MIDLAND A STILFS
Thomas Bernhard
TRE RACCONTI
MIDLAND A STILFS
La gente di fuori, chi non ha dimestichezza con la nostra educazione, potrebbe considerare il nostro comportamento, quando l’Inglese è qui, come qualcosa di folle, e considerare noi, la nostra atmosfera a Stilfs, come qualcosa di artificiale, di insopportabile. Anche se viviamo nel costante timore che il nostro amico possa farci visita all’improvviso, anche se tutto l’anno temiamo che possa essere a Stilfs da un momento all’altro, nello stesso tempo pensiamo in continuazione: se all’improvviso apparisse il nostro amico, se fosse qui!, perché non c’è nulla di più terribile, di più pericoloso per tutti noi, con il passare del tempo, in particolare verso la fine dell’inverno, che rimanere per molto, anzi moltissimo tempo da soli qui a Stilfs, in montagna, o meglio, nell’alta montagna, che qui regna sovrana come natura assoluta, soli e lasciati a noi stessi, senza intrusi, senza stranieri. Temiamo, anzi odiamo i visitatori, e nello stesso tempo ci aggrappiamo a loro con la disperazione di chi è totalmente tagliato fuori dal mondo esterno. Il nostro destino si chiama Stilfs, perpetua solitudine. In verità possiamo contare sulle dita di una mano le persone che di tanto in tanto ci fanno visita in qualità di cosiddette persone gradite, ma anche di queste persone gradite abbiamo paura, abbiamo paura che possano farci visita, perché noi abbiamo paura di tutti quelli che potrebbero farci visita, abbiamo sviluppato una paura immane all’idea che in generale qualcuno possa farci visita all’improvviso, sebbene nulla aspettiamo con maggior fervore di un essere umano – e quante volte pensiamo: non importa che specie di umano, fosse pure dis umano! – che venga a farci visita e a interrompere il nostro martirio d’alta montagna, i nostri esercizi spirituali a vita, il nostro inferno di solitudine. Ci siamo rassegnati a stare per conto nostro, ma continuiamo a pensare che qualcuno potrebbe venire a Stilfs e non sappiamo, quando qualcuno viene a farci visita, se sia insensato o dannoso, oppure dannoso e insensato che questa persona ci faccia visita, ci chiediamo se sia necessario che questa persona salga fin qui a Stilfs, se non sia una sleale infrazione della nostra regola di solitudine oppure la nostra salvezza. Quelli che ancora salgono fin qui, quei pochi che comunque si azzardano ancora a salir su da noi, perché esperienze e dicerie ostacolano la loro determinazione, li rendono incapaci di venire a Stilfs, in effetti li consideriamo per lo più come dei vandali. Dopo che una di queste persone è ripartita, riflettiamo per giorni sul grado di distruzione che ha provocato in noi. Allora non parliamo, e con il nostro silenzio, e raddoppiando o triplicando il lavoro fisico nelle stalle e nell’aia e nei boschi, cerchiamo dapprima di sopportare, e poi di attenuare e superare lo stato di paralisi che questo visitatore ha provocato in noi. Di quale immane punizione sia per noi Stilfs ci rendiamo conto nel modo più orribile quando già in breve tempo siamo danneggiati al massimo grado da un visitatore che arriva all’improvviso, inaspettatamente, e noi intensifichiamo il nostro impegno nella fattoria, ci sfiniamo a vicenda in un eccesso di lavoro fisico. La verità è questa: quello a cui vogliamo sfuggire ma che ci imprigiona in modo sempre più spietato, quello che di fatto è diventato una condizione permanente insuperabile, Stilfs, che per abitudine sì amiamo, ma che per buone ragioni detestiamo profondamente, anzi odiamo con un’ossessività persino degradante, Stilfs è quello che cercano queste persone che conosciamo fin dalla prima, primissima infanzia e dall’adolescenza, gente venuta dai più diversi luoghi di vacanza e di studio con gli scopi più diversi, per svagarsi o per calunniare o per distruggere. Tutta questa gente non fa parte del parentado, il parentado non viene più. E in futuro verrà soltanto in occasione di decessi o eredità, e anche in questo caso solo controvoglia. La gente che ancora viene a trovarci non è imparentata con noi, e ci chiediamo quali siano i nostri punti di contatto. Tutta questa gente non è altro che curiosità, e per lo più parla a voce alta e abusa di tutto, ma, pensiamo, per una volta è un cambiamento a Stilfs, modi di dire diversi dai nostri, pensieri diversi dai nostri e così via, e, pensiamo, ci mancava solo quest’uomo, ora abbiamo tradito noi stessi, passano giorni, settimane, ma perché quest’uomo non lo abbiamo subito scaraventato giù dalle mura?, e così via. I visitatori che salgono fin qui per noi sono perdita di tempo e quindi infelicità. Ma ce ne sono alcuni, pochissimi, rarissimi, che ci rendono felici. Uno di questi visitatori per noi è l’Inglese. Ma anche lui, quando è qui, ci dice che cosa è Stilfs, dice che noi non sappiamo che cosa è, che noi non ammettiamo che cosa è, che noi odiamo Stilfs, che commettiamo ininterrottamente ai danni di Stilfs il più grande reato di diffamazione e così via, e lui non capisce il perché, dice che per noi Stilfs è disgusto, apatia e disperazione. La calma e la possibilità di concentrazione, dice, parole che conosciamo, che qui abbiamo sempre sentito dire da tutti quelli per i quali Stilfs è l’opposto. Inoltre tutta questa gente commette il reato di chiacchiera dicendoci di continuo, ad ogni occasione, che cosa è veramente Stilfs, cosa che noi non sapevamo che Stilfs fosse, questa gente che per tutto l’anno ha uno sciocco rapporto di confidenza con il mondo intero e soddisfa i suoi bisogni nelle grandi città. Come l’idiota, da profano, spiega allo specialista la sua materia pieno di presunzione e con l’impudenza di oggi, così i nostri visitatori ci spiegano Stilfs. Dalla loro bocca sempre aperta tutto ci dice che loro sanno quello che noi non sappiamo. I nostri visitatori rispondono in continuazione a domande riguardo a Stilfs che noi, secondo loro, a nostra volta avremmo fatto in continuazione, anche se noi non abbiamo mai fatto ai nostri visitatori una sola domanda riguardo a Stilfs. Perché noi su Stilfs sappiamo tutto. Le opinioni dei nostri visitatori su Stilfs non ci interessano, perché le conosciamo da decenni. Ma anche l’Inglese, che in tutto è stato a Stilfs per un giorno e una notte non più di quattordici volte, ci spiega Stilfs. Andando via dalla tomba di sua sorella, che è morta qui a Stilfs esattamente quindici anni fa precipitando nell’Alz a testa in giù dalla Hohe Mauer, lui, Midland, si sarebbe reso conto che noi, e non intende soltanto me e Franz, ma anche Olga e Roth, noi tutti, viviamo nel luogo più ideale. Non potrebbe immaginarsi luogo più ideale per noi. Sì, ci sospetta di tacere intenzionalmente sul fatto che qui a Stilfs ci sviluppiamo in una condizione ideale, probabilmente, così ha detto, abbiamo fatto, insieme o ciascuno per conto suo, lavori scientifici che, conformemente alla lucidità delle nostre menti, saranno di altissimo valore. Faceva dello spirito, certo, diceva «prodotti intellettuali epocali», ma quello che diceva lo pensava seriamente. Quando è a Stilfs, e attraversa il cortile, quando qui inspira tutto ciò che è riassunto nel concetto di Stilfs e lo analizza, sente l’enormità del materiale che noi, Franz e io, abbiamo già elaborato in una scienza che ormai da un bel pezzo non si può più perdere, anche se noi a questa scienza in realtà non pensiamo più ormai da molto tempo. Lui suppone una compiuta opera di storia naturale: l’avremmo portata a termine, ma per ragioni a lui incomprensibili rifiutiamo di pubblicarla. Ci staremmo trincerando dietro una paura del mondo totalmente insensata. Ha detto: quello che non è più possibile né a me né a nessuno al di fuori di Stilfs, qui è possibile. Avrebbe delle prove del nostro sviluppo, tutto in noi sarebbe una prova che siamo arrivati così lontano come di più non avremmo potuto desiderare. A Stilfs, tra di noi, lui si sente uno che è rimasto indietro. Tutto quello che ha fatto sinora si è impantanato in partenza. Ogni tentativo da parte sua di venire a capo della spazzatura iniziale nel suo cervello sarebbe fallito per via della sua natura o della natura esterna. La megalomania di un ambiente che si conferma come spietato sarebbe stata per lui una micidiale sciagura per tutta la vita. Nelle grandi città, solo per non soffocare nell’imbecillità generale, ha dovuto impiegare, consumare tutte le energie nella società, senza la quale, d’altra parte, non potrebbe assolutamente vivere. («Nella massa, il logorio è totale!»). Noi invece ci saremmo salvati, salvati a Stilfs, avremmo riconosciuto Stilfs, ne avremmo preso possesso nel più felice dei modi. Il futuro è lì davanti a noi senza ostacoli. Franz è andato per la sua strada, io sono andato per la mia strada. A Stilfs tutto quello che ci riguarda è chiaro, per lui più che chiaro. E com’è sbagliato quello che dice, è il contrario di quello che pensa, la realtà. Piccole difficoltà, dice, in modo da non farci spaventare a morte nella nostra felicità di fronte a lui, e ci dipinge un elenco di tutti i vantaggi di Stilfs, tutti terribili, e un paio di ridicoli difetti, osserva lui, ma i piccoli difetti e le difficoltà che ci enumera, soprappensiero, come sentiamo noi, sono in realtà immani, e per noi Stilfs non è, come si è detto, un luogo ideale, bensì micidiale. La nostra esistenza è un’esistenza micidiale. Stilfs è la fine della vita. Ma se dico io che cosa è Stilfs, vengo preso per pazzo. Per lo stesso motivo neppure Franz dice che cosa è Stilfs. E a Olga non lo chiedono, e Roth è incapace di rispondere. Naturalmente noi siamo tutti pazzi. Ma quando una persona afferma ininterrottamente qualcosa che non solo è falso al cento per cento, e non perde occasione per fare quest’affermazione, anzi in fondo e in realtà esiste solo per via di quest’affermazione, consiste ormai sempre solo di una simile affermazione, allora i nervi sono messi a durissima prova. Stilfs! Anch’io del resto, al pari di Franz, come so, nel momento in cui, come Franz, sono stato condannato a Stilfs nel modo più brutale e quindi più imperdonabile, e la pena è diventata effettiva, ho visto sfaldarsi anche i miei pensieri più elementari, e vi ho rinunciato. È vero che, come Franz, quando ero ancora giù a Basilea, a Zurigo, a Vienna, credevo ancora che una volta a Stilfs, che per tutti è sempre stato la quintessenza del silenzio e del raccoglimento, mentre in realtà non è mai stato altro che un covo ad alta quota di ottusità e imbecillità, per quanto straordinarie, un centro di imbecillità culturale, che una volta a Stilfs mi sarebbe stato possibile pensare quello che non mi era possibile pensare né a Basilea, né a Zurigo, né a Vienna, e infine neppure in quella Innsbruck intellettualmente affatto denutrita, sarebbe stato possibile a me (e a Franz) quello che è impossibile in tutte queste città universitarie, cioè svilupparmi secondo le mie capacità intellettuali, senz’altro molto promettenti, così come Franz credeva di potersi salvare dall’insignificanza degli studenti di laggiù tuffandosi quassù, in questa Stilfs che ci attendeva, credeva che lo spaventoso diventasse fruttuoso, l’imprecisione precisione, l’oscurità chiarezza, nel possedimento quassù tra le rassicuranti montagne, che l’oppressione della ragione diventasse piacere della ragione e così via, ma io mi sono ingannato, e anche Franz si è ingannato: a Stilfs da noi non è nato nient’altro che la miseria di due inconcludenti. Laggiù pensavamo a un miglioramento. Quassù è cominciato il peggioramento radicale. Spesso mi sveglio la notte e mi dico: a Stilfs ti sei annientato!, oppure: a Stilfs ti hanno annientato! Stilfs non è altro che mura, roccia, aria di nonsenso. Stilfs non è nulla. E la gente sale quassù e ci dice che cosa sarebbe Stilfs. Sale quassù con la sua perversa disconnessione mentale, come l’Inglese, figlio di genitori ricchi, fanatico della montagna, che adesso, mentre lo osservo dalla mia finestra, va su e giù per il cortile. Io lo vedo, lui non mi vede. «Fare leva su Stilfs, cambiare il mondo!» lo sento dire. Ma noi amiamo l’Inglese. Arriva e va nella sua stanza e fa un bagno e parla tutta la sera delle idee che ha (e che noi non abbiamo) e di come creda nell’attuazione di queste idee, di come la realizzazione sia tutto. Usa il tedesco con la stessa abilità con cui usa l’inglese, entrambe le lingue bene come se entrambe fossero sue da sempre. Nelle sue frasi anglo-tedesche ci sono parole francesi subordinate a un principio ritmico. Non si aspetta di essere interrotto. Trae gioia dalla propria arte della formulazione. Le sue frasi sono brevi, la sua voce uniforme, come se per principio non si permettesse di porre un accento qua e là, dove si crede di dover alzare e abbassare il tono. Una persona, si pensa subito, abituata a esigere il massimo. Da Franz proviene un che di metafisico. Sembra che già ora Midland sia diventato in tutto e per tutto una mente politica. L’ambito del civile, dice, è pervaso da una malattia. La scienza non saprebbe ancora come definire quella malattia. Si tratta però di una malattia mortale. Nella sua mente, le velocità più vertiginose. Degli scrittori parla con freddezza intellettuale. Dell’arte con disprezzo. Della filosofia con scherno. Odia la scienza così come odia la chiesa. Per lui il popolo, anche oggi, non è altro che bofonchiante imbecillità. La distruzione è creazione. Quel fanatico parla di ripulire tutti gli Stati. È lì che cammina, lui che poche ore fa diceva che oggi tutto è ripugnante al massimo grado. Che incredibile fascino esercita quest’uomo su di me, penso io, dotato com’è delle caratteristiche di un mondo che noi da molti anni non conosciamo più neppure per sentito dire, del quale noi, ad essere sinceri, non abbiamo più neppure la minima idea, anzi, nel quale noialtri non ci azzarderemmo più a tornare, se d’un tratto ci fosse concesso, in quel mondo che ci è già diventato del tutto incomprensibile, e dal quale Midland, con quell’arte del colpo di scena che gli è propria, all’improvviso è comparso a Stilfs, come sulla superficie di una massa infinita e coriacea, a Stilfs, dove per noi non si dà più né uscita né discesa; lo osservo, guardo come, con passi rapidi, il corpo giovane, così ben fatto, penso io, disegna una figura geometrica sul terreno del cortile che il sole del mattino colora di un freddo verde artificiale, guardo come quel britannico dalla testa ai piedi, il cui padre venticinque anni fa aveva studiato con mio padre all’università di Londra, all’epoca ancora in lotta contro la propria irrilevanza, guardo come quel britannico, apparentemente riflettendo sulla facilità con cui è in grado di dotare il dominio del proprio corpo di un’eleganza sempre più raffinata, occupa il tempo in cui è ancora a Stilfs, quel paio d’ore che gli restano prima di ripartire. È sua abitudine, penso osservandolo, fissare in sé, nel suo cervello, i pensieri che lo occupano, con parole pronunciate di tanto in tanto ad alta voce che si riferiscono a questi pensieri, e dalle quali si può dedurre l’esatta distribuzione dei pesi nei suoi pensieri. Mentre per tutta la sera ha parlato dei più svariati argomenti, improvvisando e fantasticando su una quantità di notizie relative all’Inghilterra e all’intera Europa, ho però notato in lui un unico interesse: come riuscire ad approfittare di ciò di cui il suo cervello si è appropriato nel corso di già quasi tre decenni e che in quel lasso di tempo si è accumulato nel suo cervello nel modo più categorico in vista di un’opera tipica della sua natura tutta particolare, da anni non pensa a nient’altro che a questo: confermare anche al mondo esterno, e quindi al mondo che è al di fuori della sua testa, ciò che già è in sovrabbondanza nell’immenso arsenale d’idee datogli dalla natura, mettendolo nero su bianco in un’opera. Non è privo di significato il fatto che, probabilmente senza rendersene conto, pronunci spesso la parola attuazione, e che quasi tutto quello che dice tratti del concetto di realizzazione. È lì che cammina, lui che d’abitudine una volta all’anno viene a far visita alla tomba della sorella. Lui stesso dice che davanti alla tomba della sorella non prova niente, il viso di lei per lui non è più pensabile, da molto tempo non riesce più a figurarsi sua sorella, quando è davanti alla tomba prova solo quella pena tipica di ogni visita a una tomba, e monta allora in lui ripugnanza verso sé stesso, disprezzo contro sé stesso. Il culto dei morti è una cosa disgustosa, più repellente di ogni altra. Ma probabilmente già da tempo non è più la sorella morta, che ormai non esiste più da nessuna parte in lui, a farlo venire tutti gli anni a Stilfs, quella morta con la quale, anche quando era viva, non ha mai avuto alcun rapporto stretto. Non è la sorella, è Stilfs, mentre finora non è stato Stilfs, ma la sorella morta. La sorella, «il nulla sotto la pietra tombale» (Midland), da viva gli è sempre apparsa come una persona del tutto estranea, non l’ha mai amata e tanto meno ha provato affetto per lei, e all’improvviso alla sua morte, quando è accaduta la disgrazia, e solo di questo si ricorda ancora, neanche più della morta in sé, ma solo delle circostanze che hanno portato alla sua morte, dello sperone di roccia e così via, del fragore dell’Alz, all’improvviso dopo la sua morte era stato tormentato dalla colpa. Finché sua sorella, così si è espresso, ha vissuto accanto a lui, di lei si è curato poco, per non dire affatto. Una creatura per lui del tutto priva di contenuto che gli è sempre apparsa come una persona che non lo riguardava in alcun modo. Adesso anche questa colpa è diventata un’abitudine. Non è la sorella a farlo venire a Stilfs, è Stilfs. Siamo noi. Viene a Stilfs. Gli fa piacere. Midland, penso io, che dal buon umore è sempre lontano solo quel tanto da poterlo riguadagnare in qualsiasi momento, non come noi, che in nessun caso ci permettiamo più il buon umore, anzi, quello che lui chiama fervore vitale. L’ho visto spesso ridere, l’Inglese, e quando non è a Stilfs bensì in Inghilterra o ancora più lontano da Stilfs, e lo vedo nella mia memoria, come avviene spesso in momenti di disperazione, lo vedo mentre ride. Suo padre è stato solo «una persona spiritosa», sua madre «una cattiva contraffazione della meravigliosa natura». Arte del colpo di scena. Nessuna stanchezza, nonostante sia venuto da Napoli in un solo giorno, pieno d’impressioni di viaggio che lui, un uomo che in nessun caso sa trattenersi per più di un attimo dall’esprimere ciò che in lui si accumula, ci ha elargito subito e con crescente pedanteria fino alle cinque del mattino. Spesso tutto quello che per noi non è neppure tollerabile, per lui è fonte del massimo piacere. Legge i giornali, i libri, i più vecchi come i più recenti, con la massima attenzione, e per questo i suoi argomenti di conversazione sono così interessanti. Non si stanca di studiare il mondo che ininterrottamente cambia, e studiandolo lo critica, lo moltiplica, lo divide. È un esploratore dell’alienazione mentale sia in generale sia in particolare, mette in fila un’esperienza dopo l’altra e alla fine per lui tutto è sempre falsità e bugia, inganno, infondatezza, infamia. La sua diffidenza è estremamente esercitata. Non sarebbe inglese, un Midland, se tutto per lui non avesse due facce, e non si sa mai quale delle due sia la più vile, la più grossolana e meschina. Gli europei, ritiene, sono profondamente avviliti nei loro complessi e da questi complessi non riescono più a venir fuori, la loro storia ora è definitivamente conclusa. La rivoluzione in Europa sarebbe una scemenza, non farebbe che irrigidire e incupire ancora di più quello che già da secoli non è altro che un’agonia. Ma oggi non solo l’Europa sarebbe alla fine, quella fine «che ci è permesso vivere»: il mondo sarebbe alla fine. Ma questo adesso spalanca d’un tratto le più grandi possibilità, permette la massima concentrazione sullo spazio nell’universo. Quello che dice, l’Inglese non lo esprime ininterrottamente in modo grossolano, come fanno gli altri, ma anzi amplia e delucida ciò di cui parla in tutta la sua chiara atrocità, non lo restringe di continuo, come fanno le altre persone, ogni suo argomento lo fa diventare infinito, mentre quelli degli altri nella maggior parte delle conversazioni si assottigliano, come sappiamo, fino a diventare un misero resto di materia, come sappiamo, e molto rapidamente si riducono a nulla. L’Inglese va su e giù, fino al pozzo e ritorno, e aspetta di sentir dire da me o da Franz che la colazione è pronta, che può entrare. Osservandolo ho l’impressione che sia riposato, anche se siamo andati nelle nostre stanze solo verso le sei di mattina, e lì, penso io, poi ha letto un libro per un’altra ora, a giudicare dalla lama di luce sotto la porta della sua stanza. Il fatto è che parecchi giovani con due, tre ore di sonno sono completamente riposati, penso io, hanno raccolto abbastanza energie per normalizzare la mente e il corpo, mentre noi, Franz e io, senza contare Olga, e anche Roth ha bisogno di dormire molto, dobbiamo avere le nostre sei o sette ore di sonno, il che significa che andiamo a letto relativamente presto, com’è naturale se penso che mandiamo avanti la fattoria così com’è sempre stata, senza contare la corrispondenza che riguarda la fattoria, e quella, riguardante Olga, che dobbiamo intrattenere con una caterva di medici, e per quanto riguarda Roth, quella con