella sventata. «Ivan Matveič mi ha già invitato là dentro. Certo, voi siete chiamata dal dovere, io invece soltanto dalla generosità; ieri, parlandomi di quanto straordinariamente elastico sia il coccodrillo, Ivan Matveič ha chiaramente alluso al fatto che non solo per voi due, ma persino per me, in quanto amico di famiglia, potrebbe esserci posto, per stare tutti e tre insieme, specie se io lo volessi, e quindi...».

«Come sarebbe a dire “tutti e tre”?» esclamò Elena Ivanovna, guardandomi con sorpresa. «Cioè noi... tutti e tre insieme là dentro? Ah-ah-ah! Siete due stupidi, voi e mio marito! Ah-ah-ah! Là dentro non farei altro che darvi pizzicotti, caro il mio mascalzone, ah-ah-ah! Ah-ah-ah!».

E rovesciandosi sulla spalliera del divano scoppiò a ridere fino alle lacrime. Tutto questo – le lacrime, le risate – era così seducente che non riuscii più a trattenermi e cominciai a baciarle freneticamente le manine; mi lasciò fare, anche se dopo mi tirò leggermente le orecchie in segno di pace.

Poi diventammo entrambi di ottimo umore, e io le feci un racconto dettagliato dei progetti che Ivan Matveič mi aveva confidato il giorno prima. L’idea dei ricevimenti serali, di tenere un salotto, le piacque moltissimo.

«Mi serviranno però molte toilettes nuove,» osservò «e perciò Ivan Matveič dovrebbe mandarmi al più presto e quanto più possibile del suo stipendio. Ma... ma come faranno...» soggiunse perplessa «come faranno a portarlo qui da me, nella cassa? È molto ridicolo. Non voglio che mio marito venga portato in una cassa. Mi vergognerei moltissimo di fronte agli ospiti... Non voglio, no, non voglio».

«A proposito di ospiti, prima di dimenticarmene, ieri sera è venuto a trovarvi Timofej Semënyč?».

«Ah, sì; è venuto a consolarmi e, immaginate, abbiamo giocato a carte tutto il tempo. Se perdeva lui, mi dava delle caramelle; se perdevo io, mi lasciavo baciare le mani. Un tipo insopportabile, e figuratevi che per poco non mi accompagnava al ballo in maschera. Davvero!».

«È invaghito di voi,» osservai «e del resto chi non lo sarebbe, ammaliatrice!».

«Ricominciate con i complimenti... Aspettate, vi darò un pizzicotto come viatico. Sono diventata terribilmente brava a dare pizzicotti. E allora, che ne dite? A proposito, ieri Ivan Matveič ha parlato molto di me?».

«N-no, non così tanto... Vi confesso che ora pensa di più ai destini dell’umanità e vorrebbe...».

«Faccia pure! Non ditemi altro! Dev’essere di una noia tremenda. Uno di questi giorni andrò a trovarlo. Già domani, di sicuro. Ma non oggi: ho l’emicrania, e poi ci sarà così tanta gente... Diranno: “È sua moglie”, mi faranno vergognare... Addio. Voi stasera andrete... lì?».

«Sì, da lui, da lui. Mi ha ordinato di portargli i giornali».

«Va bene, allora. Andate e leggetegli i giornali. Non tornate da me oggi. Non mi sento bene, e forse andrò a fare una visita. E ora addio, birichino!».

«Stasera verrà a trovarla il moretto...» dissi in cuor mio.

