Giorgia Meloni
Ho visto troppa gente parlare di me e delle mie idee per non rendermi conto di quanto io e la mia vita siamo in realtà distanti dal racconto che se ne fa. E ho deciso di aprirmi, di raccontare in prima persona chi sono, in cosa credo, e come sono arrivata fin qui.”In questo libro, Giorgia Meloni parla per la prima volta di sé a tutto tondo. Delle sue radici, della sua infanzia e del suo rapporto con la mamma Anna, la sorella Arianna, i nonni Maria e Gianni e del dolore per l’assenza del padre; della passione viscerale per la politica, che dalla “sua” Garbatella l’ha portata prima al Governo della Nazione come Ministro e poi al vertice di Fratelli d’Italia e dei Conservatori europei; della gioia di essere madre della piccola Ginevra e della storia d’amore con Andrea; dei suoi sogni e del futuro che immagina per l’Italia e per l’Europa. Ma affronta anche, con la schiettezza e la chiarezza che la caratterizzano, temi complessi come la maternità, l’identità e la fede. Un racconto appassionato e appassionante, scandito nei titoli da quel tormentone nato per essere ironico ma diventato un manifesto identitario. Passato, presente e futuro del leader politico sul quale sono puntati gli occhi di molti, in Italia e non solo.
IO SONO GIORGIA
Introduzione
Era il 19 ottobre 2019, e davanti a me in piazza San Giovanni c’erano migliaia di italiani venuti a Roma per manifestare con noi, il centrodestra, il loro «orgoglio italiano» contro la nascita del secondo governo Conte, l’ennesimo passato sulla testa dei cittadini. In piazza, le bandiere di Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia sventolavano mescolandosi in un colpo d’occhio entusiasmante. Un solo popolo, che combatteva per il suo diritto di contare e autodeterminarsi, contro chi pensava di poter usare le istituzioni a suo piacimento.
Sul grande palco allestito per la manifestazione, davanti a duecentomila persone, presi la parola tra Silvio Berlusconi e Matteo Salvini, i miei alleati. Parlai per circa venti minuti, con il cuore, a braccio, seguendo istinto e passione. I toni erano quelli di un comizio, ovviamente, ma, come sempre faccio, cercai di tratteggiare una visione. Riproposi, in quell’occasione, una formula che mi era già capitato di usare in altre manifestazioni. Parlavo del valore dell’identità, e del grande scontro aperto in quest’epoca tra chi la difende, come noi, e chi cerca di annientarla, come i nostri avversari. Spiegai che tutto ciò che oggi ci definisce è considerato un nemico dal pensiero unico, e non è un caso se sono sotto attacco la famiglia, la patria o l’identità religiosa e di genere.
Conclusi quel concetto con queste parole: «Io sono Giorgia. Sono una donna, sono una madre, sono italiana, sono cristiana. Non me lo toglierete». Dalla piazza, la gente applaudì. La manifestazione si rivelò un successo, ma io non potevo prevedere che quelle parole avrebbero avuto un’eco enorme, nei mesi successivi.
Passò qualche giorno, e sul telefono cominciò ad arrivarmi da più parti un remix di quel mio discorso. Tommaso Zorzi, in seguito vincitore del Grande Fratello, aveva lanciato su Instagram una challenge di protesta. E MEM & J, due giovani dj milanesi, avevano remixato le mie parole con una base da discoteca. Lo avevano fatto, ovviamente, con l’intento di rovesciarne il contenuto e fare satira, in modo da ridicolizzarne il messaggio. Ma le cose non andarono così. Il pezzo era troppo buono, troppo ballabile, e per certi versi troppo rivoluzionario, nonostante avesse un contenuto politico. Insomma, in poche settimane arrivò ovunque, si cominciò a ballare in tutte le discoteche, e vinse addirittura un disco d’oro, facendomi, tra le altre cose, coronare il mio sogno più segreto: essere una cantante.
La prima cosa che pensai, al tempo, è che mio nonno Gianni sarebbe stato fiero di me. Lui, siciliano tutto d’un pezzo, ma con sprazzi di tenerezza e ironia, per anni fece gareggiare me e mia sorella in un X Factor casalingo, ma chiedendoci di interpretare sempre e solo Parlami d’amore Mariù, una canzone scritta negli anni Trenta per la voce di Vittorio De Sica. Peccato che lui, nonno Gianni, fosse anche il giudice più severo della storia di tutti i talent show: così, le 5000 lire che metteva in palio per la vincitrice non ce le ha mai date.
