giovedì 29 settembre 2022

LEGGENDO SHAKESPEARE G.K. Chesterton



LEGGENDO SHAKESPEARE

G.K. Chesterton

PRESENTAZIONE 

Di Valentina Vetri 

[...]Molto spesso, con poche espressioni, riesce a rendere chiari e comprensibili passaggi sui quali i critici hanno speso migliaia di parole. Questa splendida qualità di sintesi propria di Chesterton non coincide mai con la semplificazione o con l’appiattimento. Si ha l’impressione, leggendo anche poche righe su Riccardo III o su Amleto, di aver davanti agli occhi una lettura fresca, originale e soprattutto meditata delle opere trattate; quel che è ancora più interessante è che gli stessi drammi scespiriani, e in particolar modo i personaggi di Shakespeare, dopo la lettura di Chesterton, acquistano nuova vividezza e vitalità.[...]


Chesterton aveva in programma negli ultimi anni della sua vita, di scrivere un volume interamente dedicato a Shakespeare, così come aveva già fatto con Chaucer o Stevenson. Purtroppo gliene mancò il tempo, e morì prima di realizzare questo progetto che gli stava particolarmente a cuore. Se è mancato un volume unitario, dunque, che raccogliesse le riflessioni chestertoniane sul Gigante Inglese, quel che abbiamo a parziale consolazione sono le centinaia di interventi – pubblicati su riviste, quotidiani e anche nei suoi libri – che riguardano proprio l’opera di Shakespeare.

Questo volume si è proposto di raccogliere questi interventi, e di cucirli insieme in modo che il lettore possa apprezzarne l’intelligenza e l’originalità, e soprattutto perché da essi si evince quanto Chesterton conoscesse e sapesse divulgare, con la sua consueta semplicità che mai sconfina in banalità, le opere anche più difficili e più controverse del Bardo di Avon.

Si potrebbe pensare che il carattere di frammentarietà di questi testi non giovi all’approfondimento, e che sia un elemento di difficoltà o che una certa incompletezza ne sia naturale conseguenza; questo giustificabile timore è smentito non appena ci si addentra nel testo, principalmente per due ragioni. Innanzitutto una delle caratteristiche tipiche di Chesterton, che testi di questo tipo mettono in particolare luce, è la concisione: come è noto, Chesterton era nemico della verbosità, ma amico della parola precisa. Molto spesso, con poche espressioni, riesce a rendere chiari e comprensibili passaggi sui quali i critici hanno speso migliaia di parole. Questa splendida qualità di sintesi propria di Chesterton non coincide mai con la semplificazione o con l’appiattimento. Si ha l’impressione, leggendo anche poche righe su Riccardo III o su Amleto, di aver davanti agli occhi una lettura fresca, originale e soprattutto meditata delle opere trattate; quel che è ancora più interessante è che gli stessi drammi scespiriani, e in particolar modo i personaggi di Shakespeare, dopo la lettura di Chesterton, acquistano nuova vividezza e vitalità.

In secondo luogo, leggendo questi brani che spesso sono tratti da articoli il cui argomento principale non è letterario e men che meno scespiriano, ci si accorge di quanto Shakespeare faccia parte del bagaglio culturale chestertoniano e più in generale di quello della società britannica; Shakespeare è, per Chesterton, un compagno quotidiano, e non un autore polveroso da citare solo in abiti squisitamente letterari. È lo stesso Chesterton a raccontare che fin da piccolo aveva provato una speciale attrazione nei confronti dei versi di Shakespeare, pur non comprendendone ancora il significato profondo; egli era attratto, dice, in primis dal suono di quelle parole, che esercitavano su di lui una fascinazione quasi magica. Avviene infatti proprio questo con le grandi opere di genio, e cioè che esse nella loro primaria bellezza esse sappiano parlare a tutti, adulti e non, colti e non, perché si rivolgono certamente a tutta l’umanità, facendo risuonare quel che tutti abbiamo nel profondo e in cui tutti ci riconosciamo.

Chesterton ha anche il grande merito, in queste pagine brillanti, di strappare Shakespeare dagli scaffali polverosi in cui spesso viene relegato e riportarlo sulle strade di campagna della vecchia periferia di Londra, o su quelle affollate e rumorose del centro, a suo agio fra i contadini e i guidatori di cocchi; leggendo Chesterton, capiamo quanto sia vero il titolo del famoso saggio di Jan Kott: “Shakespeare, nostro contemporaneo”.

Anche Chesterton però, oggi più che mai, è o dovrebbe essere nostro contemporaneo. Rileggerlo aiuta a pensare a quanto la cultura oggi come un tempo dovrebbe essere ravvivata, rinfrescata, resa feconda persino nei giornali e nei quotidiani. Guardando all’esempio di Chesterton ci accorgiamo senza alcun dubbio di quanto la cultura e specialmente la letteratura possano essere espresse senza la necessità di trasformarle in argomenti da erudito, ma possano essere invece trattate con la semplicità, la leggerezza e l’ironia che vediamo impiegate da Chesterton.

Se una cosa infatti sentiamo, alla fine della nostra lettura, è questa: che a Chesterton Shakespeare piaceva da matti; ne traeva insegnamento per la sua vita interiore, ma era anche per lui fonte di autentico piacere e godimento, non solo per gli straordinari concetti da lui espressi, per la profondità dei suoi drammi, per la complessità delle psicologie dei personaggi, ma anche per la originalità di talune immagini visive, per la creatività nell’uso del linguaggio, per il semplice suono di certi suoi versi, per la straordinaria capacità di Shakespeare di raccontare l’uomo all’uomo senza infingimenti. Questo autentico piacere della lettura giunge anche a noi, grazie a Chesterton, che ci fa un doppio regalo: la felicità di leggere le sue riflessioni e quella di voler correre a rileggere il Bardo.

I QUATTRO CAPITOLI IN CUI È SUDDIVISO il volume trattano di quattro argomenti principali: il primo raccoglie i saggi in cui Chesterton parla di Shakespeare come del vero grande autore inglese, quello che più ha lasciato il segno nella cultura e nella letteratura britanniche; il secondo capitolo tratta invece di alcune delle opere più conosciute di Shakespeare, fra cui Macbeth e Amleto. Il terzo capitolo raccoglie gli interventi che toccano l’assai dibattuto tema del credo religioso di Shakespeare, mentre per concludere il volume si è scelto un saggio che mostra quanto il teatro contemporaneo debba ancora a Shakespeare, e quanto quel che sembra vecchio e superato sia in realtà sempre capace di risorgere e rinnovarsi in tempi anche assai diversi. Si sono inserite a piè di pagina alcune note esplicative, per rendere comprensibili alcuni passaggi e per aiutare il lettore a identificare i versi di Shakespeare cui Chesterton si riferisce.

V.V.

Capitolo 1
Entra Shakespeare

Shakespeare è così grande da nascondere l’Inghilterra

CHE SHAKESPEARE SIA IL GIGANTE INGLESE, che non vi sia quasi nessuno alla sua altezza fra tutti i figli dell’uomo, è una verità che non dà cenni di volersi affievolire col passare degli anni; è però una verità con due facce, uno scudo a due lati, una spada a doppia lama. È proprio perché è un tale gigante, che la storia inglese ne esce quasi oscurata in prospettiva: egli è di grandezza sproporzionata per la sua epoca quanto per le altre, ma finisce col gettare una luce che disorienta sulla sua epoca e un’ombra su tutte le altre.

Per questa ragione in molti non mi comprenderanno quando parlo dell’ampiezza d’eco che il Poeta medievale [cioè Chaucer] origina e spande intorno a sé; a ogni modo, se dovessimo metterci a far paragoni, potrei spiegarmi meglio servendomi di un altro grande poeta medievale. È fatto dato quasi per certo, seppur implicitamente, che Shakespeare fosse sempre allegro e Dante sempre cupo, ma – da un punto di vista filosofico – è vero il contrario: la cosa diviene evidente se utilizziamo Dante per mettere alla prova Shakespeare.

Non sentiamo forse nei nostri cuori che Shakespeare avrebbe potuto competere con Dante nella scrittura dell’Inferno, ma difficilmente in quella del Paradiso? Ammettendo che sia possibile produrre un’opera di maggior grandezza di una già grandiosa, l’uomo che ha scritto Romeo e Giulietta avrebbe potuto trasformare la vicenda di Paolo e Francesca in qualcosa di ancor più struggente. L’uomo che scrisse quella terribile, disperata frase «Egli non ha figli» – dopo il massacro nella casa di McDuff – avrebbe potuto scegliere parole ancor più strazianti e significative per raccontare l’urlo di disperazione del conte Ugolino. E in verità la Torre della Fame non ha vastità di eco; quando però Dante racconta della danza delle virtù finalmente libere nelle altezze sconfinate dei cieli, ecco che sentiamo quell’eco di vastità. La sentiamo quando parla della Libertà; la sentiamo quando parla dell’eterno Amore; la sentiamo in quelle famose parole sull’Amore «che move il sole e l’altre stelle»; quell’eco è presente anche in un altro passaggio – meno conosciuto e più sublime – nel quale egli loda Dio nella sua magnanimità per aver dato allo spirito dell’uomo l’unico dono che sia degno di essere considerato tale: la Libertà. Solo uno sciocco può sostenere che Shakespeare sia stato un pessimista; ma potremmo dire, e solo limitatamente a questo aspetto, che vi era in lui qualcosa di pagano: nel fatto che raggiunge il massimo della sua grandezza quando descrive gli spiriti di grandi uomini in catene. In questo senso, i suoi drammi più seri sono un Inferno, o, comunque, non sono un Paradiso.

*

I più grandi poeti del mondo possiedono una certa serenità, perché non si son dati la pena di inventare qualche nuova e piccola teoria filosofica, ma ne hanno ereditata una maggiore. Nove volte su dieci è una filosofia che uomini di grande levatura condividono con gli uomini comuni, e di conseguenza non è una teoria che attragga l’attenzione, perché non ha l’aspetto di una «teoria». In questi giorni, in cui il signor Bernard Shaw sta gradualmente assurgendo – fra il plauso generale – a Gran Maestro della letteratura inglese, è forse scortese che io ricordi una sua affermazione di qualche tempo fa, in cui sosteneva che non vi fosse nessuno – forse con l’eccezione di Omero – la cui intelligenza egli disprezzasse di più di quella di Shakespeare. Da allora il signor Shaw ha detto abbastanza cose sensate da controbilanciare l’enorme stupidità di questa, ma la cito solo perché rappresenta esattamente il modo di pensare del Diciannovesimo secolo. È assai probabile che Shaw non abbia mai letto Omero, e considerando alcuni dei suoi scritti critici su Shakespeare viene il sospetto che non abbia mai letto neanche Shakespeare, ma a ogni buon conto il punto è che Shaw non sapeva vedere, in tutta sincerità, quello che il resto del mondo vedeva in Shakespeare, perché quello che il mondo vedeva non era quello che Shaw andava cercando.

Shaw cercava quella cosa oscena che i non conformisti1 chiamano «messaggio», e che continuano a chiamare messaggio anche quando sono diventati atei e di conseguenza non sanno da chi provenga questo messaggio.

Cercava un sistema, uno di quei meschini sistemi di cui ormai abbiamo avuto abbastanza. Il sistema di Kant, il sistema di Hegel, il sistema come era per Schopenhauer e Nietzsche e Marx e tutti gli altri.

In ognuno dei casi che ho citato, un uomo s’era levato dalla massa, convinto di aver avuto un pensiero che nessun altro aveva avuto prima di lui. Ma il poeta, se è grande, dichiara di esprimere solo il pensiero che tutti hanno sempre avuto. La grandezza di Omero non sta nel provare, con la morte di Ettore, che la Volontà di Vivere è illusione e inganno; e nemmeno nel provare, con la vittoria di Achille, che la Volontà di Potere debba esprimersi in un Superuomo, perché Achille non è affatto un Superuomo ma, al contrario, un eroe. La grandezza di Omero sta nel fatto che sapeva far sentire agli uomini quello che erano quasi pronti a pensare, e cioè che la vita è uno strano mistero in cui un eroe può vagare per il mondo e un altro fallire. Il poeta fa comprendere agli uomini quanto grandi siano le grandi emozioni che loro stessi, nel loro piccolo, hanno già sperimentato.

Qualsiasi uomo che abbia cercato di tener in piedi qualcosa, che si tratti di un piccolo club o di un giornale o anche di una manifestazione politica di protesta, sente risuonare le profondità della sua anima all’udire quella famosa frase, la cui efficacia è indebolita dalla traduzione: «Davvero nel mio cuore e nell’anima so che Troia cadrà». Qualsiasi uomo che si guardi indietro, rivolgendosi ai tempi passati, pensando a se stesso e agli altri, e si accorga dei cambiamenti che vessano quel qualcosa dentro ognuno di noi che non può soffrire il cambiamento, comprende allora meglio l’immensità del senso di sé ascoltando il suono di quelle parole in greco che significano: «Perché anche tu, vecchio mio, un tempo sei stato felice».

Queste parole sono poesia, e per questo non hanno bisogno di spiegazione: ma forse esistono persone per cui persino le parole di Shakespeare debbono essere tradotte. In ogni caso, quel che si impara da Romeo e Giulietta è di non chiamare il primo amore infatuazione, e non chiamare nemmeno l’amore passeggero capriccio, ma capire che queste cose che milioni di uomini volgari hanno involgarito non sono volgari affatto.

Il grande poeta esiste per mostrare all’uomo comune quanto sia grande. Da Amleto non si impara la psicanalisi o come si curino in maniera appropriata i malati di mente, si impara invece a non disprezzare l’anima di nessuno come fosse piccola cosa, anche quando critici piuttosto femminei dicono che la volontà è debole2. Come se la volontà potesse mai essere forte abbastanza per affrontare i compiti che la sfidano in questo mondo! Solo il grande poeta è forte a sufficienza da saper stimare quella potenza in frantumi che chiamiamo debolezza dell’uomo.

È stato solo fino a poco tempo fa, in un recente e agitato periodo di transizione, che si è creduto che ogni scrittore dovesse per forza elaborare una nuova teoria onnicomprensiva, o disegnare una nuova mappa del mondo. Agli scrittori di un tempo bastava scrivere del mondo di un tempo, ma raccontandolo con una ricchezza immaginativa e una freschezza tali da farlo sembrare un mondo nuovo. Prima dell’epoca di Shakespeare gli uomini si erano abituati all’astronomia tolemaica, e quelli venuti dopo Shakespeare si abituarono all’astronomia copernicana. Ma i poeti non si sono mai abituati alle stelle, e il loro compito è impedire che gli altri vi si abituino. E ogni uomo che legga per la prima volta «si sono consumate le candele della notte»3, trattiene il fiato e quasi si maledice per non aver guardato prima e con maggior attenzione, o più spesso, alla magnifica e misteriosa alternanza di notte e giorno.

Le teorie presto diventano stantie, ma le cose rimangono fresche. E, secondo l’antica idea della funzione del poeta, egli si occupa esclusivamente delle cose: delle lacrime delle cose, come nel doloroso racconto di Virgilio; della gioia nascosta nelle tante cose, come nella rima leggera e allegra di Stevenson; della gratitudine per le cose come nel Cantico del sole di Francesco o nel Benedicite, omnia opera. Che dietro a queste cose vi siano certe innegabili verità è cosa certa; e tutti gli infelici che non credono in queste verità possono certo contentarsi di chiamarle «teorie». I poeti di allora, però, non pensavano di dover competere l’uno con l’altro o sfidarsi nella produzione di teorie opposte. L’arrivo della concezione cosmica cristiana fece grande differenza, e il poeta cristiano scoprì una speranza più fulgida rispetto al poeta pagano. E, persino nella maggiore austerità, era sempre meno triste.

Ma, tenendo conto di quel cambiamento che era ben più che umano, i poeti rimasero fedeli alla tradizione di una volta, senza vergognarsene affatto. Ognuno insegnava a modo suo, «con una piccola e continua originalità», come diceva Aristotele, ma non erano una frotta di eccentrici separati l’uno dall’altro alla ricerca di mondi diversi. Non c’era uno che offrisse un paio di lenti da vista colorate per far sembrare l’erba blu, o un altro che si mettesse a dare lezioni di ottica e prospettiva per dimostrare alla gente che l’erba era arancione, ma tutti avevano il compito – assai più difficile ed eroico – di far sentire alla gente che l’erba è verde. Ed è proprio perché loro hanno continuato ad assumersi questo compito eroico che il mondo, trascorse le epoche di dubbio e di disperazione, si rinnova e diventa sempre più verde.

La vicenda della vita e della morte di Riccardo II è probabilmente lo specchio della tragedia della storia inglese, e di certo è la tragedia della monarchia inglese. Questo aspetto è stato poche volte messo in chiara luce, principalmente a causa di due pregiudizi che impediscono agli uomini di riflettervi sopra in modo disinteressato e diretto. Il primo pregiudizio deriva dal fatto che, nonostante i fatti risalgano a più di cinquecento anni fa, sembra che non sia possibile non farne una questione di posizioni politiche: Shakespeare, al tempo dei Tudor, usò la storia di Riccardo per esaltare una sorta di diritto divino della monarchia, mentre gli scrittori successivi, ai tempi di tutti i re Giorgio, se ne servirono per sminuirlo. La cosa curiosa è che nessuno ha mai notato che il povero Riccardo non aveva mai neanche lontanamente sostenuto il concetto di diritto divino, e nei primi anni del suo regno sosteneva al contrario quei diritti che per noi molto tempo dopo sono diventati la normalità, e che potremmo chiamare – certo, relativamente – i diritti della democrazia.

L’origine di questa cecità sta nel secondo pregiudizio, cui accennavo prima. È un pregiudizio straordinario, a volte identificato con il concetto di progresso, e cioè la percezione che il mondo con il passare dei secoli diventi sempre più liberale e di conseguenza che non sia possibile la sussistenza di ideali diffusissimi in un tempo antico e successivamente dimenticati. Il caso di Riccardo II potrebbe essere usato per distruggere proprio questa errata convinzione.

Intendiamoci, egli era un re ben lontano dalla perfezione, prese iniziative che permettono di certo ai parlamentaristi moderni di dipingerlo come un despota, ma se lo paragoniamo con molti dei suoi contemporanei e con la maggior parte dei suoi successori, fu un governante democratico. Di certo tentò d’aiutare la corrente più democratica del tempo e di certo gli fu impedito di continuare a farlo. Shakespeare ha per lui sincera simpatia, ma Shakespeare non aveva in simpatia quello che al giorno d’oggi la gente troverebbe degno di simpatia. Non menziona nemmeno il fatto che il principe, che egli rappresenta mentre si dispera per l’insulto arrecato alla sua corona e si appella alla sacra immunità del suo crisma, aveva in gioventù affrontato una marmaglia di schiavi ribelli e chiassosi, offrendosi d’essere il loro capo, il vero demagogo della nuova democrazia, e aveva promesso loro d’ascoltare ed esaudire le loro richieste; aveva poi lottato disperatamente con i nobili per far sì che quelle richieste venissero accolte, e infine era stato messo in minoranza e costretto ad abbandonare la causa popolare proprio da quei baroni insolenti che presto gli avrebbero imposto di abbandonare anche il trono.

Se ci domandiamo perché il grande drammaturgo fosse cieco davanti alla vicenda più drammatica di tutte, quella in cui il giovane re si mette a guida del popolo oppresso, non fatichiamo a trovare una spiegazione, ed è questa: l’intera teoria secondo cui «i pensieri degli uomini vanno ingrandendosi con il girar dei soli»4 è una sciocchezza da ignoranti. Ma come farebbero i soli ad ampliare la mente degli uomini? La spiegazione è che gli uomini dei tempi di Shakespeare capivano di ideali democratici assai meno di quelli dei tempi di Chaucer. I Tudor erano interessati – come d’altronde Shakespeare nella sua tragedia storica – all’esaltazione mistica, tipicamente secentesca, del Principe: era molto più probabile che un’esaltazione mistica per il popolo esistesse nel 1300. Il Riccardo di Shakespeare è religioso, tanto da definirsi l’unto del Signore. Il vero Riccardo con tutta probabilità si sarà rivolto al popolo chiamandolo il gregge del Signore.

Shakespeare, grande e pieno d’umanità come fu, vede in Riccardo solo il re insultato, e sembra tenere in scarsa considerazione i sudditi di Riccardo, così come i sudditi di Lear. Ma Riccardo pensava eccome ai sudditi di Riccardo. Aveva all’inizio del suo regno cercato di essere un re del popolo nel significato di capo del popolo.

Il Rinascimento esaltava sì il Poeta ma ancor di più il Principe, e non si occupava un gran che dei contadini e dei poveri, e proprio per questo il più grande figlio del Rinascimento, pur avendo composto migliaia di versi tuonanti e inebrianti sul regno di Riccardo II, non si preoccupa di fare alcun riferimento alla Rivolta dei contadini.

*

La scorsa settimana non ho avuto modo di discutere l’argomento che il signor Shaw ha sollevato in conclusione dei suoi pregnanti paragrafi in merito, voglio dire se Shakespeare sia ottimista o pessimista.

Sono abbastanza portato a concordare con il signor Shaw sull’idea che l’insegnamento di Shakespeare non sia stato prettamente positivo, e sull’idea che – come uomo – il Poeta non possedesse una dottrina di vita del tutto definita. La vita a cavallo del Rinascimento e della Riforma era di certo colma di scetticismo e di confusione dal punto di vista filosofico, forse ancor più che ai tempi nostri.

Shakespeare possedeva in gran quantità un innato sentimento religioso, di derivazione principalmente cattolica; in gran quantità possedeva anche uno scetticismo retorico piuttosto futile, di derivazione puramente rinascimentale. Potrei concordare – seppur con riserva – con il signor Shaw quando sostiene che Shakespeare non avesse un credo filosofico, ma debbo dissentire totalmente con lui quando cerca di sostenere l’idea che Shakespeare possedesse il credo filosofico sbagliato.

Nego in maniera assoluta che Shakespeare sia stato un pessimista: il peggio che si possa dire è che fu un poeta.

L’esempio che il signor Shaw sceglie a prova del pessimismo shakespeariano, il famoso soliloquio «spegniti, spegniti breve candela!»5, è piuttosto curioso; certo al signor Shaw non può esser sfuggito che questo soliloquio possiede un valore drammatico preciso e definito, un valore drammatico tanto particolare che ci libera dalla necessità di trovarvi un qualche significato filosofico. È un discorso che Macbeth pronuncia poco prima della sua sconfitta e della sua morte, e quindi è un discorso pronunciato da un’anima malata e perduta costretta a misurarsi col proprio fallimento. Se Shakespeare fosse stato ottimista come Walt Whitman, e avesse voluto dare un tocco artistico alla sua tragedia, avrebbe reso quel soliloquio pessimista. Ma questo soliloquio non è certo un’affermazione di tipo metafisico, è un grido di emozione. Shaw non ha alcun diritto di chiamare Shakespeare pessimista per aver scritto «spegniti, spegniti breve candela»: sarebbe come dire che Shakespeare era un sostenitore del celibato perché ha scritto le parole «vai in convento»6. Con lo stesso ragionamento, bisognerebbe dire che Shakespeare intendeva tessere un’apologia del duello con le parole «Uccidi Claudio»7. Non è colpa di Shakespeare se, costretto a scrivere per il teatro un discorso pessimista, egli abbia prodotto un pessimismo di miglior qualità rispetto a quello prodotto da autori tanto sciocchi da esser veramente pessimisti.

In Shakespeare si possono trovare molti esempi di critica – filosofica o semi filosofica – sulla vita, o anche descrizioni dell’umanità, che hanno un tono più lieto e che si potrebbero opporre a quello di Macbeth; per esempio il discorso di Biron sull’amore in Pene d’amor perduto, svariati versi di Porzia, un discorso di Orlando e altri ancora. Ma non credo sia necessario attribuir loro eccessiva importanza, e la stessa cosa vale per i passaggi che vengono definiti «pessimisti». Non credo affatto che con quei versi Shakespeare volesse esprimere la sua visione del mondo o le sue convinzioni, anzi, non sono nemmeno certo che avesse un’idea chiara e definita di quali fossero le sue convinzioni.