In ufficio, ovviamente, non diedi a vedere che ero divorato da tutte quelle inquietudini e preoccupazioni. Ben presto, però, notai: certi giornali, i più progressisti, quella mattina passavano rapidamente di mano in mano tra i miei colleghi, che li leggevano con un’espressione oltremodo seria sul volto. Per primo mi capitò fra le mani il «Listok», un piccolo giornale di nessuna particolare tendenza, solo vagamente umanitario e che per lo più veniva disprezzato, benché tutti lo leggessero. Non senza sorpresa vi lessi quanto segue:

«Ieri nella nostra grande capitale, ornata di splendidi edifici, si sono diffuse voci quanto mai strane. Un certo N., noto buongustaio dell’alta società, probabilmente stanco della cucina di Borel e del club ***, entrò nel Passage, e nel negozio in cui si può vedere l’enorme coccodrillo recentemente portato a Pietroburgo pretese che gli venisse cucinato per pranzo. Dopo essersi accordato sul prezzo con il padrone, si mise immediatamente a mangiarlo (cioè, non il padrone, un tedesco molto pacifico e amante dell’ordine, ma il suo coccodrillo) – a mangiarlo ancora vivo, tagliandone via con un temperino i pezzi più succolenti e inghiottendoli con eccezionale velocità. Un po’ per volta tutto il coccodrillo scomparve nelle sue vaste viscere, e l’uomo si accingeva addirittura ad attaccare la mangusta, compagna inseparabile del coccodrillo, probabilmente supponendo che fosse altrettanto gustosa. Non abbiamo assolutamente nulla contro questo nuovo prodotto, conosciuto già da molto tempo dai buongustai stranieri. Lo avevamo addirittura previsto in anticipo. I lord e i viaggiatori inglesi, in Egitto, catturano intere partite di coccodrilli e consumano la parte dorsale della bestia sotto forma di bistecche, con senape, cipolle e patate. I tanti francesi che hanno seguito Lesseps in Egitto preferiscono invece le zampe cotte nella cenere calda, cosa che del resto fanno a dispetto degli inglesi che li prendono in giro. Verosimilmente, in Russia si apprezzeranno l’una cosa e l’altra. Dal canto nostro, ci compiacciamo di questo nuovo ramo dell’industria, poco sviluppata nella nostra potente e multiforme patria. Dopo questo primo coccodrillo scomparso nelle viscere del buongustaio pietroburghese non dovrebbe passare neanche un anno prima che ne vengano importati a centinaia. E perché non acclimatare il coccodrillo in Russia? Se le acque della Neva sono troppo fredde per questi interessanti forestieri, abbiamo qui, nella nostra capitale, molti stagni, e fuori della città abbiamo fiumiciattoli e laghi. Perché, per esempio, non allevare coccodrilli a Pargolovo o a Pavlovsk, oppure a Mosca stessa, negli stagni della Presnja e della Samotëka? Oltre a fornire un cibo gradevole e sano ai nostri più raffinati gourmet, i coccodrilli potrebbero allo stesso tempo costituire uno svago per le signore che passeggiano intorno agli stagni, e la loro presenza potrebbe insegnare ai bambini la storia naturale. Con la pelle di coccodrillo si potrebbero confezionare astucci, valigie, portasigarette e portafogli, e forse più di un migliaio di rubli, in quei biglietti unti e bisunti che sono i preferiti dai nostri mercanti, potrebbero adagiarsi in una morbida pelle di coccodrillo. Ci auguriamo di tornare più volte su questo interessante argomento».

Benché avessi previsto qualcosa del genere, mi turbò la tempestività della notizia. Non trovando con chi dividere le mie impressioni, mi rivolsi a Prochor Savič, che sedeva di fronte a me; mi accorsi che mi stava guardando già da un pezzo e che teneva il «Volos» tra le mani come accingendosi a passarmelo. In silenzio prese il «Listok» che gli porgevo e passandomi il «Volos» fece un segno profondo con l’unghia sull’articolo che evidentemente intendeva sottoporre alla mia attenzione. Questo Prochor Savič era un tipo molto strano: vecchio scapolo silenzioso, non intratteneva rapporti con nessuno di noi e in ufficio non parlava quasi con nessuno, aveva sempre una sua personale opinione su tutto ma non aveva il minimo desiderio di comunicarla a chicchessia. Viveva da solo. Quasi nessuno di noi era mai stato a casa sua.