il tribunale del distretto e con il tribunale della provincia. In origine, duecento anni fa, questa fattoria era stata concepita per due o tre dozzine di persone di servizio, ma noi la mandiamo avanti, immutata, da soli. E oggi la mandiamo avanti con maggior energia dei nostri predecessori, anche se rende di meno, sì, lo vediamo più chiaramente di giorno in giorno, l’agricoltura, soprattutto a quest’altitudine, è pura insensatezza. Mandare avanti una simile fattoria è un suicidio. Da decenni, questa è la verità, siamo sovraccarichi di lavoro, questa è la cosa terribile, completamente priva di senso. Ma non ci resta altro da fare che star qui ad ammazzarci di lavoro. Per di più sentiamo che tutto questo è ridicolo. Alla fine della giornata siamo sfiniti, e da quando siamo a Stilfs siamo sempre stati sfiniti, a Stilfs siamo sempre vissuti solo in un continuo stato di sfinimento. Il nostro stato naturale è lo stato di sfinimento. Nella massima fatica viviamo controvoglia, cosa che sfinisce a morte. Visto che siamo stati condannati a Stilfs da quei terribili tiranni dei nostri genitori, abbiamo sempre pensato, visto che dobbiamo restare qui a Stilfs per tutta la vita, perché siamo ormai troppo deboli anche solo per pensare di liberarci, Stilfs non la vogliamo rovinare. E così Stilfs è intatta, la fattoria è intatta, ma le abitazioni non sono intatte. In effetti l’incuria nelle abitazioni è enorme, inimmaginabile. Mentre oggi la fattoria è in buono stato, come mai prima d’ora, perché già da molto tempo non ci concentriamo più su nient’altro al di fuori di quella, ormai stiamo qui solo per la fattoria, già da molto tempo abbiamo rinunciato a noi stessi e, voglio dire, a vantaggio della fattoria, le abitazioni si sono deteriorate come non avevo mai visto finora. In questi edifici tutto dà un’impressione sconfortante, la più sconfortante, soffitti e pavimenti s’imbarcano, e precisamente, a quanto pare, sotto il peso dei topi che ininterrottamente lì si moltiplicano nel modo più selvaggio, pareti e mobili sono l’immagine dell’incuria, e in casa c’è quell’odore di marcio che deriva dal fatto che ovunque ormai regnano solo i parassiti, nell’ordine di miliardi, tutto è umido e stantio e si ha l’impressione di soffocare. Riguardo al mobilio, per quanto sia il più pregiato, idillio del gusto e del rifugio dei nostri antenati, non c’interessa minimamente. Tutto, in tutte le stanze, da decenni è abbandonato a sé stesso. Un esempio: le fodere delle poltrone a orecchioni nella nostra stanza che dà sul cortile sono ormai ridotte a brandelli. Negli armadi e nei comò, mucchi di segatura. E allo stesso modo, con il tempo i nostri quadri sono caduti dalle pareti e in gran parte non li abbiamo mai raccolti. Dopo ogni tremore che viene dalla terra, e ogni anno a Stilfs la terra trema più volte, la devastazione è ancora maggiore. Noi non tocchiamo più nulla. Non raccogliamo le cose, le scavalchiamo. Bisogna sapere che tutti i nostri locali sono stracolmi oltre ogni limite di pezzi barocchi e giuseppini, dappertutto armadi a tabernacolo e secrétaire, penso ancora con un brivido di orrore alla fissazione di nostra madre per l’Impero, con tavoli e sedie eccetera eccetera, più i cumuli di cose kitsch della nostra infanzia. In brevissimo tempo, penso io, qui a Stilfs andrà tutto in pezzi, e in modo irreparabile. Se ciò che da decenni ormai non ci fa più respirare e in cui soprattutto abbiamo sempre pensato che saremmo soffocati, ciò che in fondo però è quanto di più prezioso vi sia a Stilfs, il suo arredamento, i pezzi rari di arte applicata che per lo più hanno tre, quattrocento anni e provengono dai paesi più diversi, le centinaia di oggetti ereditati fatti dei legni più pregiati, tra i quali non pochi sono pensati e realizzati apposta per Stilfs in anni di lavoro da artigiani che bisognerebbe chiamare artisti, se tutto quello in cui siamo cresciuti a poco a poco, dapprima in una vaga disperazione e poi, d’un tratto, nella disperazione più evidente e più elementare, se tutto ciò lo volessimo curare e conservare, qui dovrebbero essere impiegate continuativamente, solo per questo, due dozzine di persone, senza contare che ci sono anche gli edifici annessi come il padiglione di caccia, le serre e così via, e anche quelli vanno letteralmente in rovina, giorno per giorno, in modo sempre più ingegnoso, fino alla rovina totale, il denaro non dovrebbe giocare alcun ruolo, e tuttavia gioca il ruolo più importante, e quanto a noi, dovremmo avere comprensione per tutto ciò che con il tempo viene dal tempo distrutto, ma in verità non abbiamo comprensione alcuna. Ovunque, tutti questi oggetti d’arte sul pavimento e alle pareti testimoniano che Olga, la quale ha amato tutto questo, già da dieci anni è relegata nella sua poltrona da inferma, e in verità non è più tra noi. Olga accusa Franz e me di rozzezza e di ottusità nei confronti di tutti questi oggetti d’arte. In effetti il nostro arredamento ci ha oppresso per tutta la vita e l’abbiamo odiato. Se oggi tutto è anacronismo, come ha detto l’Inglese ieri, Stilfs dev’essere un anacronismo ben grande! Sarebbe logico, sarebbe coerente, diceva Franz ieri sera, che noi tutti da un momento all’altro ci togliessimo di mezzo, che ci suicidassimo senza indugiare, perché, come dice Franz, l’unica coerenza ancora possibile per noi, oggi, è quella di suicidarsi, non importa in che modo, quanto prima tanto meglio, ma siamo troppo deboli per farlo, ne parliamo, e quante volte ne parliamo per ore, per giorni, per settimane e non ci suicidiamo, pensiamo, è vero, sappiamo, è vero, quanto è insensato il fatto che ancora viviamo, che ancora esistiamo, ma non ci suicidiamo, non seguiamo l’esempio di quelli che si sono già suicidati, e tanti della nostra età si sono già suicidati, per qualche ragione ridicola, come sappiamo, per le ragioni più ridicole, se si paragonano queste ragioni alle nostre ragioni, ma noi non ci suicidiamo, e ogni giorno siamo di nuovo alle prese con tutte le insensatezze possibili, passiamo la giornata con un mestiere privo di senso e con un’assurda dispersione della memoria, ci tormentiamo e ci nutriamo e abbiamo paura, e nient’altro, e proprio questa probabilmente è la cosa più insensata del mondo, la più ripugnante: che ci tormentiamo e ci nutriamo e abbiamo paura, ma non ci suicidiamo, ne parliamo, facciamo del pensiero del suicidio il nostro unico pensiero, ma il suicidio non lo commettiamo. Avevamo già consumato la nostra cena quando l’Inglese, che ora si è fermato in mezzo al cortile, tutt’a un tratto, senza bussare, porte e portoni non erano ancora sprangati e chiusi a chiave, era comparso nella stanza che dà sul cortile. Franz e io avevamo appena parlato di Roth, che nel pomeriggio aveva di nuovo minacciato di dare fuoco a Stilfs. Al ragazzo avevamo fatto notare che se l’avessimo denunciato per la sua minaccia sarebbe stato rinchiuso senz’altro, per anni, avevamo detto, e che poteva scegliere se preferiva essere rinchiuso in manicomio o in carcere, al che si era calmato e aveva promesso che non avrebbe dato fuoco a Stilfs. Noi al ragazzo vogliamo bene e abbiamo bisogno di lui, gli diamo lo stesso nostro vitto e in fondo lui da nessuna parte sta meglio che a Stilfs, dove si può senz’altro dar da mangiare a un pazzo in più, anche a uno robusto come Roth. Se non fosse a Stilfs, già da un bel pezzo starebbe tra i detenuti o tra i folli. Qui lui è il più importante, cosa che sa, e se non dà fuoco a Stilfs e se non trafigge le vacche con il coltello da cucina più di quanto abbia fatto finora e se non gonfia d’aria con la pompa della bicicletta altri polli fino a farli scoppiare, a noi non importa che sia pazzo. Che Roth è un problema lo sappiamo, ma noi stessi siamo un problema per noi, e il nostro problema è più grave. Abbiamo parlato del fatto che è sempre più difficile tenere Roth lontano dagli eccessi, che non possiamo proibirgli le sue visite alla locanda – d’estate attraversa a nuoto l’Alz in pantaloni e camicia e va all’osteria bagnato fradicio –, al contrario, deve, quando vuole, scendere a valle e attraversare l’Alz e andare all’osteria, perché poi rientra più tranquillo, anche se a notte inoltrata, verso le tre del mattino o ancora più tardi. Se non avessimo Roth, a Stilfs regnerebbe un caos totale e Olga non avrebbe nessuno che si occupi di lei, perché in effetti noi, Franz e io, non ci occupiamo di nostra sorella, per la maggior parte del tempo ci dimentichiamo di lei, Roth invece le rende dei servizi che vanno oltre lo stretto necessario. È un buon lavoratore, che, se guidato con abilità e benevolenza, sbriga con soddisfazione il lavoro più rude, il più difficile, il più ingrato e il più impensabile. Dato che noi lavoriamo sodo come Roth e non ci risparmiamo neppure il lavoro più avvilente, lui non ha scuse. Ci rispetta. I suoi genitori sono morti presto, il padre si è impiccato, il suo unico fratello due anni fa ha scommesso dieci scellini che avrebbe attraversato a nuoto la Mur in piena e, poiché in effetti si è tuffato nella Mur, i Roth sono stiriani, nella Mur ci è affogato, e da allora Roth si lamenta di non avere più nessuno lì nel suo paese d’origine, la Stiria. Il suo migliore, anzi unico amico a marzo si è gettato sotto il treno. L’Inglese ha studiato a lungo la partecipazione di morte con la fotografia della vittima. Condannato al suicidio, l’amico di Roth aveva avuto il permesso di uscire nei fine settimana dal manicomio dove era internato per andare a far visita ai genitori, ma l’ultima volta, anziché rientrare in manicomio, era andato sul terrapieno della ferrovia. L’Inglese diceva che l’amico di Roth si era gettato sotto il treno esattamente l’undici di marzo, il giorno del suo compleanno. Roth ha ereditato gli abiti della vittima, tra cui due paia di pantaloni di pelle che arrivano alle caviglie. Adesso Roth indossa unicamente gli abiti dell’amico morto, quando era arrivato l’Inglese, Roth aveva subito indossato l’abito della domenica del suicida, e con quello da Stilfs era sceso all’osteria attraversando l’Alz. Si era già congedato e l’Inglese gli aveva dato una banconota, un biglietto da una sterlina, come fa sempre quando viene in visita. Ha sempre regalato a Roth un biglietto da una sterlina, allora Roth era andato di corsa nella stalla e aveva ammazzato i tre polli che mangiamo oggi, il sabato ammazza i polli che mangiamo la domenica, con le braccia tese li fa roteare sopra la sua testa e li decapita. All’Inglese li aveva mostrati uno per uno dalla porta della stanza che dà sul cortile, già vestito con l’abito della domenica, e aveva aggiunto che il pollo era normale, gli mancava solo la testa, un’osservazione che ha preso da Franz, il quale in passato ha sempre fatto quest’osservazione, finché all’improvviso non gli ha dato fastidio, dopodiché l’ha adottata Roth. Penso alle visite precedenti dell’Inglese, che ora mi dà l’impressione di non sapere se deve aspettarci in cortile o entrare da noi, aspetta l’invito a venir dentro a fare colazione, nessuno lo chiama, Franz non lo chiama, io non lo chiamo, non posso fare a meno di pensare alle visite precedenti di Midland, mentre sto alla finestra e lo osservo, è possibile, penso, che giù nella valle, all’osteria, ci siano degli amici ad aspettarlo e lui voglia andarsene, può anche essere che giù lungo l’Alz abbia una ragazza che alloggia presso uno di quei miseri affittacamere, un’amica lasciata sola per la notte, perché qui a Stilfs si fa vedere sempre solo, non con altri, non sarebbe la prima volta che qualcuno prende alloggio giù alla locanda mentre lui è quassù a Stilfs, due anni fa laggiù l’aspettava un gruppo di archeologhi svedesi, dei tedeschi del Nord, degli italiani, conosce tanta gente dei paesi più diversi. Mai, mi ha confessato una volta, verrebbe su a Stilfs in compagnia di qualcuno. Anche Franz sta alla sua finestra e lo osserva, penso io, Olga lo osserva dal primo piano, e probabilmente anche Roth, da una finestra della stalla. Quando l’Inglese è qui, ci contagia con la sua inquietudine. Dobbiamo a lui gli stimoli, il ricco assortimento di idee, le novità. Ma lui non percepisce la nostra miseria e meschinità. Al contrario. Tutte le sue visite precedenti ci hanno dato molto da pensare, materiale di riflessione per mesi. In effetti arriva sempre al momento giusto. Come sapremmo altrimenti che cosa succede laggiù, visto che quassù siamo completamente isolati. In verità ormai da più di un anno né io né Franz scendiamo all’Alz. Solo Roth mantiene ancora un contatto personale con il mondo. Ma dalla locanda ritorna sempre riportando dicerie malevole. È Roth che porta il latte giù all’Alz. Roth va a prendere le provviste di cui abbiamo bisogno, fiammiferi, zucchero, spezie. È Roth che legge il giornale giù a valle. Quanto a noi, non leggiamo più giornali da anni, perché la lettura dei giornali, che per decenni ci ha entusiasmato, da un momento all’altro ci ha fatto orrore, non ce la siamo più concessa. Gli abbiamo severamente vietato di portarci su un giornale. Quando invece è l’Inglese a portarci i giornali, ci avventiamo sopra come se di lettura dei giornali fossimo affamati. La radio non l’ascoltiamo. Ascoltiamo volentieri la musica, ma non stiamo mai da nostra sorella, tutt’al più una volta al giorno, per dire buongiorno oppure buona notte. Se l’Inglese sapesse quanto ci siamo già allontanati da tutto. Ma dirgli la verità non avrebbe senso, dirgli la verità in modo tale che se ne convinca. Infatti, che scopo avrebbe confessargli che la nostra esistenza ormai è solo un’esistenza animale. Da anni, nell’immensa biblioteca in cui sono riuniti tre enormi lasciti di libri, uno del fratello di un nostro bisnonno, il medico di Padova, uno del fratello di nostro nonno per parte di madre, il giudice di Augusta, e uno di nostro zio, il fratello di nostra madre, che è stato proprietario di mulini a Schärding, da anni, in questa immensa biblioteca nessuno di noi ha più messo piede. Se l’Inglese sapesse che la lettura già di per sé la detestiamo. Quando è qui, fingiamo interesse per ciò che è scritto, quando è via, non proviamo più il minimo interesse. Abbiamo chiuso a chiave la biblioteca e gettato la chiave nell’Alz! Se lo sapesse! Se l’Inglese sapesse che della necessità che è per noi Stilfs abbiamo fatto una virtù, poiché dal momento in cui abbiamo capito che Stilfs è la fine della nostra evoluzione abbiamo fatto di tutto per accelerare questa fine. Non ci suicidiamo, ma acceleriamo la nostra fine naturale, che non è una fine naturale. L’Inglese, penso io, a Stilfs è avvolto nell’inconsapevolezza. Ma Franz ha ragione quando dice che non dobbiamo confidarci con l’Inglese, perché in quel momento distruggeremmo in lui ciò che per noi ha un valore così inestimabile, probabilmente distruggeremmo addirittura Midland stesso, e la conseguenza sarebbe quella cosa terribile che temiamo. L’Inglese non verrebbe più a Stilfs, a partire da quel momento l’aspetteremmo invano. Quello che facciamo credere all’Inglese è tutto tranne la verità, ma in questo caso niente è più necessario della menzogna. Non possiamo trasformare la sua Stilfs nella nostra Stilfs, che è il contrario. Franz spesso mi mette in guardia dal dire troppo, perché nessuno è più tentato di me dal dire di colpo tutto su Stilfs, perché è l’Inglese quello a cui vorrei dire tutto su Stilfs, è l’Inglese la persona, la prima, a cui voglio rivelare quello che non posso rivelare, la verità, ma è proprio Franz che all’improvviso, per imprudenza, dice o non dice quello che a Midland può o non può essere detto. Poiché infatti non diciamo la verità sulla nostra situazione e non permettiamo a nessuno, neppure all’Inglese, di guardare dentro di noi, custodiamo un segreto di cui l’Inglese parla in continuazione, anche se è il contrario di quello che suppone. Ne darà e può darne prova solo la nostra morte, quando risulterà che non siamo stati nient’altro che disordine, un inconcepibile caos. Mettere tutto in questione, ha detto ieri. Tutto è nonsenso. È lì che cammina, penso io, e penso com’è pazzo quest’uomo con cui noi, Franz e io, abbiamo in comune l’età e nient’altro se non l’esatto contrario, questo agitatore, questo sollevatore di questioni. Può anche darsi che la pensi come me, quando pensa che tutto ciò di cui noi, Franz e io, siamo fatti, come anche lui, come tutti gli esseri viventi, è passato, morto. E in fondo avanzare, progredire, liberarsi significa solo questo pensiero: che tutto ciò che è, quindi tutto ciò che è stato, è morto, che lo stesso presente, in quanto è, com’è naturale è morto, ma tiene occupati noi tutti, tiene occupati tutti gli esseri umani in modo esclusivo, qualsiasi cosa facciano, ovunque e qualunque cosa siano e possano essere, e comunque chiamino quello che non sono in grado di definire se non come la vita, il sussistere o l’esistenza. Non c’è persona a noi più estranea e non ce n’è una a noi più vicina di lui. Poiché pensa e parla in parecchie lingue e padroneggia queste lingue come un’arte di alto livello matematico-musicale, ci è superiore. Se si fosse limitato a un settore, a una scienza, da tempo avrebbe potuto fare della ragione qualcosa di portentoso, come crede che facciamo noi. Ma limitarsi a una scienza, specializzarsi, non gli è possibile, probabilmente perché è la cosa che odia di più. È una persona che deve continuamente mettere tutto in relazione con tutto e trarre sempre da tutto conclusioni su tutto. Da qui ha origine la sua incapacità di realizzare anche solo una delle migliaia di idee che confluiscono in continuazione nella sua mente addestrata, com’è ovvio, in vista dell’universale. È lì che cammina, penso io, lui che parla della scienza dello spirito, sia antica sia moderna, come di una concimaia, delle cause riprovevoli di effetti incresciosi. È lì che cammina, lui a cui non sta bene quella linea retta che taglia l’universo. Quante volte quest’uomo mi ha ferito e quante volte io ho dovuto ferirlo, penso io. Perché tra noi spesso la spietatezza è stata l’unica via d’uscita, ferirsi e offendersi apertamente. Tra persone come noi, ha detto l’Inglese stanotte, ci sarebbero affinità spirituali. E per la precisione, testualmente, tra me e lui quelle contro natura, tra lui e Franz le più naturali. Si è spiegato, abbiamo capito. Il pensiero, le opinioni di Franz sono opposti al suo e alle sue, ma perfettamente naturali, e il mio pensiero così come le mie opinioni sono ugualmente opposti al suo e alle sue, ma contro natura. Ogni parola che noi, io e Franz, abbiamo detto, in ogni momento che trascorriamo con Midland, confermerebbe che noi due abbiamo padri diversi. La nostra contrastante parentela per parte materna sarebbe decisiva. Per noi, ovunque e in qualunque momento, è la catastrofe, sono state le circostanze più spaventose, poiché siamo nati in questo mondo. Nel nostro comportamento Midland percepisce ininterrottamente l’avversione di cui in verità siamo fatti. È questa sventura ciò che deve superare chi si accosta a noi, chi ci parla prima ancora di essersi avvicinato a noi. Finora nessuno ha mai osato avvicinarsi a noi, fisicamente o nel pensiero, senza il minimo sospetto. E questo sospetto, che è sempre un sospetto molto preciso, si rafforza con gli anni, questo sospetto un giorno, probabilmente molto vicino, renderà sempre più difficile e infine impossibile entrare in qualsivoglia contatto con noi. Nella totale mancanza di contatti, ma forse nella condizione più ideale, in una condizione di spirito ideale riproducibile solo da noi, un giorno, ritiene, potremo realizzare il nostro scopo del tutto indisturbati. Definire conversazione quello che in realtà è stato un turbinio sconsiderato di migliaia di idee buttate lì precipitosamente nella serata di ieri sarebbe sbagliato. Ieri abbiamo visto molto chiaramente che quello che pensiamo è imperscrutabile come quello che pensa lui, e proprio questo ci ha rinfrancato. Ma mentre durante la serata è risultato molto chiaramente che l’Inglese ha ancora un futuro, per Franz e per me è stato di nuovo del tutto chiaro che noi un futuro non l’abbiamo più. Se almeno uno di noi avesse ancora la forza, una sola volta, di scendere da Stilfs, di voltare le spalle a Stilfs, di arrischiarsi a rientrare nel mondo, penso io, di non tornare più, anche a costo di essere accusati di aver commesso un crimine nei confronti di nostra sorella Olga, che è affidata a noi, accusati di averla distrutta! Ciò che a me non è possibile ed è per me tardivo dovrebbe essere possibile e non tardivo per Franz, ma per noi tutto è tardivo. Il momento in cui sarebbe stato ancora possibile ciò che adesso non è più possibile, sfuggire a Stilfs, è già così lontano da noi che non si può più nemmeno individuare. Certo, dapprima abbiamo creduto, come l’Inglese, che Stilfs fosse la nostra salvezza, la condizione ideale per noi, e quando abbiamo visto e compreso che Stilfs non è, non può essere la nostra salvezza, la condizione ideale per noi, e che, al contrario, significa la nostra distruzione, abbiamo sperato nella morte di Olga, che adesso è già completamente paralizzata. Ma non è morta, e chissà quando morirà. E adesso che tutti noi siamo la debolezza fatta persona non avrebbe neppure più senso abbandonarla. È tutta una questione di tempo, questione che ormai non ci spaventa più, perché sappiamo che siamo alla fine e che la vita per noi non ha più alcun senso.