Egli viveva immerso in un’atmosfera particolare, in un certo spirito: un’atmosfera non limitata a lui solo ma a tutta l’Inghilterra prima dell’ascesa dei puritani, e riguardo a questa atmosfera c’è una cosa importante da sottolineare, leggendo per esempio un’opera come Sogno di una notte di mezza estate: vi è in quest’atmosfera un aspetto che io amo definire comico-soprannaturale. A quel tempo la gran parte del mondo, come ai tempi nostri quella parte di mondo che non si rifiuti di esercitare il pensiero, credeva genericamente all’esistenza di cose più profonde e superiori all’uomo: credeva nell’esistenza di energie superiori a quelle dell’uomo, nell’esistenza di un destino che andava al di là del proprio naso: per farla breve, credevano nelle divinità, nei demoni; e credevano anche nelle fate. Nel nostro mondo moderno regna una specie di misticismo, ma il nostro misticismo ha un che di triste: quando va bene è un misticismo serio, e non è mai farsesco. E tra divinità, demoni e fate crediamo con più convinzione nei demoni – il che è evidente nella nostra tetra produzione letteraria contemporanea. In un certo modo crediamo anche nelle divinità, ma con moderazione. Ma tendenzialmente non crediamo alle fate con convinzione, o almeno è stato così fino a poco tempo fa.

Non pensiamo mai all’esistenza, nell’universo, di un’energia metafisica che sia più gioiosa di noi, mentre ci viene piuttosto naturale immaginarci energie superiori di gran lunga più lugubri di noi. In questo senso, evidentemente più ampio e più generale, Shakespeare – o meglio, l’Inghilterra di Shakespeare – si trovava proprio all’opposto del pessimismo: pensava che l’universo fosse capace di contenere una sorta di luminosità, e vedeva il mondo come un’allegra trottola armonica nelle mani di un bambino. Ora, se noi sogniamo dei misteri ultimi dell’Universo, ce ne viene un’immagine quanto meno cupa. Il sogno di una notte di mezza estate dei nostri tempi è insolitamente simile a un incubo.

*

Se guardiamo ai capolavori della letteratura inglese, abbiamo l’impressione che ognuno di essi abbia in un qualche modo aperto la strada a qualcosa di nuovo. In realtà le cose grandi finiscono proprio dove iniziano.

Shakespeare compie il gran gesto – tipicamente rinascimentale – di spalancare i cancelli su un nuovo mondo di sole e di musica. Troviamo in lui – come in tutto il Seicento – quelle mille immagini di ricchezza e di meraviglia che a volte valeva la pena di chiamare, in un senso quasi sublime, sogni d’avidità. Vi è in lui quel colore splendente che appartiene anche alla pittura veneziana, per esempio quando con la semplice pennellata d’una parola sa tingere i mari del mondo di un rosso acceso8. E quando noi paragoniamo la sua immensa vastità e grandezza con le piatte imitazioni che si facevano all’epoca delle tragedie di Seneca o con i volgari village plays di Quince e Bottom, non possiamo fare a meno di percepire che Shakespeare sta costruendo una città, creando un mondo, e che egli è l’inizio di qualcosa di più grande di lui stesso. Però, nulla è esistito dopo di lui che fosse più grande di lui. Il teatro rinascimentale di sangue e oro, di re e usurpatori, non è l’inizio di qualcosa bensì la sua fine: i suoi toni dorati e scarlatti sono i colori del tramonto e non dell’alba.

Il teatro elisabettiano somiglia a una delle sue tragedie: la sua torcia ardente sarebbe stata presto spenta dai puritani. Forse è superfluo sottolineare che la vera tragedia è stata la soppressione della commedia: il tipo di commedia giunto in Inghilterra con la Restaurazione era, a paragone del teatro elisabettiano, di gusto tipicamente straniero e freddo. Quando è al suo meglio è forse umoristica, ma non vi è in essa alcuna gioia. Bisognerebbe d’altra parte considerare che i personaggi shakespeariani portatori di buone notizie e di buona sorte, nelle sue storie d’amore, appartengono quasi tutti a un mondo che ormai stava finendo, fossero frati o fate. La stessa cosa vale per gli ideali elisabettiani, spesso incarnati nel teatro elisabettiano. La devozione nazionale nei confronti della Regina Vergine non deve sembrare poco credibile solo perché è incompatibile con il carattere rude e scaltro dell’Elisabetta storica: i suoi detrattori potrebbero sostenere – anche a ragione – che gli inglesi della Chiesa riformata, sostituendo il culto della Vergine Maria con quello della Regina Vergine, abbiano solo rimpiazzato una vergine vera con una finta; ma questa verità certo non annulla un’altra verità – per quanto limitata –, e cioè che quel culto all’epoca era autentico. Qualsiasi cosa possiamo pensare di quella particolare Regina Vergine, le eroine tragiche del tempo ci offrono un’intera processione di regine vergini. Ed è certo che ai tempi del Medioevo il martirio di Misura per misura sarebbe risultato ben più comprensibile che ai tempi moderni. Lo stesso vale, oltre che per l’appellativo di vergine, per il titolo di regina. La monarchia d’elezione divina glorificata in Riccardo II sarebbe presto stata detronizzata in modo ben più rovinoso: gli stessi puritani che avevano fatto a pezzi le corone posticce degli attori teatrali avrebbero fatto a pezzi quelle dei re veri e propri.

Le pantomime sarebbero state presto vietate, e alla monarchia stessa sarebbe stato dato l’appellativo di pantomima. Shakespeare morì nel giorno di san Giorgio, e molto di quel che san Giorgio aveva significato sarebbe morto con lui.

*

Shakespeare è davvero per tutte le epoche, per tutte le sette età dell’uomo.

Amavo Shakespeare mentre mi trascinavo svogliatamente verso scuola, e lo amo adesso che potrei essere bonariamente descritto come un ricurvo e pantofolaio Pantalone. Da ragazzo, poi, non amavo semplicemente i suoi racconti romantici, ma ero intrigato dalla sua poesia, specialmente quando era quasi del tutto inintelligibile.

Il ritmo aperto e inarrestabile delle parole sembrava pieno di significato anche quando io non lo comprendevo.

Le tante immagini araldiche di rosso e d’oro erano più che ovvie, eppure io non le intendevo. Vari membri della mia famiglia, però, che ricordano tanti avvenimenti del passato, mi hanno assicurato che più volte, se correndo mi capitava di cadere, mi salivano naturalmente alle labbra le parole:

non cercare sempre con occhi velati
il tuo nobile padre nella polvere9.

Versi come:

Rivisiti così i bagliori della luna10

o anche:

sempre pronto ad arrampicarsi sui pomi delle Esperidi11

non sono solo grande poesia, sono anche immagini belle per la fantasia di un bambino, come la mucca che saltò sulla luna12, o come le aringhe rosse che crescono nei boschi13.

*

Shakespeare dev’essere un bel mistero per gli anglosassoni, e non solo per quel che di medievale c’è in lui. Ovviamente gli anglosassoni, pur traendo il proprio nome dall’epoca più buia dei secoli bui, disapprovano qualsiasi cosa che sia così lontana e retrograda da essere medievale. A ogni modo, debbono certamente trovare in Shakespeare qualcosa di fastidiosamente internazionale: come ci spieghiamo il suo deplorevole interesse per i latini? O quello che in lui è così innatamente italiano? La scuola anglosassone avrebbe forse dovuto dedicarsi a una traduzione inglese di Shakespeare così come aveva fatto con la Bibbia. Avrebbe dovuto pretendere la naturalizzazione di tutti i suoi eroi e di tutte le sue eroine. Avrebbe dovuto alterare i nomi originali e correggerli. Forse sarebbe stato difficile dare al mercante di Venezia un nome rispettabile come, ad esempio, il mercante di Manchester, ma facilmente il signor Antonio si può trasformare in Mr Anthony.

Ed ecco che chissà, potremmo avere un nuovo e più autentico significato nel grido immortale di Giulietta: «O Romeo, Romeo, perché sei tu Romeo e non Robinson?».

Poiché se è verità assodata che la parola gentleman, tanto nel nome quanto nel concetto, non possa esser tradotta in nessuna lingua eccetto che in quella inglese, come è potuto accadere che Shakespeare abbia scritto dei due gentiluomini di Verona, quando con una modifica da nulla avrebbe potuto narrare dei due gentiluomini di Ventnor? Questa debolezza nei confronti di un dago14 decadente sarà decisamente deplorevole agli occhi di quel critico le cui speranze per l’Inghilterra sono strettamente un tutt’uno col Ku Klux Klan, ma mi dispiace di dover ricordare che Shakespeare non si limitò neanche a trattare esclusivamente di dago: almeno in un caso, mostrò palese e incredibile indifferenza per la razza e per il colore della pelle. Il Ku Klux Klan tratterebbe Otello almeno come un gentiluomo di colore, e Dio sa che Otello era un gentiluomo di colore, se paragonato con la vasta moltitudine di canaglie pallide che ordiscono nelle colonie trame e cospirazioni deprimenti.

Quello che interessava a Shakespeare era in effetti il colore, che non è altro che la cultura, la vita, le leggende e la poesia che appartengono alla nostra civiltà nel suo insieme. E il vero interesse di questo intenso patriottismo consiste nel fatto che Shakespeare sopravvive uscendo da un passato in cui si era più uniti, per esprimere l’idea che la nostra gloria nazionale vada cercata nei successi che otteniamo all’interno di quella comune cultura e in nient’altro.

*

Shakespeare disse, come fin troppo spesso ci viene ricordato, che una rosa avrebbe lo stesso dolce profumo con qualsiasi altro nome; sarebbe più corretto dire che Shakespeare lo fece dire, piuttosto distrattamente, alla signorina Giulietta Capuleti a un certo momento in uno dei suoi romantic plays. Desterebbe maggior meraviglia dire che Shakespeare abbia affermato: «Sono determinato a essere malvagio!», perché l’ha fatto dire a Riccardo III in una delle sue tragedie storiche più melodrammatiche.

A ogni modo, la mente dell’uomo s’è così impregnata di queste massime e metafore, da produrre risultati alquanto curiosi. Pare infatti che certi giardinieri abbiano dato per scontato che, poiché la rosa sarebbe altrettanto profumata se avesse un altro nome, dunque quel nome sarebbe stato altrettanto dolce per qualsiasi altro fiore: dunque, hanno tradotto «albero delle rose» in greco e han dato questo nome al rododendro.

Questo fatto è abbastanza tipico del modo in cui la scienza, a volte, usi il greco per dire quelle menzogne che in inglese sarebbero troppo palesi. Altri filosofi, di scuola realista e cinica, applicano la massima in modo ancora più curioso, sostenendo che poiché un tipo di rosa si chiama in inglese cabbage rose15, allora la rosa è uguale al cavolo.

Quelli più acuti, però, comprenderanno bene il vero senso di quella frase: che il mondo è fin troppo prono nel guardare solo al titolo e non alla cosa in sé, all’etichetta o alla bottiglia invece che al vino. In questo senso concordiamo di cuore con la signorina Capuleti, pur nella sua leggerezza.

Sarebbe assai poco saggio l’uomo che, potendo scegliere fra le due cose, scegliesse di leccar via la gomma adesiva dall’etichetta della bottiglia invece di bersi un bicchiere di vino di quella stessa bottiglia; senza dubbio questo è vero per le rose vere, ma non è propriamente così nella vera letteratura.

Se un coltivatore di rose avesse un eccentrico benefattore, il quale avesse deciso per capriccio che la parola rosa non dovesse mai essere pronunciata, ma sempre sostituita da – per esempio – «broda» o «bulbocastano», e in cambio concedesse al giardiniere di ricoprirsi di quantità innumerevoli di meravigliosi e fragranti boccioli e creare splendidi giardini di rose, il giardiniere dovrebbe senza dubbio aver la saggezza di preferire la cosa alla parola.

Ma ciò non significa che quel che noi facciamo di una parola sia irrilevante. Nell’eredità della poesia, che è parte fondamentale della nostra civiltà, la parola ha quasi lo stesso valore della cosa: anzi, veramente la parola è parte della cosa. Persino Giulietta si è ben guardata dal suggerire un nome sostitutivo, mentre «broda» le avrebbe forse fatto riconsiderare tutta la faccenda.

Una canzone d’amore che suonasse: «il mio amore è come il rosso, rosso bulbocastano» non salirebbe certo mai alle labbra degli amanti, anche se una nota a pie’ di pagina spiegasse che il termine è identico a quello botanico latino che si usa per indicare la rosa.

E anche per qualcuno che si dicesse d’accordo ad accettare questa convenzione, il verso iniziale di Browning: «Era broda, broda fin dall’inizio» non potrebbe mai ricatturare il raffinato senso di gioia del verso di Browning. Insomma, il nome non è la cosa, ma la parola è ben lontana dall’essere solo un numero o un segno che rappresenti la cosa.

L’Uomo e la Natura rispondono e corrispondono l’uno all’altra da così tanto tempo da farmi sospettare che ranuncoli e giacinti siano così nobili ai nostri occhi solo per i loro nomi così antichi e nobili. Dimenticare questo significa dimenticare il senso profondo e il significato di cultura, che dovrebbe sempre correre in parallelo all’orticultura; certi signori della scuola di poesia «broda e bulbocastano» sembrano essersene dimenticati.

La rivolta contro la cultura è di solito la moda preferita dei colti: io direi però che, soprattutto, è ingiusta nei confronti del povero, vecchio Shakespeare. Se mai ci fu qualcuno che non concordava con la distratta affermazione di Giulietta, nel suo senso più letterale, fu proprio lui.

Se mai c’è stato un uomo capace di sentire il profumo delle parole, come se fossero fiori, senza aver bisogno dei fiori veri, fu proprio lui. Dio solo sa perché ci si ricordi quel verso casuale di Giulietta, e si dimentichino invece le migliaia di versi straordinari e odorosi che si alzano come fragranze che ottundono i sensi. «Né papavero né mandragola»16... certo tutti conoscono quegli ingredienti inebrianti, eppure dubito fortemente che Shakespeare sapesse come fosse fatta la mandragola.

*

Quando Shakespeare scrive le semplici parole:

Su queste sabbie d’oro
prendetevi per mano17,

ecco che subito – e per un momento – si apre davanti allo sguardo della mia fantasia un mondo dove tutti sono giovani; un luogo di distese infinite di sabbia brillante e dorata sotto un cielo gaio di una sera senza fine, dove gli amanti rimangono per sempre nell’istante immortale in cui per la prima volta le loro mani si toccano. Ma se io o chiunque altro decidessimo di metterci a descrivere la comunità marina che vive su quella costa particolare, magari in un romanzo o in un saggio, quelle sabbie dorate diventerebbero subito aride come quelle del deserto, e la città rossa come una rosa sfiorirebbe subito, proprio come una rosa.

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Siamo tutti poetici come Shakespeare: è solo che non siamo come lui grandi poeti. Abbiamo lo stesso temperamento, ma né voi né io abbiamo la mente per scrivere versi come «E tutti i nostri ieri hanno illuminato, sciocchi...»18.

*

L’idea che l’opera dei grandi maestri del passato possa essere efficace dal punto di vista educativo non è una banalità come sembra: è al contempo più contestabile e più vera di quel che sembra.

Infatti è vero che le grandi opere d’arte del passato possono essere usate a questo scopo quando tutti gli altri metodi attualmente in vigore si rivelino inadatti o frivoli. A questo scopo sono perfette, per esempio, le opere di Shakespeare; di altri, eccezion fatta per i dipinti di Tiziano e Leonardo, non saprei dire.

Per spiegare questo speciale valore comune bisogna comprendere una delle differenze più profonde – forse si potrebbe chiamare persino una delle malattie – del nostro tempo. È espressione tipica dell’arte antica, specialmente di quella rinascimentale, il fatto che il grande artista fosse prima di tutto un uomo. Un uomo straordinario, ma solo per il fatto che era un uomo comune con qualcosa in più. Shakespeare o Rubens erano in tutto e per tutto uomini comuni: mangiavano, bevevano, conobbero il desiderio e morirono, come tutti. Questo vuol dire la gente quando parla di dei con i piedi di argilla: i loro stivali enormi erano sporchi del fango del mondo. Questo vuol dire la gente anche quando dice che Shakespeare sapeva essere volgare, e che sapeva spesso essere anche noioso. Significa che un grande poeta di un tempo aveva in sé anche spazio per la pigrizia e per la disattenzione; che il suo istinto spesso lo guidava; che sapeva anche essere disordinato: che non era «artistico».

È dunque vero che anche Omero sonnecchiava, ma in quel sonnecchiare sta la grandezza di Omero. Il cenno del suo capo che cede al sonno scuote le stelle del mondo, proprio come quello del Giove della sua immaginazione.

Gli artisti del passato, dunque, erano comuni e semplici negli aspetti fondamentali – forse anche quelli più bassi – delle loro personalità. Ma il tipico artista odierno vuole essere una specie di creatura diversa e fantastica, che si nutre a modo suo e sente a modo suo. Dunque, abbiamo qui una differenza fra due concetti di genio: quello che ha Qualcosa in più e Quello che è Qualcosa di diverso.

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Ecco la spiegazione vera del fatto che ha spiazzato così tanti critici dilettanti, e cioè il problema dell’assoluta ordinarietà del comportamento di così tanti geni della storia. Il loro modo di vivere era talmente comune che non ne esistono testimonianze scritte, di conseguenza era così ordinario da sembrare misterioso... gli artisti di oggigiorno non riescono a farsi una ragione di come un uomo capace di scrivere poesia come Shakespeare potesse essere anche un appassionato di transazioni finanziarie in un piccolo paesino del Warwickshire, come egli fu. La spiegazione è abbastanza semplice: la verità è che Shakespeare possedeva un autentico istinto poetico, e di conseguenza scrisse poesia autentica, e una volta liberatosi di questo impulso andò avanti con la sua vita di tutti i giorni. Essere un artista non gli impediva di essere un uomo comune, non era un ostacolo come non lo è il dormire la notte o cenare la sera. Tutti i grandi maestri e leader hanno sempre dato per scontato che il loro punto di vista fosse semplice e comune a tutti, un modo di pensare in cui ogni uomo potesse facilmente riconoscersi. Se un uomo è davvero superiore agli altri, la prima cosa in cui crede è l’uguaglianza di tutti gli uomini.

Vediamo la stessa cosa, per esempio, nella singolare e innocente razionalità con cui Cristo si rivolgeva alla variopinta accozzaglia di persone che gli si accalcava attorno: «Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova?» (Lc 15,4); oppure: «Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pane, gli darà una pietra? O se gli chiede un pesce, gli darà al posto del pesce una serpe?» (Mt 7,9-10). Questa semplicità, questo sentirsi parte del consorzio umano, è la nota distintiva di tutte le grandi menti.

Per i grandi geni le cose su cui gli uomini concordano sono talmente tanto più importanti di quelle su cui sono in disaccordo, che queste ultime – in sostanza – spariscono. Hanno in sé troppa allegria e saggezza per mettersi a discutere della differenza fra i cappelli di due uomini entrambi nati da donna, o del leggero divario culturale fra due uomini entrambi destinati, un giorno o l’altro, a morire.

Il vero grande artista è uguale agli altri uomini, e così è Shakespeare. I grandi uomini di seconda categoria si inginocchiano davanti agli altri uomini, come Whitman. E quelli di ultima categoria si sentono superiori agli altri – come Whistler.

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Una ragazza che conosco e che vive nella contea di Buckingham non aveva mai visto il mare in vita sua fino a qualche giorno fa. Quando le hanno chiesto che cosa ne pensasse, ha risposto che somigliava ai cavolfiori.

Bene, questa è un’immagine vividissima, di pura letteratura, totalmente originale e autonoma, e soprattutto assolutamente vera. Io stesso ero da tempo tormentato da un’immagine simile, ma non ero mai riuscito a definirla bene: il cavolo mi ha sempre fatto pensare al mare e il mare mi fa sempre venire in mente il cavolo. Forse sarà quella sua venatura fra il viola e il verde che mi fa pensare a quando il mare è come sporcato da sfumature violacee e rosse, mescolate a un verde che tende al giallo, mentre resta inalterato il profondo blu dell’insieme.

O forse sono le grandi curve del cavolo, che si piegano una sull’altra come onde e somigliano a caverne; o ancora, sarà forse la tessitura ripetitiva di entrambi, quel continuo ritornare della stessa immagine – nell’acqua come nella superficie del cavolo – che ha fatto usare a due grandi poeti – Eschilo e Shakespeare, una parola come «multitudinous»19, riferita all’oceano.

Ma proprio dove la mia fantasia non sapeva spingersi oltre, una giovane donna è riuscita – per così dire – a salvare la mia immaginazione: i cavolfiori sono un’immagine venti volte migliore dei cavoli, perché danno sia l’idea dell’onda spezzata che quella dell’efflorescenza del crescere della schiuma, opaca e ribollente.

Per di più, nel cavolfiore si vedono le dure radici della vita: nell’oceano, gli archi delle onde impetuose hanno l’identica durezza ed energia del gambo del cavolfiore, ed è come se il mare intero non fosse altro che un bianchissimo fiore con le radici nell’abisso.

Ora, una gran quantità di persone sensibili e superiori si rifiuterebbero di vedere quanta forza immaginativa abbia questo paragone dell’orto, perché non ha alcun legame con le immagini più comuni che si trovano nei racconti o nelle ballate. Gli esteti dilettanti vi direbbero di conoscere benissimo quali pensieri filosofici e profondi «le immense profondità» dovrebbero evocare; e vi direbbero pure che non fu certo un fruttivendolo a pensare per primo alla verdura. A questa affermazione risponderei citando Amleto, che parlava di uomini di simile professione: «Vorrei che foste altrettanto onesti»20.

Questo accenno ad Amleto mi ricorda, fra l’altro, il fatto che prima di conoscere una ragazza che non aveva mai visto il mare conoscevo anche una ragazza che non era mai stata a teatro. La portarono a vedere Amleto, e lei disse che era molto triste. Ecco un altro esempio di ritorno al concetto primitivo, spesso scavalcato dallo studio e dall’influenza di pareri altrui. Siamo così abituati a vedere Amleto come un’opera «problematica» da dimenticarci che è una tragedia; allo stesso modo, siamo così abituati a vedere la vastità e il mistero del mare, da dimenticarci che è anche – semplicemente – bianco e verde.

Per poter giudicare un libro onestamente non dobbiamo soltanto guardarlo come se fosse la prima volta: dobbiamo anche guardarlo come se non conoscessimo assolutamente niente dell’effetto che ha avuto su altri autori, delle sue migliaia di imitatori, di chi lo loda, di chi lo critica, e di chi loda chi lo loda e critica chi lo critica. Così possiamo avvicinarci a un capolavoro come Amleto immersi nell’atmosfera che quel capolavoro – ed esso solo – sa creare. Sentiamo che è una grande opera prima ancora di chiedercelo. C’è un che di assurdo nel domandarci ora come quell’opera si sarebbe dovuta scrivere, proprio come c’è qualcosa di assurdo nel tentativo della filosofia odierna di indicare come sarebbe dovuta avvenire la creazione del mondo o del cosmo. Come si fa a discutere su come «noi» avremmo scritto Shakespeare? È Shakespeare che ha scritto noi. E voi e io, sono certo che concorderete, siamo due dei suoi personaggi migliori.

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Sapersi divertire da sé è segno di gaiezza, vitalità e amore per la vita; invece, voler essere intrattenuti da altri è segno di malinconia, resa e possibilmente di desiderio di morte.

Un uomo che sa divertirsi è un uomo che ha pensieri interessanti, artistici e colmi di soddisfazione, mentre uno che si aspetta il divertimento da altri ha probabilmente pensieri brutti, sterili e aridi. La felicità di un popolo non deve essere giudicata dalla quantità di divertimento che viene per lui preparata, perché il divertimento può essere elargito come il cibo, in qualche grande negozio o da grandi attività; la felicità di un popolo è da giudicarsi in base al divertimento che egli sa creare per sé stesso.

In tempi più sani di questo, qualsiasi tipo di intrattenimento e di divertimento era creato dal popolo e non per il popolo. Ci sono moltissimi esempi di questo fatto: canzoni popolari, leggende, danze, ma soprattutto nell’elaboratissimo e direi ufficiale affare del teatro. Erano i commercianti e gli artigiani delle corporazioni che mettevano in scena in persona i miracle plays21, con tutto il coloratissimo simbolismo del mistero di paradiso e inferno. Ho tutta l’ammirazione e stima possibili per i moderni sindacati, ma confesso di non poter neanche immaginare che un facchino della stazione si possa sentire a suo agio nel costume dell’arcangelo Gabriele, o che un idraulico sia in grado di trarre puro godimento dall’interpretare il diavolo. Eppure, che delizia deve esser stata quella di interpretare il diavolo! In una parte simile c’era sicuramente grande spazio per l’improvvisazione e per scene comiche, perché nel medioevo si era privi del senso di reverenza moderno, vale a dire, la reverenza per il diavolo. Il falegname o il ciabattino che avevano la fortuna di recitare la parte di Caifa prendevano in prestito il piviale o una casula da qualche parrocchia, e in tutta onestà spererei tanto che oggi l’arcivescovo di Canterbury fosse disposto a prestare a questo scopo il suo manto e le ghette a qualche spazzino.