Ecco quello che lessi nel punto da lui marcato con l’unghia: «Tutti sanno che siamo progressisti e umanitari, che vogliamo stare al passo con l’Europa. Ma nonostante tutta la nostra buona volontà e gli sforzi del nostro giornale, siamo ancora lontani dall’essere “maturi”, come dimostra il fatto scandaloso accaduto ieri al Passage e che noi avevamo pronosticato. Un imprenditore straniero arriva nella nostra capitale portando con sé un coccodrillo e comincia a mostrarlo al pubblico del Passage. Noi ci siamo affrettati a salutare questa nuova branca della vita economica e commerciale, in generale carente nella nostra così forte e multiforme patria. Ma ecco che ieri, improvvisamente, alle quattro e mezza del pomeriggio si presenta nel negozio dell’imprenditore straniero un uomo eccezionalmente grasso, in stato di ubriachezza, paga l’ingresso e subito, senza alcun preavviso, entra nelle fauci del coccodrillo, il quale, s’intende, è costretto a inghiottirlo, non fosse che per istinto di sopravvivenza, per non soffocare. Penetrato all’interno del coccodrillo, lo sconosciuto vi si addormenta all’istante. Né le grida dell’imprenditore straniero, né le urla dei familiari sbigottiti, né le loro minacce di rivolgersi alla polizia hanno prodotto alcun effetto. Dall’interno del coccodrillo si sentono soltanto risate e propositi di regolare la questione a suon di frustate (sic!), e il povero mammifero, costretto a ingoiare una tale massa di carne umana, versa invano copiose lacrime. “Un ospite non invitato è peggio di un tataro” si dice, ma ad onta del proverbio l’impudente visitatore non vuole uscire. Non sappiamo come spiegarci simili fatti barbari, che testimoniano la nostra immaturità e ci screditano agli occhi degli stranieri. La larghezza dell’anima russa ha trovato un terreno propizio. Ci si chiede: che cosa cercava l’ospite non invitato? Un luogo caldo e confortevole? Ma la nostra capitale è piena di belle case con appartamenti a buon mercato e molto comodi, con acqua corrente che viene dalla Neva e scale illuminate a gas, case che spesso i proprietari dotano di un portiere. Vogliamo anche richiamare l’attenzione dei nostri lettori sul modo barbaro di trattare gli animali domestici: per un coccodrillo straniero in tournée è certamente arduo digerire in un sol colpo una simile massa, e ora giace, gonfio come un otre, aspettando la morte in preda a sofferenze intollerabili. In Europa ormai da tempo viene perseguito giudizialmente chi tratta in modo inumano gli animali domestici. Ma nonostante l’illuminazione di tipo europeo, i marciapiedi di tipo europeo, la concezione europea delle case, ci vorrà molto tempo per abbandonare i nostri cari e vecchi pregiudizi.

Nuove le case, vecchi i pregiudizi...

ma perfino le case, o quantomeno le scale, nuove non sono. Abbiamo già segnalato più volte nel nostro giornale che nella casa del mercante Luk’janov, alla Peterburgskaja storona, i gradini della scala di legno sono marci, sfondati, e rappresentano un pericolo per Afim’ja Skapidarova, moglie di soldato, che dal suddetto Luk’janov si trova a servizio ed è spesso costretta a usare quella scala portando l’acqua o una bracciata di legna da ardere. Le nostre previsioni si sono infine avverate: ieri sera, alle otto e mezza, la Skapidarova è caduta mentre portava una zuppiera con la minestra e si è rotta una gamba. Non sappiamo se ora Luk’janov farà riparare la sua scala; l’uomo russo si denota per il suo esprit de l’escalier, ma la vittima dell’uomo russo forse si trova già in ospedale. Allo stesso modo non ci stancheremo di dirlo: i portinai che con la scopa liberano dall’immondizia i marciapiedi di legno nella Vyborgskaja storona non dovrebbero insozzare i piedi dei passanti, ma raccogliere invece la sporcizia in piccoli mucchi, analogamente a quanto fanno in Europa quando puliscono gli stivali, ecc. ecc.».

«Cos’è mai tutto questo,» dissi guardando Prochor Savič con un certo stupore «cos’è?».

«Cos’è cosa?».

«Vivaddio, questi compatiscono il coccodrillo invece di Ivan Matveič».