IL MANTELLO DI LODEN
Dall’avvocato Enderer di Innsbruck, ovvero dal nostro tutore, abbiamo appreso (testualmente) quanto segue: ... per vent’anni sono passato accanto a quest’uomo, soprattutto nella Saggengasse e soprattutto verso mezzogiorno, senza sapere chi fosse quest’uomo, a sua volta quest’uomo mi è passato accanto per vent’anni, soprattutto nella Saggengasse e soprattutto verso mezzogiorno, senza sapere chi fossi io ... per giunta è della Saggengasse!, anche se dell’alta Saggengasse, mentre io sono della bassa Saggengasse, siamo cresciuti entrambi nella Saggengasse e in effetti, penso, ho sempre visto quest’uomo senza sapere che era della Saggengasse e senza sapere chi fosse, a sua volta quest’uomo non sapeva niente di me ... adesso penso che da anni avrei dovuto notare qualcosa in lui, avrei dovuto notare il suo mantello ... con rimprovero mi dico, per anni, per decenni passiamo accanto a un uomo senza sapere chi sia quell’uomo, e mentre in quell’uomo avremmo dovuto notare qualcosa, non notiamo nulla in lui, e per un’intera vita potremmo passare accanto a un uomo simile senza notare nulla ... all’improvviso in quell’uomo, al quale siamo passati accanto per due decenni, notiamo qualcosa, che sia il mantello o qualcosa di completamente diverso; all’improvviso ho notato il mantello di quest’uomo, e insieme ho notato che l’uomo abita nella Saggengasse e che ama passeggiare lungo la Sill ... una settimana fa quest’uomo mi ha rivolto la parola nella Herrengasse ed è salito con me in studio, mentre salivamo le scale mi era chiaro, quest’uomo è da due decenni che lo vedi, sempre lo stesso uomo, sempre lo stesso uomo che invecchia nella Saggengasse, verso mezzogiorno con questo mantello, con questo mantello molto comune ma certamente anche molto consunto, e sempre mentre salivamo le scale non mi era chiaro il motivo per cui proprio il mantello di quest’uomo avesse attirato la mia attenzione, all’improvviso, visto da vicino, il mantello di quest’uomo aveva attirato tutta la mia attenzione ... eppure è un mantello molto comune, pensavo, in montagna ci sono decine di migliaia di questi mantelli, decine di migliaia di questi mantelli indossati da tirolesi ... non importa che cosa sia, che cosa faccia, da dove venga la gente, tutti portano questi mantelli, alcuni quelli grigi, altri quelli verdi, e dato che tutti portano questi mantelli, nelle valli continuano a prosperare le varie fabbriche di Loden, e questi mantelli vengono esportati in tutto il mondo, ma il mantello del mio nuovo cliente aveva qualcosa di particolare: aveva gli occhielli bordati di pelle di capretto! Questi occhielli bordati di pelle di capretto li ho visti solo una volta in vita mia, ovvero sul mantello di mio zio, che è annegato otto anni fa nella Sill inferiore ... quest’uomo indossa esattamente lo stesso mantello di mio zio annegato, penso, salendo con quest’uomo in studio ... all’improvviso penso a quando hanno ripescato mio zio Worringer dalla Sill, un gesto di disperazione per alcuni, una disgrazia per altri, ma io sono certo che Worringer si è gettato nella Sill con una cosiddetta intenzione suicida, su questo per me non c’è alcun dubbio, Worringer si è suicidato, tutto nella sua vita e infine tutto nella sua vita commerciale indica il suicidio ... mentre lo cercavano a monte della vetreria, l’annegato era stato portato dalla corrente a valle di Pradl, i giornali dedicarono pagine intere all’accaduto, tutta la nostra famiglia fu data in pasto al pubblico, parole come rovina commerciale, rovina del legname, morte delle segherie, infine rovina economica e aziendale frullavano nelle teste degli imbrattacarte ... la sepoltura a Wilten è stata una delle più solenni, mi ricordo, migliaia di persone, scrive Enderer ... strano, dissi all’uomo con cui salivo le scale per andare in studio, non riesco a togliermi dalla testa il suo mantello, più volte, non riesco a togliermi dalla testa il suo mantello ... che Lei voglia ammetterlo o no, il suo mantello ... non ho potuto fare a meno di pensare, ma non l’ho detto, tra il suo mantello e mio zio c’è un legame strettissimo, chissà se l’uomo sa di che cosa parlo, ho pensato mentre invitavo l’uomo a entrare nello studio, entri!, dico, dato che l’uomo esita, poi nello studio mi tolgo il cappotto e l’uomo entra ... sembra proprio che l’uomo mi abbia aspettato giù davanti al portone, oggi sono in ritardo di venti minuti, penso, e poi: che cosa vuole quest’uomo? Mi irritavano ora il suo silenzio ora il suo mantello, ed entrando nello studio vidi ancora più chiaramente, ancor meglio dopo aver acceso la luce, che gli occhielli del mantello dell’uomo erano bordati di pelle di capretto, pelle di capretto nera, e scoprii che il mantello del mio nuovo cliente aveva lo stesso identico taglio del mantello di mio zio Worringer, il taglio più semplice. Si sieda pure, dico all’uomo, prima di tutto devo accendere la stufa, sono solo, la mia segretaria è malata, influenza, dico, febbre, devo accendere il fuoco ma ho già preparato tutto ieri sera, dico, per cui adesso accendere la stufa non presenta la minima difficoltà, si sieda pure, dico, l’uomo si siede, quest’atmosfera grigia e nebbiosa, dico, tutto si è incupito, questa stagione esige la massima disciplina, bisogna mantenere il controllo e cavarsela, la frase era stata detta rapidamente, per quanto fosse una frase grave, al tempo stesso pensai, che frase insensata, queste inutili, insensate frasi mattutine, pensai, tutto è sottoposto a una mostruosa prova di forza, dico, corpo, ragione, mente, ragione, corpo. Com’è ovvio la gente, quando entra, tiene il cappotto addosso, anche il nuovo cliente tiene addosso il suo mantello, adesso nello studio gli sembra di avere ancora più freddo che non giù davanti al portone, fra non molto arriverà il caldo, dico, una volta accesa la stufa il calore si diffonde rapidamente, rilevai l’eccellenza delle stufe di ghisa americane, feci un’osservazione sulla dannosità del riscaldamento centrale, continuai a ripetere che era troppo buio per il lavoro d’ufficio, si potevano anche aprire le tende ma non serviva a niente, accendere più lampade non serviva a niente, in un certo senso è inquietante questa situazione, pensai, trovarsi in questo studio oscuro di mattina con un estraneo avviluppato nel suo mantello, ma se si pensa, dico, che fra quattro settimane arriverà già il giorno più corto, dissi, senza alcun effetto, mentre stavo vicino alla stufa parlai un po’ di tutto, ma riuscivo a pensare solo al mantello del mio nuovo cliente. Wilten non ha mai visto niente di simile, dico, migliaia di persone, il nuovo mi dava l’impressione di essere un mediatore immobiliare, un imprenditore del mattone, questa gente indossa simili mantelli e ha un simile portamento e quel genere di faccia, pensai, oppure quest’uomo è un commerciante di bestiame, penso, subito dopo aver pensato che fosse un mediatore immobiliare, uno di quegli uomini che vanno in giro avvolti nei loro mantelli e sembrano i più poveri tra i poveri e tuttavia controllano l’intero mercato immobiliare delle Alpi centrali, d’altra parte quest’uomo potrebbe essere un commerciante di bestiame, perché ha tenuto il cappello in testa, penso, e questo proverebbe che è un commerciante di bestiame, le mani non le vedevo, la testa era di una magrezza notevole, da questo si riconoscono i commercianti di bestiame, dal fatto che tengono il cappello in testa anche quando entrano in uno studio, si siedono subito e tengono il cappello in testa, per le scale l’uomo si era presentato, pensai, ma avevo dimenticato il suo nome, ma ora pensai: un nome noto, un tipico nome tirolese. All’improvviso mi venne in mente che l’uomo si chiamava Humer. Humer? gli domando, Humer, dice l’uomo. Volevo sapere che cosa voleva, ma non dissi: che cosa la porta da me?, e neppure pensai che cosa la porta da me, dissi soltanto: questo studio è il più vecchio di tutta Innsbruck. Già mio padre mandava avanti questo studio, si occupava più che altro di questioni notarili, dissi, e poi, da una parte è un vantaggio quando uno studio è già ben avviato, dall’altra uno svantaggio, mi chiesi, perché dici questo?, già mentre facevo questa dichiarazione mi ero reso conto della sua insensatezza, il che però non m’impedì di aggiungere subito dopo un’altra insensatezza, dissi: la posizione di questo studio è la migliore. Ma questa affermazione, come anche la precedente, non ebbe alcun effetto visibile sul mio nuovo cliente e che si tratti di un nuovo cliente non c’è dubbio, pensai. Dato che l’uomo continuava a tacere ostinatamente, e d’altra parte il tempo a mia disposizione era troppo poco per lasciarlo tacere ancora, nelle ultime settimane mi si erano accumulate intere montagne di pratiche inevase, dissi: la gente viene da me quando si tratta di qualcosa di locale. In casi simili bisogna avere dimestichezza con l’ambito cittadino, dissi tentando di fare ordine sulla scrivania, pratiche, nient’altro che pratiche, dissi, la sbadataggine e l’indifferenza fanno sì che si pronuncino in continuazione frasi, frasi e residui di frasi, insipide frasi del genere e insipidi residui di frasi, ma a Humer avevo detto pratiche, nient’altro che pratiche per la prima volta, pensai, e nello stesso tempo: quest’uomo si è accorto che pratiche, nient’altro che pratiche l’hai già detto centinaia, migliaia di volte. All’improvviso tutta la situazione mi indispettì e dissi, guardando l’ora: dobbiamo venire al punto. Ma prima di venire al punto passò ancora molto tempo. Anziché rivelarmi il motivo della sua presenza nel mio studio, l’uomo fece un paio di osservazioni che mi parvero assolutamente insignificanti, per giunta sconclusionate, sulla sua provenienza, la periferia della città, sul suo crescere isolato, incostante, sulla sua infanzia miserevole e così via, disse qualcosa sulle sue condizioni economiche, che non poteva permettersi il biglietto ferroviario per andare a Linz dalla sorella, parlò di soggiorni in ospedale, di difficili operazioni all’interno del suo corpo, e a quel proposito ripeté più volte le parole rene (in rapporto ai raffreddori) e fegato (per via dell’alcolismo), disse che per tutta la vita gli era piaciuto camminare su e giù lungo la Sill, non su e giù lungo l’Inn, sottolineò espressamente, su e giù lungo la Sill, in fin dei conti la vita non era altro che ripetizione della ripetizione, si esauriva molto rapidamente nella monotonia. All’improvviso ebbi l’impressione di avere a che fare con un pazzo, con uno di quei pazzi che a migliaia vanno in giro con la loro pazzia per le valli e le gole del Tirolo e che non trovano una via d’uscita dalla loro pazzia (dal Tirolo). A quel punto dissi che mi avrebbe fatto proprio piacere se lui, Humer, mi avesse detto per quale motivo si trovava da me. Al che Humer: sono il proprietario del negozio di articoli funebri nella Saggengasse. Era venuto già due volte alla porta dello studio, ma si sa, gli avvocati hanno molto da fare in tribunale, è difficile trovarli nel loro studio, per questo mi aveva aspettato giù davanti al portone ... Mentre lo studio rapidamente si riscaldava, avevo la sensazione che l’uomo avesse sempre più freddo, che si avviluppasse sempre più nel suo mantello ... i muri vecchi, spessi, dissi, volevo dire: i muri vecchi, spessi, non si scaldano, ma non lo dissi, perché mi era sembrato insensato dirlo, quindi dissi soltanto: i muri vecchi, spessi. Il mantello di mio zio, penso, aveva sei occhielli, subito conto gli occhielli del mantello di Humer e li conto un’altra volta, poi una terza, sempre dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto e penso, anche il mantello di Humer ha sei occhielli, sei occhielli bordati di pelle di capretto nera, da qui l’idea che il mantello di Humer debba essere il mantello di mio zio Worringer... ma non lo dissi, perché mi sembrava insensato dirlo, ma subito dopo dico invece qualcosa sul mantello, mentre dicevo qualcosa sull’alta Saggengasse, in caso di piena ci sono inondazioni continue nell’alta Saggengasse, dissi, Humer annuì, io dissi: non esiste indumento più utile di un mantello del genere, si capisce che tutti indossino questi mantelli, dissi, ma il suo mantello è un mantello particolare, ha gli occhielli bordati di pelle di capretto. Ma Humer non reagì a queste parole, o meglio, non reagì nel modo che mi ero aspettato. Disse che non si era mai rivolto a un avvocato, io ero il primo, lo ammetteva, il primo che gli era capitato a tiro, nessuna raccomandazione, disse, no, nessuna raccomandazione. Le sono passato accanto per vent’anni, disse, ma non sapevo che fosse Lei, l’avvocato ... devi semplicemente andare in quello studio, aveva pensato, in quel vecchio studio ... Proprietario del negozio di articoli funebri nella Saggengasse, l’uomo non è né mediatore immobiliare né commerciante di bestiame ... Naturalmente conosco il suo negozio, dissi, a che scopo quella bugia, dire che naturalmente conoscevo il negozio di articoli funebri, dici in continuazione cose non vere, pensai, e poi mi è indifferente quello che pensa quest’uomo ... per molto tempo ci si rifiuta di rivolgersi a un avvocato, ma poi arriva il momento in cui ci si rivolge a un avvocato, all’improvviso non si può più fare diversamente, non si può più continuare e si va da un avvocato ... la cosa più deprimente sono quelli che si rivolgono a un avvocato quando non vedono altra via d’uscita, e senza dubbio Humer è uno di questi, pensai ... la scelta è fra uccidersi e andare da un avvocato, dice Humer, scrive Enderer, e dal modo in cui Humer lo diceva mi interessai alla sua situazione... ora, scrive Enderer, m’interessava tutto di quel caso, che di colpo si faceva stringente e sconcertante ... l’uomo ora parlava con molta calma, senza la minima agitazione e, notai, senza divagare, limitandosi ai fatti, scrive Enderer, con la disadorna monotonia dei disperati ... la gente che si rivolge a me di solito non mi commuove, scrive Enderer, ma quest’uomo faceva eccezione ... all’improvviso Humer dice, scrive Enderer: i passanti li riconosco dal loro abbigliamento, vedo l’abbigliamento, non la faccia. I piedi, sì, la faccia, no. Per prima cosa guardava le scarpe. In questo siamo diversi, dissi, io vedo subito la faccia. La faccia no, dice. Così per vent’anni non aveva visto la mia faccia, solo il mio abbigliamento, mentre io per vent’anni avevo visto la sua faccia, non il suo abbigliamento, ed è per questo, scrive Enderer, che non avevo mai visto il suo mantello ... Da quanto tempo ha quel mantello? dissi tutt’a un tratto, e Humer rispose: Da molti anni, non dice da quattro o da cinque o da tre o da otto o da dieci o da dodici anni, come avevo sperato, disse: Da molti anni, si tratta senza dubbio di un mantello molto logoro, ma certamente ancora caldo, pensai, esattamente otto anni fa mio zio Worringer si è gettato nella Sill, secondo me il mantello di Humer è più vecchio, avrà almeno dieci anni, il mantello di mio zio era nuovo, aveva tutt’al più un anno ... tuttavia non chiesi a Humer da dove venisse il mantello, anche se la cosa più ovvia sarebbe stata chiedere: Ma da dove viene questo mantello? Dove ha comperato questo mantello?, non lo chiesi, per un certo tempo lo sentii ancora dire: Da molti anni. Questo non mi dava pace, l’uomo poteva dire quello che voleva, io sentivo sempre solo quel Da molti anni, e pensavo, gli occhielli sono bordati di pelle di capretto nera ... per prima cosa lui guardava le scarpe, poi, com’è ovvio, il fondo dei pantaloni, disse Humer, scrive Enderer, in questo modo non vedo mai la faccia, in questo modo non ho mai visto la sua (la mia) faccia, scrive Enderer, cosa che deriva anche dal suo portamento ingobbito, pensai, la schiena di Humer era curva, la colonna vertebrale di quell’uomo era talmente curva, vidi mentre l’osservavo, sempre più infagottato nel suo mantello, non avevo mai visto niente di simile ... di una persona lo interessava la qualità delle scarpe e la qualità dei pantaloni, che tipo di vestito, che tipo di giacca indossava, aveva una spiccata sensibilità sia per i tessuti sia per il pellame... è vera pelle? si chiedeva, pelle di vitello, pelle di bue? Pelle di capretto? oppure: è forse un tessuto inglese? La faccia mai, disse, e si strinse nelle spalle, così sembrava ancora più miserevole, ripeté più volte la faccia mai, la faccia mai ... ma io conosco benissimo la sua faccia, dissi, scrive Enderer, improvvisamente avevo sentito la necessità di dire anch’io qualcosa, ammesso che parlassi io, qualcosa su di me, ammesso che Humer, il quale di colpo aveva parlato moltissimo, tacesse, e dissi: la conosco benissimo già da parecchio tempo, e aggiunsi anche, in modo del tutto superfluo, Lei ha una faccia davvero fuori dal comune, e mi resi subito conto dell’inopportunità di quest’affermazione, il mio interlocutore avvertiva senz’altro quanto è ignobile un’osservazione come Lei ha una faccia davvero fuori dal comune, non potei fare a meno di pensare, e dissi: a differenza sua, che guarda sempre le scarpe e il fondo dei pantaloni, io guardo sempre la faccia, in faccia. Per prima cosa sempre la faccia, dissi. Dopo una pausa: l’abbigliamento delle persone non m’interessa, m’interessa solo la faccia, e lo ripetei più volte, quello che indossano le persone non m’interessa, m’interessa solo la loro faccia ... guardando la loro faccia, capisco molte cose su queste persone, dissi, scrive Enderer, e pensai, queste persone che se ne vanno in giro nei loro mantelli grigi e verdi e si danno reciprocamente sui nervi con i loro mantelli, e all’improvviso dissi ad alta voce al mio interlocutore: con un mantello simile non c’è maltempo che tenga!, mentre dentro di me mi dicevo, tu odii tutto ciò che ha a che fare con questi mantelli, ciononostante dissi ancora una volta: non c’è niente di più utile di un mantello simile, e quanto più uno porta un mantello simile, dissi, in effetti dissi porta, il che è inammissibile, è assolutamente inammissibile dire porta, e quanto più uno porta un mantello simile, dissi, tanto meglio ci si abitua a portare un simile capo d’abbigliamento, dissi, l’idea che il mantello