Il punto vero però è che erano le persone comuni a recitare, e nulla impediva che le rappresentazioni avvenissero in ogni paese e villaggio della regione. Oserei dire che recitavano, in tutta probabilità, male come Nick Bottom, ma io non sto parlando di arte, bensì di divertimento. E, soprattutto, sto parlando di persone che sanno far divertire se stesse, e che non si limitano a farsi divertire da altri; nessuno dubiterebbe del fatto che Nick Bottom si divertisse immensamente, ancor più di quanto facesse divertire gli altri. Anzi, cercare di far divertire Bottom era un’impresa ardita e quasi blasfema, nella quale infatti anche tutti i giochetti e gli scherzetti delle fate falliscono.

Shakespeare forse aveva proprio in mente questo genere di uomo, pratico e dalle mani incallite, che doveva aver visto nelle ultime rappresentazioni dei plays medievali, ed è probabile anche che stesse pensando alla figura tradizionale di Erode nei Bethlehem Plays, quando fa dire a Bottom di voler recitare la parte di un tiranno. Un centinaio d’anni prima avrebbe potuto vedere una cosa simile in centinaia di villaggi.

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È molto interessante venire a sapere che si è trovato un ritratto di Shakespeare in una taverna, specialmente perché una taverna è proprio il luogo in cui con facilità avremmo trovato Shakespeare in persona. Non conosco né comprendo il minuzioso e sottile metodo grazie al quale gli esperti d’arte sono in grado di dare apparentemente per certo che cosa sia un simile ritratto, ma certamente non vi è nulla di irragionevole nell’idea che Shakespeare possa essere stato ritratto da qualche precoce ammiratore, proprio fra le mura di un pub, e che se ne sia stato seduto immobile a farsi dipingere, ovviamente a patto che gli dessero sufficiente birra per ingannare l’attesa.

Mi pare di aver letto su un qualche giornale che qualcuno dubiti della veridicità di un simile episodio, e da quel che ho capito questo dubbio è sorto nel contesto della cosiddetta scuola di pensiero «Bacone=Shakespeare». Suppongo che questo baconiano pensi che tutti i ritratti di Shakespeare debbano per forza essere ritratti di Bacone, e se non lo sono allora non possono essere ritratti di Shakespeare. Mi sembra che ci sia qualcosa di leggermente confuso in questa linea di pensiero ma non ho tempo di inoltrarmi ora in questo mistero. In ogni caso, ecco ciò che il baconiano sostiene a proposito del dipinto: «Sembra forse plausibile che un rozzo giovanotto di campagna, il quale si unisce nel 1587 a un gruppo di attori itineranti, senza un soldo e gravato dal peso di una moglie e tre figli; uno che qualche anno dopo si guadagna da vivere a malapena vivendo fuori e dentro dai teatri e che non porterà a pubblicare nulla fino a quattro anni più tardi; è plausibile dico che costui si sia fatto fare un ritratto a olio nel 1588, presunta data di questo quadro?».

Dunque, dev’esserci sicuramente in questa scuola di pensiero una fluida e intelligentissima connessione di idee profonde che io sono troppo stupido per seguire, ma non riesco proprio a capire perché avere una moglie e tre figli dovrebbe essere incompatibile con il farsi fare un ritratto. In genere, i pittori non esigono dai loro modelli il celibato, come se fossero un ordine sacro e separato di monaci. Non vi è nulla che lasci intendere che Shakespeare abbia pagato per questo ritratto e che se anche avesse pagato il prezzo fosse alto; non mi pare fra l’altro molto plausibile che si paghi molto un ritratto abbastanza grezzo in una taverna di campagna.

Supponiamo di star parlando di un uomo che un tempo era notoriamente un attore mediocre, un attore che come tutti gli altri si spostava di città in città, ma che era anche dotato – anche questo notoriamente – di una straordinaria, affascinante personalità. Che cosa ci sarebbe di improbabile nel fatto che un qualche amico o un ammiratore lo abbia dipinto, magari mentre era di passaggio in un piccolo villaggio qualsiasi? Per esempio, pensiamo a Henry Irving. Dovremmo forse stupirci se scoprissimo che in qualche locanda, nella quale Irving si fosse fermato per qualche giorno, il figlio del padrone – magari con la passione per la fotografia – l’abbia immortalato solo per il gusto di farlo? Dovremmo sorprenderci se una anziana e sentimentale signora lo avesse dipinto con i suoi acquerelli? Non c’è nulla che ci vieti di pensare che Irving fosse tanto povero quanto Shakespeare, e di certo non c’è nulla che ci faccia pensare che Shakespeare non fosse affascinante quanto Irving.

Può sembrare un fatto triviale, ma non lo è, per il semplice fatto che è tipico; il dibattito che si occupa di stabilire se Bacone abbia scritto Shakespeare è importante soltanto perché è il terreno di battaglia di due metodi storici, e di due metodi di giudizio. Di per sé è irrilevante che Bacone fosse Shakespeare o che Shakespeare fosse Bacone: Shakespeare, immagino, non se la prenderebbe un gran che se gli sottraessero i suoi successi letterari, e sono certo che Bacone sarebbe entusiasta di essere sollevato dalla sua storia e dalla sua reputazione politica. Francis Lord Verulam22 sarebbe stato ben più felice e forse anche più cristiano se anche lui se ne fosse andato a bere una birra a Stratford: se avesse iniziato e finito la sua storia in una taverna. Per quanto le vicende personali dei due uomini differissero sembra che avessero solo questo in comune: entrambi, alla fine della loro vita, sembrano aver deciso che tutte le forme di gloria non sono che vanità. Ma, l’interesse della questione sta tutto nel fatto che si fonda su un metodo storico e direi controverso, del quale il paragrafo che ho citato è un eccellente esempio. Le due teorie che spesso si scontrano nella storia possono essere chiamate la teoria del dettaglio e la teoria dell’atmosfera. Immaginiamo che un uomo, fra cent’anni, si mettesse a scrivere un saggio sui guidatori delle carrozze. Avrà di certo a disposizione tutti i dettagli che si possono ricavare dai documenti dell’epoca: il numero preciso di carrozze, i nomi dei guidatori, i singoli proprietari di ogni singola carrozza, il prezzo fisso per ogni corsa e tutti gli atti del Parlamento che l’hanno regolata. Tuttavia, pur con tutte queste informazioni, potrebbe non ricavare niente dell’atmosfera, ricca e profonda, di una carrozza e dei suoi guidatori; della speciale relazione che essi hanno con la classe superiore che comunemente si serve di loro. Non sarebbe in grado di capire la differenza fra la tariffa base per un guidatore di carrozze e quella per un conduttore di tram. Non capirebbe neanche perché sia così diverso un sovrapprezzo deciso da un conduttore di carrozze da un sovrapprezzo deciso da un macellaio o da un panettiere. Non sarebbe in grado di cogliere fino a che punto questi uomini si considerino i dipendenti temporanei, i cocchieri temporanei dei ricchi. Infine, non potrebbe mai comprendere come il loro linguaggio sia espressione di questa idea di dipendenza dalla storica generosità dei ricchi, e che questa strana classe di lavoratori vuole deliberatamente scegliere l’insolenza perché gli manca l’indipendenza. È quel tipo di atmosfera che esiste solo perché la storia la renda reale, e atmosfere simili sono proprio ciò che la storia trascura.

Ma quelli che sostengono che Bacone abbia scritto Shakespeare sono, per così dire, i maniaci della teoria del dettaglio, che si oppone a quella dell’atmosfera, e che è la disgrazia di tanti uomini colti. I sostenitori dell’idea Bacone-Shakespeare sono davvero persone coltissime: conoscono un’immensità di cose sul periodo storico di cui si occupano; però, si tratta solo di una serie di dettagli: e il gusto del dettaglio fine a se stesso è segno di follia. Per definire precisamente un pazzo basti dire che è un uomo che ha estrapolato tutti i dettagli dall’atmosfera reale in cui sono immersi.

Ecco un esempio. Ricordo di aver discusso tempo addietro con un baconiano, il quale sosteneva che Shakespeare non avrebbe mai potuto scrivere i suoi drammi perché era un uomo di campagna, e nei suoi drammi non c’era nessuno studio dettagliato della Natura nel senso moderno: nessuna descrizione del modo in cui gli uccelli si fanno il nido o di come i fiori si liberino del polline – come avviene invece in Wordsworth o in Tennyson. Ora, l’uomo che ha sostenuto questa tesi sapeva di letteratura elisabettiana ben più di me, anzi, sapeva tutto della letteratura elisabettiana tranne che cosa fosse. Se avesse avuto la più pallida idea di che cos’era la letteratura elisabettiana non si sarebbe mai neanche sognato d’aspettarsi che un elisabettiano scrivesse della Natura solo perché ci era cresciuto dentro. Un poeta rinascimentale allevato in una foresta non avrebbe mai scritto di alberi più di quanto un poeta rinascimentale cresciuto in un porcile avrebbe scritto di porcili: avrebbe scritto degli dei, o non avrebbe scritto affatto. Scrivere della natura non eraun’idea rinascimentale che si trovava proprio fuori dalla sua porta. Sostenere che Shakespare, se davvero fosse nato a Stratford, avrebbe dovuto scrivere di uccelli e prati è come dire che Keats, se fosse davvero nato a Londra, avrebbe dovuto scrivere di omnibus e negozi di tessuti. Sono rimasto esterrefatto da questa evidente capacità, in un uomo ben più colto di me, di catturare e comprendere le caratteristiche profonde di un periodo storico.

Poi, qualcuno peggiorò la situazione dicendo che Shakespeare sapeva descrivere dettagliatamente la Natura perché aveva descritto dettagliatamente la forma e l’andatura di un cavallo, come se un cavallo fosse uno strano e raro uccello che si era fatto il nido nei boschi inglesi e che solo un uomo di Stratford poteva aver visto. Se c’è una cosa più certa, riguardo a un gentiluomo elisabettiano, del fatto che non gli sarebbe interessato nulla della natura, è che certamente avrebbe saputo tutto di cavalli.

Cito questo esempio perché spiega che cosa intendo per totale assenza di atmosfera storica. Il cavallo che si è fatto il nido fra gli alti alberi di Stratford è tipico di questa forma innaturale di critica letteraria. Lo stesso si può dire per la teoria secondo cui Shakespeare dovesse essere per forza un letterato come Bacone, perché sapeva tanto di cultura, di legge e mitologia e letteratura antica.

Ecco, sostenere questo equivale a sostenere che io sarei colto quanto il presidente del Balliol College solo perché ho sentito anche io parlare delle cose di cui parla lui. Di nuovo, chi fa una simile affermazione ha completamente frainteso lo spirito e il tono di un’epoca. Costui non si rende conto, infatti, che quella di Shakespeare fu un’età in cui un uomo intelligente e acuto poteva servirsi delle cianfrusaglie più disparate, proprio come faccio io quando, camminando per Fleet Street, posso cogliere discorsi qua e là da chi capita. Un uomo ai tempi di Shakespeare non poteva vivere a Londra e non sentir parlare di mitologia pagana, come oggi un uomo non può vivere a Londra senza sentir parlare di socialismo. La stessa incredulità solenne e inumana che ritiene impossibile che un tizio sveglio a Londra non sia in grado di spiluccare di qua e di là argomenti di cui personalmente magari non è esperto, è la stessa che trova incredibile che lo stesso tizio sveglio si sia fatto fare un ritratto, così, per divertimento, da qualche pittore sgangherato in una taverna.

La verità è, io temo, che la follia sia in gran vantaggio sulla sanità mentale. La sanità è sempre un po’ noncurante, mentre la follia è minuziosa. Un folle potrebbe mettersi a contare tutte le ringhiere davanti ad Hyde Park, e potrebbe anche conoscerne il numero esatto, perché in realtà egli crede che siano qualcos’altro. Un uomo sano non saprebbe dire il numero delle ringhiere fuori da Hyde Park, e forse nemmeno che forma abbiano; delle ringhiere non sa nulla eccetto la verità suprema, sublime, platonica e trascendentale: che sono ringhiere. C’è una gran misura di falsità nella nozione secondo cui la verità deve necessariamente prevalere. C’è questa falsità per cominciare: che se un uomo possiede la verità, generalmente è felice. E se è felice, generalmente è pigro. L’attività incessante, l’intelligenza esagerata, di solito appartengono a chi un poco sbaglia e solo un poco ha ragione. L’unico vantaggio di cui godono coloro che credono che Bacone abbia scritto Shakespeare sta nel fatto semplice che a essi importa che Bacone abbia scritto Shakespeare. Lo svantaggio che soffrono coloro che non la pensano così sta nel fatto che (leggeri come sono) a loro non importa niente. L’uomo sano di mente, che è abbastanza sano di mente da vedere chiaramente che Shakespeare scrisse Shakespeare, è l’uomo che è sano abbastanza da non preoccuparsi per niente se l’abbia fatto o meno.

1.  I non-conformisti sono i puritani. Venivano chiamati in questo modo perché, ai tempi dell’ascesa al trono di Carlo II, essi si erano opposti all’Uniformity Act, che prevedeva l’obbligo di utilizzare il Book of Common Prayer (il libro delle preghiere) della Chiesa anglicana.

2. Allusione alla teoria del «weakness of will» (debolezza della volontà) che Coleridge aveva elaborato poco dopo il 1800 per risolvere il problema dell’inazione di Amleto; Amleto sarebbe stato incapace di agire a causa di una eccessiva facoltà contemplativa, incapace di trasformarsi in volontà di azione.

3. Da Romeo e Giulietta, atto 3, scena 5, vv. 9-10.

4. Citazione da Disappointment in Love, tratto da Locksley Hall (1842) di Lord Alfred Tennyson.

5. Da Macbeth, atto V, scena V, v. 22.

6. Da Amleto, atto V, scena III.

7. Da Molto rumore per nulla, atto IV, scena I, v. 285. Queste parole appartengono a Beatrice, che chiede all’innamorato Benedetto di sfidare a duello Claudio, che aveva insultato e calunniato la cugina di Beatrice, Hero.

8. «Saranno esse [le mie mani] a mutare il verde degli oceani in una sola immensa macchia scarlatta»; Macbeth, atto II, scena II, vv. 60-63.

9. Amleto, atto I, scena II, vv. 70-71.

10. Amleto, atto I, scena IV, v. 53.

11. Pene d’amor perdute, atto IV, scena III, v. 360.

12. Chesterton si riferisce a un’immagine di una filastrocca per bambini, Hey Diddle Diddle.

13. Anche in questo caso Chesterton allude a un’immagine di una canzone per bambini: The Man in the Wilderness.

14. Termine dispregiativo che indica le popolazioni di origine latina.

15. Letteralmente, rosa-cavolo. In italiano la conosciamo come rosa centifolia.

16. Otello, atto III, scena III, v. 340.

17. La tempesta, atto I, scena II, vv. 380-381.

18. Macbeth, atto V, scena V, vv. 22-23.

19. L’aggettivo multitudinous è stato reso in italiano con «vasto» o «innumerevole», anche se non è possibile darne una traduzione adeguata; in realtà il senso profondo di questo aggettivo esprime insieme i due traducenti: vasto e innumerevole. Macbeth si riferisce al sangue sulle sue mani dopo l’assassinio di Duncan, che il mare non potrà lavare ma anzi ne sarà infettato; in questo senso multitudinous ha sia il significato della vastità che quello della moltitudine, ed è quindi una sola parola che è in grado di rendere i due concetti contemporaneamente.

20. Amleto si riferisce ai pescivendoli, nel II atto, scena II, v. 174.

21. Miracle plays erano forme drammaturgiche di tipo embrionale, organizzate nei villaggi inglesi dalle corporazioni di artigiani in concomitanza con le feste dei santi e con alcune ricorrenze stagionali. Le rappresentazioni si svolgevano su carri allegorici, detti pageants, che si spostavano seguendo tappe prestabilite, a imitazione delle stazioni nella processione religiosa. Sono detti Miracle plays o Mystery plays perché trattano di argomenti religiosi: venivano infatti messe in scena vicende dell’Antico e del Nuovo Testamento, come per esempio il diluvio universale, la creazione o la vicenda di Caino e Abele. Le rappresentazioni erano in volgare e coinvolgevano gran parte dei lavoratori del villaggio in cui venivano rappresentati. Sono giunti fino a noi quattro cicli di Mystery plays quasi interi, più precisamente quelli delle città di Chester, York, Wakefield e di un’altra città non ancora identificata con certezza.

22. È il nome nobiliare intero diBacone.

Capitolo 2
Le opere

Amleto

A VOLTE SONO TENTATO DI PENSARE (come qualsiasi altra persona che pensi) che la gente sarebbe sempre nel giusto se non fosse istruita. Ma ovviamente questo è il modo sbagliato di esprimere un simile concetto.

La verità è che non esiste l’istruzione come concetto astratto: esiste solo un’istruzione di un tipo e un’istruzione di un altro tipo. Saremmo tutti pronti a morire per offrire alla gente un certo tipo di istruzione e (spero in tutta sincerità) saremmo tutti pronti a morire per impedire alla gente di ricevere quell’altro tipo di istruzione. Il dottor Strong in David Copperfield istruiva dei ragazzini, ma lo stesso faceva anche Fagin in Oliver Twist: oggi diremmo che erano entrambi «educatori».

Ma, per quanto il modo con cui ho espresso il concetto in prima istanza possa definirsi scorretto, uno tende a riconsiderarlo nel caso specifico del teatro. Io amo troppo il teatro per diventare un critico teatrale, e credo di essere un tutt’uno – almeno in questo aspetto – con quel genere di persone che non parlano mai.

Se qualcuno vuol sapere il significato di democrazia politica, spiegarglielo è semplice: è un tentativo disperato e in parte senza speranza di successo di arrivare a capire come la pensa la gente migliore – vale a dire, come la pensa la gente che non ha alcuna fiducia in se stessa. In un’oligarchia un uomo può assurgere a qualsiasi rango, ma un’oligarchia non è altro che la ricompensa dell’impudenza. In un’oligarchia qualsiasi uomo può essere vincitore, a patto che non sia umile.

Un uomo in uno stato oligarchico (come lo è il nostro, in effetti) può diventar famoso per il fatto di essere ricco, o per avere un certo occhio per il colore, o per i suoi successi sociali, finanziari o militari. Di certo però non può diventare famoso per la sua umiltà, come i grandi santi.

Di conseguenza, tutte le persone semplici e dubbiose ne vengono interamente escluse, e così accade che le canaglie si candidino in rappresentanza della gente comune. La stessa cosa succede con il teatro. È totalmente falso che alla gente non piaccia Shakespeare. Le persone che non amano Shakespeare sono solo una piccola parte del gruppo che, appunto, non diventa famoso.

Se un certo numero di londinesi, per esempio, si annoia a vedere Amleto, non si annoia perché si tratta gente troppo complessa e intelligente per capire Amleto: costoro sentono che il divertimento offerto dal pub, dalle scommesse o dai giornaletti e dai concerti sia più complesso e intelligente di Amleto: ed è proprio così.

Nel senso più stretto della parola, i londinesi sono troppo «esteti» per godere di Amleto. Hanno troppo stimolato e sovreccitato i loro sentimenti artistici per poter godere semplicemente della bellezza. Sono esteti, ed essere esteti significa aver abbastanza esperienza per poter ammirare un bel quadro ma non essere abbastanza inesperti per vedere veramente la bellezza di un bel quadro. Ma se portaste gente semplice, onorevoli contadini, gentili e vecchi servitori, vagabondi sognatori, ladri geniali e briganti, a vedere Amleto, costoro si rattristerebbero a sentire la storia di Amleto, e si dispiacerebbero per lui. In altre parole, apprezzerebbero il semplice fatto che Amleto è una grande tragedia.

Ora, io ho ferma fiducia nell’opinione e nel giudizio della gente incolta e non istruita, ma per mia sfortuna sono l’unica persona incolta in Inghilterra che scriva articoli. I miei confratelli tacciono, non mi appoggiano, hanno di meglio da fare. Ma qualche giorno fa, quando ho assistito all’Amleto di Miss Julie Marlowe e di Mr Sothern, mi sono venute in mente alcune considerazioni riguardo ad Amleto, che credo saranno condivise dai miei confratelli incolti. So che non parleranno, perché nascondono con insolita modestia le loro virtù culturali.

C’è una vecchia storiella per cui gli spettatori delle gallerie in teatro venivano soprannominati «gli dei»1. Per quel che mi riguarda non è certo una storiella canzonatoria, ma un epiteto perfettamente appropriato: gli ospiti della galleria sono dei eccome. Sono la suprema autorità, se ammettiamo che alcunché di umano possa essere una suprema autorità. Non vedo niente di strano nel fatto che gli attori facciano appello a costoro nello stesso modo in cui si rivolgono alla montagna dell’Olimpo. Quando un attore guarda in basso, per mostrare la sua disperazione o per evocare il nero Erebo o gli spiriti maligni, ecco, è allora che abbassando gli occhi, aggrottando le nere sopracciglia, deve guardare giù, alla platea. Ma se invece, recitando la sua parte, qualcosa gli fa alzare gli occhi verso il cielo, allora, in nome di Dio, quando con lo sguardo fruga il Cielo, è giusto che veda i poveri.

C’è un piccolo dettaglio, per esempio, sul quale io credo che la gente abbia frainteso Amleto, e non per sua colpa, ma per colpa dei critici. C’è un punto infatti nel quale io credo che gli incolti sarebbero capaci di vederci giusto, non fosse stato che i colti li hanno pervertiti. Ecco cosa intendo: in epoca moderna si è sempre parlato di Amleto come di uno scettico.

Il solo fatto di aver visto l’interpretazione raffinata e agile della signorina Marlowe e del signor Sothern ha spazzato via gli ultimi sfilacciati strascichi di quest’eresia dalla mia mente.

La cosa veramente interessante di Amleto è che non era affatto scettico. E nemmeno era pieno di dubbi, fatta eccezione per quei dubbi che appartengono a tutti gli uomini sani di mente (papi e crociati inclusi).

Il punto fondamentale è chiaro: se Amleto fosse stato scettico non esisterebbe la tragedia di Amleto. Fosse stato scettico, quanto meno avrebbe esercitato il suo scetticismo nei confronti dell’assai improbabile fantasma del padre. Avrebbe potuto chiamare quell’eloquente individuo un’allucinazione, o qualche cosa d’altro senza significato, avrebbe sposato Ofelia e avrebbe continuato tranquillamente a mangiare pane e burro. Questa è la prima cosa evidente.

La tragedia di Amleto non sta certo nel fatto che Amleto sia uno scettico, ma al contrario, nel fatto che è un filosofo troppo profondo per essere scettico. Il suo intelletto è così lucido da vedere immediatamente la possibilità razionale dell’esistenza dei fantasmi. Che considerarlo uno scettico sia un errore gravissimo è provato in molte altre occasioni.

L’intera teoria è nata perché si citano artificialmente interi passaggi espunti dal loro contesto, come il famoso «essere o non essere» o (ancor peggio) il passaggio in cui afferma, con un gesto di fatica quasi ovvia, «ebbene, allora non lo è per te; perché non vi è nulla che sia cattivo o buono, ma è il pensiero che lo rende tale»2. Amleto dice questo perché è stanco della compagnia di due sciocchi, ma se qualcuno volesse accorgersi di quanto totalmente opposto sia l’atteggiamento di Amleto non avrebbe che da leggere un passaggio di quella stessa conversazione. Se si volessero ascoltare le parole di un uomo che non è, nel suo senso definitivo, uno scettico, basterebbe ascoltare queste:

[…] questa bella struttura, la terra, mi sembra un promontorio senza vita; questo stupendo baldacchino, il cielo, questa splendida volta, il firmamento, questo tetto maestoso, ingemmato di fuochi d’oro... ebbene, per me non è nient’altro che un odiato pestilenziale ammasso di vapori. Che sublime capolavoro è l’uomo! Quanto nobile nella sua ragione! Quanto infinito nelle sue risorse! Quanto espressivo nelle sue movenze, mirabile: un angelo negli atti, un dio nell’intelletto! La bellezza dell’universo mondo! La perfezione del regno animale! Eppure che cos’è agli occhi miei, questa quintessenza di polvere3?

Curiosamente ho sentito citare questo passo come esempio di pessimismo, quando è forse il più ottimista della storia della letteratura. È l’espressione assoluta della verità della fede di Amleto; della sua fede nel fatto che il mondo, per quanto egli non sappia vederne la bontà, è buono. La sua fede nel fatto che l’uomo, per quanto egli non sappia vederlo come l’immagine di Dio, di certo è l’immagine di Dio. L’uomo moderno, proprio come la moderna interpretazione di Amleto, crede solo negli stati d’animo, negli umori – ma il vero Amleto, come la Chiesa cattolica, crede nella ragione. Molti ottimisti hanno lodato l’uomo quando si sentivano dell’umore giusto per lodarlo: solo Amleto ha lodato l’uomo quando sentiva di disprezzarlo come una scimmia nel fango. Molti poeti, come Shelley e Whitman, sono stati ottimisti quando si sentivano ottimisti: solo Shakespeare è stato capace di essere ottimista quando si sentiva pessimista. Questa è la definizione di fede. La fede è quello che sopravvive a uno stato d’animo. E Amleto la possiede dal primo all’ultimo verso.