«E allora? Hanno compatito persino un animale, un mammifero. In cosa saremmo dunque peggio dell’Europa? Anche lì hanno molta pietà dei coccodrilli. Ih-ih-ih!».

Detto questo, lo strambo Prochor Savič tornò alle sue carte e non aprì più bocca.

Mi ficcai in tasca il «Volos» e il «Listok». Presi inoltre, per procurare un po’ di svago a Ivan Matveič, tutti i vecchi numeri delle «Izvestija» e del «Volos» che riuscii a trovare, e anche se a sera mancava ancora parecchio me la svignai dall’ufficio un po’ prima, questa volta, per andare al Passage e vedere, magari da lontano, che cosa succedeva, per orecchiare le diverse opinioni e tendenze. Prevedevo che ci sarebbe stata una vera e propria ressa e, per sicurezza, nascosi il più possibile il viso nel bavero del cappotto: per qualche motivo mi vergognavo un po’ – a tal punto non siamo abituati alla pubblicità. Ma sento che non ho il diritto di parlare delle mie prosaiche sensazioni personali di fronte a un così straordinario e originale avvenimento.

NOTE

 

 

 

Il racconto era inizialmente intitolato «Il marito inghiottito dal coccodrillo». Come «Un avvenimento straordinario ovvero impasse nel Passage» – così abbiamo tradotto il gioco di parole tra passaž («pasticcio», «guaio», «evento imprevisto e spiacevole») e Passaž («Galleria») – venne pubblicato per la prima volta nella rivista «Epocha» (2, 1865). Come Il coccodrillo apparve nella prima edizione autonoma del racconto (F. Stellovskij, Sankt-Peterburg, 1866).

In Qualcosa di personale (1873), pubblicato nel Diario di uno scrittore e scritto soprattutto come indispettita risposta ai critici che mettevano I demòni nel novero dei molti (mediocri) romanzi antinichilisti dell’epoca, Dostoevskij ricordò le false interpretazioni («parodia di Černyševskij», ecc.) date a suo tempo del Coccodrillo. «Quel racconto scherzoso» scrisse tra l’altro «è incompiuto. Un giorno lo porterò a termine, anche se l’ho già dimenticato e dovrei rileggerlo». È lecito dubitare che lo avrebbe mai portato a termine: aveva appena pubblicato I demòni, si accingeva a scrivere L’adolescente, quindi sarebbe venuto I fratelli Karamazov. Altrettanto lecito è dubitare che il racconto fosse davvero incompiuto: nulla, nei pur consistenti abbozzi del Coccodrillo, lascia intravedere un suo possibile sviluppo.

 

 

Passage: una delle prime gallerie commerciali di Pietroburgo, inaugurata nel 1848, lungo il Nevskij prospekt. Il piano terra dell’edificio ospitava negozi, il primo piano locali commerciali e il secondo appartamenti.

«Ohé Lambert! Où est Lambert? As-tu vu Lambert?»: un diffusissimo nonsense francese dell’epoca, un «refrain meccanico» (E. Goncourt) dall’origine incerta, attestato per la prima volta nell’estate del 1864. Tra le spiegazioni possibili: il 9 agosto di quell’anno una signora avrebbe smarrito il marito e avrebbe chiesto a chiunque incontrava: «Dov’è Lambert? Hai visto Lambert?».

Il tedesco padrone del coccodrillo: Julius Gebhardt, che in seguito avrebbe creato il primo giardino zoologico di Pietroburgo.

«mein allerliebster Karlchen! Mutter, Mutter, Mutter!»: «il mio adorato Carletto! Mamma, mamma, mamma!».

«Unser Karlchen, unser allerliebster Karlchen wird sterben!»: «il nostro Carletto, il nostro amatissimo Carletto morirà!».

«das war mein Sohn, das war mein einziger Sohn»: «era mio figlio, era il mio unico figlio».

il signor Lavrov: Pëtr Lavrovič Lavrov (1823-1900), filosofo, storico, teorico del populismo rivoluzionario.

del signor Stepanov: Nikolaj Aleksandrovič Stepanov (1807-1877), caricaturista, redattore, editore delle riviste satiriche e di tendenza democratica «Iskra» (La scintilla) e «Budil’nik» (La sveglia).