di Humer potesse essere il mantello di mio zio, annegato otto anni prima nella Sill, che lo fosse, non mi dava pace, da una parte m’interessava il destino di Humer, dall’altra m’interessava il suo mantello, non mi era chiaro, che cosa t’interessa di più, il mantello di Humer o il destino di Humer, ma sì, lo ammetto, più il mantello di Humer che non il suo destino, la catastrofe di Humer, come da un pezzo si era capito, la catastrofe di quest’uomo dunque m’interessava sempre meno del suo mantello, eppure non chiesi: dove ha preso questo mantello?, forse, pensai, a un uomo come Humer bisogna chiederlo direttamente, girarci intorno non serve a niente, ma non glielo chiesi, riflettei per tutto il tempo se chiederglielo, ma non glielo chiesi, da una parte ero curioso di sapere che cosa avrebbe risposto Humer se gli avessi chiesto: dove ha preso il suo mantello (comprato, trovato, eccetera)?, dall’altra temevo la risposta, in effetti avevo paura di una risposta, quale che fosse. Pensai, scrive Enderer, adesso non dire più niente sul mantello, dimentica il mantello, pensai, basta con il mantello, ma subito dopo essermi ripromesso di non parlare più del mantello di Humer, di dimenticare il suo mantello, di escludere il mantello, ricominciai a pensare solo e unicamente al mantello. Ma non osavo chiedere dove Humer avesse preso il suo mantello. Feci i conti e mi dissi: otto anni, naturalmente, otto anni fa mio zio Worringer si è gettato nella Sill con il mantello ed è stato portato dalla corrente a valle di Pradl senza mantello, senza mantello, senza mantello, pensai, anziché dire: veniamo al punto, o chiedere: dove ha preso il mantello?, e soprattutto pensando al fatto che il mantello di Humer, come il mantello di mio zio Worringer, aveva sei occhielli bordati di pelle di capretto, conclusi che il mantello di Humer doveva essere senz’ombra di dubbio il mantello di mio zio, io giudico le persone dalla loro faccia, dissi, nessun altro modo di giudicare, dissi, nessun altro modo di giudicare le persone se non la faccia, mentre Lei giudica le persone dall’abbigliamento ... in effetti anche il mio abbigliamento è di qualità scadente, dissi, il che sorprende in un avvocato ... il fatto che il suo, l’abbigliamento di Humer fosse di qualità scadente, aveva a che fare con la sua esistenza, che a poco a poco e soprattutto negli ultimi due decenni si era incupita nel modo più doloroso, in effetti il suo incupirsi, come diceva lui stesso, non era cominciato con il matrimonio del figlio, ma già molto prima, dieci anni prima o forse più, disse, con l’improvvisa riduzione dei dazi e il radicale ribasso della carta crespata e della carta seta, materie prime per la produzione di articoli funebri. In tribunale naturalmente bisogna presentarsi con un abbigliamento inappuntabile, dissi io, scrive Enderer, e mi resi conto dell’insensatezza anche di quest’affermazione ancor prima di averla fatta, ma io nemmeno in tribunale sono vestito in modo inappuntabile, ben vestito sì, dissi, in modo inappuntabile no, è diverso, dissi, scrive Enderer. Non ho mai considerato importante un abbigliamento inappuntabile, né l’abbigliamento in genere. Che cosa è l’abbigliamento? dissi, e questa frase mi sembrò quasi insopportabile, ma ormai l’avevo detta. Io non mi chiedo: sono vestito come si deve?, dissi, il mio abbigliamento è di qualità scadente?, non mi pongo queste domande ... che io non sia vestito in modo inappuntabile non significa che i miei abiti siano ripugnanti, dissi, e: per lo più sono ben vestito, inoltre odio i sarti, spero di non offenderla, dissi, scrive Enderer, quando dico che odio i sarti, soprattutto i sarti da uomo, dissi, e non sapevo perché avevo detto soprattutto i sarti da uomo, e dissi: io vado ai grandi magazzini. Dipende dalla figura, dissi ... c’è da chiedersi, dissi, se avrei fatto più strada attribuendo maggior valore o comunque un valore all’abbigliamento... c’è da chiedersi, un uomo ben vestito ha più possibilità di un uomo mal vestito? ... ma domande di questo genere non m’interessano, dissi, scrive Enderer, poi all’improvviso: mantelli se ne possono comperare ovunque, quando poi uno sa dove fanno gli sconti ... dipende dalla professione che si ha, disse poi Humer, scrive Enderer, se ci si può permettere o meno una trascuratezza nell’abbigliamento, dipende dal lavoro che si esercita ... spesso un abbigliamento opportuno è semplicemente il presupposto, dissi ... ora d’un tratto invitai Humer a espormi ancora una volta il suo problema, quello che aveva detto mi era chiaro, da tutti i suoi accenni, dalle frasi, lunghe e lasciate in sospeso oppure brevissime, ero riuscito a farmi un’idea del suo caso e cioè di quello di cui si trattava, del motivo per cui si trovava lì nel mio studio, ma era mia abitudine chiedere al cliente di esporre il suo problema una seconda volta subito dopo la prima, nella ripetizione dei fatti si evidenzia il nocciolo della questione, dissi, tutto appare in una luce diversa, in una luce incorruttibile, dissi, se la prima esposizione dei fatti corrisponde alla seconda esposizione dei fatti, cioè, se si cerca di far corrispondere la prima e la seconda esposizione o descrizione dei fatti, spesso risulta che il dettaglio in precedenza irrilevante è in fondo rilevante, e il dettaglio all’inizio rilevante diventa all’improvviso irrilevante e all’improvviso tutto quanto diventa qualcosa di completamente diverso ... così ora aggiunsi ai miei appunti precedenti quello che Humer diceva adesso, e pensai di chiedere a quell’uomo di espormi il suo problema più volte, non soltanto due volte, come di solito, ma anche tre, quattro volte ... questo significa sicurezza nei nessi logici ... che lui adesso esponesse il tutto ancora una volta, dissi a Humer, scrive Enderer, era necessario, perché il suo caso, anche se mi era già chiaro, non mi era ancora del tutto chiaro... a quel punto Humer, scrive Enderer, non parlò più solo per sommi capi, ma espose il suo problema in modo logico e riuscì a separare le cose importanti da quelle non importanti, quelle che appartenevano ai fatti da quelle che non appartenevano ai fatti, quelle che aiutavano a ricostruire i fatti da quelle che non facevano che confonderli, quanto a me, nel mio lavoro, mi sono formato su queste persone per queste persone, il loro pensiero e il loro linguaggio mi sono familiari ... da una parte il suo problema era estremamente complesso, dall’altra non lo era, disse Humer, scrive Enderer, Humer descrisse con la massima insistenza gli avvenimenti di casa sua nell’alta Saggengasse, mentre io, che dovevo aggiungere altra legna, osservavo dalla stufa come ora andasse avviluppando man mano anche le ginocchia nel suo mantello, lui non si accorse che dalla stufa lo osservavo con un’invadenza inammissibile, con quell’intensità che non è lecita a nessuno nei confronti di nessuno, non si accorse perché teneva gli occhi bassi, con queste persone non si sa mai se tengono gli occhi bassi perché sono insicure nel rapporto con gli altri, dunque per quanto riguarda Humer, perché si sentiva del tutto a disagio nel mio studio, se queste persone tengono gli occhi bassi per timore o per meschinità, per insicurezza o perché hanno intenzioni criminali, e mentre dalla stufa osservavo Humer mi colpì l’incredibile ampiezza del suo mantello, e poi anche le sue scarpe rozze, quelle scarpe insolitamente rozze e insolitamente grandi, in cuoio di Russia, i suoi pantaloni erano fuori moda, risvolti larghi e così via, sfilacciati, mi sembrò, pantaloni di panno, pensai ... la goffaggine di questa gente è sempre la stessa, pensai osservando Humer che, come fa chi è infreddolito, con quel caratteristico irrigidimento momentaneo che coglie chi è in balia del freddo in un ambiente estraneo, si stringeva al petto con entrambe le mani il mantello abbottonato ... adesso sapevo già di che cosa si trattava e dissi, so di che cosa si tratta, ma se Lei mi descrive tutto quanto ancora una volta con precisione, se mi espone tutto con precisione, senza tralasciare nulla, senza tralasciare nulla, dissi, posso comprendere meglio la faccenda, e per affrontare la faccenda nel modo più opportuno ho bisogno che Lei mi descriva ancora una volta tutte le circostanze, tutte le circostanze, ripetei ... superficialmente, come ho detto, quando eravamo ancora sulle scale e anche in studio avevo preso Humer per un mediatore immobiliare o per un commerciante di bestiame, questo errore m’irritava ancora e all’improvviso dissi, che Lei è il proprietario del negozio d’articoli funebri, non volevo dirlo ma all’improvviso lo dissi, naturalmente lo so, m’invischiai di nuovo in quella menzogna, e Humer osservò che in quelle case della Saggengasse e soprattutto nelle case dell’alta Saggengasse, in quelle case molto vecchie la gente si guastava, se non stava perennemente in guardia soccombeva, disse in tono patetico, all’improvviso si era drizzato dicendo in tono patetico: soccombe ... dapprima non riescono a superare la loro goffaggine, ma poi si aprono e dicono molto più di quello che si vorrebbe ascoltare, scrive Enderer, ma Humer si limitò solo a quello che poteva servire, e anche le osservazioni che io all’inizio avevo ritenuto osservazioni completamente superflue da parte sua, sulla sua infanzia, sull’arte di tagliare la lana di cellulosa eccetera, ora si rivelarono utili ... come anche quello che aveva detto fin dall’inizio, che sua nuora era nativa di Matrei ... perché questa gente poi, una volta che ha preso confidenza, si apre e con i mezzi di cui dispone, semplici ma fidati, ispira fiducia e infine dà anche fiducia, scrive Enderer, dapprima con esitazione, poi in modo molto determinato, senza timore, e lì accanto alla stufa mi venne in mente come sia utile, con qualcuno come Humer, lasciare un po’ di tempo per prendere confidenza, senza liquidare subito, senza ridurre subito al silenzio, senza irritare con domande aggressive, come ho sempre fatto in passato in modo così maldestro, rovinando sempre tutto ... per quanto Humer fosse insignificante, scrive Enderer, per quanto fosse vecchio, perché senza dubbio si trattava di una persona di sessantacinque, quasi settant’anni, in tutta la sua miseria, sentivo di trovarmi di fronte a un essere umano, all’improvviso sentii con certezza che nel mio studio c’era un essere umano ... e che dovevo trattare quest’essere umano con molta delicatezza ... ma poi quel pensiero che fino allora non avevo mai avuto m’irritò, e ricominciai a pensare al mantello di Humer ... se quest’uomo indossa pantaloni di panno, pensai, indossa anche un giubbotto di panno, una giacca di panno, pensai, che la gente apprezza molto perché da una parte sono caldi e dall’altra sono a buon mercato, in effetti dall’odore degli abiti di Humer ero certo che tutto il suo abbigliamento fosse di panno, pantaloni di panno, giubbotto di panno, giacca di panno, poiché senza dubbio i pantaloni di Humer erano pantaloni di panno, come potei constatare anche nella penombra dello studio, nelle mattine di novembre la luce elettrica è debolissima, e le cause sono da una parte le sorgenti d’alta montagna, che si sono quasi esaurite, dall’altra le industrie, che si sono sviluppate in modo incredibile, pantaloni di panno e un giubbotto di panno e una giacca di panno sono proprio indumenti adatti alla sua persona, pensai ... e soprattutto questo mantello... e il cappello nero in testa e le calze grigie di Schladming ... da una parte la mia vicenda è estremamente complicata, dall’altra non lo è, disse di nuovo, scrive Enderer, e come per confermare quello che aveva detto fino a quel momento ripeté più volte a intervalli regolari com’era iniziata la sua tragedia (parole sue), scrive Enderer, e disse: quando mio figlio compì ventidue anni, più e più volte, quando mio figlio compì ventidue anni e poi: quando mio figlio si sposò e quando mia nuora arrivò da Matrei in casa nostra ... dopo cinque o sei o otto frasi ripeteva sempre quando mio figlio compì ventidue anni oppure quando mia nuora arrivò da Matrei in casa nostra, l’impressione che in tutto quello che Humer diceva ci fosse qualcosa di cupo, se non addirittura tenebroso, naturalmente era rafforzata dalla fioca illuminazione elettrica e soprattutto dalla stagione. Tutt’a un tratto disse: poiché Lei non sa assolutamente niente di me e poiché siamo passati l’uno accanto all’altro per due decenni ... la frase restò a lungo sospesa nell’aria, finché Humer disse: ma se conosce il mio negozio ... al che io, scrive Enderer: non sono mai stato nel suo negozio, in effetti conosco il negozio di articoli funebri nella Saggengasse, ma non sono mai stato nel negozio, non volevo lasciare Humer in dubbio su questo. Mio padre mi ha lasciato il negozio quarant’anni fa, disse Humer, scrive Enderer, e poi: per il negozio è andata sempre meglio, per me sempre peggio. Anche questa frase, scrive Enderer, Humer la ripeté più volte. Per quanto riguarda il negozio, così Humer, scrive Enderer, c’è stato un miglioramento, per quanto riguarda me, un peggioramento. La cosa era cominciata con il fatto che lui aveva insegnato a suo figlio come si confezionano gli articoli funebri, una specie di mestiere da sarto di livello superiore, scrive Enderer, come adesso so, scrive Enderer, in effetti è un mestiere che richiede un’arte oltremodo raffinata, lui, Humer, l’aveva insegnato a suo figlio, come il padre di Humer l’aveva insegnato a lui, e il nonno di Humer al padre di Humer e così via. A diciassette anni tutti, anche suo figlio, avevano finito il loro periodo di apprendistato nel negozio del padre, l’unico negozio di articoli funebri del Tirolo. Per quanto si chieda in giro, nessuno ne sa niente, scrive Enderer, eppure il negozio di articoli funebri di Humer esiste già da circa ottant’anni nell’alta Saggengasse. E si sa quanto costa l’esposizione del feretro, soprattutto qui in Tirolo l’esposizione del feretro è estremamente costosa, per cui si può immaginare che un negozio del genere sia un negozio redditizio. E Humer non lo nasconde neppure quando parla, tutto quello che dice fa pensare in continuazione: che negozio redditizio!, e soprattutto questo fatto gioca un ruolo fondamentale in quanto accaduto a Humer, fatto che lui nel momento culminante all’improvviso non è più stato in grado di sopportare. Ma, così Humer, scrive Enderer: noi lavoriamo persino per l’export. Alla parola export la sua voce suona incerta. Come ho detto, così Humer, scrive Enderer, mi rivolgo a Lei a causa della situazione intollerabile in cui sono costretto a vivere. Il solo fatto che io, proprietario di un negozio così redditizio, vada in giro con pantaloni di panno e con una giacca di panno dovrebbe darle da pensare, dice Humer, scrive Enderer, un proprietario di negozio con pantaloni di panno e con una giacca di panno e con scarpe così rozze ... non può non darmi da pensare, scrive Enderer, e poi scrive: Lei non conosce mio figlio, dice Humer, ma ha già visto mio figlio più volte, probabilmente ha visto mio figlio più di me, non fa che andar su e giù per l’alta Saggengasse, un uomo alto, vestito in modo vistoso, dice Humer, e poi: mio figlio da anni va al Grauen Bären, sa che cosa significa! E mia nuora di Matrei l’ha spinto ad andare ogni giorno al Grauen Bären, mentre io devo accontentarmi delle cose più semplici, e mio figlio, dice Humer, scrive Enderer, spende una quantità di soldi! E inoltre va di continuo anche in un altro ristorante, e molto spesso al teatro comunale. Ci si chiede, dice Humer, scrive Enderer, che cosa passa per la testa di una persona del genere! Ma tutto il problema sta nel fatto che mio figlio si è sposato nel modo più infelice e nel momento più sfavorevole, solo che non lo ammette, so con certezza che il suo è un matrimonio infelice, ma lui non lo ammette. Mio figlio è infelice, quella donna gli ha rovinato la vita, dice Humer, scrive Enderer. Del resto adesso il figlio di Humer già da tempo non va più al Grauen Bären, bensì alla Kaiserkrone, s’immagini, dice Humer, scrive Enderer, va alla Kaiserkrone! Dato che anche Lei, mi dice Humer, scrive Enderer, come so, va molto spesso al Grauen Bären, deve conoscere mio figlio, come detto, è vistosamente alto e vestito vistosamente, una figura vistosamente alta, dice Humer e io mi chiedo, scrive Enderer, come fa Humer a sapere che in effetti vado molto spesso al Grauen Bären, come sapete, ci scrive Enderer, ogni sabato e domenica vado al Grauen Bären, che è ancora il migliore. Ma naturalmente anche al Grauen Bären può capitare che venga servito qualcosa d’immangiabile, scrive Enderer e: Humer dice che sua nuora ha i capelli più lunghi del normale e, scrive Enderer, dice Humer, perennemente spettinati, spettinati, mia nuora è sempre spettinata, non c’è nulla che io odii di più di una persona spettinata, dice Humer, ma la mia avversione non dipende solo dal fatto che lei è spettinata, dice Humer, a causa di questa donna, che proviene dalla classe più bassa, il padre ancora oggi lavora come imbianchino a Matrei, dice Humer, la madre arrotonda facendo la donna di servizio, in come lo dice c’è tutto il disprezzo possibile, scrive Enderer, come ho detto, già da tempo i due vanno alla Kaiserkrone, scrive Enderer, alla Kaiserkrone costa tutto il doppio rispetto al Grauen Bären, dice Humer, e io penso, con i miei soldi, dice Humer, ci metteranno ben poco a sperperare tutto, dice adesso Humer, perché vivono più per divertirsi che per lavorare, e per sperperare il guadagno di un negozio come il mio negozio, dopotutto appartiene ancora a me!, grida Humer, appartiene ancora a me!, ci vuole una buona dose di stupidità e di odio verso il padre. Avevo sentito bene, odio verso il padre, dice Humer, e poi: sedici macchine da cucire, dottore, se riesce a immaginare, oggi già sedici macchine da cucire, e io pensavo, scrive Enderer, sedici persone sedute a sedici macchine da cucire, su ordinazione serviamo, dice Humer, scrive Enderer, anche il Vorarlberg e Salisburgo e di recente anche la Baviera, in Baviera gli articoli funebri costano il doppio che da noi, dice Humer, e si può quindi pagare anche un dazio più