Dal principio egli protesta contro una legge che pure riconosce: «Oh, se l’Onnipotente non avesse posto la sua legge contro chi si suicida»4. Prima della fine del dramma, dice che tutti i nostri piani miseri e incerti certamente saranno portati a compimento «per quanto rozzamente noi li abbozziamo»5.

Se Amleto fosse stato scettico, avrebbe avuto una vita semplice. Non avrebbe saputo che i suoi stati d’animo erano stati d’animo; li avrebbe chiamati Pessimismo o Materialismo, o gli avrebbe dato qualche altro nome sciocco. Ma Amleto era uno spirito grande, grande abbastanza da sapere di non essere tutto il mondo. Sapeva dell’esistenza di una verità al di là di sé stesso, e di conseguenza credeva nelle cose a lui più lontane e da lui più diverse: in Orazio e nel fantasma. Per tutta la sua storia possiamo percepire la sua convinzione di essere nell’errore, il che – per una mente lucida come la sua – equivale a dire che qualcosa di giusto esiste. Il vero scettico non pensa che esista alcunché di sbagliato, sprofonda poco per volta in un Universo senza fondo. Ma Amleto era proprio il contrario di uno scettico: era un pensatore.

*

Quanto più varie sono le versioni elaborate dai suoi amici e dai suoi detrattori, e quanto più inconciliabili sono le opinioni che si sono espresse su Amleto, tanto più egli assomiglia a un uomo in carne e ossa.

I personaggi d’invenzione, misteriosi come sono, sono assai meno misteriosi dei personaggi storici. Gli uomini sono stati d’accordo riguardo ad Amleto molto di più che riguardo a Cesare, Maometto, Cromwell, Gladstone o Cecil Rhodes. Nessuno crede che Gladstone fosse un mito d’allegria, o che Rhodes sia solo il terribile fantasma di un sogno ozioso, ciononostante non ci sono al mondo tre uomini che concordino su uno qualsiasi di questi individui, e direi che quasi nessuno s’impressionerebbe per qualche nuova e suggestiva interpretazione che dovesse da un momento all’altro saltar fuori. Da questo punto di vista il fatto che Amleto sia stato sorpassato non è che un omaggio alla solidità della sua figura: se forse sotto un altro aspetto Amleto ci sembra un po’ simile a una statua, quanto meno possiamo avere la certezza che la statua è fatta di marmo e non di cartone. È un grande tributo alla letteratura se sia chi ritiene Amleto uno smidollato sia chi lo considera un eroe si trovi concorde nell’affermare che Amleto è esistito.

Amleto, principalmente, non era un uomo debole: Shakespeare non perde mai occasione di ricordarci che aveva in sé una forza essenziale e un fuoco pronto ad accendersi e a seminare terrore:

C’è qualcosa di pericoloso in me, che se fossi saggio dovresti temere6.

Ma Amleto era un uomo in cui la facoltà dell’azione risultava bloccata, non a causa della sua natura morale quanto dalla grandezza della sua natura intellettuale. Le azioni erano per lui di grande importanza, solo che non erano straordinarie e drammatiche come i pensieri. Amleto appartiene a quella categoria di uomini impossibili da comprendere per molti altri: il tipo d’uomo per cui quel che accade nella mente accade davvero, letteralmente; il tipo d’uomo per cui le idee sono avventure, per cui le metafore sono mostri vivi, per cui tutto quello che avviene in parallelo nell’intelletto possiede l’irrevocabile santità di una cerimonia nuziale. Amleto fallisce, sì, ma per la troppa grandezza del suo pensiero, e non per la debolezza delle sue azioni. Era un gigante, ma un gigante sbilanciato.

Mentre mi sento di concordare con il signor Gray7 quando sostiene che la grandezza morale di Amleto è assai sottovalutata, non posso concordare con lui quando dice che Amleto abbia successo dal punto di vista morale: se questo fosse vero, l’intera storia perderebbe il suo significato fondamentale; se l’eroe avesse successo, il dramma fallirebbe.

La verità è che l’Amleto di Shakespeare è incommensurabilmente più grande di qualsiasi accusa o difesa di tipo etico: figure come la sua, scarabocchiate con l’inchiostro in poche pagine, hanno il diritto di pretendere, come gli esseri umani, di essere giudicati dall’Onnisciente. Dire che Amleto era uno smidollato arguto significa mancare il bersaglio, ma lo stesso vale per chi lo considera un eroe trionfante. È compito dell’arte saper mostrare quei gradi di grandezza o di povertà umana che non hanno nome né definizione: la verità non è tanto che l’arte sia immorale, quanto che l’arte deve poter illustrare le colpe che non si trovano in alcun decalogo e le virtù che nessuna allegoria descrive. Ma nell’insieme, l’arte è sempre più indulgente della filantropia.

Falstaff non era né onesto né casto né moderato né pulito, ma possedeva l’ottava virtù cardinale per la quale nessuno ha mai trovato un nome. Amleto non era fatto per questo mondo, ma Shakespeare non osa dirci se fosse troppo giusto o troppo sbagliato per esso.

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Risponde molto alla natura dei tedeschi il fatto che abbiano trasformato il dramma Amleto in un enigma, e che lo spieghino sostenendo che – sostanzialmente – il pensiero rende impossibile l’azione. Eppure c’è tanto pensiero in Amleto quanto ce n’è per esempio, senza citare Macbeth o Hotspur, in Falstaff o in Nick Bottom. Amleto non agiva non tanto perché pensasse, ma perché pensava in un modo particolare, un modo che distrugge le basi intellettuali dell’azione. In breve, Amleto non agiva perché aveva imparato a pensare in una università tedesca; non c’era altra possibilità per Amleto: o essere se stesso o altrimenti essere Fortebraccio, che è come dire sola azione fisica senza pensiero.

Il fatto è che i tedeschi non sanno essere veramente profondi perché non sanno concedersi di essere superficiali; sono incantati dall’arte e la guardano assorti, ma non sanno vedere quel che sta dietro all’arte. Non vogliono credere che l’arte sia una cosa sottile e luminosa come una foglia, neanche se fosse l’ala di un angelo. Questo si vede nel processo, anche questo assai tipico, della germanizzazione di Amleto. Non mi lamento del fatto che i tedeschi abbiano dimenticato che Shakespeare era un inglese, ma mi lamento del fatto che abbiano dimenticato che Shakespeare era un uomo: era soggetto ai suoi umori, poteva anche sbagliare, ma soprattutto sapeva che la sua arte era solo arte e non un attributo di divinità. Questo è il problema di base con i tedeschi: non sanno far «suonare la querula campanella»8: le loro campanelle non conoscono gaiezza. La frase di Amleto sul «reggere lo specchio alla natura»9 è usualmente citata dai critici più rigidi come esempio del fatto che l’arte, se non è realistica, non è arte. Ma in verità quei versi significano altro (o almeno il suo autore la pensava diversamente): l’arte non è altro che artificio.

I fautori del realismo credono davvero a quel che vedono nello specchio, e di conseguenza lo rompono. Inoltre, quando citano quel passo lasciano sempre fuori l’espressione «per così dire», un’espressione che dovrebbe essere letta in qualsiasi affermazione di Shakespeare, ma ancor di più in ogni frase di Amleto. Quel che intendo quando dico «credono nello specchio e lo rompono» può esser meglio spiegato se pensiamo a un caso specifico di cui ho memoria: un critico realista citava alcune autorità tedesche per provare che Amleto fosse affetto da una particolare anomalia patologica, che – lo ammette lo stesso critico – nel dramma non viene mai nominata. Quel critico sembrava deliziato dalla sua scoperta: pensava ad Amleto come a un uomo vero, con alle spalle uno sfondo tridimensionale, che in uno specchio non esiste affatto. «I migliori di costoro non sono che ombre»10: nessun critico tedesco si è mai espresso adeguatamente su questa frase.

Shakespeare però era un inglese, ed era inglese soprattutto quando prendeva delle cantonate: il suo maggior successo però sta nella descrizione di personaggi tipicamente inglesi. E se si deve dir qualcosa di Amleto, bisogna dire che anche lui era un inglese: Amleto mi è sempre sembrato particolarmente inglese nella sua personalità (e di certo è questa la ragione per cui non andava d’accordo coi danesi ed è stato spedito in Inghilterra).

Era tanto inglese quanto un gentiluomo, e aveva le debolezze tipiche di entrambi. La grande colpa degli inglesi, specialmente nel Diciannovesimo secolo, è stata proprio la mancanza di risolutezza nel decidere, e non solo nell’agire: insomma, la mancanza di risolutezza nel pensiero – quella che alcuni chiamerebbero assenza di dogma, una qualità altrettanto essenziale.

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Gli psicanalisti, invece, chiacchierano incessantemente e misteriosamente del problema di Amleto. Sono particolarmente interessati all’inconscio di Amleto, per non parlare dell’inconscio di Shakespeare.

È forse inutile che un vecchio razionalista come me faccia notare che questa operazione equivale a cercare di dissezionare la mente di Puck o voler rivelare la vera vita privata di Punch e Judy. Qui la discussione non riguarda più la pazzia di Amleto, ma la pazzia di tutti, specialmente quella di coloro che indagano sulla pazzia.

La cosa più curiosa di queste teorie è che persino quando i critici sono acuti e profondi abbastanza da riconoscere le sottigliezze, non sono mai semplici abbastanza da vedere le cose più ovvie.

Un critico davvero attento alle sottigliezze sostiene che la parte conscia di Amleto vuole una cosa, mentre quella inconscia ne vuole un’altra. Apparentemente l’Amleto «conscio» aveva abbracciato volentieri e addirittura con entusiasmo l’idea di vendicarsi, ma lo shock (così ci dicono) aveva reso l’argomento troppo doloroso, dando origine a una strana e segreta avversione per il progetto di vendetta. A questi scrittori non sembra venire in mente che ci possa essere qualcosa di un po’ doloroso, nel migliore dei casi, nel tagliare la gola al proprio zio e marito della propria madre. Deve certamente esserci una certa avversione a quest’idea, ma non riesco a capire perché debba essere inconscia. Mi sembra assai possibile che un uomo possa essere perfettamente consapevole di non apprezzare un compito del genere. La differenza che esiste fra la morale di Amleto e la morale odierna, è che Amleto credeva che fosse possibile disprezzare il proprio dovere ma ciononostante compierlo.

Se si segue la linea di argomentazione di questi critici, si potrebbe pensare che ammazzare il capofamiglia fosse una sorta di festa familiare o uno scherzetto tra parenti; un giochetto gaio e innocente nel quale il giovane principe si sarebbe certamente dilettato con spensierata esuberanza, non fosse stato per quei pensieri cupi e segreti che gli procuravano un comprensibile disprezzo per quest’azione.

Mettiamo caso che capitasse a uno di questi critici borghesi, che condividono il mio stato sociale e la mia routine quotidiana, di doversene tornare a casa, a Brompton o a Surbiton, con il compito di piantare un coltello da macellaio nella gola dello zio William, che aveva avvelenato qualcuno e non poteva essere consegnato alla giustizia: è possibile che il primo pensiero di questo critico sia che in fondo è un bel modo di trascorrere qualche giorno di vacanza, e che solo nel suo subconscio nasca il sospetto che in tutta questa faccenda ci sia qualcosa di poco felice. Però, a me sembra possibile altresì che il dispiacere non rimanga confinato al solo subconscio, ma risalga fino alla superficie della sua coscienza.

In parole povere, questo tipo di lettura critica è al di là del buonsenso. Amleto non ha bisogno di una spiegazione che frughi nel suo subconscio, perché lui stesso si spiega benissimo (e forse era persino troppo zelante nel farlo). Era un uomo a cui il dovere era apparso nella sua forma più terribile e repellente – e soprattutto si era presentato a un uomo inadatto a quel tipo di dovere.

C’era sicuramente un conflitto, ma egli ne era conscio dall’inizio alla fine. Non era una persona in cui avesse il sopravvento l’inconscio, bensì la coscienza.

Stranamente, questa teoria della repulsione subconscia del personaggio riflette solo la repulsione subconscia del critico moderno: è il critico che ha una specie di pregiudizio subliminale che lo fa ignorare una cosa che ad altri sembra abbastanza semplice. La cosa che il critico evita, oscuramente e segretamente, e fin dal principio, è la morale in cui Shakespeare credeva, ben diversa dalla rude psicologia nella quale certamente non credeva.

Shakespeare senza dubbio credeva nel conflitto fra dovere e inclinazione personale. Il critico evita istintivamente di ammettere che quello di Amleto fosse un conflitto fra dovere e inclinazione, e tenta di sostituirlo con un conflitto fra cosciente e subcosciente. Dà ad Amleto un complesso, per evitare di attribuirgli una coscienza; è però costretto, così facendo, a dire che la naturale inclinazione di un uomo sarebbe uccidere lo zio, perché non vuole ammettere che ucciderlo potrebbe essere suo dovere. E arriva sostanzialmente a sostenere che solo a causa di un’oscura e segreta monomania non ammazziamo tutti nostro zio. Arriva a sostenere questo perché non vuole prendere in considerazione la semplice e – se volete – primitiva morale su cui è costruita la tragedia.

Quella morale infatti comporta l’accettazione di tre princìpi, dai quali la subcoscienza moderna e perversa fugge come dalla morte. Primo: che potrebbe essere nostro compito fare la cosa giusta, anche quando detestiamo farla; secondo, che fare la cosa giusta possa anche essere punire qualcuno, specialmente qualcuno di potente; terzo, che una punizione giusta possa essere anche combattere o uccidere qualcuno. Il critico moderno ha pregiudizi verso il primo principio e lo chiama ascetismo; ha pregiudizi verso il secondo e lo chiama essere vendicativo; ha pregiudizi verso il terzo e generalmente lo chiama militarismo. Che rischiare la propria vita – pur contro la propria personale inclinazione –, estrarre la spada e uccidere il tiranno possa essere il dovere di un giovane uomo è qualcosa che – istintivamente – l’ideologia dei tempi moderni rifiuta. Ecco perché i tiranni ai tempi nostri se la passano così bene. E per poter evitare questo significato così ovvio e semplice, secondo cui la guerra può essere un dovere e la pace una tentazione, il critico deve rovesciare il dramma da capo a piedi, e cercarvi un significato in nozioni moderne così lontane dal suo vero significato da risultare insensate.

Allora William Shakespeare deve diventare uno degli allievi del professor Freud, un campione di psicoanalisi, il che sarebbe come dire che era un accanito sostenitore della vaccinazione. L’anima di Amleto deve per forza rientrare in una delle classificazioni ideate da Freud o da Jung, che è come se noi volessimo far rientrare la figura del padre di Amleto nelle classificazioni di Sir Oliver Lodge o di Conan Doyle. Si deve interpretare l’intero dramma alla luce di una concezione morale che Shakespeare non aveva mai sentito in vita sua, perché si disprezza interiormente l’antica morale, che Shakespeare non può non aver conosciuto. E quel tipo di morale, che secondo alcuni di noi era basata su una psicologia ben più credibile, dice che la punizione in quanto punizione è una cosa sana, non solo perché è correzione ma perché è espiazione. Quello che il mondo di oggi vuol fare quando propone di sostituire alla punizione la pietà è in realtà molto semplice: il mondo moderno non osa punire i punibili, ma solo chi suscita pietà. Non toccherebbe mai nessuno dell’importanza di re Claudio, o del kaiser Guglielmo II.

Ora, questa verità è confermata da fatti recenti. Il punto, per quanto riguarda Amleto, è che titubava – assai comprensibilmente – davanti a qualcosa che andava fatto, e ciò non ha nulla a che vedere con quello che avremmo potuto fare noi. Questo concetto è stato espresso in passato da Browning nel suo La statua e il busto: egli sosteneva che anche se il motivo di un’azione è sbagliato, il motivo dell’inazione è ancora più sbagliato. Azione o inazione vanno giudicate dal loro vero motivo, e non dal modo in cui qualcun altro avrebbe potuto fare avendo un miglior motivo.

Fosse il tirannicidio ai tempi di Amleto un dovere o meno, era però o accettato come un dovere o trascurato come un dovere. E questo è particolarmente vero se pensiamo a quel tirannicidio per cui tutti hanno fatto chiasso alla fine della Grande guerra. Punire il Kaiser poteva essere giusto o sbagliato; certo sarebbe stato più giusto punire i generali e gli ammiragli tedeschi per le atrocità che avevano compiute; ma anche ammesso che fosse sbagliato, non è perché fosse sbagliato che non è stato punito: non è stato punito perché era troppa fatica, non è stato punito per tutte quelle ragioni di debolezza e mutabilità d’umore che associamo al nome di Amleto.

Spargere il sangue di imperatori nemici può essere gloria o ignominia, ma è certamente ignominia esultare per il sangue che non si ha il fegato di versare, e «strillare come una serva stupida, come una sguattera da taverna»11. E poiché non esistevano motivi più nobili allora di quanti non ne esistano adesso, io dico che sarebbe certamente stato meglio se avessimo ingrassato tutti gli avvoltoi del paese con le budella di quella canaglia12.

Il motivo – il movente – è sempre l’unica prova morale. Un santo può offrirci un motivo più alto per perdonare i Signori della guerra che hanno massacrato Charles Fryatt ed Edith Cavell; ma noi non abbiamo perdonato i Signori della guerra, ci siamo solo dimenticati della guerra. Non abbiamo perdonato, come Cristo: abbiamo solo rimandato, come Amleto.

Il nostro motivo più alto è semplicemente la pigrizia, e quello più basso – e comune – è il denaro. In questo senso devo davvero scusarmi con l’affascinante e onorevole principe di Danimarca per averlo paragonato, anche solo minimamente, ai principi della finanza e ai politici di professione del nostro tempo. Quanto meno Amleto non risparmiò Claudio perché sperava di portargli via due soldi da dare in pagamento agli attori, né perché voleva fare un qualche accordo con lui sull’importazione di vino a Elsinore o per farsi pagare due debiti contratti a Wittenberg. E non agì neanche mai secondo gli interessi di Shylock, abitante della lontana città di Venezia. Senza dubbio Amleto fu mandato in Inghilterra per poter sviluppare ulteriormente queste motivazioni superiori: la pace e il perdono: «Là non se ne accorgeranno, sono tutti pazzi come lui»13.

Di conseguenza è più che naturale che gli uomini tentino di dissolvere il problema morale di Amleto nei due aspetti amorali del conscio e dell’inconscio. Il tipo di dovere che Amleto cerca di evitare è esattamente il tipo di dovere dal quale cerchiamo di fuggire noi: quello di detronizzare l’ingiustizia e vendicare la verità.

Molti oggi sono dell’idea di negare che questo sia un dovere, perché è un dovere pericoloso. Questo concetto va bene non solo per le questioni internazionali, ma anche per quelle interne, principalmente industriali: il Capitalismo ha potuto elevarsi a tiranno smisurato in Inghilterra perché gli inglesi hanno continuato a rimandare la loro rivoluzione popolare, esattamente come il principe di Danimarca rimandava la sua rivoluzione di palazzo.

Gli inglesi in passato facevano la morale ai francesi perché amano le rivoluzioni sanguinose, e oggi fanno loro la morale perché amano le guerre sanguinose. Ma la pazienza inglese, che ha reso l’Inghilterra una plutocrazia, non ha nulla a che fare con la pazienza dei santi, è la pazienza che paralizzava il nobile principe della tragedia: è accidia, il grande rifiuto. A ogni modo, il punto vitale è che rifiutando di punire i potenti abbiamo presto perduto l’idea stessa di punizione, trasformando così la nostra polizia in mera persecuzione dei poveri.

Macbeth

Quando si studia una qualsiasi di queste tragedie senza tempo, la prima domanda da porsi è necessariamente quale sia la parte senza tempo di quella tragedia.

Se esiste nell’opera umana qualcosa che sia in qualche senso permanente, essa deve avere una caratteristica specifica: criticare aspramente prima una generazione e poi un’altra, ma una in maniera opposta all’altra e per colpe opposte.

Il mondo ideale è sempre sano di mente, mentre quello reale è folle. È folle, però, per cose diverse a seconda dei tempi: tutto quel che è stato muta ed è incostante; l’unica cosa su cui si può contare è quella che non è mai esistita.

Tutti i grandi classici dell’arte criticano ogni forma di stravaganza, non certo però in una direzione sola bensì in tutte. La figura della Venere greca è polemicamente in contrasto con le donne grasse di Rubens e anche con quelle magre di Aubrey Beardsley. Allo stesso modo la cristianità, che nei primi anni osteggiava i manichei perché non credevano in nulla eccetto lo Spirito, ora deve opporsi ai manichei perché non credono in niente se non nella Materia. Questa è forse la prova del fuoco di ogni grande opera d’arte classica: che possa essere criticata a partire dai punti di vista più opposti l’uno all’altro e che sempre su aspetti diversissimi essa possa attaccare i suoi avversari. Ecco un test semplice e comune: se sentite criticare una cosa perché è troppo alta e troppo bassa, troppo rossa e troppo verde, troppo brutta per un aspetto ma anche troppo brutta per l’aspetto opposto, avrete la certezza che è un’opera meravigliosa.

Questa introduzione è essenziale se dobbiamo trarre un qualche godimento dal significato profondo di Macbeth, perché quest’opera dice molto più di quello che sembra dire; vivrà ben oltre la nostra epoca come ha vissuto oltre la sua, e si lascerà alle spalle il Ventesimo secolo come si è lasciata alle spalle il Diciassettesimo secolo.

Viene da sé che se vogliamo chiederci quale sia il significato di questo classico del teatro, dobbiamo necessariamente chiederci quale sia il significato della nostra epoca. Per un’altra epoca, Macbeth potrà significare qualcosa di ancora diverso; se, come è probabile, ci sarà un ritorno alla barbarie e se la storia ci ha insegnato qualcosa, prima delle grandi opere di letteratura verrà distrutto tutto il resto. La somma e civile tristezza di Virgilio è stata letta con gioia e amore anche nel momento più cupo del Medioevo. Parecchi anni dopo aver distrutto il parlamento, una generazione di gente opulenta continuerà a leggere Shakespeare: gli uomini lo ameranno anche nel momento più grave della più grande tragedia europea di tutti i tempi.

È assai probabile che Shakespeare sia apprezzato da persone decisamente più semplici di quelle per le quali egli ha scritto. Voltaire lo chiamò un «grande selvaggio»: forse un domani, in un momento ancora più buio del Medioevo, saranno proprio i selvaggi ad amare Shakespeare. Forse allora Macbeth sarà letto da uomini che si troveranno nella vera situazione di Macbeth, e il Thane di Glamis trarrà vantaggio dalle disastrose superstizioni del Thane di Cawdor. Il Thane di Cawdor dovrà davvero resistere all’impulso di diventare re di Scozia; allora ci sarà una morale molto semplice e molto reale in quel dramma, se un vero Macbeth potrà leggere il Macbeth: «Non dare ascolto agli spiriti maligni; non lasciarti guidare dall’ambizione; non uccidere anziani gentiluomini nel loro letto; non uccidere mogli e figli altrui per questioni politiche; se farai queste cose, molto probabilmente farai una brutta fine». Questa è la lezione che Macbeth avrebbe un tempo imparato leggendo il Macbeth, e questa è la lezione che i barbari del futuro potranno imparare dal Macbeth. È una lezione piena di verità: le grandi opere hanno sempre qualcosa da dire, semplicemente, ai semplici.

I barbari probabilmente intenderebbero Macbeth come un duro avvertimento contro un’ambizione vaga e violenta, e Macbeth è un simile avvertimento; forse però i barbari ne trarrebbero un’altra lezione ancora, che non è di minor valore per il fatto che solo i barbari la possono adeguatamente comprendere: «Diffida da quegli spiriti malevoli che ti lusingano con le parole: non sono spiriti benevoli, perché, se lo fossero, con tutta probabilità ti prenderebbero a legnate».

Dunque, prima di parlare della lezione di una grande opera d’arte, dobbiamo riconoscere che il suo significato è diverso a seconda delle epoche, perché è eterna. Dobbiamo anche riconoscere che quella lezione sarà, ai tempi nostri, tutt’altro che assoluta, perché si adatterà ai particolari vizi e alle particolari sventure di quell’epoca.