«Mein Vater» ... in «ganz» Europa: «mio padre mostrava il coccodrillo, mio nonno mostrava il coccodrillo, mio figlio mostrerà il coccodrillo... Io sono conosciuto in tutta l’Europa...».

«fünfzig»: «cinquanta».

«Gott sei Dank!»: «Grazie a Dio!».

nelle «Peterburgskie izvestija» e nel «Volos»: Dostoevskij modifica ironicamente i nomi dei giornali «S.-Peterburgskie vedomosti» (Il messaggero di San Pietroburgo), il primo quotidiano a uscire regolarmente in Russia, e «Golos» (La voce), di tendenze liberali.

La comunità contadina è un veleno: la obščina (dall’aggettivo obščij, «comune») era una proprietà collettiva locale autonoma, simile a una cooperativa, che riuniva contadini (a esclusione dei servi della gleba, i quali dipendevano da un proprietario) e si occupava della distribuzione delle terre, del pagamento delle tasse, ecc.

non come «Il figlio della patria»: «Syn otečestva» (Il figlio della patria), rivista (per lo più settimanale) di politica, storia e letteratura pubblicata a Pietroburgo dal 1812 al 1852.

un qualunque Garnier-Pagesik: Louis-Antoine Pagès (1803-1878), uomo politico francese che prese parte alla rivoluzione del luglio 1830.

il dizionario enciclopedico a cura di Andrej Kraevskij: il Dizionario Enciclopedico, compilato da studiosi e letterati russi. Il primo volume uscì nel 1861 sotto la direzione di A.A. Kraevskij (si veda la nota successiva).

se Andrej Aleksandrovič...: A.A. Kraevskij (1810-1889), editore e redattore capo di «Otečestvennye zapiski» (Annali patrii), poi fondatore nel 1863 del giornale politico-letterario «Golos». Si guadagnò presto la fama di uomo cinico e avido che sfruttava i suoi collaboratori. Il paragone con de Musset è chiaramente ironico.

la nostra Evgenija Tur russa: Evgenija Tur era lo pseudonimo di Elizaveta Salias de Tournemir (1815-1892), scrittrice russa (nata Suchovo-Kobylina) nel cui salotto si riunivano letterati e scienziati. Il suo nom de plume richiamava il nome del marito, il conte Henri Adoue de Sailhas de Tournemire, conosciuto a Parigi. Il conte la seguì in Russia, ma dopo pochi anni dovette fuggirne a causa di un duello.

fannullone: ho tradotto così ležeboka («pelandrone», «scansafatiche»), sostantivo derivato da «ležat’ na boku», letteralmente «starsene sdraiati su un fianco» (in questa posizione stava in effetti Ivan Matveič nel coccodrillo), e nell’uso fraseologico «poltrire», «oziare».

Sono le creature selvagge quelle che amano l’indipendenza...: dalla novella di N. Karamzin Marfaposadnica, ili pokorenie Novagoroda (Maria la moglie del podestà, ovvero la conquista di Novgorod, 1802), dove suona: «I popoli selvaggi amano l’indipendenza, quelli saggi amano l’ordine».

«Hofrat»: «consigliere politico»; qui la parola è usata nel senso di «funzionario».

«Listok»: ossia il «Peterburgskij listok» (Il foglietto di Pietroburgo), quotidiano di vita cittadina e letteratura.

cucina di Borel: allusione al rinomato ristorante dello chef francese Borel, frequentato dall’élite di Pietroburgo.

Lesseps: Ferdinand de Lesseps (1805-1894), diplomatico e imprenditore francese che durante la lunga permanenza in Egitto in qualità di console progettò il canale di Suez.

Nuove le case, vecchi i pregiudizi...: il verso è tratto da Che disgrazia l’ingegno! di A.S. Griboedov.

Peterburgskaja storona ... Vyborgskaja storona: quartieri di Pietroburgo.