alto, circa quaranta imprese di pompe funebri acquistano articoli funebri dal laboratorio di Humer nell’alta Saggengasse, scrive Enderer. E tutto ciò che ho costruito in decenni, in un attimo mio figlio lo avrà sperperato insieme a quella donna ordinaria che è sua moglie, e intanto va alla Kaiserkrone!, dice Humer, poi sempre Humer: per quanto mi riguarda, questi sono i fatti: un discorso simile dimostra che Humer, nel breve tempo che ha trascorso con me in studio, e se è vero che sono il primo avvocato della sua vita, scrive Enderer, e non metto in dubbio le sue dichiarazioni, quest’uomo dice la verità e ascolta con la massima attenzione, ho sempre l’impressione che le sue orecchie sentano tutto, anche quello che non dico, dimostra che Humer ha già acquisito dimestichezza con il linguaggio giuridico e che adesso fa già uso del linguaggio giuridico quando dice, per quanto mi riguarda la fattispecie è questa: mentre io, come Lei sa, e come in effetti io già so, perché Humer l’ha già detto più volte, mentre io, dice dunque Humer, da quando ho cominciato a respirare ho abitato per trent’anni in pace e tranquillità in un appartamento al pianterreno, e precisamente vicino al negozio nella Saggengasse, dice con foga, ho abitato in quest’appartamento al pianterreno fin dai primi momenti, ripete ancora un paio di volte con insistenza, gesticolando per la prima volta con le mani che improvvisamente non sono più avvinghiate al mantello, parlando in modo sempre più concitato e distendendo le sue gambe relativamente lunghe, lentamente Humer distese le sue gambe relativamente lunghe, scrive Enderer, il suo lungo corpo magro si rilassò non appena l’uomo cominciò a parlare del suo appartamento al pianterreno nella Saggengasse, sciogliendo l’irrigidimento che durava da almeno un’ora, in effetti Humer è seduto nel mio studio da più di un’ora, e il fatto che sia seduto qui, penso ad un tratto, è stato possibile solo perché ho lasciato salire quest’uomo nel mio studio senza pensare che io questa mattina non ricevo in studio, senza pensare che oggi io non ricevo!, ho semplicemente invitato quest’uomo a salire con me in studio per via del modo in cui l’uomo stava davanti al portone giù in strada, senza dubbio mi aspettava per qualcosa d’importante, ho pensato, quest’uomo viene per una cosa importante, e senza chiedermi se avesse senso, se fosse opportuno far salire quest’uomo, l’ho invitato a salire, scrive Enderer, ma io il lunedì non ricevo, pensai, scrive Enderer, e all’improvviso dissi a Humer: comunque io il lunedì non ricevo!, al che però lui non reagì, stava lì seduto, adesso ben ritto, scrive Enderer, all’improvviso aveva raddrizzato la colonna vertebrale e parlava del suo appartamento al pianterreno, un appartamento molto bello, dottore, disse. Quando si è cresciuti in un appartamento così spazioso al pianterreno, e adesso era tornato al dunque, scrive Enderer, non si può lasciare dall’oggi al domani un appartamento così adatto da ogni punto di vista. Fin dalla prima infanzia si era abituato a tutto in quell’appartamento, scrive Enderer, tutto in quell’appartamento gli era più che familiare e non si può di colpo, dopo decenni e inoltre per i motivi più campati in aria, buttar fuori dal suo appartamento al pianterreno uno che è abituato ad abitare in un appartamento al pianterreno, mi creda, disse Humer, scrive Enderer, non c’è niente di più terribile. Mi hanno buttato fuori dal mio appartamento al pianterreno. Dall’oggi al domani. Lui, Humer, deve trasferirsi al primo piano, gli hanno detto, scrive Enderer, e Humer dice: dietro a tutto questo c’è mia nuora di Matrei, perché mio figlio, dottore, non mi avrebbe buttato fuori, è troppo debole per farlo, mio figlio cose del genere non le fa. Ma, scrive Enderer: i figli si sposano, così Humer, e presto diventano spietati come le loro mogli, e il matrimonio con una donna come mia nuora significa la liquidazione del negozio, la sua distruzione. Con il pretesto d’ingrandire il negozio (acquisire un deposito di cellulosa grande il doppio!) mio figlio mi ha costretto a traslocare dall’appartamento al pianterreno per salire al primo piano. Ma non ha affatto ingrandito il deposito di cellulosa, dice Humer, in seguito, a poco a poco, ho visto che non aveva ingrandito il deposito di cellulosa e gli ho fatto notare che avevo traslocato dall’appartamento al pianterreno solo perché lui voleva ingrandire il deposito di cellulosa, allora ha parlato di un reparto bare, che voleva annettere al negozio di articoli funebri, aveva già fatto richiesta per la licenza ma il governo regionale se la prendeva comoda, e alla fine ho scoperto che mio figlio non aveva fatto nessuna richiesta di licenza per un reparto bare. Che bugiardo!, disse Humer, scrive Enderer. Prima, un deposito di cellulosa più grande, poi un reparto bare, poi: posto per sei nuove cucitrici!, ma anche questa era una menzogna, perché fino ad oggi non ho visto neanche una delle sei nuove cucitrici, al contrario, anziché diciotto cucitrici, come avevamo ancora due anni fa, oggi ne impieghiamo solo sedici. E all’improvviso, dice Humer, scrive Enderer, ecco che non possiamo più vivere solo del negozio di articoli funebri, questo detto da uno che va a mangiare alla Kaiserkrone, e non da solo, bensì in coppia, a spendere biglietti da mille! Dal momento in cui aveva dovuto prendere in casa la nuora, suo figlio è stato tutto una menzogna, nient’altro che menzogna. Ma a una persona come mia nuora non si può tener testa, dice Humer, scrive Enderer, altrimenti la situazione non fa che peggiorare. In effetti Humer avrebbe potuto rifiutarsi di traslocare dal suo appartamento al pianterreno, scrive Enderer, ma un simile rifiuto per lo più va al di là delle forze di un uomo come Humer, come va al di là delle forze di chiunque. In fondo il negozio appartiene ancora a me!, dice Humer. Ma quando un figlio si sposa, il padre non può più fare quello che vuole in casa sua. Ignorava ancora la portata della catastrofe, queste le parole di Humer, che ha potuto realizzarsi interamente solo per il fatto che ho traslocato dal mio appartamento al pianterreno e sono salito al primo piano. Sfinito, dice Humer, scrive Enderer, sono salito al primo piano. Per giorni mi sono detto: non salgo, e tuttavia poi sono salito. E non appena mi sono sistemato di sopra ho visto che erano tutte menzogne, nient’altro che menzogne, che mi ero lasciato abbindolare da una grossolana menzogna. Non mi hanno proposto di traslocare, mi hanno buttato fuori, proprio buttato fuori, ripeté Humer più volte. Con difficoltà, ma a poco a poco era riuscito comunque ad abituarsi al primo piano, disse Humer, scrive Enderer, e Humer cominciò a sbottonarsi il mantello. Mentre si sbottonava il mantello, adesso faceva caldo, persino troppo caldo, sul lato interno del mantello notai l’etichetta di un sarto, piuttosto grande, la stessa etichetta che ricordo di aver visto sul mantello di mio zio. O forse mi sbagliavo?, scrive Enderer, può essere che non sia la stessa etichetta?, pensai, e già l’etichetta non si vedeva più, perché Humer d’un tratto aveva ripiegato il suo mantello, prima sulla spalla sinistra e poi sulla spalla destra, in modo tale che l’etichetta non si vedeva più. In effetti poi Humer, scrive ancora Enderer, aveva scoperto i cosiddetti vantaggi del primo piano. Come sa, dice Humer, tutte queste case, e soprattutto le case della Saggengasse, al pianterreno sono umide, ma il primo piano è asciutto. Humer aveva subito potuto constatare un’attenuazione dei suoi dolori reumatici (disse: un miglioramento dei miei dolori reumatistici, non disse reumatici, bensì reumatistici), un’attenuazione dunque dei suoi dolori reumatici, scrive Enderer. Era arrivato a convincersi che fosse stato un bene lasciare l’appartamento al pianterreno per salire al primo piano. Già dai primi giorni il mio mal di schiena era migliorato, dice Humer. Ma non dissi nulla, affinché loro (i miei figli), non potessero approfittarne, perché se avessi ammesso di averne ricavato anche solo un minimo vantaggio, ne avrebbero subito approfittato. Tutt’a un tratto ero in grado di camminare più in fretta, di chinarmi, e intendo di chinarmi fino a terra, cosa che già da decenni non ero più in grado di fare, in generale al primo piano godeva di una mobilità maggiore e quasi senza dolori. Ma al riguardo non dissi nulla, dice Humer, al contrario. Constatò anche che il primo piano è più luminoso. Si può risparmiare sulla luce, l’aria è migliore, c’è più ossigeno, meno rumore. Ma il fatto di non poter più controllare facilmente come dal suo appartamento al pianterreno l’andamento del negozio e le manovre che si svolgevano giù in negozio lo amareggiava. Nell’appartamento al primo piano ero completamente escluso dal negozio, su questo contavano loro, suo figlio e sua nuora, sul fatto che io dal primo piano non potevo scendere giù in negozio ogni momento per fare un controllo, avevano calcolato tutto, la mia scarsa mobilità, la difficoltà nel salire e scendere da quella scala ripida. Tutto calcolato, disse. Imbroglio e calcolo. Ero recluso al primo piano, da lassù non sentivo neppure il campanello del negozio, dice Humer, e questo aumentava i miei sospetti. Sotto di me, che ero recluso al primo piano, poteva espandersi indisturbato l’imbroglio, e come si è potuto espandere questo imbroglio sotto di me, lo vedrà dalle carte che ho portato. Sotto l’influenza devastante di sua moglie all’improvviso mio figlio era diventato capace di tutto. Un muro di menzogne nascondeva ogni cosa, dice Humer, scrive Enderer. Una mostruosa strategia di occultamento, dice Humer. A prescindere da questo, superate le difficoltà iniziali, si era però abituato rapidamente alla nuova condizione, al fatto di abitare al primo piano. Ma, cosa che mi aveva già detto e di cui avevo già preso nota da tempo, scrive Enderer, tre mesi dopo mi hanno consigliato di lasciare il primo piano e di salire al secondo, tutt’a un tratto dovevo lasciare anche il primo piano e salire al secondo, dice Humer, scrive Enderer. Ovunque odio verso di me, l’odio di mio figlio, l’odio di mia nuora. Solo e unicamente il mio camminare su e giù lungo la Sill, disse Humer, scrive Enderer, per il resto nient’altro che odio verso di me, per il fatto che sono ancora qui. Dicevano che era in arrivo un figlio. Proprio questo temevo più di ogni altra cosa, dottore, così Humer, scrive Enderer, che venisse il momento in cui si sarebbe parlato di un figlio, quando c’è un figlio i coniugi non si separano più così facilmente, ma loro anche senza figli non si sarebbero mica separati perché mia nuora sa fare i suoi calcoli, disse Humer. Un figlio, dunque, e una volta arrivato il figlio l’alloggio disponibile diventa insufficiente, adesso è il figlio in arrivo, prima bisognava creare un deposito di cellulosa, poi un deposito di bare, ma mentre i depositi di cellulosa e di bare erano stati una menzogna, dice Humer, alla storia del figlio io ci credevo. Non ho più chiuso occhio, dice Humer, scrive Enderer, un figlio, un figlio. Ma non resistetti a lungo e il giorno stesso traslocai al secondo piano, così Humer, la difficoltà consisteva nello spostare i mobili dal primo al secondo piano per quella scala così stretta, ma in effetti riuscirono a portar su tutti i mobili al secondo piano; neppure per un momento dubitai della storia del figlio, dice Humer, poi ci dovetti credere per forza, perché il figlio era già lì, come vidi poi tutt’a un tratto, il figlio c’è già, ci sono tante cose così dolorosamente assurde, dissi, scrive Enderer, poi Humer: il nipote arrivò, ma naturalmente io non avevo capito perché avevo dovuto traslocare al secondo piano per via del nipote, ma mi sono rassegnato al fatto di abitare definitivamente al secondo piano, è stato il mio sacrificio, dottore, dice Humer, scrive Enderer, anche se non riuscivo a capire bene il perché. Il secondo piano è ancora più asciutto del primo e l’aria al secondo è ancora meglio che al primo e i rumori non si sentono quasi più. Ma quello che continuava a interessarmi, soprattutto ora, dopo aver scoperto le manovre di mio figlio e di mia nuora, e con maggior intensità di prima, cioè il negozio là sotto e tutto ciò che era connesso al negozio là sotto, ormai, confinato com’ero di sopra, mi sfuggiva ancor più, era troppo faticoso scendere tutti i momenti, dice Humer, scrive Enderer, dava anche troppo nell’occhio scendere e salire, scendere e salire in continuazione, e soprattutto che senso aveva, dice Humer, sotto i loro sguardi pieni di odio!, dunque non andavo quasi più in negozio, e quando capitava, era solo per un momento, per trovare la conferma dei miei indizi, del mio sospetto riguardo al loro imbroglio, per sottrarre documenti falsificati, dice Humer, scrive Enderer, per fare delle copie in tutta fretta e con la massima cautela, di nascosto, ed è stata la cosa più difficile, perché a loro volta mio figlio e mia nuora avevano concepito da un bel pezzo il sospetto che io avessi un sospetto... durante la notte mi dedicavo esclusivamente a quelle carte, dice Humer, perché al secondo piano mi lasciavano in pace, completamente indisturbato, dice Humer, il che era senz’altro un vantaggio, dice Humer, scrive Enderer, e all’improvviso Humer grida: tutto falsificato! Tutto quanto falsificato! L’intera contabilità falsificata! E non, come si potrebbe supporre, falsificazioni per frodare il fisco, no, falsificazioni per frodare me! Non mi restava altro che rivolgermi a Lei, mi dice Humer, scrive Enderer. Bisogna portare tutto questo in tribunale, dice, tutto in tribunale, chi pensa ancora a usare dei riguardi quando si tratta di un complotto contro il proprio padre! Naturalmente, il secondo piano è assolutamente ideale, ho pensato, ma non l’ho detto. Al contrario. Taceva atteggiandosi a vittima, ruolo che nel frattempo aveva appreso a impersonare con una certa abilità. La fatica, lo sforzo disumano di salire fino al secondo piano e di ridiscendere dal secondo piano li aveva accettati. Niente ascensori, come Lei sa, nella Saggengasse niente ascensori, dice Humer. Al secondo piano invitai i miei vecchi amici, dice Humer, scrive Enderer, che non solo l’avevano confermato nel suo sospetto che lo stessero imbrogliando, cosa evidente sulla base di innumerevoli prove che adesso erano sulla mia scrivania, ma anche nell’intenzione di andare con tutte le carte da un avvocato, il che vuol dire in tribunale. Già da anni sapevo che non si trattava più soltanto di sospetti, dice Humer, e lo devo alla mia attenzione, al mio amore per il negozio nella Saggengasse, e all’improvviso gridò: l’amore per il mio negozio nessuno ha potuto portarmelo via!, scrive Enderer, poi, scrive Enderer, Humer si siede sulla sedia e s’avviluppa come può nel mantello. Adesso non vedrai più l’etichetta del sarto, pensai, scrive Enderer, tutto fa pensare che non si toglierà più il mantello, al contrario, da questo momento in poi si avvilupperà ancor più nel suo mantello, sempre più si avvilupperà nel suo mantello, mentre Humer tirava fuori dal mantello un pacchetto legato con un semplice spago e lo posava sulla mia scrivania. Tutte ulteriori prove, tutti ulteriori indizi, disse, scrive Enderer. E adesso prenda nota, dice Humer, scrive Enderer, e Humer mi rivelò per la prima volta: una settimana fa, all’improvviso, mi hanno detto che dovevo traslocare anche dal secondo piano e salire al terzo. Mio figlio mi ha fatto la singolare proposta proprio mentre ero impegnato nella lettura degli opuscoli sulla cellulosa e sulla carta pressata. Non ho dubitato neppure per un momento che, mentre mio figlio mi chiedeva di lasciare il secondo piano, in realtà era mia nuora a chiedermelo, naturalmente attraverso la bocca impudente di mio figlio, dice Humer. Sì, ho detto io, dice Humer, e nel frattempo s’era sforzato di restare tranquillo, di non entrare in agitazione, sì, allora via anche dal secondo piano e su al terzo! E aveva ripetuto più volte: su al terzo, su al terzo, perché nel frattempo erano nati altri due figli, e un quarto era in arrivo ... un quarto figlio, mi dice Humer, scrive Enderer, non è insensato? Non è insensato e anche stupido? Humer mi dice più volte: non è una cosa assolutamente stupida? Un quarto figlio è un crimine!, dice Humer, scrive Enderer. Di questi tempi, ho detto, così Humer, scrive Enderer, quando ci sono centinaia di milioni di persone di troppo, un quarto figlio? Poi, a quanto dice, ha esclamato più volte: un quarto figlio! Un quarto figlio! Un quarto figlio! E un quinto figlio! E un sesto figlio! E un settimo figlio! E un ottavo figlio! E così via! E così via! Più volte: E così via! E così via! Di sotto sentivo la nuora, dice Humer, scrive Enderer, che diceva: se non sale al terzo piano andrà all’ospizio! Sentivo la sua voce da giù, dice Humer, scrive Enderer. E mio figlio dice, dice Humer: traslocherai al terzo piano! Al che lui, Humer, aveva perso il controllo e aveva gridato con tutte le sue forze: un quarto figlio! Un quarto figlio! Al terzo piano! Al terzo piano! Un quarto figlio! Un quinto figlio!, e così via e poi solo: Figli! Figli! Figli!, fino al completo sfinimento, scrive Enderer, poi Humer dice, scrive Enderer: tuo figlio non ti capisce, non ti capisce più, non ho potuto fare a meno di pensare, e: che cos’ha fatto questa donna a tuo figlio! E Humer si alzò, scrive Enderer, e cominciò a camminare su e giù per lo studio, di tanto in tanto indicava sulla mia scrivania le carte che aveva portato e diceva: tutto questo è già assolutamente criminale, tutto questo è già assolutamente criminale. È tutta roba da tribunale! Indietro non si torna, diceva, indietro non si torna. All’improvviso, dice Humer, scrive Enderer, ho detto: no, al terzo piano no, al terzo no. Categoricamente! Non in quelle stanzette indegne di un essere umano! ho detto, dice Humer, così Enderer, non lassù in quel tetro bugigattolo. Poi se ne era andato sulla Sill, e aveva camminato per ore su e giù lungo la Sill, così Enderer, e poi Humer, come scrive Enderer: quando sono arrivato a casa, mio figlio aveva già trascinato la maggior parte delle mie cose su