Al momento non corriamo il pericolo di mettere in atto le azioni che si raccontano nel Macbeth: la vecchia abitudine di ammazzare i re (che in passato è stata salvezza per tanti paesi) ormai è desueta. Dunque quest’opera deve avere per noi – e per i nostri peccati – un significato più sottile. L’idea allora è più sottile, ma quasi indicibilmente grande. Prima di leggere l’opera consideriamo cosa significa per l’uomo moderno l’idea da cui nasce Macbeth.

La grande idea su cui si forma la tragedia è che ci sia una sorta di continuità nella vita umana. L’unica cosa che l’uomo non può fare è proprio quella che vorrebbero ostinatamente fare tutti gli artisti moderni e i sostenitori del libero amore. Non si può dividere la vita di un uomo in sezioni staccate l’una dall’altra: l’esempio della rivendicazione moderna alla libertà in amore è il primo a venirmi in mente, dunque voglio servirmene per spiegare che cosa intendo. Non si può avere un idillio con Maria e un’avventura con Jane; le avventure e gli idilli non esistono. È vano tentare di abolire la tragedia del matrimonio quando non si può abolire la tragedia del sesso. Ogni flirt è un matrimonio, e lo è per questa ragione terribile: che è irrevocabile. Ho usato questo esempio delle relazioni sessuali ma ne esisterebbero altri centinaia: è una verità generale della vita.

La base di ogni tragedia si fonda sul fatto che l’uomo vive una vita coerente e continua. Si può tagliare un verme in due, e le due parti continueranno a vivere. Ma lo si può fare proprio perché è un verme, non un uomo. Se tagli un uomo in due, non continuerà a vivere, proprio perché è un uomo. Questo lo sappiamo perché l’uomo, persino nelle sue scelte più scellerate e nefaste, mantiene sempre questa caratteristica unità fisica e psicologica. La sua identità sopravvive anche quando molti degli atti fondamentali della sua vita sono compiuti: non si può separare l’uomo dal suo passato con un colpo di accetta; si dovrà raccogliere quello che è seminato.

Dunque questo è il fondamento della tragedia, questa continuità vivente e pericolosa che non esiste nelle altre creature. E non solo è il fondamento di tutte le tragedie, ma è specialmente il fondamento della tragedia di Macbeth. L’idea che sostiene Macbeth, già espressa nelle prime scene con un’energia tragica ineguagliata da Shakespeare o da altri, è che l’uomo fa un errore fatale se crede che un solo atto decisivo possa spianargli la strada. L’ambizione di Macbeth, per quanto egoista e maligna, non è in sé stessa criminale o malata. Egli ottiene il titolo di signore di Glamis onorevolmente, sul campo di battaglia; si guadagna meritoriamente il titolo di Cawdor: si sta facendo strada nel mondo e la sua soddisfazione non è di ignobile natura.

Improvvisamente però gli si presenta davanti agli occhi un nuovo tipo di ambizione (parlerò tra poco del ruolo e dell’atmosfera che crea quest’ambizione), ed ecco che egli si rende conto che fra lui e il trono di Scozia si frappone solo il corpo addormentato di Duncan. Gli basterà fare solo quella cosa crudele, e poi sarà per sempre felice e buono.

Qui, secondo me, troviamo la prima e la più formidabile delle tante verità espresse in Macbeth. Non si può compiere un gesto folle con l’obiettivo di raggiungere la sanità mentale. L’atto folle di Macbeth non è nemmeno cura per la sua irresolutezza: prima di decidere egli era irresoluto, ma lo è forse ancora di più dopo aver deciso. Il crimine non lo aiuta a liberarsi del problema. Il suo effetto è di tale portata che si potrebbe quasi sostenere che il crimine non toglie di mezzo nemmeno la tentazione. Fai una scelta malsana e diventerai sempre più malsano: fa’ qualcosa di illecito e ti ritroverai sprofondato in un’atmosfera ancora più soffocante di quella originata dalla legge. A dir la verità, persino il concetto di evasione è sbagliato: chi viola la legge non può mai uscire da nulla, ma solo entrare: rompe una porta e si trova in un’altra stanza, butta giù un muro e si ritrova in una stanza ancora più piccola. Più distrugge e più la sua abitazione si restringe. E dove finisce, lo si può leggere alla fine di Macbeth.

Per la nostra cultura moderna, dunque, il valore filosofico dell’opera sta per prima cosa in questo: la nostra vita è una cosa unitaria e unica, e trasgredire alla legge ci limita. Ogni volta che violiamo la legge, ci confiniamo. Stranamente, per una qualche ragione nascosta nei recessi dell’umana psicologia, se poggiamo le basi di un palazzo su una qualsiasi azione malvagia, presto lo vedremo trasformarsi nella nostra prigione.

Macbeth alla fine del dramma non è solo una bestia selvaggia: è una bestia selvaggia in gabbia. Ma se questa è la cosa che va notata per prima, c’è qualcos’altro che richiede quanto meno il secondo posto nel nostro interesse; infatti, l’altro elemento importante nella vicenda di Macbeth è, ovviamente, l’influsso che le sollecitazioni maligne esercitano sullo spirito dell’uomo, in particolare quando sono di tipo mistico e trascendentale.

In questo senso, il carattere mistico delle sollecitazioni che provengono dall’esterno non è più interessante del carattere mistico dell’uomo a cui tali sollecitazioni sono indirizzate. Le sollecitazioni mistiche sono naturalmente allettanti per un mistico. A questo proposito, il carattere di Macbeth è stato al centro di eterne discussioni: alcuni critici lo hanno descritto come un soldato corpulento e silenzioso per i suoi successi in battaglia a gloria del suo paese, altri come un decadente irrequieto e frivolo per i suoi lunghi discorsi traboccanti di un elaborato immaginario. Dobbiamo ricordare per amore di buonsenso che Shakespeare è vissuto ben prima che i poeti mediocri iniziassero a ritenere poetico essere decadenti e prima che i soldati mediocri iniziassero a ritenere militaresco il silenzio. Uomini come Sidney o Raleigh o Essex avranno certamente combattuto con la stessa foga di Macbeth, e declamato poesia come lui. Perché mai Shakespeare non avrebbe dovuto scrivere di un soldato valoroso e poeta, quando molti dei grandi generali del tempo erano anche letterati?

L’intera leggenda su cui alcuni critici hanno costruito Macbeth, e cioè quella secondo cui Macbeth sarebbe stato un vigliacco egotista e inquieto perché gli piaceva il suono della sua voce, può essere dunque rigettata, perché frutto di corruzioni di epoche successive.

Shakespeare volle che Macbeth fosse un oratore, perché faceva bei discorsi; volle anche che fosse un bravo soldato, perché non solo vinceva valorosamente in battaglia, ma sapeva anche perdere dignitosamente e coraggiosamente, cosa ancor più importante. Shakespeare volle per lui, pur quando era schiacciato da nemici in cielo e in terra, una morte da eroe. Ma fra le altre cose, Macbeth è stato concepito come un oratore e un poeta, ed è a questa sua caratteristica fondamentale che fanno appello le forze soprannaturali maligne. Se davvero esistono sollecitazioni malefiche che vengono da un altro mondo, non sono mai state descritte tanto suggestivamente come in questo dramma. Esse si appellano, come è uso abituale del maligno, all’esistenza di un progetto coerente e comprensibile: l’essenza di un incubo è che l’intero cosmo ci si rivolta contro. Due delle profezie si sono realizzate: non è forse logico aspettarsi che anche la terza si realizzi?

Inoltre, esse si volgono anche – come è uso abituale del maligno, il quale essendo lui stesso schiavo crede che tutti gli uomini siano schiavi come lui – all’inevitabile. Esse mettono davanti agli occhi di Macbeth la sua buona sorte, come se non fosse suo merito, ma fato. Fecero lo stesso gli imperialisti, che per quietare le coscienze degli inglesi offrirono loro oro e impero ammantandoli dell’aura della predestinazione. Quando il diavolo e le streghe, che sono schiave del diavolo, vogliono che un uomo debole strappi via a qualcuno una corona che non gli appartiene, sono troppo astuti per avvicinarlo semplicemente e domandargli «sarai forse re?»; gli diranno invece, senza giri di parole, «Salute Macbeth, che sarai presto re». È questa la vera debolezza di Macbeth: egli è attratto facilmente da quel tipo di fatalismo spirituale che solleva la creatura umana dalla gran parte delle sue responsabilità. In questo senso, vi è un’appropriatezza strana e sinistra nel modo in cui le promesse di quegli spiriti maligni finiscono per trasformarsi in nuove fantasie: si rivelano alla fine, per così dire, solo degli scherzi diabolici.

Macbeth accetta come parte di un destino irrazionale prima il crimine e poi la corona: ha senso dunque che questo fato che egli ha accettato come una forza esterna e irrazionale si muti alla fine in una serie di eventi stravaganti e ridicoli, come la foresta che cammina o la strana nascita di MacDuff. Si è affidato una volta a una specie di fede crudele e nera, a una macchina del destino che non può né rispettare né comprendere, e la giusta conclusione è che questa macchina produca una situazione in cui Macbeth stesso viene travolto come una cosa inutile.

Shakespeare non intendeva rendere l’emotività e la ricca retorica di Macbeth prova di una sua qualsiasi mancanza di virilità, ma credo volesse suggerire che quest’uomo, virile nella sua struttura essenziale, abbia questo punto debole proprio per il suo temperamento artistico, e cioè la paura della mera forza del destino e di spiriti ignoti – della loro potenza, dico, separata dalla loro virtù – il che è l’unico vero significato della parola superstizione. Nessun uomo che ami il suo dio può essere superstizioso, anche se il dio fosse un feticcio. Macbeth ha in sé qualcosa di questa paura e di questo fatalismo; e il fatalismo nasce esattamente nel momento in cui la ragione diventa superstizione. Macbeth, in breve, ha coraggio fisico in abbondanza e ha persino coraggio morale: gli manca però quello che si potrebbe definire coraggio spirituale; gli manca una certa libertà e dignità dell’anima umana nell’universo, quelle libertà e dignità che – si legge nelle Scritture – sono la principale differenza fra i servi e i figli di Dio.

Ma l’uomo Macbeth, e la sua virilità spiccata ma inadeguata, si può comprendere in modo appropriato solo in relazione al carattere di sua moglie. Il problema di Lady Macbeth fa subito sorgere di nuovo le controversie di cui dicevamo prima, e che avviluppano questo dramma.

Miss Ellen Terry e Sir Henry Irving hanno messo in scena Macbeth seguendo la teoria che egli fosse un uomo debole e traditore e che Lady Macbeth fosse una donna fragile e dipendente. Una visione più o meno simile di Lady Macbeth è stata sempre messa in scena, credo, da una famosa attrice americana.

Il centro del problema è nella sostanza questo: se Macbeth fosse sufficientemente mascolino o se sua moglie non fosse abbastanza femminile. I critici di una volta davano per scontato che, poiché governava così palesemente il marito, Lady Macbeth doveva essere una donna molto mascolina, ma questo punto di partenza è totalmente falso. Le donne mascoline possono forse governare il consiglio comunale, ma mai i loro mariti. Le donne che governano i mariti sono quelle femminili, e io sono totalmente d’accordo con quelli che pensano che Lady Macbeth debba essere stata una donna molto femminile.

Ma mentre alcuni critici sostengono, a ragione, la femminilità di Lady Macbeth, dall’altro lato tendono a privare Macbeth di quella mascolinità che ovviamente è il corollario dell’altra. Pensano che Lady Macbeth debba essere mascolina perché governa, e secondo lo stesso sciocco principio allora Macbeth deve essere poco mascolino, o un codardo o un decadente o un eccentrico, perché viene governato. Gli uomini più mascolini di tutti sono sempre governati. Come disse una volta un mio amico, e molto a proposito, gli uomini fisicamente fiacchi sono gli unici che non hanno paura delle donne.

La verità riguardo a Macbeth e a sua moglie in un certo senso è strana, ma va ribadita. Mai come in quest’opera Shakespeare ha descritto la vera natura del rapporto fra i sessi in modo così chiaro e sensato. L’uomo e la donna non sono mai stati tanto normali quanto lo sono in questa vicenda anormale e orribile. Romeo e Giulietta non descrive l’amore meglio di quanto quest’opera descriva il matrimonio. La discussione fra Lady Macbeth e Macbeth riguardo all’assassinio di Duncan è direi quasi parola per parola uguale a una qualunque discussione che si verifichi in una cucina qualsiasi in un quartiere residenziale, su un argomento diverso. Basterà cambiare «debole di proposito, dammi i pugnali» con «debole di proposito, dammi i francobolli». Ed è un errore pensare di dover chiamare la donna in questione mascolina o anche solo dirla «donna forte». La forza dei due protagonisti è ben diversa nell’uno e nell’altra: la donna possiede quel tipo di forza che si manifesta al momento giusto e che di norma si dice «industriosità». L’uomo invece ha quel tipo di forza che si manifesta nel riserbo e che di solito si dice «pigrizia».

La grave verità di questa relazione, però, è ben più profonda. Lady Macbeth mostra di possedere una forma di magnanimità, strana e strabiliante, e tipica delle donne. Sostanzialmente, è disposta a fare qualcosa che suo marito non osa fare ma che lei sa che suo marito vorrebbe fare, e nel farla mostrerà più fierezza di lui. Questo perché per lei, come per tutte le anime profondamente femminili – e dunque profondamente forti – l’unica vera colpa è l’egoismo. Così, è disposta a commettere qualsiasi crimine purché non sia per sé sola: suo marito ha sete di quell’assassinio solo egotisticamente, e dunque in modo vago, cupo e inconscio, come avviene di norma quando si comincia a sentire fisicamente sete. Ella però è assetata del crimine in maniera altruistica e di conseguenza lucida e chiara, allo stesso modo in cui un uomo sente il proprio dovere verso la società. Così, ella ne parla in parole semplici, accettando le massime conseguenze. Ha quel cinismo perfetto e splendido, tipico delle donne, che è la cosa più terribile che Dio abbia mai creato. Lo dico senza voler fare dello spirito e senza crogiolarmi in alcuna ironia.

Se volete sapere come siano abitualmente i rapporti fra marito e moglie, non potete trovare di meglio del piccolo idillio domestico del signore e della signora Macbeth. Di un uomo tanto maschile e di una donna tanto femminile posso solo pensare che, alla fine, si siano salvati. Macbeth è un uomo forte secondo tutti i crismi ed è un vero uomo fino alla fine: si uccide in battaglia. Lady Macbeth è una donna forte secondo tutti i crismi, nel senso più femminile della parola, e forse ancor più coraggiosamente si uccide, ma non in battaglia. Come ho detto, non posso credere che anime così forti ed essenziali non abbiano conservato l’eterna possibilità di aver conosciuto umiltà o gratitudine, che in definitiva sono garanzia di salvezza.

Ma dovunque essi siano, di certo sono insieme, perché loro, e solo loro fra i tanti personaggi che l’uomo ha saputo immaginare, sono sposati veramente.

*

Penso che il più grande di tutti i drammi sia quello di Macbeth, perché è un dramma cristiano, e accetto ogni accusa di essere prevenuto sull’argomento. Eppure, quel che io intendo per cristiano, in questo caso, è il forte senso della libertà dello spirito e quello del peccato: l’idea insomma che l’uomo può essere tanto cattivo quanto sceglie di essere.

Si può dire che Otello sia una vittima del caso, o che Amleto sia una vittima del carattere. Ma non si può dire che Macbeth sia vittima di altro che di Macbeth. Gli spiriti del male lo tentano, ma mai lo costringono, e nemmeno lo spaventano, perché è un uomo coraggioso.

Mi sono spesso chiesto come mai nessuno abbia messo in relazione gli omicidi di Macbeth con i matrimoni di Enrico VIII. Sia Enrico che Macbeth erano in origine coraggiosi, di buon carattere, migliori anziché peggiori dei loro pari. Sia Enrico che Macbeth esitarono prima di commettere il loro primo crimine: la prima coltellata e il primo divorzio. Entrambi hanno scoperto il destino che tocca a chi segue il male: Macbeth non ha potuto che continuare a uccidere ed Enrico a sposarsi. C’è solo un difetto in questo parallelismo: purtroppo per la storia, Enrico VIII non fu mai deposto.

A ogni modo, Macbeth è la tragedia cristiana per eccellenza, da contrapporre alla tragedia pagana di Edipo. La tragedia di Edipo infatti sta nel fatto che Edipo non sa quel che fa, mentre quella di Macbeth nel fatto che Macbeth sa benissimo quel che fa. Non è una tragedia del Fato ma una tragedia del Libero Arbitrio. Ovviamente Macbeth è tentato dal demonio, ma non è guidato dal destino.

Se l’attore pronuncia le battute nel modo giusto, allora gli spettatori avranno l’impressione che la storia potrebbe avere tutt’altra fine quando Macbeth dice di getto: «Non procederemo oltre in questa impresa». Al giorno d’oggi si tende a pensare che se un uomo è stato influenzato da qualcosa allora deve anche necessariamente essere stato costretto: e questa è una grave confusione. Tutti gli uomini subiscono, sempre, qualche tipo di influenza, perché tutto quel che accade ci influenza. Il punto è, quale evento lasciamo che sia per noi più influente degli altri? Macbeth fu certo influenzato, ma consentì a quell’influenza. Non stava obbedendo, come un cieco tragico pagano; non ubbidiva nemmeno a qualcosa cui sentiva di dover obbedire. Non venera le tre streghe come le Moire. Egli è un cristiano illuminato, e pecca contro la luce.

La moda di leggere fatalismo in questo dramma, dove è praticamente assente, è probabilmente dovuta alla presenza di una serie – o in questo caso di tre fatti, uno dietro l’altro; la serie spesso è origine di false credenze. Questa serie o presunta serie di fatti inganna i critici esattamente come ha ingannato Macbeth.

Per esempio, tutta la nostra pseudoscienza procede dal principio basilare che a una cosa ne segue un’altra, e poi dogmatizza su una possibile terza cosa che debba a sua volta seguire la seconda. Per fare un esempio, tutta la teoria del Superuomo sviluppata da Nietzsche e da altri sofisti si basa interamente sull’inganno della triade incompleta. Per prima cosa lo scienziato o il sofista sostengono che quando c’era la scimmia, a seguirla doveva per forza esserci un uomo. Ma dalla deduzione poi si passa alla profezia: qualcosa dovrà venire dopo l’uomo, come l’uomo è venuto dopo la scimmia.

Questo è esattamente l’inganno di cui si servono le streghe in Macbeth. Prima gli forniscono un fatto che egli già conosce, che egli è il signore di Glamis; poi gli presentano un fatto che viene confermato poco dopo, e cioè che è diventato signore di Cawdor; ma poi gli offrono qualcosa che fatto non è, e che non deve assolutamente verificarsi per necessità, a meno che egli non decida di trasformarlo in realtà seguendo la sua fantasia omicida. Questa falsa serie di eventi, che sembra mirare a qualcosa di certo, anche se il primo termine è scontato e l’ultimo falso, pare ingannare molti dando l’idea della presenza di una qualche forma di destino. Se ne servono i materialisti in molti modi, per distruggere il concetto di libertà morale; e a dirla tutta ha fatto molte vittime, oltre a Duncan.

Re Lear

La tragedia di Re Lear, per certi aspetti forse la più grande di tutte le tragedie shakespeariane, è relativamente poco rappresentata. Viene anche l’oscuro dubbio che non sia troppo letta, il che produce il solito esecrabile risultato: che viene continuamente citata.

Il grande problema con le citazioni sta in quelle che si chiamano «le frasi celebri», e che raramente sono rappresentative del dramma intero o si spiegano da sole. Quando si tratta dei passaggi di Shakespeare più conosciuti, di solito citarli significa citarli a sproposito. Non c’è quasi bisogno di spiegazione per gli esempi più popolari: ci sono quelli che sostengono che Shakespeare si sia chiesto «cos’è un nome?»14, il che equivale a sostenere che Shakespeare abbia detto che l’assassinio va compiuto, e sarebbe meglio che fosse fatto in fretta15. Vulgata vuole dunque che Shakespeare pensasse che i nomi non hanno importanza: invece è probabile che l’uomo che scrisse con tanta magnificenza di mandragola e uragani, dei nomi di Esperide ed Ercole, sia proprio il più lontano fra tutti gli uomini dal ritenere vera questa affermazione. Quella frase, come già detto, non ha alcun senso se non è inserita nelle circostanze puramente personali in cui trova il suo vero significato, e cioè sulle labbra di una fanciulla a cui è comandato di odiare l’uomo che ama a causa del suo nome, un nome che a lei sembra nulla abbia a che fare con lui.

Il dramma che ora stiamo per prendere in considerazione non fa eccezione a questa nefanda abitudine. Quell’anziana signora che si lamentava del fatto che la tragedia di Amleto era troppo piena di citazioni, ne avrebbe trovate quasi altrettante nel Re Lear, e dello stesso genere di quelle tratte da Amleto o Romeo e Giulietta: tralasciando il contesto, ne tralasciano anche il significato. Hanno il potere misterioso di stancare il mondo con frasi fatte e scollegate, lasciandolo al contempo del tutto ignorante del loro vero significato.

E così, nel dramma di Lear si trovano alcune parole che tutti abbiamo sentito centinaia di volte, e in relazione a situazioni – intenzionalmente o meno – assurde. Tutti abbiamo letto o udito qualcuno dire: «Quanto il dente avvelenato del serpente è meno crudele dell’angoscia di avere un figlio ingrato!». Stranamente già queste parole da sole suonano come se le stesse pronunciando un qualche attore ubriaco o un personaggio vecchio e sciocco di un romanzo umoristico. Non so perché proprio queste parole, solo in quanto parole, siano state scelte come degne di perenne citazione: Shakespeare scriveva come gli veniva, e in particolare si interessava poco delle metafore, sia nel crearle che nel mescolarle. Non trovo nulla che sia degno di particolare interesse in questa specifica metafora del dente, che avrebbe potuto essere anche il dente di un lupo o di una tigre. Queste parole acquistano un certo valore quando le leggiamo all’interno della scena intera, e specialmente se accompagnate da un passaggio ben più notevole – che ovviamente non è mai citato. Il senso della frase sta in questo: quando Lear è colpito dal primo insulto di Gonerilla, si lancia immediatamente in un’invettiva contro la donna, prima augurandole di non aver mai figli, poi di averne ma che siano orribili e snaturati, e infine che possa dar vita a una mostruosità, che possa dunque sentire sulla sua pelle quanto…, ecc. Senza questo terribile prologo, il serpente non può far male a nessuno e i denti gli cadono tutti. Non so immaginare il motivo per cui solo la parte più debole di questa scena venga eternamente citata, mentre quella di maggior valore sia stata dimenticata.

Si potrebbe cedere all’orrido sospetto che la maggior parte della gente non abbia mai letto il dramma, quando si pensa alla quantità di versi di quell’opera che non sono mai ripetuti e che di certo, se letti, non si possono dimenticare. Ci sono cose che nessun uomo che abbia letto Lear potrà mai dimenticare. Fra i tuoni, nel mezzo della tempesta, se ne sente uno ancor più spaventoso quando per la prima volta il re folle si rende conto che non ha nulla da rimproverare al vento e alla tempesta e ai fulmini, perché non sono le sue figlie: «non vi ho mai dato regni, né mai vi ho chiamato mie figlie».

Immagino poi che la grande invenzione inglese chiamata nonsense non abbia raggiunto vette più alte e sublimi di irrazionalità e orrore, di quando il Fool gioca con il tempo e lo spazio, con il passato e il futuro e termina il suo farneticamento con le parole: «questa profezia la farà Merlino, perché io vivo prima del suo tempo»16. Questo è uno degli shock, dei colpi tipici di Shakespeare, che toglie il fiato. Ma nella stessa scena, quella della tempesta e del peregrinaggio desolato, c’è un altro esempio di quel che io intendo quando parlo di abitudine alla citazione. Non è un esempio altrettanto valido, perché le parole in sé sono bellissime, e spesso sono state usate in relazione a circostanze umane dolorose non indegne di esse. Ciononostante, sono parole non solo superiori ma assai diverse, se si leggono alla luce delle circostanze reali alle quali appartengono.

Tutti abbiamo sentito dire centinaia di volte di qualche sfortunata canaglia, di un qualche scapestrato più o meno scusabile, che «ha patito più peccati di quanti non ne abbia commessi». Ma queste parole, usate in un tal contesto, non hanno nemmeno un centesimo della potenza e della pregnanza che hanno quando sono in bocca a Lear. Il punto di questo passaggio sta nel fatto che in quel momento Lear sta chiamando il cosmo a dargli conto; egli trova nella sua disperazione la maniera di estraniarsi intellettualmente, e cerca di riportare, con l’imparzialità della follia, l’equilibrio dalla sua parte. Se quella tempesta che infuria intorno a lui è distruzione universale, sradicamento di tutto, qualcosa che esporrà le radici di ogni cosa, persino quelle più scure e profonde e terribili del cuore dell’uomo, più di tutto il resto disonesto e crudele, egli afferma con la più incredibile certezza di sé – chiaro ed esplosivo come un fulmine – che le sue sofferenze sono più grandi delle sue colpe.