al terzo piano, il che vuol dire su in soffitta. L’ho visto subito, dice Humer, scrive Enderer, ha già trascinato su al terzo piano quasi tutte le tue cose, tutto trascinato su. E poi loro, mio figlio e mia nuora, hanno anche cominciato a trascinare i miei mobili dal secondo piano su al terzo piano, se Lei abita nella Saggengasse, mi dice Humer, scrive Enderer, saprà com’è il terzo piano, in tutta la Saggengasse gli appartamenti al terzo piano sono assolutamente inadatti a essere abitati, e questo più volte: assolutamente inadatti a essere abitati. Sistemare, rendere abitabile, dicevano, dice Humer. E tutto doveva avvenire subito, tutto subito. I mobili e il padre subito su in soffitta, dottore, dice Humer, scrive Enderer. Mi hanno installato sommariamente due paraventi su in soffitta e hanno cercato di convincermi che la soffitta fosse abitabile. Prima che faccia freddo e cominci a nevicare, quassù sarà tutto pronto per l’inverno, dice mio figlio, dice Humer, scrive Enderer, quassù si può riscaldare, dice mio figlio. E s’immagini, dice Humer, per tutto il tempo in cui mio figlio e sua moglie sistemano i miei mobili qui e là nella soffitta, io non riesco a parlare, come se avessi perso la lingua, dice Humer, voglio parlare, ma non posso, me ne sto lì avviluppato nel mio mantello e non riesco a dire nulla. E come tutt’a un tratto ho dovuto tacere!, dice Humer. Quell’orribile, disgustoso odore di soffitta che ho odiato fin dall’infanzia, dice Humer. Tutto marciume, tutto sporcizia e marciume. Mio figlio diceva in continuazione la parola ristrutturare, dice Humer, scrive Enderer, ripeteva sempre ristrutturare, installare il riscaldamento. Alla fine hanno portato in soffitta tutti i miei mobili e mi hanno persino fatto il letto, e io ho dovuto assistere, immobile, non mi è stato possibile scacciarli, non un passo, non una parola, dice Humer, scrive Enderer. Durante i lavori di ristrutturazione dovevo andare da mia sorella a Hall, hanno detto, dice Humer, scrive Enderer, nel frattempo andrai a Hall, sento dire da mio figlio, dice Humer. Ma io ho pensato, non ci vado a Hall, a Hall no, a Hall no, ho pensato. In continuazione: a Hall no. E all’improvviso: adesso, in tribunale!, adesso bisogna rivolgersi a un avvocato e andare in tribunale!, ed era uscito di casa, aveva percorso tutta la Saggengasse sino in fondo ed era entrato in una locanda nella Gänsbacherstrasse, ed era andato più volte sino alla Sill e ritorno e sino all’Inn e ritorno e alla fine aveva passato la notte nella locanda della Gänsbacherstrasse. Era già stato due volte qui nella Herrengasse e mi aveva aspettato. Da questo avvocato, si era detto, non sapeva perché ma si era detto in continuazione, da questo avvocato, in continuazione: da Enderer. Per tutti questi giorni mi sono portato addosso tutte queste carte, dice Humer, scrive Enderer, sempre nascoste sotto il mantello, questi indizi, dice, e poi: se queste carte non bastassero!, al che io, scrive Enderer: naturalmente bastano, dalle carte risulta tutto in modo assolutamente inequivocabile. Andare a processo, andare a processo, si era detto in continuazione, processare mio figlio e mia nuora. All’improvviso si era alzato e se n’era andato, scrive Enderer. Signor Humer!, gli avevo gridato dietro, perché avevo dimenticato di fargli firmare la procura generale, signor Humer!, ma lui era già andato via, già sceso. Tornerà, pensai, e cominciai a sbrigare il lavoro che per settimane avevo trascurato. Ma nel frattempo pensavo solo a Humer. Quanti crimini e reati, pensai, che da una parte sono all’ordine del giorno tra i piccoli commercianti, dall’altra contro Humer, e mi arrabbiavo sempre di più per non aver chiesto a Humer da dove venisse il suo mantello. Me ne ero poi dimenticato, pur essendomi fermamente proposto di chiederlo. L’etichetta del sarto è la prova, pensai. Che cos’aveva detto Humer? Sono rimasto a lungo davanti al portone ad aspettarla, dice Humer, scrive Enderer, ce l’ho ancora nell’orecchio, Enderer, suonare o non suonare, prima ha pensato: non suono, poi: suono, e in continuazione: solo da Enderer, e: è ragionevole? o: non è ragionevole?, finché poi ho suonato ... e quando tutt’a un tratto Lei mi è comparso davanti, ho dovuto salire con Lei in studio ... andare a processo contro mio figlio!, ha detto Humer, scrive Enderer. Si comincia per accenni, poi viene fuori tutto, penso io, scrive Enderer, è sempre la stessa cosa, si dice la verità e tuttavia non è la verità... non sarei dovuto salire da Lei, dice Humer più volte, ricordo, scrive Enderer, non in questo stato, e dice: non di pubblico dominio!, poiché nulla è più terribile che rendere qualcosa, qualsiasi cosa, di pubblico dominio, lui, Humer, lo sentiva, ma non ritirava nulla, ormai avrebbe portato tutto fino in fondo, non si sarebbe tirato indietro, non avrebbe rimandato più nulla, non si sarebbe più spaventato di fronte a nulla ... da una parte: non avrei dovuto infastidirla, e dall’altra: ho reso tutto di pubblico dominio ... e Lei, come potrebbe aiutare un vecchio nella sua disperazione, poi: per quanto mi riguarda, da una parte può forse essere la cosa più irrilevante, dall’altra mi uccide, scrive Enderer a proposito di Humer. È tutto sbagliato, quello che le persone vogliono intraprendere e quello che poi vogliono fare e portare avanti, e se ci si pensa bene, tutta la vita è sbagliata ... consideri tutto questo come un episodio, ha anche detto Humer, scrive Enderer, come un episodio che non la riguarda affatto ... per vent’anni siamo passati l’uno accanto all’altro senza conoscerci, e adesso ci siamo conosciuti ... ma non voglio ritirare nulla, più volte, più volte con la massima decisione: ma non voglio ritirare nulla ... così come aveva detto: è la cosa più terribile, rendere tutto di pubblico dominio, e subito dopo: ma non voglio ritirare nulla!, scrive Enderer e richiama la nostra attenzione su un annuncio apparso sulle «Tiroler Nachrichten» di martedì scorso, in cui si legge che il venerdì precedente il commerciante H. si è gettato dal terzo piano nella Saggengasse. Subito penso, è Humer, scrive Enderer, e mi sono informato e in effetti il venerdì della scorsa settimana Humer si è gettato dalla finestra della soffitta di casa sua. È morto sul colpo, scrive il giornale, scrive Enderer. Ma quello che a lui, scrive Enderer, ed è suo dovere richiamare la nostra attenzione su questo fatto, quello che a lui, Enderer, dopo aver letto la notizia sul giornale non ha dato pace, non è stato Humer, non questa biografia, come scrive Enderer, apparentemente insolita o meglio insolitamente sconfortante ma in realtà assolutamente comune di un uomo in definitiva molto semplice, bensì il mantello che quest’uomo, Humer, indossava, e lui, Enderer, si era vestito, erano già le quattro del pomeriggio e quindi era già buio, si sa che le giornate di novembre sono brevi e in realtà non sono nemmeno delle vere giornate, ed era andato nell’alta Saggengasse nel negozio di articoli funebri di Humer e aveva detto subito chi era lui, Enderer, e che era venuto per il mantello del defunto. Dissi che il mantello del defunto, naturalmente non dissi suicida, scrive Enderer, era il mantello di mio zio Worringer, annegato nella Sill otto anni prima. Per caso ero venuto a sapere che il mantello del defunto era il mantello di mio zio. Non dissi nulla della visita di Humer nel mio studio perché per quanto mi riguarda consideravo chiusa tutta la faccenda, scrive Enderer. Il giovane nel negozio, senza dubbio il figlio del defunto, fece come se gli fossero note le circostanze che collegavano il mantello di suo padre al mantello di mio zio Worringer e disse, sì, il mantello era riemerso sulle rive della Sill un paio di anni fa. Al che, scrive Enderer, dico: suo padre, come so, andava ogni giorno a camminare su e giù lungo la Sill. Sì, dice il giovane e afferra qualcosa dall’attaccapanni e senza tante cerimonie mi consegna il mantello del defunto ...
SULL’ORTLES
NOTIZIE DA GOMAGOI
A metà ottobre partimmo da Gomagoi diretti alla malga che i nostri genitori ci avevano lasciato in eredità già da trentacinque anni, una piccola costruzione in muratura con un pascolo sullo Scheibenboden, sotto il massiccio dell’Ortles, con l’intenzione di trascorrere insieme due o tre anni lassù sullo Scheibenboden, indisturbati e completamente soli con le nostre esperienze e idee, per riflettere su un mondo che non riguardava assolutamente più né me con i miei quarantotto anni, né mio fratello con i suoi cinquantuno. Quel pascolo situato a milleottocento metri d’altezza, per l’esperienza che ne avevamo fatto o per il ricordo che ancora ne avevamo, ci sembrava in tutto e per tutto il luogo più adatto ai nostri scopi, dei quali non avevamo fatto parola a nessuno perché volevamo mantenere il segreto assoluto sul nostro proposito e non metterlo in pericolo con indicazioni di qualche genere o con chiacchiere indiscrete e avventate, e perché non volevamo essere presi per pazzi. Una delle ragioni, e non l’ultima, egregio signore, per riportare in attività il pascolo sullo Scheibenboden, è stato il pensiero del costo straordinariamente basso della vita in alta montagna, dove non c’è nessuno e quindi non ci sono distrazioni. Ben equipaggiati e con gli zaini pieni di provviste per almeno otto o dieci giorni (era nostra intenzione ispezionare a fondo la proprietà sullo Scheibenboden in vista del nostro proposito di trasferirci nella malga a inizio novembre, per valutare obiettivamente la sua abitabilità), partimmo da Gomagoi verso le quattro del mattino, la notte era chiara, le lampade inglesi non erano necessarie e procedevamo rapidamente nel silenzio, immersi nell’unico pensiero che ci affascinava e ci catturava totalmente: da una parte nessun impegno, nessuna scienza, dall’altra la nostra impresa fantastica. Ma risultò presto, egregio signore, che noi, pur essendo impegnati esclusivamente nella nostra impresa, con la malga sullo Scheibenboden come meta, ma inadatti a quel duplice silenzio, all’improvviso dovemmo interrompere il nostro silenzio con parecchie osservazioni riguardanti tutt’altro, e di colpo ci trovammo immersi in una singolare conversazione, che dapprima ci irritò ma presto divenne del tutto normale e non da ultimo ci procurò un certo detestabile piacere, sull’oggetto della nostra vita o meglio sull’oggetto della nostra esistenza, egregio signore, conversazione che per via del suo carattere frammentario strettamente connesso con la malattia di mio fratello, in fase di evidente peggioramento, e con il mutare anche della mia persona, provocato dal peggioramento della malattia di mio fratello, che richiede senz’altro l’analisi di qualcuno completamente diverso da me, solleciterà anche il Suo interesse, dato che per tutta la vita Lei è stato in contatto con mio fratello come nessun altro, e non solo in qualità di suo agente. Ad un tratto, quando eravamo già molto lontani da Gomagoi, cominciammo la conversazione seguente: quando facevi la tua acrobazia, dissi a mio fratello che, come Lei sa, per tutta la vita non ha fatto altro che acrobazie, non potevo fare a meno di pensare che la tua acrobazia fosse un’acrobazia pericolosissima, viceversa tu, quando io facevo il mio lavoro (sugli strati atmosferici) non potevi fare a meno di pensare che il mio lavoro fosse pericolosissimo. Così per tutta la vita, mentre tu facevi le tue acrobazie e io il mio lavoro (sugli strati atmosferici), entrambi ci siamo sempre trovati in pericolo mortale, dissi. Ma noi non ci chiediamo, disse lui, come siamo arrivati alle nostre acrobazie, al nostro lavoro (sugli strati atmosferici), io alle mie acrobazie (quelle a terra e quelle alla fune), e tu al tuo lavoro (sugli strati atmosferici) eccetera. E come abbiamo perfezionato le nostre acrobazie e il nostro lavoro eccetera, disse. Dapprima aveva creduto che la sua acrobazia non gli sarebbe riuscita, che non gli sarebbe riuscita nessuna acrobazia, ma poi la sua acrobazia gli riuscì, come io avevo creduto che il mio lavoro (sugli strati atmosferici) non mi sarebbe riuscito, e invece poi mi riuscì. Aveva sempre pensato: un’altra acrobazia, più complicata!, e un’altra acrobazia, più complicata, gli era sempre riuscita, come a me è sempre riuscito un altro lavoro (e tuttavia il medesimo) sempre più complicato, e un altro ancora più complicato (e tuttavia sempre il medesimo, sugli strati atmosferici). All’inizio la prima acrobazia, poi la seconda acrobazia, poi la terza, la quarta, la quinta eccetera. Raddoppiare lo sforzo per l’acrobazia, pensavo in continuazione, disse, e io pensai, raddoppiare lo sforzo per il lavoro (sugli strati atmosferici), mi dicevo in continuazione. Stavamo attraversando il torrente Trafoi. Ho semplicemente raddoppiato lo sforzo e l’acrobazia mi è riuscita, disse. Alla fine, l’acrobazia più complicata. Tu hai visto che le mie acrobazie diventavano sempre più complicate, ma non me l’hai detto, non farglielo notare, hai pensato, non lasciar trapelare la tua osservazione, non svelare nulla, così come io non ti ho detto che osservavo il complicarsi del tuo lavoro sugli strati atmosferici con un interesse sempre maggiore, con la massima attenzione, il massimo timore eccetera, disse. Prima ho pensato: un’acrobazia! e poi: un’acrobazia più complicata! e poi: un’acrobazia ancora più complicata! e poi: ora l’acrobazia più complicata! Quella che parte dalla testa, disse. Il tuo lavoro, disse, si è complicato sempre di più, le migliaia, le centinaia di migliaia di cifre e di numeri, disse, per questo ho fatto delle acrobazie sempre più complicate. Per lui, il rapporto tra il mio lavoro (sugli strati atmosferici) e le sue acrobazie era strettissimo. Analizzarlo, disse, un giorno sarà una necessità, e proprio il tempo che trascorreremo alla malga sarà il più utile allo scopo. Dal momento che alla malga non avremmo potuto dedicarci solo alla meditazione e sempre solo a nient’altro che alla meditazione, disse, si augurava che alla malga mettessimo per iscritto diversi punti del nostro pensiero che ci sembravano importanti. Anche se abbiamo deciso di non approfittare della malga sullo Scheibenboden per dedicarci alla scrittura, disse, ovviamente ho portato con me della carta per scrivere, disse. Attraverso lo studio, attraverso l’osservazione ininterrotta del tuo lavoro sugli strati atmosferici, disse, a poco a poco e soprattutto nel mio periodo zurighese, disse, ho raggiunto la perfezione nelle mie acrobazie nello stesso tempo e nella stessa misura in cui tu ti perfezionavi nel tuo lavoro sugli strati atmosferici. Una certa perfezione, disse, e subito dopo disse: più svelti, camminiamo più svelti, il sentiero che porta alla malga è il più lungo, ricordo, e la salita sullo Scheibenboden la più difficile, la più faticosa. Attraverso particolari movimenti delle braccia e delle gambe e della testa e attraverso il loro controllo, attraverso questo particolare ritmo del corpo che scatta in avanti, disse, è possibile camminare ancora più svelti, procedere ancora più svelti, procederemo ancora più in fretta. Aveva detto questa frase esattamente nel tono di nostro padre, che durante le nostre ascensioni di un tempo sull’Ortles ripeteva in continuazione questa frase proprio a noi, che odiavamo le ascensioni sull’Ortles, per spronarci ad avanzare. Se solo mi osserverai con insistenza, di continuo e con insistenza, disse mio fratello, ho sempre pensato, e se io ti osserverò sempre, a mia volta di continuo e con la stessa insistenza, se ci osserveremo reciprocamente sempre, di continuo e con insistenza a proposito delle mie acrobazie e del tuo lavoro, se l’uno osserverà l’altro di continuo e con un’insistenza sempre maggiore e sempre più spietata per vedere che cosa fa e come lo fa, sempre che cosa e come, fino al limite della follia, disse, avremo modo di imparare l’uno dall’altro per tutta la vita. È tutta una questione di arte dell’osservare, e nell’arte dell’osservare è una questione di spietatezza dell’arte dell’osservare, e nella spietatezza dell’arte dell’osservare è una questione di mera costituzione di spirito. Poiché in fondo non ci siamo interessati a nient’altro che alle nostre acrobazie e al nostro lavoro, disse, ci siamo trovati nella terribile impossibilità di intenderci con il mondo circostante, che in cambio ci ha punito con il suo totale disinteresse. Il mondo circostante semplicemente ci ha ignorati nel momento in cui non gli abbiamo più dimostrato il minimo interesse, è ovvio, disse. Senza dubbio resistere in questa situazione, disse, confina con l’assoluta intollerabilità, tentativo costante o tentazione costante o desiderio costante di morte, disse, cose che ci sono familiari come nient’altro. Com’è sempre stato regolare il tuo respiro prima e dopo la tua acrobazia, dissi. E lui: il respiro è la cosa più importante. Quando si controlla il respiro, si controlla tutto. Non rimpiangeva di aver frequentato quella scuola, la scuola del respiro, l’unica scuola da lui riconosciuta, la scuola del respiro. Controllare mente, pensiero, corpo tramite il respiro, disse, e sviluppare solo il controllo del respiro come la più bella di tutte le arti. Dapprima hai creduto, dissi io, di non controllare la tua acrobazia perché non controllavi il respiro, dapprima non riesci a fare la tua acrobazia perché non sai respirare nel modo giusto per l’acrobazia, quando invece bisogna sempre saper respirare nel modo giusto per l’acrobazia che ci si propone di fare, saper respirare nel modo giusto per il lavoro, per il lavoro intellettuale che ci si propone di fare, che si fa, disse, il respiro è tutto, nulla è importante come il respiro, corpo e cervello dipendono solo dal respiro, disse, dapprima non riesci a fare la tua acrobazia perché non sai respirare nel modo giusto per l’acrobazia, e io: poi sai respirare nel modo giusto per l’acrobazia, e lui: ma non riesci a fare la tua acrobazia, tutto questo è un processo che dura anni, decenni, disse, e poi riesci a fare la tua acrobazia perché sai respirare nel modo giusto per l’acrobazia, e non sai presentarla! Perché l’arte della presentazione è l’arte più difficile fra tutte le arti. Tu controlli la tua acrobazia ma non sai presentarla, non c’è cosa più deprimente, non c’è deprimazione più grande, non c’è condizione più atroce, disse. Così si spiega anche il titolo del mio breve scritto Acrobazia e arte della presentazione, un argomento che mi ha impegnato per tutta la vita, come sai, e un argomento che non ha mai smesso d’impegnarmi, e un argomento che m’impegnerà sempre. L’argomento più scabroso, certo, disse, temuto non soltanto dal cosiddetto mondo artistico. Del resto, che argomento si dovrebbe affrontare, se non un argomento temuto dal mondo intero. Non esitava ad affermare che l’argomento dell’arte della presentazione in tutte le sue sfaccettature era l’argomento più importante in assoluto. Infatti, che cosa sarebbe ad esempio la mia acrobazia senza la mia arte della presentazione, e che cosa sarebbe ad esempio tutta la filosofia, e che cosa sarebbero tutta la matematica e tutte le scienze naturali e tutta la scienza in genere e tutta l’umanità e tutto l’umano in genere senza l’arte della presentazione? disse. In questo scritto partivo sempre da un determinato punto che mi avvinceva, disse, partivo da lì e continuavo a sviluppare il mio scritto fino alla sua perfezione, che al tempo stesso è stata anche la sua dissoluzione, il suo sfacelo, disse. In questo modo dalle centinaia di scritti su questo argomento sono scaturite le conclusioni più sorprendenti, più singolari, più incredibili, disse. Certo, qualche appunto esiste ancora, qualche appunto, qualche particella sull’argomento. Gli scritti, disse, in fondo esistono solo per essere distrutti, persino uno scritto sull’arte della presentazione, disse. L’origine di tutti gli scritti è dubitare del loro argomento, capisci, mettere in dubbio tutto, attraverso l’indagine ripescare tutto dall’oscurità, metterlo in dubbio e distruggerlo. Tutto. Senza eccezione. Gli scritti sono scritti da distruggere. La difficoltà è questa, disse: tutto proviene sempre dalla stessa mente, tutto nel pensiero proviene da una mente, da una mente, da un cervello, poi anche: con un unico corpo, sempre lo stesso unico corpo. La difficoltà di mostrare o di pubblicare il prodotto intellettuale o il prodotto fisico, cioè la mia acrobazia o il tuo lavoro, la mia arte fisica o la tua arte intellettuale (la mia a terra e alla fune), e la tua sugli strati atmosferici, mostrare o pubblicare il prodotto intellettuale o il prodotto fisico senza dover subito commettere un suicidio, attraversare questo terribile processo di umiliazione senza uccidersi, mostrare qualcosa che si è, pubblicare qualcosa che si è, disse, attraversare l’inferno della presentazione e l’inferno della pubblicazione, saper attraversare questo inferno, dover attraversare questo inferno della presentazione e questo inferno della pubblicazione, attraversare spietatamente questi che sono i più terrificanti di tutti gli inferni. Scorgemmo la Payerhütte e mio fratello disse, sebbene fosse completamente sfinito: non rallentiamo, non dobbiamo rallentare perché c’è la salita. Imitava sempre alla perfezione questa frase di nostro padre. Non rallentiamo perché c’è la salita, non dobbiamo rallentare perché ora saliamo. E poi ancora: aria frizzante! aria frizzante!, come mio padre. Hai sempre avuto paura della tua acrobazia, dissi. Paura prima dell’acrobazia, paura dopo l’acrobazia. Nessuna paura durante l’acrobazia. La tua paura delle acrobazie, dissi. E tu, paura del tuo lavoro, dei risultati della tua ricerca. Sempre paura, disse lui. La tua paura della scienza e la mia paura delle acrobazie, disse. Quest’affermazione gli piacque e la ripeté due, tre volte, mentre respiravamo di nuovo con più calma e perciò in effetti procedevamo ancora più svelti, adesso stavamo salendo già da un po’. Non nell’acrobazia, disse, non nell’acrobazia, nessuna paura nell’acrobazia. Ma la tua paura sempre, la tua paura come una paura ininterrotta, disse. E io: in compenso avevo sempre paura anche per te. Durante le tue acrobazie, dissi. Mentre facevo la mia acrobazia, disse lui, non avevo paura di non controllarla più da un momento all’altro, perché non ci pensavo, perché non potevo pensarci, facevo la mia acrobazia, e durante l’acrobazia non avevo mai paura, ma tu avevi sempre paura quando facevo la mia acrobazia. Del fatto che di colpo non gli era più stato possibile fare qualcosa di diverso dalle sue acrobazie, di questo parlò nel bosco, come io parlai del fatto che da un momento all’altro mi ero trovato completamente solo con nient’altro che il mio lavoro, con nient’altro che gli strati atmosferici, dissi. E che cosa significava questo, che io avevo sì in mente l’attacco di un saggio più lungo, ma non l’avevo in mente in modo tale da poter presentare il saggio, per questa ragione era rimasto solo un abbozzo: e che cosa significava. In quel momento mi ero di nuovo reso conto del fatto che non solo bisogna esercitarsi di continuo ad avere delle idee e semplicemente esercitare queste idee, bisogna anche esercitarsi di continuo a saper esprimere in ogni momento queste idee, poiché le idee inespresse non sono nulla. Per lui senza dubbio fuori contesto, tutt’a un tratto dissi: le idee inespresse non sono nulla. E lui disse che proprio le idee inespresse erano le idee più importanti, la storia lo dimostrava. Perché le idee espresse erano comunque idee annacquate, quelle inespresse erano le più efficaci. Le più devastanti, d’accordo, disse, ma qui non voleva approfondire, una tematica simile non se la permetteva. La ragione? Da qui, fu la sua risposta, che non era una risposta, si vede la Königsspitze, quando la si vede, ma oggi la Königsspitze non si vede. Una reazione simile e una frase simile detta da lui lo definiscono meglio di qualsiasi altra cosa. Poiché di colpo tutto in me si è concentrato sulle acrobazie, per questo quasi tutta la vita sono stato il più disperato degli uomini, disse. Tu esisti soltanto per le tue acrobazie, e di fatto sei le tue acrobazie, mi sono sempre detto. Tutto acrobazie. Tutto acrobazia. Il mondo intero, acrobazia. Dissi: ho sempre pensato, purché non cada, purché non abbia un incidente mortale, e per quanti anni non ho potuto fare a meno di pensarlo, dissi, e tu non sei caduto, non hai avuto un incidente mortale. Adesso saliamo sullo Scheibenboden, dissi, e saliamo verso la malga. Il punto d’arrivo, questo momento, è sempre il più sciocco, disse. Il fatto di aver deciso di salire sullo Scheibenboden, il fatto di aver deciso di andare a vedere la malga, anche solo il fatto di essere tornati a Gomagoi!, disse. Ci siamo telegrafati, ci siamo incontrati a Gomagoi, abbiamo deciso d’interrompere le mie acrobazie, d’interrompere il tuo lavoro (sugli strati atmosferici), di colpo abbiamo concepito un progetto folle e abbiamo cominciato a realizzare questo progetto folle, stiamo realizzando il nostro progetto, saliamo sempre più in alto, sullo Scheibenboden, fin su alla malga, disse. Improvviso cambiamento di stato, disse. A un tratto di nuovo il bisogno, come se lì ci fosse la risposta a tutto, di stare insieme in reclusione e isolamento, perché per parecchi decenni eravamo stati disturbati nel nostro stare insieme, la volontà di essere completamente liberi da qualsiasi disturbo, e per giunta all’aria pura, dissi io, in alta montagna. Abbandonati gli appartamenti, abbandonate le persone, abbandonate le città, abbandonati i propositi, abbandonato tutto. L’acrobazia era finita quando tiravo il respiro, dissi io. E lui: nessuna paura, è questo che temo. Quando lavoravi sugli strati atmosferici e io pensavo: lavora sugli strati atmosferici, e quando io provavo la mia acrobazia e la facevo e tu hai pensato: prova, fa la sua acrobazia, disse, ci tranquillizzavamo. E quando entravamo in un rifugio, come al Pinggera, disse, ma adesso al Pinggera non ci andiamo, adesso al Pinggera no, al Pinggera assolutamente no e siamo passati davanti al Pinggera, da una parte sarei entrato volentieri al Pinggera, dall’altra una sosta in rifugio così presto avrebbe avuto un effetto devastante su di me e su entrambi, un paio di bicchieri di grappa, un effetto devastante di prima mattina, e quando entravamo in un rifugio come ad esempio al Pinggera, disse mio fratello mentre passavamo davanti al Pinggera, e a poco a poco ci scaldavamo, tu dicevi: nell’angolo, subito: nell’angolo, la tua abitudine, disse, nessuno alle spalle, il tuo desiderio. Ti ricordi? disse, e il Pinggera era già dietro di noi che ci addentravamo nel bosco, nell’oscurità, e salivamo, più in alto, più in alto. Fermandosi un istante disse: il tuo esperimento con l’università! E io: il tuo esperimento con l’accademia! Poi avanti, avanti sempre più svelti, e se all’inizio gli zaini ci avevano ostacolato, ora non ci ostacolavano più. E quando ti compravi le scarpe, disse, mi chiedevi se dovevi comprare le scarpe. Sono le scarpe giuste? chiedevi. Quando ti compravi una giacca, è la giacca giusta? Che follia, disse lui, andare all’università, ed entrambi: che insensatezza, che perdita di tempo, l’accademia. Tra le malattie, le più gravi, le più lunghe e complicate. Infezioni perenni, disse. Perenne cagionevolezza. Infezioni, disse. Da una parte le malattie di nostra madre, dall’altra le malattie di nostro padre. E poi le malattie che sono malattie di nostra madre e di nostro padre. Malattie del tutto nuove, sconosciute. Sempre di grandissimo interesse per tutti i medici. Monotonia. Antipatia. Lasciati soli molto presto, andati in rovina, dissi io. Nessuna obiezione. E poi le acrobazie e poi la tua scienza, ora più interesse per le acrobazie ora più interesse per la scienza, ma un interesse sempre più forte. Senza precedenti. Il modo in cui abbiamo ricavato dalla nostra derelizione e dalla nostra paura le nostre acrobazie e la nostra scienza. Nessun aiuto. Nessun incoraggiamento. Nessun applauso, neanche per caso, disse lui. A venirci in aiuto, la nostra mancanza di esigenze. Nient’altro, disse. E l’arte di non pensarci. Le tue parole, disse: precisione, una precisione sempre maggiore, incorruttibilità, acume. Le mie parole: effetti, possibilità di perfezionarsi, esibizione. Disprezzo costante da parte nostra per il mondo circostante. Rifiutare, respingere, farla finita, disse lui. In continuazione: in qualunque circostanza, con qualsiasi tempo, in qualunque circostanza. Ti ricordi? A Basilea avevo paura, non ce la farà, a Vienna avevo paura, a Zurigo, a Sankt Valentin. Paura, non ce la farà. Una volta troppa gente, poi troppo poca gente. Una volta troppa attenzione, poi: troppo poca attenzione. Troppo scalpore, troppo poco scalpore, troppa impazienza, troppa esperienza. Più svelti, bambini, diceva, attraversiamo il ruscello di Sulden, più svelti, bambini, attraversiamo il ruscello di Sulden. Sento ancora la voce di nostro padre. Se diciamo quello che pensiamo, lui era il più spietato, era un’altra cosa. Perché ti schiaffeggiava sempre proprio al Pinggera? dissi io. Più svelti, bambini, attraversiamo il ruscello di Sulden, più svelti, bambini, attraversiamo il ruscello di Sulden. Sento ancora la voce di mio padre. Il privilegio di essere schiaffeggiati da nostra madre anziché da lui. Mio fratello disse: solo dopo che tutti e due sono morti ci siamo sviluppati secondo le nostre capacità e secondo i nostri bisogni. Dopo la loro morte abbiamo avuto il coraggio di vivere la nostra vita in base alla nostra forza di volontà, senza genitori eravamo liberi. Nessuna indulgenza, disse, nessuna indulgenza. Nessuna falsità. Ero malaticcio e in me a poco a poco c’è stato solo deperimento, disse. Sotto l’influenza dei genitori, disse. Non lo senti ancora, disse, mentre dice: più svelti, bambini, attraversiamo il ruscello di Sulden, più svelti, bambini, attraversiamo il ruscello di Sulden? Nessuna falsità. Nessuna assoluzione. La spietatezza di loro due e la vulnerabilità di noi due. Nessuna assoluzione. La loro infamia, disse. Più svelti, bambini, attraversiamo il ruscello di Sulden. Nessuna indulgenza. Per punizione sullo Scheibenboden, disse adesso mio fratello, per punizione salire sullo Scheibenboden e per punizione scendere dallo Scheibenboden e per punizione attraversare la valle di Sulden e per punizione andare a Gomagoi e per punizione tornare a casa, tutto per punizione. La nostra vita, per punizione. La nostra infanzia, per punizione. Tutto per punizione. All’improvviso, la cresta della Tabaretta. E poi avanti attraverso il bosco. Ti ticordi? Libri. Scritti. Cose messe per iscritto. Genitori. Infanzia e tutto il resto. Il processo d’isolamento. Brandelli di disperazione. Quando a Berlino giravamo in mantello da caccia. Ti ricordi? Per vent’anni scarpe troppo piccole e una testa troppo grande. Il problema è sempre stato un problema insolubile. Ma avanti, avanti. Sempre feriti e offesi, ovunque andassimo. Chiedo, nessuno risponde. Imparato lo strumento sbagliato, imparata la combinazione di passi sbagliata, imparata una coreografia completamente sbagliata, disse. A Dortmund, per strada, due anni con gli stessi pantaloni sfilacciati sul fondo. Speravamo in un sussidio. Nessun sussidio. Speravamo in una risposta. Nessuna risposta. Nessuna lettera. Nulla. Wuppertal, la sozzura! disse. Per due anni non dici nulla, per due anni. Due anni l’uno accanto all’altro e non una parola. Ti ricordi? All’improvviso dici la parola TESTA. Oscuramento totale. Sta arrivando la catastrofe, dici, di continuo, sta arrivando la catastrofe, in continuazione, deve arrivare la catastrofe. Ti ricordi? Infatuazioni, ma senza impazienza, subito passate, nulla. Prima si sfasciano le scarpe, poi si sfascia la testa, va in pezzi, ti si frantuma a strappi. Dapprima non senti che la testa ti sta andando in pezzi, disse, a strappi ti sta andando in pezzi la testa, tu non lo senti. Insonnia e nausea si alternano. Diversi viaggi senza senso, richieste inutili, vari tentativi di evasione. A un ritorno non c’è da pensare. A Gomagoi no. Non è lecito, disse. Ti ricordi? Il tuo talento di oratore, la mia etisia politica, il tuo fanatismo, la mia inservibilità politica. Ti ricordi? Ora disse più volte: ti ricordi? L’insorgere di attività rivoluzionarie. La nostra divergenza d’opinioni. Poi, rintanati nella villa di Maurach a Schruns, nient’altro che giornali, ormai solo giornali. Ormai tutto solo dai giornali, la vita intera, tutto ormai solo dai giornali, ogni giorno mucchi di giornali. Ti ricordi? All’improvviso sai di nuovo la tua data di nascita. Formarsi, formarsi nell’immaginazione, capisci, disse. Se non avessimo l’orecchio assoluto! disse. Ogni giorno mi dico, ho l’orecchio assoluto, ogni giorno, ho l’orecchio assoluto, ho l’orecchio assoluto, ho l’orecchio assoluto! Le mie acrobazie, nient’altro che acrobazie musicali. Musica. Ma poi anche: il nostro orecchio assoluto ci ha ucciso. Poi il tornante di Unterthurn, non di Oberthurn, non, come con i genitori, il tornante di Oberthurn, bensì il tornante di Unterthurn. Prima è andato in pezzi lo strumento, disse mio fratello, poi è andata in pezzi la testa. Ti ricordi? Se non avessimo così tanta pazienza! Lo dicevo spesso: se non avessimo così tanta pazienza! E questa nobile arte del dirlo, disse. Ti ricordi? Paura dei ladri, dei giornali, degli assembramenti di persone. Di annegare, di cadere. Quando ti ho condotto per mano attraverso il ruscello di Sulden, dissi io, la tua perenne stanchezza di vivere. In tutto il tuo corpo. Perennemente la parola anacronismo sulla pagina bianca, la parola complotto. Ti ricordi? La frase: ci piace andare sull’Ortles con i nostri genitori, mille volte sulla pagina bianca. Ti ricordi? La parola obbedienza duemila volte. Perché avevamo paura delle persone, tutte quelle persone. Perché avevamo paura dei genitori, sempre insieme ai genitori. Perché odiavamo le città, nelle città. Perché odiavamo l’Ortles, sull’Ortles. Perché io odiavo le acrobazie, acrobazie, perché tu odiavi la scienza, scienza. Degli strati atmosferici, disse, perché tu odii tutto quello che è connesso con gli strati atmosferici. Quello che è scritto, disse. Alla fine stanchezza, nient’altro che stanchezza e la paura dei treni in orario. Paura mentale. Ed estrema brutalità, estrema brutalità, disse. Tutt’a un tratto, soltanto acqua fredda, causa dei tuoi dolori alla schiena. Le tue gambe contratte nel letto, disse, spasmodicamente contratte. Se la mia esistenza dura più del mio interesse per la mia esistenza, significa che in quell’intervallo di tempo non sono altro che un morto. In continuazione: una lettera! No, nessuna lettera! Una lettera! No, nessuna lettera! Ti ricordi? Quiete esteriore, inquietudine interiore, quiete interiore mai. Vestiti allo stesso modo, anche dopo la morte dei nostri genitori, perché lo abbiamo sempre odiato, gli stessi pantaloni neri, la stessa giacca nera, lo stesso cappello nero in testa. I nostri cappelli flosci, disse. E sempre con le stesse scarpe. Quando penso alla mia acrobazia, disse, non penso mai al cibo. Quando lavori, non pensi mai al cibo. Poi, vicino al Gasthaus Laganda: inspirare la natura, all’improvviso inspirare di nuovo la natura a pieni polmoni ed espirare la scienza, espirare tutto, tutto. Espirare l’immondizia. Tutti gli incidenti, di continuo i classici incidenti. Ti ricordi? Con gli anni e con l’affidabilità della scienza negli anni trasformare la vita in un’abitudine alla morte. Ti ricordi? Pensare è la morte, disse, poi: per solitudine abbiamo creduto di dover andare in mezzo alla gente, di dover fare acrobazie, di doverci dedicare alla scienza. Per solitudine, proverbi. Per solitudine, incapacità d’intendere e di volere. E sempre per solitudine, in solitudine. Per nausea della complicazione, semplificazione, per nausea della semplificazione, complicazione. Raffinatezza, perché odiamo la grossolanità. Grossolanità, perché odiamo la raffinatezza. Esattezza, disse. Com’è ovvio, sempre il sospetto della follia, disse. Con la loro metodica semplificazione credevano di avvicinarsi a noi, ma niente! Per questo motivo, per tutto, negli anni si sono allontanati da noi sempre di più, noi certo non ci eravamo ritirati, disse, noi no, loro si