Questa è forse la cosa più tremenda che un uomo abbia mai detto, a prescindere dal fatto che abbia il diritto di dirla o meno. Persino per il libro di Giobbe è difficile superare una simile affermazione. E la potenza particolare di questo passaggio è fiaccata dal fatto che oggi venga usata, per quanto compassionevolmente, per dir qualcosa di caritatevole e gentile sulle piccole debolezze del prossimo.

Vi sono alcuni simboli di particolare vivezza nella mente di Shakespeare, senza i quali i suoi drammi sono male interpretati dai contemporanei, i quali li considerano invece dettagli realistici, descrizioni vere di persone. Per esempio, c’è un concetto che corre per tutto il Re Lear – come corre anche per tutto il Riccardo II – un concetto che era terribilmente reale ai tempi di Shakespeare: l’idea del re. Con il nome di diritto divino, assai sfortunata espressione, questo concetto s’è confuso fra gli alterchi parlamentari e settari, i quali infine ne hanno smussato e diminuito la dignità. Ma il concetto di diritto divino era in origine ben più umano di così, e si risolveva pressappoco in questo; ci sono tre modi in cui l’uomo concepisce l’idea di giustizia o quella dell’autorità dello Stato: sotto forma di un’assemblea, sotto forma di documento, o nella forma di un uomo. Re Lear è un uomo, ma è o è stato un uomo consacrato, ed è per questo che può essere dissacrato. Persino coloro che preferiscono essere governati dal rotolo dalla legge debbono comprendere che gli uomini hanno voluto, e potranno volerlo ancora, essere governati da un uomo; e che dove questo volere è esistito, l’uomo diventa non divino, ma certamente diverso dagli altri. Non è un caso che Lear sia un re e un padre, e che Gonerilla e Regana siano non solo figlie ma traditrici. Il tradimento, o quello che si percepisce come tradimento, spezza il cuore del mondo. E raramente è stato così vicino allo spezzarsi come in questo caso.

Nell’analizzare un dramma di Ibsen il critico moderno dà sempre per scontato che da esso si debba dedurre qualche cosa che riguardi la morale o il matrimonio o, che so, il socialismo o il libero amore. Alcuni, per esempio, credono che I fantasmi sia una denuncia contro un certo tipo di vita matrimoniale. Di costoro posso solo dire che se Re Lear fosse scritto ai tempi nostri da un norvegese, quelli penserebbero che sia una denuncia contro l’abitudine di crescere i propri figli.

Nel Sedicesimo o Diciassettesimo secolo a nessuno è mai venuto in mente di considerare Re Lear un pamphlet contro i genitori, Amleto un pamphlet contro l’istruzione universitaria o Otello un pamphlet contro i matrimoni misti fra bianchi e neri. Al tempo in cui queste tragedie furono scritte, gli uomini le accettavano in quanto tragedie, vale a dire, come semplici storie sull’antica tristezza del mondo. La morale di Lear non era e non è che un gentiluomo debba consegnare le sue figlie al consiglio comunale perché le educhi al suo posto; non c’è alcuna morale in questa storia, se non il monotono «sunt lachrymae rerum».

Il fatto curioso è che l’uomo ha speranza pur vivendo nel dolore, a patto che il dolore sia senza speranza. Ma di questi tempi siamo costretti pur contro la nostra volontà a giudicare moralmente qualsiasi cosa, persino il teatro. Un gruppo d’artisti ed esteti ha dichiarato ai tempi nostri che l’arte è immorale, ma la verità rimane, evidentemente, che non c’è mai stato un momento nella storia del mondo in cui l’arte sia stata tanto morale; se c’è una colpa nella critica oggi popolare è che è esageratamente morale.

Riccardo III (e Nietzsche)

Nietzsche, come tutti sanno, predicò una dottrina che sia lui sia i suoi seguaci apparentemente ritengono profondamente rivoluzionaria: sosteneva che il comune senso morale altruistico fosse l’invenzione di una classe di schiavi allo scopo di prevenire l’emergere di un tipo d’uomo superiore che la avversasse e infine la governasse. Ora, la gente di oggi – sia che concordi con questa idea sia che la respinga – parla di quest’idea come se fosse nuova e mai sentita prima. Si suppone dunque con tranquillità e senza dubbio alcuno che i grandi scrittori del passato – come per esempio Shakespeare – non l’avessero mai formulata perché non l’avevano mai immaginata: non gli era proprio venuta in mente.

Volgiamoci allora all’ultimo atto del Riccardo III e troveremo non solo tutta la teoria di Nietzsche formulata in due versi, ma anche con le stesse parole. Riccardo dice ai nobili:

Coscienza non è che una parola che usano i vigliacchi,
inventata apposta per tenere in soggezione i forti17.

Come ho già detto, mi pare che il fatto sia evidente. Shakespeare aveva pensato a Nietzsche e alla morale dei signori, ma a quest’idea aveva dato il giusto peso e l’aveva messa al posto giusto, e il posto giusto sono le labbra di un gobbo mezzo matto sul punto d’essere sconfitto. Questa furia contro i deboli è possibile solo in un uomo coraggioso al punto della follia, ma fondamentalmente malato: un uomo come Riccardo, un uomo come Nietzsche.

Questo esempio da solo dovrebbe distruggere l’assurda convinzione che queste filosofie moderne siano moderne nel senso che nessuno dei grandi pensatori del passato le aveva mai formulate. Eccome se l’avevano fatto. La differenza è che non le credevano niente di che; non è che Shakespeare non avesse visto l’idea di Nietzsche, l’aveva vista, ma vi aveva anche visto oltre.

Il Mercante di Venezia

È noto che alcuni dei più grandi uomini della letteratura abbiano plagiato uomini d’inferiore grandezza, e che anche più spesso abbiano preso in prestito immagini tratte da leggende popolari di autori anonimi; tuttavia, per abitudine non rendiamo grande giustizia al valore di questi primi canovacci da cui hanno tratto le loro storie. Inoltre, pensiamo esclusivamente all’opera del grande uomo e troppo poco alla grande opera di questi uomini minori. Soprattutto, però, manchiamo di osservare che l’idea o la filosofia di quella storia sono già presenti nella prima, rozza, versione di quella vicenda e non solo nell’opera finita.

Un esempio renderà più chiaro quello che intendo dire. Nel recente volume del professor Raleigh su Shakespeare, questo critico attento ed efficace ci spiega (e nell’insieme direi che ha ragione) che è possibile fare un gran chiasso sui cosiddetti misteri che circondano Shakespeare, e che molti di questi misteri non sono che fatti accidentali, e che limitano le potenzialità del drammaturgo. Ma pur sostenendo questo, egli suggerisce, mi pare di capire, che una certa brutalità nella costruzione del Mercante di Venezia abbia impedito a Shakespeare di rendere una vera giustizia spirituale al carattere di Shylock. Egli sostiene che la cruda e antica vicenda della libbra di carne sia stata una limitazione per Shakespeare, e gli abbia impedito di dipingere con compassione e comprensione un nobile ebreo.

Se ricordo correttamente quello che sostiene il professor Raleigh, egli crede che Shylock sarebbe un personaggio ben più fine e sottile senza la storia di Shylock: se è così, egli non rende giustizia a questa grande e antica vicenda.

A ogni modo, è un’ingiustizia che questo dramma deve subire spesso. La verità è che la cruda vicenda della libbra di carne è assai spirituale. Per di più, era proprio il tipo di storia che Shakespeare amava e desiderava raccontare, da cui trarre una vera e profonda spiritualità. Nessuno a parte Shakespeare avrebbe potuto rendere esplicito questo pensiero, ma bisogna ricordare che in forma implicita quest’idea era già presente nell’antica, poetica ballata del mercante e dell’ebreo.

L’idea di cui parlo è la filosofia profonda della misericordia o della carità, che Belloc ha chiamato in uno dei suoi scritti «il riconoscimento e la comprensione delle cose vive». In altre parole, esiste una sorta di compassione – una specie di riserva – che agli organismi viventi è cosa dovuta, e che invece non si può adoperare con gli esseri inorganici: in un certo senso è possibile essere giusti anche nei confronti di un sasso, ma nei confronti di un fungo si può essere misericordiosi. Quando una cosa vive, la sua vita presume interdipendenza, diffusione di potere, e dunque diventa necessario rapportarsi a essa con compassione e comprensione e non considerandola solo per sé stessa, ricordando che una cosa va necessariamente con un’altra e che non si può danneggiare le singole parti senza far danno all’insieme.

Se si taglia in due una pietra, il risultato saranno due metà di una pietra: ma se si taglia un cavallo a metà, si otterrà solo una quantità di carne di cavallo eccessiva per qualsiasi possibile scopo.

Ora, l’antica vicenda dell’ebreo e del mercante di Venezia era una satira su quella durezza mercantile che prende tutto alla lettera, che si ostina ad applicare contratti rigidi e un’esattezza crudele alla vita e a tutte le cose che vivono. L’ebreo, simbolo medievale di questa poco cavalleresca tendenza al calcolo, diceva d’avere il diritto legale di richiedere una libbra di carne, né più né meno. Era inutile fargli notare che quella libbra era parte di una vita, e che prendere quella significava – di fatto – prendersi molto di più. Alla fine, dopo aver rifiutato tutti i possibili appelli alla generosità e al buon senso, egli viene sbaragliato dalla reductio ad absurdum della giustizia. La sua stessa folle logica viene applicata fino in fondo ma questa volta contro di lui, distruggendo il suo caso. Potrà prendere la libbra di carne se sarà in grado di ottenerla senza versare neanche una goccia di sangue.

L’intera leggenda, cruda e brutale com’è, contiene già la limpida voce della morale cristiana e della saggezza europea. È una protesta contro la pedanteria che sempre si trasforma in disumanità. Shakespeare ha preso questa storia così selvaggia e, vedendone l’innata intelligenza, l’ha trasformata in altissima saggezza spirituale. Era certo dell’ingiustizia che l’ebreo commetteva tanto quanto lo era l’uomo medievale, ma l’ha enfatizzata rendendolo grottesco ma al contempo patetico e poetico; invece di proporre al pubblico l’esempio di un usuraio comico e farsesco, ha scelto di rappresentare un uomo di una certa grandezza che cade nell’errore, perché la sua moralità è andata alla deriva. Shylock, dal suo punto di vista, sta solo chiedendo che vengano rispettati i suoi diritti, ma non riesce a comprendere che assai spesso quando si ha a che fare con gli esseri viventi togliere qualcosa a qualcuno significa fargli torto, perché questo non è un mero atto di sottrazione, ma anche di aggiunta: e quest’aggiunta è una ferita.

La moralità di Shylock non ha in sé sufficiente misticismo da fargli capire che toccare un essere vivente significa violare un santuario, nel quale attendono per colpirlo vendette sconosciute, e la filosofia di Shylock non ha quantità sufficiente di humor – qualità compagna del misticismo – che possa fargli comprendere che è sciocco anche solo il dire di possedere una parte di un altro uomo.

La filosofia di Shylock, pedante e disumana, è comune a tanti individui dei nostri giorni, rispettabili e sinceri quanto Shylock. È identificabile dall’incapacità di comprendere l’interdipendenza di tutte le parti di ciò che ha vita. Per esempio, quando si discuteva della soppressione della nazionalità di qualche piccolo paese, ho sentito un dignitosissimo soldato delle guardie reali dire «ma questa gente in fondo dovrebbe solo rinunciare alla bandiera, che è un mero ornamento». A questa frase ho dovuto rispondere: «Gentile signore, l’unica cosa che le chiedo è di tagliarsi la testa, che sono sicuro non sia altro che un ornamento. Il restante della sua graziosissima persona resterà in perfetto funzionamento; potrà salutare con la mano e ballare il walzer con le sue gambe esattamente come prima, senza quel simbolo sentimentale che si trova sulle spalle, del quale, se me lo concede, mi sono un po’ stancato».

Ahimè, questa è la debolezza della filosofia di Shylock, perché – come mi ha spiegato il soldato con lucidità e pazienza – la sua testa, per quanto inutile agli scopi più elevati, gli era comunque essenziale sia per le esercitazioni militari che per il walzer, e insomma che non potevo portargli via la testa senza anche portargli via la vita, cosa assai più importante della testa. E allora gli ho detto che una comunità cristiana è un animale dalla forma assai strana, ed è spesso difficile identificare precisamente dove si trovi la testa che contiene la vita; ma, di solito, la testa è la bandiera. Non credo però che abbia capito cosa volevo dire.

*

Qualche tempo fa è nato un dibattito, sulle pagine in un importante quotidiano, sulla questione del carattere di Shylock in Shakespeare. Attori e autori di valore, alcuni dei quali ebrei, hanno dato su questa vicenda i punti di vista più disparati. Alcuni sostenevano che Shakespeare non abbia mostrato la dovuta compassione per Shylock a causa dei pregiudizi del tempo, altri che non l’abbia mostrata solo per paura dei poteri alti del tempo. Alcuni si chiedevano in che modo o perché Shakespeare si sia servito come ispirazione della nota e strana vicenda della libbra di carne, e che cosa avesse a che fare questa vicenda con un personaggio di tanta intelligenza e di tanto valore come Shylock. In poche parole, alcuni si chiedevano perché mai un uomo di genio fosse così antisemita, mentre altri si dicevano assolutamente certi che fosse pro semita. Tutti, però, hanno ammesso in qualche modo di essere incerti sul significato finale di quest’opera. I botta e risposta sono andati avanti per settimane, riempiendo pagine e pagine, ma da nessuna parte – dalla prima all’ultima parola di questo dibattito – si legge la parola «usura». È come se venti critici autorevoli si dedicassero per un mese a discutere la vicenda di Macbeth, con la proibizione di menzionare la parola «assassinio».

Il dramma intitolato Il Mercante di Venezia però tratta di usura, e la sua vicenda non è altro che una satira medievale sull’usura. Trattarla come una storia goffa e grottesca ormai è di moda, ma bisogna dire che invece è una storia bellissima. Per lo scopo che vuole ottenere è perfetta e centratissima, e lo scopo è naturalmente la sua morale. La sua morale è che la logica dell’usura è nella sua stessa natura in contrasto con la vita, e logicamente finirà col fare irruzione nella casa della vita, spargendo sangue.

In altre parole, se un creditore può sempre chiedere indietro i possedimenti o la casa di un altro uomo, allo stesso modo potrebbe reclamare una delle sue braccia o delle sue gambe. Questo principio non era solo incarnato nelle satire medievali, ma anche nella legge medievale, che metteva un limite all’usuraio che tentasse di portar via a un altro uomo i suoi mezzi di sussistenza – come l’usuraio di Shakespeare che vuol portar via la vita a un altro uomo. E se qualcuno pensa che l’usura non possa mai giungere a questi livelli di crudeltà, significa che quella persona non sa nulla di usura o ne sa troppo: o è uno di quei ricchi innocenti che non sono mai stati vittima di usurai oppure è uno di quei ricchi potenti e influenti che sono loro stessi usurai.

Questo è un fatto che va affrontato, ma c’è un altro aspetto in questa vicenda, ed è proprio questo che il genio di Shakespeare ha reso manifesto. Quel che Shakespeare ha fatto – e che l’autore satirico medievale non ha fatto – è stato tentare di capire Shylock, di comprendere Shylock l’usuraio come ha compreso Macbeth l’assassino. Non voleva dunque negare che quell’uomo fosse un usuraio, ma affermare che quell’usuraio era un uomo; il drammaturgo elisabettiano lo rende uomo, mentre l’autore satirico medievale l’aveva reso un mostro. Shakespeare non solo fa di Shylock un uomo, ma anche un uomo sincero e dignitoso. Il punto però è questo: Shylock è un uomo sincero che crede sinceramente nell’usura. È un uomo dignitoso che non disprezza se stesso per essere un usuraio; insomma, l’usura per lui è una cosa perfettamente normale. In questa parola dunque si trova riassunto l’intero problema dell’opinione comune nei confronti degli ebrei. Quel che Shakespeare ha sottilmente e compassionevolmente suggerito a proposito di quell’ebreo, milioni di altri uomini comuni l’hanno suggerito in modo molto meno sottile e meno compassionevole.

Sogno di una notte di mezza estate

La più grande delle commedie shakespeariane è in un certo senso anche il più grande dei suoi drammi. Nessuno sosterrebbe questa tesi se la si considera dal punto di vista dell’analisi psicologica, se con analisi psicologica intendiamo lo studio dei singoli personaggi del dramma; nessuno direbbe mai che Puck sia un personaggio nello stesso senso in cui lo è Falstaff, o che la critica sia rimasta folgorata dalla profondità psicologica di un una Fior di pisello. Tuttavia, in un certo qual modo, quest’opera è forse un trionfo ancora maggiore, dal punto di vista della creazione psicologica, dello stesso Amleto.

Ci si può a buon diritto chiedere se esista un’altra opera al mondo in cui un’atmosfera sociale e spirituale sia stata resa altrettanto vividamente: per esempio, in Amleto si respira un’atmosfera piuttosto cupa e a volte persino melodrammatica, ma essa è subordinata all’importanza del protagonista, e gli è moralmente inferiore. Quella cupezza non è che il fondale che fa risaltare la stella isolata dell’intelletto. Sogno di una notte di mezza estate, invece, è lo studio psicologico non di un individuo solitario, ma di uno spirito che accomuna l’umanità intera. Sei uomini potrebbero essere ospiti di un qualche pub e non conoscersi per niente, non sapere nemmeno i rispettivi nomi, e non essersi mai incontrati prima né incontrarsi mai più in seguito, ma la notte o il vino o grandi storie o qualche ricca e profonda discussione hanno la potenzialità di farli sentire un tutt’uno e, se non esclusivamente l’uno con l’altro, quanto meno con quell’invisibile settimo uomo, che non è altro che l’armonia del loro stare insieme. Quel settimo uomo è l’eroe di Sogno di una notte di mezza estate. Un’analisi dell’opera dal punto di vista letterario o filosofico dovrebbe dunque basarsi sulla chiara comprensione di che cosa sia questa atmosfera.

In una lezione su Come vi piace, il signor Bernard Shaw ha espresso un’idea che definirei un ammirevole esempio della sua incredibile ingenuità e di uno dei suoi limiti più interessanti: sostenendo che il senso di leggerezza e l’ottimismo delle commedie fossero per Shakespeare l’unica possibilità per scrivere opere cinicamente commerciali, Shaw suggerisce che il titolo «Come vi piace» non fosse altro che uno sprezzante commento indirizzato al pubblico, e che esprimesse dunque il disprezzo nei confronti dei gusti dell’epoca e del proprio lavoro. Se Shaw se ne fosse uscito con l’idea che Shakespeare costringesse Ben Jonson a indossare vestiti di una nota marca americana o a unirsi all’esercito del Blue Ribbon o anche a distribuire pamphlet contro i tassi di interesse non sarebbe comunque riuscito a inventarsi niente di più radicalmente opposto allo spirito della commedia elisabettiana di questa sciocca provocazione modernista, che trasuda dispetto e senso di superiorità.

Sì, Shakespeare ha messo in bocca al colto e puntigliosissimo Amleto, perso nel suo mondo di intelligenza e malinconia, parole di ammonimento nei confronti degli attori, perché non esagerassero con il voler assecondare il gusto della massa; però, lo spirito profondo nonché il significato delle grandi commedie stanno nella rumorosa comunanza che si crea fra pubblico e spettacolo, una comunanza così caotica che intere scene di leggerezza o di violenza ci fan quasi pensare che qualcuno degli spettatori urlanti avesse d’un tratto invaso il palcoscenico, unendosi agli attori sulla scena.

Il titolo «Come vi piace» è, ovviamente, espressione di una certa noncuranza, ma non dell’acida noncuranza che vi legge – fantasticando – Bernard Shaw. La semplice prova di questo fatto sta nell’abbondanza di titoli simili nella storia della commedia elisabettiana. «Come vi piace» merita dunque una spiegazione cupa e sarcastica, quando la tradizione vuole che altre commedie si intitolassero «Quello che volete», «Un mondo folle, signori miei», «Se non va a finir bene, c’è di mezzo il demonio», «L’allegria di un giorno felice» e «Sogno di una notte di mezza estate»? Ciascuno di questi titoli viene lanciato sul capo del pubblico con la noncuranza con cui un signore ubriaco lancerebbe la borsa al suo servitore.

Ora, nella ragione di questo errore moderno e pedante si nasconde l’intero segreto e la difficoltà di opere come Sogno di una notte di mezza estate; il sentimento che pervade questa commedia, se mai fosse possibile riassumerlo, si potrebbe chiudere in una sola frase: è il misticismo della felicità. Vale a dire, è il concetto secondo il quale finché l’uomo vive in una terra di confine egli può trovarsi immerso in un’atmosfera spirituale o soprannaturale, non solo grazie a una profonda tristezza o a intensa meditazione, ma anche grazie a una stravagante felicità. L’anima umana può essere rapita fuori dal suo corpo durante un’agonia di dolore o in uno stato di trance estatico, ma può anche essere rapita dal corpo grazie a una risata esplosiva.

Sappiamo bene che il dolore può superare se stesso, ma anche il piacere sa farlo, secondo Shakespeare, e può così diventare qualcosa di pericoloso e sconosciuto. Il motivo per cui la moderna scuola letteraria, tutta logica e distruzione, di cui Shaw è un esponente, non comprende la sostanziale natura di esuberanza delle commedie è semplicemente che il suo atteggiamento logico e distruttivo ha reso impossibile anche solo avere la più piccola esperienza di questa esuberanza preternaturale. E infatti, non possiamo proprio vivere il sogno di una notte di mezza estate se il nostro unico scopo nella vita è mantenerci svegli con il caffè nero della critica. Il fatto che affronta e misura, peraltro nobilmente e giustamente, Sogno di una notte di mezza estate è questo: la vita del risveglio o la vita della visione – qual è la quella vera, la sine qua non dell’uomo?

Per quanto riguarda la poesia e l’esaltazione delle parole, Shakespeare non ha mai raggiunto un livello alto come in quest’opera; a parte questo, a ogni modo, il supremo merito letterario di questa commedia sta nella sua costruzione. La simmetria incredibile, e l’incredibile bellezza artistica e morale di questa simmetria, possono essere descritte con pochissime parole.

La storia si apre nel mondo quieto e di ogni giorno, con la gioiosa serietà dell’amore fra giovani e dell’amicizia fra giovanissimi. Poi, mentre i personaggi si inoltrano nell’intricata foresta delle nuove difficoltà e della felicità rubata, uno strano cambiamento e un senso di confusione si abbatte su di loro. Perdono la via e si confondono, perché si ritrovano nel cuore della terra delle fate. Anche le loro parole, i desideri, le loro stesse immagini diventano sempre più incerti e fantastici, come in un sogno dentro un sogno, nella nebbia soprannaturale di Puck. Alla fine i vapori del sogno si dissolvono, mentre spettatori e personaggi iniziano a svegliarsi al suono di corni e ai guaiti dei cani, in un mattino chiaro e fresco. Teseo, incarnazione di un razionalismo felice e generoso, espone con versi noti e superbi l’immagine sana di questa esperienza della mente, facendo notare con scetticismo rispettoso e comprensivo che fate e incantesimi non sono che emanazioni – i capolavori dell’inconscio – dell’uomo. E così tutta la compagnia ritorna a immergersi in una splendida, umana, risata. Si corre allora ai banchetti e al divertimento degli spettacoli, allietati da quelle conversazioni frivole e ispirate in cui ogni frase felice sembra morire per darne alla luce un’altra: se mai un uomo, nei suoi vagabondaggi, si è sentito a casa accanto a un focolare sorseggiando vino, si sentirà davvero a casa nella dimora di Teseo.

Tutto è stato dimenticato, come accade con quei sogni malinconici che, seppur ancora chiari al mattino, si spengono poi alla sera nella certezza trionfante di qualche festa; e così, con questa naturalezza, sembra terminare la commedia: sulla terra aveva avuto inizio e sulla terra si conclude.

Dunque, terminare l’intero sogno di una notte di mezza estate nell’eclissi del mattino è certo una scelta geniale. Tuttavia, come ho detto, in questa commedia il genio supera sé stesso, e un ultimo tocco rende quest’opera non solo geniale ma colossale. Teseo e la sua compagnia si ritirano in un finale scoppiettante, pieno di humor e di saggezza e finalmente di ordine e certezze, e sulla casa scende il silenzio. Ma ecco, si odono i ticchettii di piccoli piedi, e per un momento, per così dire, gli elfi si affacciano alla casa e si interrogano su quale sia la realtà. «Immaginate, se fossimo noi la realtà e loro le ombre». Se questo finale fosse recitato come si deve, qualsiasi uomo d’oggi si sentirebbe scosso fino al midollo se, per tornare a casa dal teatro, dovesse attraversare qualche stradina di campagna.