sono allontanati, questa è la differenza, questo è il fatto che adesso ci rimproverano. Ma noi non ci consegniamo più, non offriamo più il destro per la consegna della nostra persona, della nostra testa, della nostra esistenza. Non permettiamo più che si avvicinino a noi. La vita come abitudine, la vigilanza come abitudine, nient’altro. In verità le mie acrobazie mi hanno ucciso da tempo, come il tuo lavoro (sugli strati atmosferici) ti ha ucciso da tempo, disse mio fratello. Una di queste acrobazie, la più difficile, disse. Uno dei tuoi argomenti scientifici, chissà quale. Perché l’interesse per le acrobazie fa sì che non si possa smettere, disse. Perché non si può farla finita. È la massima perfezione che mi ha ucciso, è il pensiero più concentrato che ti ha ucciso, disse. L’acrobazia vive, chi la esegue è morto, disse. Lei conosce il suo modo di parlare e non occorre che le faccia notare le sue particolarità. E le è familiare anche il mio modo di parlare, ovvero come ascolto. La maniera in cui mi sono abituato al modo di parlare di mio fratello perché mi sono abituato alla malattia di mio fratello, perché la sua malattia mi è familiare fin nei dettagli più impercettibili. E come Lei sa, per tutta la vita mi sono concentrato sulla malattia di mio fratello, e per lo più, per lunghissimi periodi della mia esistenza, ho rinunciato a me stesso per via della malattia di mio fratello, ho trascurato tutto quello che riguarda me, ho sempre messo in primo piano tutto quello che riguarda lui. Tutto sempre solo in base alla nostra vita comune, non in base a me, non per mio tramite, tutto in base a noi, per nostro tramite. Probabilmente mio fratello non comparirà più in pubblico, mi auguro che non compaia più, che resti a Gomagoi. Tutto fa pensare che non comparirà più in pubblico, probabilmente negli ultimi tempi Lei ha potuto constatare, senza bisogno che glielo faccia notare io, che mio fratello è regredito nell’arte di presentare le sue acrobazie, in effetti già da un pezzo non sono più le acrobazie perfette che ci mostrava in passato. Da un pezzo non sono più le acrobazie che ci sbalordivano. Le sue acrobazie non sono sbagliate, ma non sono più quelle acrobazie perfette. Già da molto tempo l’acrobazia perfetta non gli riesce più, è il progredire della sua malattia, penso, sono i dubbi, e non solo sulla sua arte, penserà Lei. E l’impossibilità di continuare in quello sforzo mostruoso che siamo abituati a vedergli fare. Per tanto tempo mio fratello ha fatto il massimo sforzo, uno sforzo molto maggiore di quello che avrebbe richiesto la sua arte, ma adesso in questo sforzo è regredito. Non abbandonerà, penso, ma nella sua arte è regredito. E quindi mi auguro, nel suo interesse come nel mio, come nel Suo, come nell’interesse generale, che non compaia più in pubblico, che noi per un certo periodo, non dico due, tre anni, che lui semplicemente per un po’ di tempo resti a Gomagoi, e perché no, alla malga sullo Scheibenboden, ne riparleremo in seguito. A poco a poco abbiamo finito per rallentare il passo. In effetti, non eravamo mai stati capaci di risparmiare le energie nelle ascensioni come quella sullo Scheibenboden, che richiedono il massimo e il più accurato risparmio d’energie. Non eravamo adatti ad ascensioni come quella sull’Ortles, come quella sullo Scheibenboden, e soprattutto per imprese come quella di risalire la valle di Sulden. Abbiamo rallentato il passo, probabilmente anche a causa della nostra conversazione, che non è stata una conversazione. Ma mai sentimentalistica, devo dire, anche se talvolta può sembrare così, per questo ci distinguiamo da tutti i tipi simili di età simile che conosciamo, perché abbiamo rifiutato il sentimentalistico, anche se a volte quello cui accenniamo sembra sentimentalistico, ma non lo è, non lo era. La parola infanzia fa quest’effetto, come altre parole che risalgono a molto tempo fa. Quanto paesaggio! Quanta malattia mentale!, disse ad un tratto. Quando penso: adesso basta, il paesaggio appare di nuovo. Questa è la cosa terribile, che il paesaggio appare in continuazione. Di nuovo: quanto paesaggio! Poi: non serve a niente affermare di essere morti. Avanti! Avanti! disse nel tono di nostro padre. E: più su! Più su! nel tono di nostro padre. Lei conosce la sua arte dell’imitazione per quanto riguarda le voci. Giunti al Gasthaus Laganda disse: ma non andiamo al Laganda, al Laganda no. Troppi ricordi, disse. Perché le acrobazie?, chiese ad un tratto. Perché le acrobazie? Niente domande, disse. All’inizio basta tirar fuori la lingua, disse. Fare una verticale sulla testa. Di colpo non basta più tirar fuori la lingua e fare una verticale sulla testa. Ininterrotto lavoro mentale e ininterrotto lavoro fisico, disse. Il problema è terribile. Il berretto messo alla rovescia non basta più, la scarpa sinistra al piede destro, vice-versa la scarpa destra al piede sinistro. Dubbi. Intollerabilità. Un’acrobazia diversa, un’acrobazia più complicata, disse. Il problema è: sempre le stesse acrobazie eppure sempre diverse, sempre lo stesso lavoro eppure sempre diverso. Con il perfezionarsi, il perfezionarsi della disperazione, disse. Pretese inadempibili. Contratti inadempibili. La difficoltà è quella di vedere sempre di più nell’oscurità che si fa sempre più scura, vedere meglio, vedere di più, vedere tutto. Non sentire il dolore insopportabile come un dolore insopportabile. Non sentirsi feriti e offesi dalle ferite e dalle offese. Non nel Laganda, disse, perché credeva che io volessi entrare al Laganda, in effetti con i nostri genitori siamo sempre entrati al Laganda. Ma non siamo entrati al Laganda, soprattutto perché supponevamo che nel frattempo, nel corso di due o anche tre decenni, il Laganda non fosse cambiato. Più su! Più su!, disse mio fratello, Lei conosce la sua voce, conosce il suo modo di parlare. Anche se l’aria diventa sempre più rarefatta, non sentire l’aria che diventa sempre più rarefatta come aria che diventa sempre più rarefatta, disse. Il metodo è semplicissimo: è tutto diverso. E quando rialziamo il bavero, disse all’improvviso, non abbiamo più così freddo alla nuca. Ma non avevamo affatto freddo, al contrario, eravamo entrambi accaldati per la rapida ascensione. Nessuna appartenenza a un’associazione. Nulla. Nessuna chiesa. Nulla, disse. Ma un isolamento troppo lungo, disse all’improvviso, è mortale. Troppo tempo senza nessuno è mortale, disse. La malga, mortale, disse. Esercizi in continuazione, nient’altro che esercizi. Attraversando il ruscello di Rosim disse: arrivati qui non volevo più continuare. Ti ricordi? Eravamo entrambi sfiniti. Scarpe bagnate, piedi bagnati, stato di sfinimento. La paura dello Scheibenboden, disse, ti ricordi? Ma i genitori non avevano la minima pietà. Nessuna menzogna, disse, nessuna menzogna, nessun riguardo. Avanti! Avanti!, disse nel tono di nostro padre, poi: avanti! Avanti!, nel tono di nostra madre. Avanti ragazzi! Avanti! Senti?, disse, i genitori ci comandano, i genitori ci comandano di nuovo fino alla morte. Che paura avevamo di non poter più andare avanti, disse. Ti ricordi? Andavamo avanti per paura di essere puniti. Su quelle rocce! comandavano. Sullo Scheibenboden! Su fino alla malga! Ti ricordi? Nostro padre si voltava e ci controllava. Sapevamo che cosa significava restare indietro a più di cento passi da nostro padre. Essere rinchiusi per tre giorni. Ti ricordi? disse mio fratello. I ceffoni. Ti ricordi? A Razoi conoscevamo tutto, l’albero, il ruscello, tutto. Anche quando cambiavano le condizioni atmosferiche e quindi le condizioni del terreno, egregio signore, molti e molti particolari che conoscevamo, oggetti insignificanti, radici, sassi, restavano immutati. E, connesse a questi oggetti, a questo intrico di radici, a questi sassi, le minacce di punizione dei nostri genitori. Obbedienza, disse mio fratello. Già mentre attraversavamo Gampenhofen, paura di una debolezza improvvisa, timore di una punizione. I nostri attacchi di debolezza, disse, sotto l’Ortles, danni mentali come conseguenza delle ascensioni sull’Ortles. Nostro padre, allenato alla montagna, spietato, fanatico della montagna. Nostra madre, sottomessa. Ma già allora acrobazie, trucchi, disse mio fratello. Attraversare la valle di Sulden era peggio dell’oppressione. La loro grande velocità di marcia, disse, e la nostra gracilità. Ti ricordi? E su montagne sempre più alte, su cime sempre più inaccessibili. Ti ricordi? È tutta questione di respirare correttamente, così nostro padre. Marciare, avanti, in su, in giù, nello sfinimento. Il nostro odio per gli zaini e per tutto quello che c’era dentro gli zaini. Il nostro odio per le scarpe da montagna, disse. Odiamo gli zaini e saliamo sullo Scheibenboden con gli zaini, disse. Odiamo l’Ortles e saliamo sull’Ortles. Odiamo quello che facciamo, disse. Il motivo per cui all’improvviso salivamo sull’Ortles, e per giunta nella stagione più buia dell’anno, tutt’a un tratto di nuovo non ci era chiaro. I nostri genitori ci avevano lasciato in eredità la malga sullo Scheibenboden, ma l’odio per l’Ortles e per lo Scheibenboden e l’odio per la malga e l’odio per tutto quello che era connesso con l’Ortles e con lo Scheibenboden e con la malga ci aveva tenuto lontani dalla valle di Sulden per due, se non addirittura tre decenni, e dato che per decenni eravamo stati nel mondo e non più a Gomagoi, non avevamo più pensato alla malga, non eravamo più saliti sullo Scheibenboden fino alla malga. E adesso salivamo sullo Scheibenboden. Per un motivo che tutt’a un tratto sembrava persino a noi sempre più dubbio, dopo essere arrivati alla fine della valle di Sulden, il motivo per cui eravamo saliti sullo Scheibenboden era diventato dubbio. Ma non ne parlavamo. Salivamo sempre più in alto e non ne parlavamo. Pensavamo, dubitavamo, ma non davamo voce ai nostri dubbi. Dobbiamo aver pensato entrambi: all’improvviso avevamo avuto l’idea giù a Gomagoi, dove, sfiniti dalle nostre diversissime professioni, come Lei sa, avevamo pensato di trattenerci al Gasthaus Martell solo un paio di giorni, solo un paio di giorni e poi tornare, solo un paio di giorni e poi ripartire da Gomagoi, in effetti, egregio signore, ancora due giorni prima credevamo di stare a Gomagoi solo un paio di giorni, e poi all’improvviso: restare più a lungo sullo Scheibenboden, due, tre anni alla malga, mentre di colpo tutto veniva rimesso in dubbio, e così, egregio signore, la sera prima credevamo ancora che la nostra decisione fosse duratura, e il fatto di andare alla malga sullo Scheibenboden per due, tre anni cambiava tutto così all’improvviso, già la sera prima l’idea di risalire la mattina presto la valle di Sulden allo scopo d’ispezionare la malga con l’intenzione di restare due, tre anni lassù sullo Scheibenboden, entrambi eravamo totalmente dominati da quest’idea improvvisa, non solo mio fratello, come forse penserà Lei, entrambi, non avevamo chiuso occhio e non avevamo fatto che pensare all’Ortles e al nostro proposito, e all’idea della sera era seguita l’ascensione la mattina presto, un disegno più che dubbio, penserà Lei, e come deve sembrarle ridicolo quello che riceverà forse già dopodomani per posta, ma la verità è la seguente: all’improvviso, dopo parecchie ore di andirivieni continuo a Gomagoi, ci era venuto in mente che la malga sullo Scheibenboden sotto l’Ortles potesse essere utile per i nostri scopi: utile per qualche tempo, ripeto, per due, tre anni. E poi, ad un tratto, a due terzi della salita, eravamo stati colti dai dubbi. Ma ad un tratto avevamo pensato che questi dubbi fossero connessi con il nostro sfinimento dovuto all’ascensione, e all’improvviso di nuovo non avevamo più alcun dubbio. E con lena ancora maggiore riprendemmo a salire. Ormai ci restava soltanto un’ora buona. A questo punto mio fratello disse quanto segue, che io ho verbalizzato, se non testualmente, quasi testualmente: non scendiamo al Laganda (il rifugio già citato) perché non pensiamo di scendere al Laganda, come non entriamo a Sulden perché non pensiamo di entrare a Sulden, oppure, pensiamo di scendere al Laganda e non scendiamo al Laganda, e pensiamo di entrare a Sulden eccetera, e non entriamo a Sulden, non diciamo: scendiamo al Laganda, anche se pensiamo di scendere al Laganda, non diciamo: entriamo a Sulden eccetera, ascoltiamo, pensiamo di entrare a Sulden, sappiamo di non scendere al Laganda perché sappiamo di non scendere al Laganda eccetera, possiamo scendere al Laganda, come possiamo entrare a Sulden, ma non scendiamo al Laganda, non entriamo a Sulden eccetera. Pensiamo al nostro camminare come al nostro pensare, mentre pensiamo: scendiamo al Laganda, non entriamo a Sulden, perché desideriamo non entrare a Sulden, non scendere al Laganda eccetera, anche se non scendiamo al Laganda e non entriamo a Sulden, nello stesso tempo non scendiamo al Laganda, non entriamo a Sulden eccetera, mentre camminiamo, mentre pensiamo, mentre pensiamo di non scendere al Laganda, di non entrare a Sulden. Camminiamo con le nostre gambe e pensiamo con le nostre teste mentre non entriamo a Sulden e non scendiamo al Laganda eccetera, se all’improvviso non avessimo più le gambe, se d’un tratto non avessimo più la testa, disse, e se all’improvviso non potessimo più camminare perché non abbiamo più le gambe, ma entrambi abbiamo ancora la nostra testa eccetera. Se raddoppiamo il nostro sforzo di volontà, disse, se raddoppiamo ancora una volta il nostro sforzo di volontà e ancora una volta lo spingiamo fino all’estremo eccetera. Avrei voluto che fossimo già sullo Scheibenboden, alla malga!, egregio signore. Poi mio fratello disse, parlando nel modo che anche Lei conosce, ma con una velocità ancora più vertiginosa: forse anche in queste circostanze, a quest’altitudine, ci è possibile allungare il passo per avanzare ancora più rapidamente, prima allungare il passo senza aumentare la velocità, oppure aumentare la velocità senza allungare il passo eccetera; o allunghiamo il passo, o aumentiamo la velocità. O allunghi il passo, disse, e non aumenti la velocità, mentre io aumento la velocità ma non allungo il passo, o viceversa o viceversa, così rimaniamo insieme, l’uno accanto all’altro, disse. Bisogna riflettere, disse, se allungare prima il passo ma non aumentare la velocità, o se aumentare prima la velocità ma non allungare il passo. Oppure allungare il passo entrambi contemporaneamente o aumentare la velocità entrambi contemporaneamente o aumentare la velocità e allungare il passo entrambi contemporaneamente. Dal momento in cui ci è apparso chiaro che tutto parte dalla testa!, un isolamento sempre maggiore, una freddezza sempre maggiore. Ti ricordi? chiese. Non mi ricordo, dissi io. Sempre un metodo diverso, sempre persone diverse, sempre scenari diversi, sempre condizioni diverse. Ti ricordi? Non mi ricordo, dissi. Marinare la scuola. Avversione per la storia, disse. Quando ci sono apparse chiare le connessioni su larga scala e non questo dettaglio e quel dettaglio, e questo e quel dettaglio e non le connessioni su larga scala. Non voler trasformare il freddo in caldo, disse. Raddoppiare lo sforzo intellettuale. Allungare il passo e raddoppiare lo sforzo intellettuale. Nessun affetto, nulla. Nessuna domanda, nulla. Nessun documento, nulla. Nessuna somma di denaro, nessun contratto, nulla. E poi: se andiamo ancora più lontano di quanto abbiamo fatto finora, ora che crediamo di essere andati il più lontano possibile, e se portiamo il nostro sforzo ancora una volta all’estremo provocando di nuovo, come abbiamo fatto già tante volte, almeno un raddoppiamento della nostra forza di volontà, il che per noi significa, come sappiamo, prima un raddoppiamento del nostro patrimonio intellettuale immediato e di conseguenza un raddoppiamento delle energie originarie della nostra mente eccetera, possiamo calcolare di progredire eccetera, provocando in tal modo contemporaneamente un raddoppiamento della nostra forza di volontà, il che per noi significa eccetera, capacità che abbiamo riconosciuto già molto presto come capacità nostre eccetera, senza dover esistere ininterrottamente reprimendo le nostre capacità eccetera, aver paura solo di aver paura eccetera, siccome camminiamo con uno sforzo di volontà sempre maggiore e pensiamo con uno sforzo di volontà sempre maggiore e mentre camminiamo non ci chiediamo perché e come e dove andiamo in realtà, e mentre pensiamo non ci chiediamo perché, dato che semplicemente camminiamo e semplicemente pensiamo eccetera, camminiamo e pensiamo, cosa che, come sappiamo, nel corso della nostra vita è diventato nostra abitudine eccetera. All’improvviso, egregio signore: il fatto è che abbiamo paura del vuoto della nostra mente e del vuoto del paesaggio causato dal vuoto della nostra mente, dell’ipersensibilità della nostra mente, il fatto è che non sappiamo in che modo pensiamo e in che modo camminiamo, se dobbiamo aumentare o rallentare o interrompere la velocità del nostro camminare e del nostro pensare, disse. All’improvviso disse più volte interrompere, interrompere, interrompere. Perché quando camminiamo non sappiamo come pensiamo al camminare, e quando pensiamo, come pensiamo al pensare, e quando pensiamo, come pensiamo al camminare eccetera; come non sappiamo assolutamente nulla sul controllo della nostra arte. Ma di questo non osiamo parlare. Su questo argomento, egregio signore, nulla. Nel frattempo eravamo arrivati alla malga, egregio signore, ma della malga non era rimasto che un mucchio di pietre sparpagliate. Nessun mezzo di protezione, nulla. Pietre, e sotto le pietre le fondamenta della malga. Tutto crollato, tutto. Costruii sommariamente un riparo con pietre squadrate e rottami di legno, perché non volevo che morissimo lì. Eravamo troppo sfiniti per scendere quello stesso giorno, ma il giorno seguente riuscimmo a raggiungere la valle di Sulden. Al Gasthaus Laganda trovai un posto letto per mio fratello, mentre io dovetti andare prima a Sulden e poi a Gomagoi in cerca di aiuto. Da stamattina mio fratello si trova in un istituto a Büchsenhausen, un sobborgo di Innsbruck. In pubblico credo che non comparirà mai più.