È una questione trita e ritrita, ovviamente, per quanto forse sia indispensabile notarla se si vuole analizzare questa commedia, quella che riguarda un altro punto di perfezione artistica dell’opera: la straordinaria accuratezza e umanità con cui è descritta l’atmosfera di un sogno. Il senso di caos, angoscia e frustrazione tipico degli accadimenti o delle persone che si sognano è ben conosciuto da chi abbia sognato di cadere perpetuamente da un precipizio o di perdere continuamente un treno. Seguendo con precisione le norme narrative tipiche della commedia, l’autore riesce a includere nella storia tutte le peculiarità che appartengono all’irrazionalità del sogno, ciò che lo rende esasperante: l’inseguimento di qualcuno che non riusciamo a raggiungere o la fuga da qualcuno che non vediamo; il continuo ritornare nello stesso luogo, il continuo mutamento dell’oggetto del nostro desiderio, la sostituzione di un volto con un altro, la sostituzione dello spirito di una persona con quello di un’altra, le confusioni e le cattive interpretazioni di cui è foriera la notte, ecco, tutte queste cose sono certamente importanti. Forse, è ancora più importante notare un’altra cosa, e cioè che nella confusione della commedia troviamo un’altra caratteristica tipica dei sogni: si può infatti comunemente sostenere che il sogno combini un’assoluta discordanza di avvenimenti con una stranissima unità di percezione: tutto cambia, eccetto il sognatore. Il sogno può iniziare con qualsiasi cosa e terminare con qualsiasi cosa, ma se il sognatore è triste lo sarà all’inizio e alla fine, e se è allegro all’inizio resterà allegro fino alla fine del sogno, anche se il mondo dovesse crollare.

Sogno di una notte di mezza estate comprende ed esprime ad altissimi livelli questo acutissimo aspetto. Gli eventi che accadono nella fuga nel bosco sono, se analizzati alla luce del giorno, non solo malinconici ma anche aspramente crudeli e vergognosi. Eppure, avvolgendoli in un’atmosfera magica come la nebbia di Puck, Shakespeare riesce a trasformarli in qualcosa di misteriosamente divertente e allegro anche se palpabilmente tragico, misteriosamente gioioso e pieno di generosità, anche se profondamente cinico. Shakespeare riesce in qualche modo a strappar via la ferocia dalla tragedia e dal tradimento, come accade in un sogno piacevole, senza mal di denti, con una tigre mansueta o un precipizio senza pericolo di schiantarsi.

La creazione di una simile atmosfera, un sentimento non tanto indipendente quanto opposto alla vicenda narrata, è un trionfo artistico ancora maggiore della creazione del personaggio di Otello.

È difficile avvicinarsi criticamente a una figura imponente come Nick Bottom. Egli è una figura ben più grande e più misteriosa persino di Amleto, perché uomini simili sono interessanti per il loro ricco subconscio, mentre personaggi come Amleto sono interessanti per la ricchezza della loro coscienza, che è un elemento comparativamente più superficiale. È poi particolarmente difficile comprendere questo tipo di grandezza al giorno d’oggi, in un’epoca in cui tutti sono fissati con l’intelligenza. Bisogna infatti dire che siamo in qualche modo vittime di una strana confusione, secondo la quale essere grandi dovrebbe in teoria aver qualcosa a che fare con l’essere intelligenti, come se ci fosse la minima ragione per supporre che Achille fosse un uomo intelligente, quando invece abbondano prove del fatto che fosse poco meno che un imbecille.

La grandezza è una qualità indescrivibile ma perfettamente riconoscibile e palpabile, che dipende dalla personalità, e che ha a che fare con la fermezza, con una certa forza, e con la naturale capacità di esprimere se stessi. Un uomo del genere è solido come un albero e unico quanto un rinoceronte, e potrebbe tranquillamente anche essere stupido quanto un albero o un rinoceronte.

Ebbene, come il grande poeta torreggia sul poeta mediocre, così il grande folle troneggia sul folle mediocre. Tutti abbiamo conosciuto rustici come Nick Bottom, uomini i cui volti resterebbero vuoti e spenti se provassimo per dieci giorni di fila a spiegargli il significato di debito nazionale e che tuttavia sono grandi uomini, simili a Sigurd o a Ercole, eroi dell’alba del mondo, perché le parole che dicono sono solo loro, e così i loro ricordi, e il loro orgoglio è grande e semplice come una montagna. Tutti abbiamo avuto amici così, uomini che gli intellettuali definirebbero imbecilli ma la cui presenza in una stanza è scoppiettante come la fiamma di un focolare, capace di mutare tutto, luci e ombre e persino l’aria; uomini che trasformano in evento l’entrare o l’uscire da una stanza, e le cui opinioni una volta espresse sono capaci di insinuarsi nella mente e persuaderla quasi intimidendola; uomini le cui assurdità appassionano e affascinano come la bellezza di un primo amore, e le cui follie vengono raccontate come le leggende di un paladino. Questi sono uomini grandi, e ce ne sono milioni nel mondo, anche se forse ce ne sono pochissimi alla Camera dei Comuni. Non è nelle fredde altezze dell’intelligenza dove le celebrità sembrano sentirsi importanti che dobbiamo cercare i grandi; un salotto di intellettuali non è che la palestra per un solo tipo di facoltà, come avviene a una lezione di scherma o in un corpo d’armata. È nelle nostre case e nel nostro ambiente, da Croydon al St. John’s Wood, fra le anziane balie, fra i gentlemen pieni di hobby, fra le zitelle loquaci e gli ineguagliabili maggiordomi, che possiamo sentire la presenza del sangue degli dei. Questa creatura, così difficile da descrivere e facile da ricordare, il nobile e memorabile fool, non è mai stata descritta in modo tanto magistrale come nel Bottom di Sogno di una notte di mezza estate.

Bottom possiede il segno supremo della grandezza nello stesso senso in cui lo possiedono un santo o un eroe, e cioè egli si distingue dall’umanità perché è più umano dell’umanità. Non è vero, come suggeriscono i cupi materialisti della nostra epoca, che a paragone della maggioranza degli uomini l’eroe appare freddo e disumanizzato: è la maggioranza degli uomini che appare fredda e disumanizzata alla presenza della grandezza.

Bottom, come Don Chisciotte o Zio Toby o Richard Swiveller18 e gli altri Titani, ha un’enorme e insondabile debolezza: la sua frivolezza è su vasta scala, e quando suona la tromba sembra la tromba della Resurrezione. Gli altri contadini della storia accettano la sua supremazia non solo come dato di fatto ma con attiva esuberanza: essi possiedono in pieno quella selvaggia e primitiva incapacità di essere egocentrici, quell’espressiva abnegazione per cui i semplici non si sentono umiliati ma apprezzano l’irraggiungibilità di un eroe, quell’elemento indiscutibile della natura umana che mai al di fuori di questa commedia è stata espressa con tale perfezione, se non nel meraviglioso capitolo, all’inizio di Evan Harrington19, in cui il commerciante, che è appena stato truffato da Great Mel, ne tesse le lodi con trasporto e poesia.

Gli scettici da due soldi sanno solo scrivere dell’egoismo primigenio dell’uomo, ma solo uomini come Shakespeare o Meredith sanno scorgere e rendere vivida nel racconto questa meravigliosa, rude e semplice generosità e negazione del sé, che è nata nell’uomo ancor prima dell’affermazione del sé. Solo costoro, con la loro tolleranza insaziabile, sanno percepire tutta la devozione spirituale che alberga anche nell’animo di uno sciocco. È questo gioco naturale fra la ricca semplicità di Bottom e la povera semplicità dei suoi compagni che costituisce l’inarrivabile eccellenza delle scene farsesche di questa commedia.

La sensibilità di Bottom per la letteratura è assolutamente ardente e genuina, ben più genuina di quella che vantano tanti coltissimi critici letterari. Per esempio:

Cozzar di massi morte ed esplosioni
schiantan le porte della prigione
di Fibbio il carro con dardi alati
dall’alto fulmina gli avversi fati20

è un esempio di eccellente dizione poetica, vibrante e palpitante, e se forse vi manca qualcosa di impercettibile nella sfera del significato, è però comprensibilissima come qualsiasi altro discorso retorico che Shakespeare abbia posto sulle labbra di re o amanti, e persino su quelle degli spiriti dei defunti. Se Bottom poi può esser considerato un amante dei discorsi un po’ fatui, la cosa costituisce un altro punto di contatto e comunanza fra lui e il suo creatore letterario. Ma lo stile di questo passo, per quanto deliberatamente eccessivo e ridicolo, è però interamente letterario: le allitterazioni si susseguono una dopo l’altra, come fa l’onda che monta prima di schiantarsi. Non vi è nulla di male in questa stravaganza, e in tutto il regno della letteratura non esiste un altro personaggio che sia così interamente privo di volgarità.

Dickens, che forse più di chiunque altro – e sicuramente più di qualsiasi uomo d’oggi – aveva il dono della stessa ospitalità intellettuale e della stessa saggezza leggera di Shakespeare, aveva compreso e raccontato ammirevolmente la stessa verità; aveva capito, per così dire, che dei perfetti idioti hanno spesso un profondo istinto e un vero entusiasmo per la letteratura.

Il signor Micawber21 amava l’eloquenza e la poesia con la sua intera anima immortale, le parole e l’immaginazione visionaria lo tenevano in vita in assenza di cibo e denaro, come avrebbero potuto tenere in vita un santo che digiunasse nel deserto. Dick Swiveller non citava continuamente e lungamente Moore o Byron solo per fare lunghe e noiose digressioni, ma perché amava la poesia. Il sincero amore per i libri non ha niente a che fare con l’intelligenza o la stupidità, come qualsiasi altro amore che sia sincero. È una qualità che ha a che fare con il carattere, una freschezza, un potere che deriva dal piacere e dalla fede. Uno sciocco può dilettarsi a leggere capolavori come a raccogliere fiori: può essere innamorato di un poeta come lo è di una donna. E il trionfo di un personaggio come Bottom sta nel fatto che ama la retorica e ha un suo gusto per l’arte, e questo è il massimo cui Teseo possa aspirare (o anche Cosimo de’ Medici, se è per questo).

C’è un altro aspetto di questa grande opera che dovrebbe essere tenuto sempre a mente, e cioè la sua perfetta armonia estetica, che si percepisce a partire dal colpo da maestro del nome di Bottom a quello del fiore della pozione magica, la viola del pensiero. In tutta la storia non c’è che una sola, accidentale, nota stonata, e cioè nel nome di Teseo e in quello della città – Atene – in cui ha luogo la vicenda. Infatti, la descrizione che Shakespeare dà di Atene in quest’opera è la miglior descrizione dell’Inghilterra che lui o altri abbiano mai prodotto. Teseo è quasi troppo palesemente un signorotto inglese, devoto alla caccia, gentile coi sottoposti, ospitale ma con un tocco di esuberante vanità. Gli artigiani sono decisamente inglesi, e si rivolgono l’uno all’altro con la strana formalità tipica dei poveri. Ma soprattutto sono le fate a essere inglesi: a paragonarle con i bellissimi e nobili spiriti delle leggende irlandesi vien fatto di accorgersi che dopo tutto anche noi inglesi abbiamo un folklore e una mitologia, o meglio, l’avevamo ai tempi di Shakespeare.

Robin Goodfellow, che salta nella birra delle signore del pub o che le fa cadere dalla sedia strappando il tappeto da sotto i loro piedi, non ha nulla della pungente bellezza celtica. Lui è quanto di più giocoso e sfrenato esista nel mondo invisibile. E forse è per una bassa derivazione dalla vita inglese che i fantasmi americani amano tanto gli scherzi poco dignitosi e pratici.

Ma questa unione di mistero e farsa è tipica del Medioevo inglese. Questa commedia è l’ultimo barlume dell’allegra Inghilterra22, quel distante ma splendido e indubitabile paese. In verità sarebbe difficile definire in cosa consista la verità dell’espressione «allegra Inghilterra», anche se un’idea di che cosa essa sia è assolutamente necessaria alla comprensione del Sogno di una notte si mezza estate. In qualche caso, almeno, si potrebbe dire questo: gli inglesi del Medioevo e del Rinascimento, a differenza di quelli dell’Inghilterra di oggi, sapevano concepire l’idea di un soprannaturale positivo. Fra tutte le cose notevoli che il puritanesimo ha comportato, c’è di certo questo grave errore, e cioè che fra tutte le leggende del cristianesimo che esso ha deciso di conservare e rinnovare, ha scelto proprio la stregoneria. E così è stata spazzata via la superstizione nobile e salubre, per conservare solo quella pericolosa e morbosa.

Nei riguardi della grande favola nazionale del bene e del male, i puritani hanno deciso di uccidere san Giorgio ma di preservare accuratamente il drago. Questo modo tradizionale di avvicinarsi al mondo soprannaturale getta un’ombra sull’Inghilterra e sull’America: se ci capita fra le mani un romanzo sull’occultismo, possiamo stare sicuri che tratterà inevitabilmente di qualcosa di maligno e si concluderà in tristezza. Il motivo di ciò è la scomparsa dell’«allegra Inghilterra» e di Robin Goodfellow. Quella era una terra incredibile per noi moderni, colma di un occultismo gioioso dove un contadino poteva scambiare due battute sagaci sol suo santo patrono, e se la prendeva con le fate bonariamente, come si fa con un servitore pigro.

Shakespeare è inglese in tutto, e soprattutto nelle sue debolezze. Proprio come Londra, che più di ogni altra città mette in mostra i suoi vicoli lordi e nasconde le sue bellezze, così solo Shakespeare tra i quattro giganti della poesia inglese è uno scrittore non studiato, disinvolto, e lascia che ci imbattiamo quasi per caso nei suoi splendori, come capita quando girando un angolo di una strada cittadina ci troviamo improvvisamente davanti a una chiesa antica.

Egli è inglese soprattutto in quella sua inconsapevolezza cosmopolita grazie alla quale si volge a est, con lo sguardo di un bambino, a cercare Atene o Verona. Amava parlare della gloria di paesi lontani, ma ne parlava con la voce e lo spirito inconfondibili dell’Inghilterra; è recente moda, figlia del moderno patriottismo, fare esattamente il contrario, e cioè parlare instancabilmente dell’Inghilterra da mattina a sera, ma parlarne non da inglesi. Nel temperamento inglese vi è una certa noncuranza, incongruenza, e anche una certa svagatezza raffinata: l’uomo addormentato con la testa di asino non è una cattiva descrizione dell’uomo inglese. I filosofi materialisti e i politici meccanicisti hanno certamente avuto successo – almeno in alcuni casi – nel dare a quest’uomo anche una certa unità. L’unico problema che rimane è questo: a quale animale si è felicemente adattato adesso l’uomo inglese? Bottom, il vero eroe shakespeariano, ha vero entusiasmo per la letteratura, come accadeva a quel tempo: è onnivoro, incoerente, stravagante; insomma, l’uomo con la testa d’asino. Il moderno seguace di Ibsen e studente di teatro si è liberato del personaggio ibrido, ma non siamo sicuri a quale dei due animali sia stato definitivamente assimilato.

Falstaff

È di recente sorta una nuova competizione letteraria, che mira a individuare il nostro personaggio preferito nella storia della letteratura; non è un una questione di interesse internazionale, perché sembra che abbia avuto inizio a Londra, anzi, con la rivista «John O’London’s Weekly»23, che certamente rappresenta bene la città. In seguito, però, come fanno tanti John di Londra, la questione si è spostata sulle pagine del «New York Times», dopodiché è ritornata a Londra e a me.

Come molte scelte selettive, anche questa soffre di una sostanziale ambiguità in termini di riferimento su quel che si voglia intendere per «preferito»: preferito potrebbe significare «più credibile psicologicamente» – come tanti personaggi di Balzac, Trollope o di Jane Austen; oppure il più gloriosamente e divinamente incredibile – come tanti personaggi di Dickens; o ancora, quello a cui saremmo affezionati nella vita vera, e questa è tutta un’altra faccenda.

Così, quando H.E. Bates sceglie lo zio Tom e T.G. Powys sceglie Parson Adams, si capisce che costoro amano questi personaggi più come persone che come personae. Quando però Arthur Symons sceglie Père Goriot, egli ha certo scelto il personaggio più vivace o patetico, ma non quello con cui gli piacerebbe vivere; quando L.A.G. Strong offre la palma del secondo posto alla signora Gamp24, lo fa perché la considera una grande conversatrice che gli piacerebbe assai ascoltare, ma non certo l’infermiera a cui affiderebbe in tranquillità la propria vita. In questo senso, ci sono orde di personaggi di Dickens che competono l’uno con l’altro per i miei favori, e molti dei più insignificanti sono in realtà i più importanti. Sono sicuro di non poter omaggiare con l’alloro della vittoria il commesso di Trabb, in Grandi speranze. Egli è la democrazia sublimata, quando bacchetta lo snobismo di Pip.

Ma siccome Strong mette al primo posto Falstaff, io sono spinto a dargli manforte e a spendere due parole su questo grandissimo personaggio, il più originale fra tutti i personaggi comici della nostra letteratura. Voglio farlo perché Falstaff è sempre stato un enigma per i moralisti, ed è stato per una specie di caso fortuito che ho trovato la chiave per comprenderlo.

Mi trovavo in profondo disaccordo con un dottissimo professore di Cambridge riguardo al concetto di superbia, forse un argomento un po’ troppo personale per i professori di Cambridge. A ogni modo, questo professore brontolava che la superbia dopo tutto non sarebbe particolarmente grave, visto che gli spacconi sono generalmente ammirati e visto che tutti amiamo Falstaff. E così improvvisamente ho visto la verità, come spesso mi è successo, come in una lama di luce rivelata dalla nera falsità e dai deliri dei professori: spesso lo studioso è una guida alla verità, perché sostiene chiarissimamente l’esatto opposto della verità.

Falstaff è un vigliacco, un ladro, un vecchio che induce i giovani al vizio; dal punto di vista della nostra definizione di etica, egli non possiede nessuna delle virtù cristiane. Eppure tutti i cristiani lo amano, e hanno ragione. Lo amano perché, nel suo turbine di vizi, non c’è neanche una goccia di superbia. Lui sa chi e che cosa è, e si prende gioco di se stesso per quel che è. Ma poiché la recente etica evoluzionistica ha scordato cosa sia l’umiltà, siamo arrivati al punto di non riuscire più nemmeno a capire la ragione dei nostri affetti. Amiamo Falstaff perché è tutto eccetto un fariseo, e così i suoi ammiratori sono stati spinti a far finta di essere cinici o anarchici, quando la terribile verità è che sono ancora cristiani.

*

Personaggi di minor valore ci danno l’impressione che l’autore abbia detto l’intera verità sul loro conto, mentre quelli più grandi ci danno l’impressione che l’autore abbia detto su di loro non la verità ma solo qualche indizio e abbia voluto darci solo qualche piccolo saggio di ciò che sono veramente. Misteriosamente, ci sembra di percepire che se pure Shakespeare avesse avuto torto riguardo a Falstaff, Falstaff è esistito ed era reale; e che se anche Dickens avesse avuto torto riguardo a Micawber, pure egli è esistito ed era reale.

1. Gli spettatori che in teatro occupavano le gallerie più alte – solitamente i più poveri, perché il biglietto costava meno – venivano soprannominati «gli dei», per due ragioni; la prima è che, trovandosi vicini ai bellissimi soffitti affrescati, spesso a tema mitologico, sedevano letteralmente accanto agli dei. La seconda è che, guardando in basso sia agli attori sia al pubblico più ricco, si trovavano nella posizione degli dei dell’Olimpo, che scrutano dall’alto le vicende umane.

2. Amleto inizia il famoso monologo sul suicidio al verso 56 della I scena del III atto. La seconda citazione si riferisce a una risposta che Amleto dà ai due infidi amici Rosencrantz e Guildernstern, i quali contestavano l’affermazione di Amleto che la Danimarca fosse una prigione. Questa conversazione avviene nella II scena del II atto; i versi che Chesterton cita sono i 248-250.

3. Atto II, scena II, vv. 298-308.

4. Atto I, scena II, vv. 131-132.

5. Atto V, scena II, vv. 10-11; Amleto si riferisce qui a una divinità che «dà forma ai nostri piani».

6. Atto V, scena I, vv. 257-258. Amleto si sta rivolgendo a Laerte.

7. Autore del volume The true Hamlet of William Shakespeare, che Chesterton sta recensendo in questo pezzo.

8. Il mercante di Venezia, Atto III, scena II, v. 72.

9. Amleto, Atto III, scena II, vv. 21-22.

10. Sogno di una notte di mezza estate, Atto V, scena 1, v. 204.

11. Amleto, Atto II, scena II, vv. 584-585.

12. Qui Chesterton cita, pur senza le virgolette, Amleto, atto II, scena II, vv. 576-577.

13. Amleto, atto V, scena I, vv. 152-153.

14. Romeo e Giulietta, atto II, scena II, vv. 1-2.

15. Macbeth, atto I, scena VII, vv. 1-2.

16. Re Lear, atto III; scena II, vv. 96-97.

17. Riccardo III, atto 5, scena III, vv. 327-328.

18. Richard Swiveller è un personaggio del romanzo La bottega dell’antiquario di Charles Dickens.

19. Romanzo di George Meredith, del 1861. Anche Oscar Wilde, nel suo saggio Il declino della menzogna, indicherà in Meredith uno dei suoi autori preferiti, insieme a Balzac.

20. Sogno di una notte di mezza estate, atto I, scena II, vv. 18-25.

21. Personaggio del romanzo di Charles Dickens David Copperfield (1850).

22. La locuzione Merry England (tradotta con l’allegra Inghilterra) si riferisce a un idealizzato e utopico passato inglese, che coincide grossomodo con l’età elisabettiana. È una specie di Arcadia inglese, nella quale era ancora vivo e fecondo il rapporto fra uomo e natura, andato poi perduto a causa dell’avvento della civiltà industriale.

23. Settimanale letterario, pubblicato fra il 1919 e il 1954.

24. È l’infermiera del romanzo di Charles Dickens Martin Chuzzlewit (1834).

Capitolo 3
La religione

IL CONFLITTO FRA LA TRADIZIONE CRISTIANA e l’esaltazione rinascimentale, in tutti coloro che vissero nell’epoca elisabettiana, fu assai profondo e complesso: in nessuno fu profondo e complesso come in Shakespeare. Io però ritengo cosa assolutamente certa che, per quanto difficile e violento sia stato il dissidio interiore, quel tipo di cristianesimo fosse sincero. Shakespeare sguazzava nel paganesimo, ma sfido chiunque legga e che abbia un suo pensiero indipendente a negare che in certi passi vi sia ciò che noi definiamo cristiano, e cioè quella umiltà di pensiero che non è altro che il segno evidente del cambiamento biochimico prodotto nell’uomo dall’avvento del cristianesimo.

*

La religione medievale, compreso l’ascetismo, era assai diversa dal puritanesimo; gli era anzi contraria, e di certo era molto meno cupa. Si differenziava nel suo significato, nel suo movente, nell’atmosfera e nelle conseguenze. Sono talmente diversi, che persino quando si somigliavano pure si differenziavano, come sono diversi un cattolico e un ateo vegetariano quando il venerdì si astengono entrambi dalla carne. Uomini come Shakespeare e Ben Jonson avevano padri e nonni che di certo ricordavano l’antico rito medievale così come era continuato a esistere dopo la Guerra delle due Rose. Anche se il Rinascimento fosse penetrato negli angoli più remoti del Nord (il che sembra comunque improbabile), l’interferenza con la tradizione doveva esser stata relativamente recente e di breve durata. La tradizione infatti doveva esser ancora piena dell’energia delle antiche memorie medievali. In tali circostanze, se i puritani fossero stati uguali ai sacerdoti medievali, sarebbero stati accolti e descritti come tali; il tono dei commenti su di loro sarebbe potuto essere «Oh Signore, ci risiamo con le tristi, vecchie tonache di un tempo!». In realtà, non fu così. Il tono dei commenti fu: «Ma che assurdità dicono questi religiosi?». Così, i personaggi di Shakespeare, che accolgono un frate come qualcuno di familiare e presumibilmente amichevole, parlano invece di Malvolio, il puritano, come di una specie di mostro. Per me è semplicemente incredibile, per la semplice constatazione di come è fatta la natura umana, che la gente parli così di una cosa nuova come se tutte le cose vecchie fossero state esattamente uguali.

*

Ora, quasi tutti gli inglesi sono o shakespeariani o miltoniani. Non intendo dire che ammirino più uno o l’altro, perché chiunque sia in sé ammira infinitamente entrambi. Quel che voglio dire è che entrambi questi autori sono rappresentativi di qualcosa di profondamente inglese, ma sono anche così antagonisti che è in realtà impossibile non trovarsi, segretamente, da una parte o dall’altra. La differenza, per quel che riguarda i due uomini, può essere espressa in tutti i modi possibili, ma ognuno di questi modi, se preso singolarmente, non sembra soddisfacente.

Shakespeare rappresenta i cattolici, Milton i protestanti. Shakespeare non frequentò mai un’università inglese, Milton sì. Milton considerava la rima un giochetto disprezzabile, Shakespeare lo usava anche nei momenti meno appropriati. Milton non aveva senso dell’umorismo, Shakespeare perfino troppo: Shakespeare non lasciava che nulla prendesse troppo il sopravvento su di lui, tranne che la risata. Milton probabilmente fu poco gentile con la moglie, la moglie di Shakespeare fu probabilmente poco gentile con lui. Milton fin dall’inizio e con chiarezza volle fare poesia, Shakespeare cominciò con la vaga idea di voler far soldi. Ogni volta che Milton parla di religione, si capisce che quella è la religione di Milton: la religione che ha fatto lui. Ogni volta che Shakespeare parla di religione (il che accade solo qualche volta), sentiamo che è quella religione ad aver creato Shakespeare. Per finire, Milton era quasi cieco e teneva in gran cura i suoi manoscritti, mentre Shakespeare era spesso ubriaco fradicio e dei suoi manoscritti non si interessava affatto.

Se, dall’alto di questa prospettiva, il lettore non sa crearsi un’immagine mentale dei due uomini, mi dispiace per lui. Se, a ogni modo, questi fatti – pur nella loro innegabile storicità – sono insufficienti, potrei anche aggiungere qualche congettura che possa meglio spiegare la questione.

Si potrebbe scrivere un romanzo divertentissimo sulle avventure dei fantasmi di Shakespeare e Milton in visita nel mondo di oggi: per esempio, se si presentasse il problema di come vestirsi per una cena, Milton deciderebbe o di vestirsi con estrema raffinatezza o di non vestirsi affatto, per principio; Shakespeare invece probabilmente rimarrebbe con i vestiti del mattino, in una imbarazzata pigrizia, oppure indosserebbe volentieri un vestito da sera, ma sarebbe fuori luogo dalla testa ai piedi. Milton sarebbe considerato ovunque un aristocratico, eccetto che fra gli aristocratici; Shakespeare sarebbe considerato ovunque un poco di buono, eccetto che fra gli aristocratici. Se prendessero insieme una carrozza, Milton sarebbe quello che dà le indicazioni al cocchiere, Shakespeare quello che lo paga. Questo argomento, mi rendo conto, si sta ampliando troppo, e non posso fermarmi a raccontare tutti gli altri possibili esempi in cui la condotta di questi due uomini tanto diversi si differenzierebbe in modo significativo; non posso dilungarmi su come si comporterebbero con un lustrascarpe o sull’omnibus per Hammersmith. È sufficiente dire che tutti gli inglesi sono o miltoniani o shakespeariani, e che io, per fare un esempio, non sono un miltoniano.

Molte persone si sono chieste perché Milton sapesse descrivere il diavolo meglio di qualsiasi altra cosa, e io credo che la ragione sia molto semplice: è perché era straordinariamente simile al diavolo lui stesso. Un certo cavaliere, sostenitore di Carlo I, che un puritano aveva denunciato per l’immoralità delle sue truppe, replicò (con una frase che non è sminuita dal fatto di essere storicamente vera): «I nostri uomini hanno le colpe degli uomini: il vino e le donne; ma i vostri hanno le colpe dei demoni: la superbia spirituale e la ribellione».

Politicamente io simpatizzo per i repubblicani come Milton, ma non posso non ammettere che vi fosse una certa verità in quella risposta provocatoria, e che la ribellione di Milton era, quanto meno, frutto di superbia spirituale: era una rabbia gelida, una violenza di pensiero. Non lo biasimo per aver aiutato Carlo I a perdere la testa, ma lo biasimo per non averla persa anche lui. Questo sforzo teso all’estrema correttezza formale, austera e gelida, piena di antiche memorie erudite e di moltissime e degne pubbliche virtù, esiste in Milton ed esiste ancora in Inghilterra. L’Inghilterra miltoniana ha quasi distrutto la vecchia “allegra Inghilterra”, ma non del tutto. La lotta è ancora viva, e Shakespeare è ancora vivo, e con lui anche tutto il Medioevo. La guerra dentro di noi – tra Falstaff, che faceva il male per stupidità, e Satana, che sceglieva il male con intelligenza – va ancora avanti. Falstaff è un fanfarone perché è incompleto, ma Satana è serio perché è completo.

Per questa ragione è impossibile non provare un piacere particolare, se non anche un po’ maligno, pensando al fatto che Shakespeare ha evitato tutte quelle influenze formative ed educative responsabili della nascita del moderno gentiluomo inglese: Shakespeare è sostanzialmente un gigantesco scansafatiche dal punto di vista scolastico, di quelli che bigiano spesso e volentieri la scuola; e infatti, se ne scappò sia dalla scuola che dall’università, o quanto meno se ne tenne lontano, e mi piace molto il fatto che si sia tenuto in disparte anche in occasione degli omaggi e dalle celebrazioni alla sua persona. La carenza di dati biografici sulla sua figura non è, credo, un fatto casuale, figlio delle circostanze o della mancanza di testimonianze scritte; invece, io credo che sia parte di quelle splendide erraticità e vaghezza tipiche della vita quotidiana di un uomo simile. Non sappiamo un granché della vita di Shakespeare, ma dubito che anche Shakespeare ne sapesse molto. La vita non è fatta di eventi: gli eventi, persino quelli felici, sono spesso un’interruzione nella vita. Potrebbe essere che Shakespeare si sia astenuto per un attimo dal vivere, anche solo per immaginare Otello: quando c’è una tale vitalità, persino le esperienze più importanti sono spesso senza forma, inconsce e non vengono conservate o riportate ad altri; può essere dunque che l’ora più felice di Shakespeare sia stata quella in cui si era dimenticato persino il suo nome – cosa che deve aver fatto piuttosto spesso, dato che pare non sia mai riuscito a scriverlo due volte nello stesso modo. Ma, per questa ragione, deve sempre esserci – come ho detto – qualcosa di leggermente artificiale in tutte le esagerazioni e in tutti i misteri con cui Shakespeare viene celebrato in un particolare momento o in un particolare luogo. La famosa frase per cui Shakespeare è «per tutte le età»1 ha in sé una doppia verità: significa che è il tipo di poeta il cui canto durerà per sempre e significa anche che probabilmente era il tipo di uomo che non ha mai saputo cosa fosse il tempo. Ci ricorda cosa Orlando dice a Rosalinda: «Nella foresta non c’è orologio»2.

Il poeta del bosco è libero da ogni catena, ma soprattutto dalla più fastidiosa e oppressiva fra tutte le catene umane: quella dell’orologio. E lo stesso, dopo il tempo, vale per lo spazio. Shakespeare non vive nelle foreste del Warwickshire, ma nella foresta di Arden3. Le sue tracce si possono scorgere ovunque o da nessuna parte: è onnipresente, eppure sfugge. È celato in qualche altro bosco senza nome, nascosto insieme allo spirito dell’Inghilterra, dove Dio ha deciso di renderlo irraggiungibile agli imperialisti e ai ladri.

*

Che Milton fosse protestante, suppongo non sia un fatto da mettere in discussione. Quanto meno, non da chi creda anche solo un poco nella possibilità che i morti ritornino in terra mossi dall’ira. Ma quello che io sostengo riguardo alla religione di Shakespeare è di certo un fatto meno ovvio, anche se non per questo meno vero.

La vera differenza fra una religione e una filosofia è (fra le altre cose) questa: mentre solo persone molto elevate e acute colgono la differenza fra una filosofia e l’altra, le persone semplici, anche quelle non particolarmente intelligenti come voi o me, capiscono la differenza fra una religione e un’altra, perché si tratta della differenza fra due cose ben distinte. La differenza fra due filosofie è sostanzialmente la stessa che intercorre fra due soluzioni di un problema geometrico; la differenza fra due religioni è come quella fra l’odore delle cipolle e quello del mare. Entrambe le religioni potrebbero avere in sé molto di buono: il mare è un’ottima cosa, per non parlare delle cipolle che sono anche meglio. Ma nessuno ha bisogno di una laurea per distinguere l’uno dalle altre. Il pratico e quotidiano mondo del lavoro è testimone di questo fatto, e cioè che le persone comuni non considerano la filosofia una realtà quando invece considerano la religione una realtà. Ci sono persone in carne e ossa, che vivono in case qualsiasi, e che non vogliono avere a servizio un cattolico. Non ho mai sentito di nessuno che abbia messo un annuncio sul giornale, dicendo di non volere assumere un hegeliano. Certa gente, invece avrà una reazione di orrore scoprendo che un tal tizio è ateo, provando per lui repulsione morale e forse anche fisica. Ma la gente comune non prova repulsione per un hegeliano: semplicemente ne ha pietà; fa quel che può per rendergli la vita migliore: lo fa ministro della Guerra4.

Ma c’è un fatto riguardo a quello che costituisce lo spirito di una religione, che è doppiamente difficile, e cioè che se anche tutti sentono istintivamente che cosa esso sia, pure nessuno sa spiegarlo a parole. Non esiste neanche una signora che, dovendo scegliere una donna di servizio, creda, per un momento solo, nella teoria moderna secondo la quale tutte le religioni sono uguali. Una saggia donna di casa probabilmente avrebbe qualcosa da dire anche sul semplice fatto che la sua donna di servizio sia religiosa, ma avrà comunque la certezza che i problemi con cui avrà a che fare saranno ben diversi se la sua donna di servizio è un membro dell’Esercito della Salvezza, o se è cattolica, o se è hindu. Ma il fatto è che per quanto queste differenze siano ovvie a livello istintivo, restano però oscure al linguaggio. La persona più semplice del mondo le intuisce, e quella più intelligente non sa spiegarle.

È per questa ragione che non intendo in questa sede spiegare perché io senta, intimamente, la presenza di una religione in un autore e di un’altra in un altro. Penso che i commenti di Aristotele siano in un certo senso troppo ridotti e sintetici per essere interamente compresi, eppure da questi posso dire che era un pagano; penso che i commenti di Lord Meath5, d’altra parte, siano troppo verbosi e prolissi, eppure potrei giurare con tutta tranquillità che Lord Meath è nato dopo l’introduzione del cristianesimo in Europa. Queste impressioni sono difficili da spiegare, perché appunto sono impressioni generali. Proverò però a dire in qualche modo in che cosa si trova la differenza fra la religione di Milton e quella di Shakespeare. Milton è intriso di quella che io ritengo essere la primigenia e più alta idea di protestantesimo: l’idea secondo cui l’anima dell’individuo metta alla prova e sperimenti tutte le verità che già esistono, per poi chiamare verità di minor valore quella che non ha sperimentato o messo alla prova. Ma Shakespeare invece è intriso della primigenia e più alta idea del cattolicesimo, e cioè che la Verità esiste che ci piaccia o no, che sta a noi adattarci a essa e non il contrario. Milton, con uno splendido senso di infallibilità e di intolleranza, decide di descrivere come le cose debbono essere spiegate: gli è apparso in una visione

…Che dalle vette di questo grande argomento
io possa confermare la Provvidenza Eterna,
e la giustezza delle vie divine rivelare agli uomini6.

Ma quando Shakespeare parla della verità divina, ne parla sempre come di qualcosa da cui lui stesso potrebbe essersi allontanato, qualcosa che lui stesso potrebbe aver dimenticato:

Oh se l’Altissimo non avesse posto la sua legge
contro chi si uccide;

O ancora

Ma se è peccato aver sete di gloria
io sono l’anima più peccatrice
di quante vivono su questa terra7.

Ma davvero io non so se si possa descrivere questo aspetto davvero indescrivibile se non con queste parole: che la religione di Milton era di Milton, mentre quella di Shakespeare non era di Shakespeare.

*

Credo che le recenti scoperte, riportate nel libro di una signora francese, confermino decisamente che Shakespeare morì da cattolico. Io però non ho bisogno di libri o di scoperte per provare che abbia vissuto da cattolico, o più probabilmente, come tutti noi, che abbia provato a vivere da cattolico ma senza successo. Pensava da cattolico e sentiva da cattolico, e vedeva ogni questione primaria con gli occhi di un cattolico. Le prove di questo dovrebbero essere oggetto di un saggio a parte, se mai un’impressione tanto reale può essere provata. Per me è quasi ovvio e palese che Shakespeare fu, realmente e riconoscibilmente, il tipo di cattolico rinascimentale: come Cervantes, come Ronsard. Se però mi si chiedesse a bruciapelo di fornire una spiegazione di questa mia impressione, potrei solo dire che so per certo che era un cattolico leggendo proprio quei passi che ora sono utilizzati per provare che era un agnostico.

*

Che Shakespeare fosse cattolico è una cosa che qualsiasi cattolico percepisce come verità, in qualsiasi aspetto. I pochi fatti noti di politica e di storia supportano questa idea; è una cosa inconfondibile, nello spirito e nell’atmosfera, e soprattutto in un suo certo scetticismo, che in certi aspetti assomiglia al paganesimo.

*

E poi, Shakespeare credeva nel Purgatorio cattolico. Credeva proprio in quella dottrina per cui si differenziavano un cattolico e un protestante:

Condannato per un dato tempo a vagare
Di notte, e di giorno a digiunare tra le fiamme
Finché i turpi delitti compiuti
Non siano bruciati e purgati8.

1. Fu Ben Jonson, amico ed editore di Shakespeare, a scrivere queste parole nella prefazione al First Folio, che racchiude tutte le opere di Shakespeare, apparso nel 1623.

2. Come vi piace, atto III, scena II, v. 275.

3. Si tratta della foresta rappresentata in Come vi piace.

4. Chesterton si riferisce con tutta probabilità a Richard Burdon Haldane, ministro della Guerra fra il 1905 e il 1912. Oltre a dedicarsi alla carriera politica, Haldane ha lasciato molti e notevoli scritti difilosofia; i suoi interessi riguardavano sorpattutto le figure di Hegel e Schopenhauer.

5. Lord Meath (Reginald Brabazon) è stato un politco e un filantropo britannico. Fu un politico particolarmente attento allo sviluppo delle città e al mantenimento dell’Impero.

6. Paradiso perduto, Libro primo, vv. 24-26.

7. Enrico V, atto IV, scena III, vv. 2263-2264.

8. Amleto, atto I, scena V, vv. 10-12. A parlare è il fantasma del padre di Amleto.

Conclusione
Il vecchio e il nuovo

DICO FORSE UN’OVVIETÀ, ma penso che una cosa possa sempre essere nuova se è sufficientemente antica; voglio dire, una cosa può sembrare fresca e nuova a patto che sia così passata da esser stata dimenticata.

In molti esperimenti artistici moderni, specialmente per quel che riguarda il teatro, ho recentemente osservato questo fatto, che cioè quel che chiamiamo «novità» è in realtà un’antica abitudine ormai caduta in disuso.

Si bisbigliava di un nuovo genere di teatro, in Russia e altrove, in cui l’intera scena era concepita per svolgersi tutta nella mente di un personaggio: un teatro di pensieri più che di cose. I personaggi dunque non sono che idee, come per esempio la Volontà o la Memoria o simili. Alcuni hanno deriso quest’idea ritenendola folle, e ovviamente non c’è niente di più facile che liquidare qualcosa chiamandola «folle»; altri invece l’hanno ammirata come un’innovazione, e non c’è niente di più facile che ammirare qualcosa, chiamandola «nuova».

Nessuno però sembra essersi accorto che, per buona o cattiva che sia, quest’idea non è che un ritorno alla concezione antica e religiosa del teatro, ed è una reazione al teatro di oggi, che è sostanzialmente di stampo realistico. Non è altro che quel tipo di dramma medievale che si chiamava Morality1. Trabocca di quell’appassionato appetito per le astrazioni che era caratteristica del Medioevo. Da un lato del palco c’erano i peccati mortali, come Superbia o Gelosia, dall’altro due virtù, come Amore o Pietà, ed essi si scontravano, rappresentando così il conflitto dentro l’anima dell’uomo. In seguito, quando il Medioevo lasciò spazio al realismo e al razionalismo del Rinascimento, la gente iniziò a dire: «Siamo stanchi di queste allegorie, vogliamo vedere superbia e gelosia combattere con amore e pietà nel cuore di un individuo vero, complesso: Otello». In altre parole, prima si prendeva Otello, lo si faceva a pezzi e si mostravano le sue qualità separate una dall’altra; in seguito, Otello fu ricucito e rappresentato come un uomo vero; ora, hanno di nuovo deciso di farlo a pezzi e rappresentarlo come una serie di caratteristiche separate. Non fa alcuna differenza che il Morality moderno non sia portatore della stessa morale dell’antico; non fa alcuna differenza che, in certi casi, esso abbia una morale più oscura e incerta; non fa alcuna differenza se pensiamo che esso debba forse esser chiamato più correttamente Immorality; queste persone presentano al pubblico quella che è a detta loro una tecnica interamente nuova: e questa tecnica ha cinquecento anni suonati.

Ho sentito parlare di un caso ancora più strano, qualche giorno fa. Il caso è più strano perché la tradizione che è ritornata in auge era stata respinta in tempi molto recenti, il che significa che non era abbastanza antica da poter sembrare nuova. Qualcuno mi ha detto che alla Stage Society stavano mettendo in scena un nuovo tipo di dramma psicologico, nel quale il dialogo non rappresentava meramente le battute pronunciate dai personaggi, ma i loro pensieri. Essi dunque lasciavano fluire dalle loro bocche tutto quello che andavano meditando nella loro mente, come se gli altri non fossero presenti, o come se si trovassero nel Palazzo della Verità. Da quel che ricordo, qualcuno l’ha definita la Scuola del teatro espressionista. Questo fatto mi diverte molto, perché io l’avrei chiamata la più vecchia delle più vecchie scuole del melodramma. Ha a che fare con tutte quelle cose che i realisti, quando io ero giovane, cercavano di spazzar via dal teatro come vecchi cenci polverosi, appendici di un modo di far teatro vecchio e artificioso: insomma, si ritorna alle vecchie tecniche teatrali del soliloquio e del “a parte”2.

I realisti della mia gioventù deridevano l’eroe per quei discorsi lunghi e floridi a proposito dell’eroina di turno, che erano in realtà rivolti al cielo, a se stesso o agli spettatori. Lo stesso facevano con il villain di turno, quando, meditando sulla propria vendetta, diceva «verrà il tempo...», in un «a parte» che misteriosamente non udivano gli altri attori sul palco, ma che sentiva tutta la galleria. Si opponevano a quest’usanza perché secondo loro le persone reali non dicono cose simili, e un dramma realistico dovrebbe rappresentare solo quello che la gente dice per davvero. Eppure, sembra proprio che i personaggi di Terenzio e quelli di Shakespeare fossero i precursori di un’arte futurista e di avanguardia. E pensare che venivano scherniti perché troppo antiquati quando stavano percorrendo passo dopo passo la via del progresso! Bisogna dire però che costoro si erano evidentemente fermati troppo presto: nemmeno l’eroe più coraggioso di quei tempi avrebbe osato trasformare l’intera sua parte in un soliloquio; nemmeno il più crudele dei villain si sarebbe mai spinto a tanto da rivelarci tutti i suoi pensieri e le sue sensazioni; ne rivelava alcuni, e sembra che il mondo abbia presto deciso che anche così ne aveva avuto abbastanza.

È ovvio che la questione del soliloquio vada ben oltre il melodramma, e coinvolge anche grandissimi capolavori, eppure sono proprio queste le obiezioni che – ai tempi della critica di Shaw – si muovevano al soliloquio nei drammi di Shakespeare.

È chiaro che ci troviamo davanti a un ribaltamento e insieme a una regressione: il teatro è diventato dapprima più realistico e poi meno realistico, e dallo scontro fra queste due innovazioni contraddittorie non sembra impossibile che si possa ritornare a un certo grado di buon senso. Mi pare evidente che i critici avessero torto ad attaccare così il teatro elisabettiano, e che abbiano anche scelto le basi sbagliate per il loro attacco al melodramma. Se qualche obiezione si può fare alla frase «verrà il tempo..», non è tanto che un uomo in carne e ossa non userebbe una simile espressione, quanto – più probabilmente – che villain e drammaturgo non credevano affatto in quella frase. Il drammaturgo non credeva veramente a quello che stava dicendo, o meglio a quello che stava facendo dire al villain; tuttavia, a dirla tutta, il critico era avventato quanto il drammaturgo: egli ripete il pistolotto sul realismo esattamente come il villain ripete il pistolotto sulla vendetta.

Davvero, il critico realista ai tempi di Ibsen era veramente simile al villain del melodramma; anche i personaggi di Ibsen non fanno che dire «verrà un tempo…»; la gran parte dei drammi di Shaw offre un coro continuo di «verrà un tempo»: non facevano che dire che sarebbe venuto un tempo in cui il teatro sarebbe stato veramente realistico, specchio della nostra vita di ogni giorno, in cui gli uomini avrebbero parlato come fanno normalmente e agito allo stesso modo. Il tempo è venuto, è ha prodotto esattamente il contrario.

Una tradizione, una convenzione, è una forma di libertà. Questa è la realtà che i realisti non riescono bene a mettersi in testa. Una convenzione teatrale non è affatto una limitazione per il drammaturgo, anzi è un permesso che gli consente di staccarsi dalla routine della perenne realtà esteriore, per produrre così una realtà più interiore e intima.

Come la finzione giuridica spesso è stata l’arma di difesa della libertà politica, così la finzione teatrale è la difesa della libertà immaginativa. Per esempio, è solo per convenzione che l’eroe, in una tragedia, parla in versi sciolti. Ma per convenzione non s’intende che si debba dire al signor William Shakespeare: «Lei deve scrivere e dunque scriverà per forza decasillabi precisi, e guardi che conteremo le sillabe per assicurarci che lei lo faccia». Per convenzione s’intende che si possa dire al signor William Shakespeare: «D’ora in poi, Lei è autorizzato a far muovere i discorsi di Macbeth al suono di un certo ritmo e di una certa musica, che forse nella vita vera essi non avrebbero, se questo le permette di raggiungere l’obiettivo di esprimere al meglio le vere emozioni del personaggio».

Se Shakespeare fosse stato costretto dalle regole e limitazioni del realismo, avrebbe dovuto esprimere la disperazione di Macbeth con un «diamine, al diavolo tutto!» o con «che strazio! Che noia!», e queste esclamazioni non esprimono affatto la disperazione (il che fa parte dello strazio).

Ma poiché Shakespeare aveva la libertà di servirsi di una convenzione letteraria, ecco che può far dire a Macbeth qualcosa che nessuno direbbe in vita sua, ma che nondimeno esprime perfettamente ciò che chiunque, nella vita vera, prova. Esprime quel che la musica esprime, anche se nessuno in quelle circostanze reciterebbe quella specifica poesia, come nessuno improvvisamente si metterebbe a suonare il violino.

Il pubblico, poi, vuole che l’emozione sia espressa, e la poesia sa farlo, mentre la conversazione comune no. Nessun’altra opzione se non il verso sciolto lascerebbe mai la libertà di dire: «raccontata da un idiota, piena di strepiti e furia, che non significa niente»; oppure «e tutti i nostri ieri hanno illuminato sciocchi la via alla morte polverosa». È solo un metro artificiale che può dare anima a tanta libertà. Il realista si deve limitare a versi disarticolati e promesse apologetiche, come un maggiore apoplettico in un club.

Comunque, se queste nuove convenzioni anticonvenzionali siano in grado di esprimere tanto quanto le vecchie è un altro paio di maniche; si può intanto dire che gli anticonvenzionali sono tornati alle convenzioni. A ogni modo, il regno del realismo è finito: anche se, per tornare alla realtà, dobbiamo per forza passare per l’irrealtà.

1. Morality plays, anche detti Morality, sono una forma drammaturgica medievale di carattere principalmente didattico ed educativo. Erano componimenti in lingua volgare, fortemente allegorici, incentrati sulla psicomachia, ossia la lotta fra vizi e virtù che si contendono l’anima dell’uomo.

2. L’“a parte” è – in gergo teatrale – una battuta che l’attore recita rivolto verso il pubblico o fra sé e sé, e che per convenzione non viene udita dagli altri personaggi. Quindi è sostanzialmente un modo di dare voce ai pensieri del personaggio.