Comunque, quel curioso connubio tra comizio e musica da discoteca, con tanto di balletto montato ad arte, spiccò il volo nelle visualizzazioni rendendomi popolarissima, soprattutto tra i nati dopo il 2000. Quella che doveva essere un’arma contro le mie idee era diventata, per paradosso, un potentissimo amplificatore per propagarle. E di colpo mi aveva trasformato da noioso esponente politico a curioso fenomeno pop.
È stato quel pezzo la ragione per la quale mi sono convinta a scrivere questo libro. Da allora ho visto troppa gente parlare di me e delle mie idee per non rendermi conto di quanto io e la mia vita siamo in realtà distanti dal racconto che se ne fa. E ho deciso di aprirmi, di raccontare in prima persona chi sono, in cosa credo, e come sono arrivata fin qui.
Già mi pare di leggere la critica. «La Meloni si è messa a scrivere la sua biografia a poco più di quarant’anni, deve essersi montata parecchio la testa.» Oppure: «La Meloni ha la presunzione di mettersi a delineare il manifesto della destra italiana, troppa ne deve fare di strada ancora». Sono valutazioni sensate. Ma il punto è che questo libro non vuole essere il manifesto teorico della destra italiana. Può al massimo rappresentare il racconto di una vita spesa a far crescere quella destra senza rinnegarsi. C’è gente decisamente più titolata per scrivere il nostro manifesto politico, e se mai dovessi farlo non potrei che partire da chi su queste cose ha speso una vita intera. E queste pagine non sono neanche un’autobiografia, in fondo, dato che spero di non morire domani e le autobiografie hanno più senso verso la fine del proprio cammino su questa terra.
Questo libro è un modo per fissare chi sono e in cosa credo, qui e ora. Per chi avrà la pazienza di leggerlo, e per me stessa.
In un’Italia nella quale molta parte della classe politica tende a vendersi per ciò che non è, mentre vedo crescere il consenso attorno a Fratelli d’Italia, io voglio raccontare chi sono davvero, senza menzogne e senza filtri. Voglio che chi dovesse scegliere di votarmi, di sostenermi, di credere in me, in futuro, lo faccia consapevolmente, conoscendomi per quello che sono: un essere umano, con i suoi pregi e i suoi limiti, la sua forza e le sue mille debolezze. Una persona che crede in quello che fa e cerca di farlo al meglio. Perché da noi si parla sempre dei politici come se fossero una specie di «razza» a sé, come se di punto in bianco fossero stati calati sulla terra da un UFO. Ma i politici non sono altro che italiani, come tutti gli altri. Ce ne sono di buoni e cattivi, il punto è se noi siamo in grado di riconoscerli. E non possiamo riconoscerli, né sceglierli, se non raccontano la verità. Ecco la mia, di verità, piaccia oppure no.
Ho iniziato a scrivere forse soprattutto per me stessa. Sono a un punto di snodo della mia vita. Abbastanza avanti da poter incidere, ma non ancora libera dal rischio di perdermi. Ho sempre pensato che la sfida più profonda di chi sceglie la strada della politica sia riuscire a lasciare un segno del proprio passaggio senza rinunciare a rimanere fedele alla propria parte più pura, solitamente quella che ti ha spinto a impegnarti in prima persona. Al termine del percorso, ognuno di noi dovrà rispondere a questa domanda implacabile: «Sono riuscito a cambiare qualcosa del sistema, oppure ho lasciato che fosse il sistema a cambiare me?». Voglio mettere nero su bianco chi sono oggi per rileggermi tra dieci, venti, magari trent’anni, e non poter mentire a me stessa. Ma anche per consentire agli altri, a chi oggi crede in me e nelle cose che faccio e che dico, di avere un’arma da utilizzare se dovessi tradire le mie idee e i miei propositi. Insomma, niente trucchi, niente inganni.
In un mondo nel quale tutti puntano a diventare qualcuno, la sfida che ho imposto alla mia vita è riuscire a rimanere me stessa, costi quel che costi. Per farlo, ho bisogno di raccontarmi, e di raccontarvi, chi sono.
Io sono Giorgia, e questa è la mia storia, fin qui.
IO SONO GIORGIA
Piccole donne
If this is to end in fire
Then we should all burn together
Watch the flames climb high into the night.a
Ed Sheeran, I See Fire
Devo tutto a mia madre. Donna volitiva, colta, che dietro la corazza che ha indossato per affrontare la vita nasconde un’anima fragile.
Le devo l’amore per i libri, la curiosità, la fierezza, la capacità di cavarmela sempre, la dedizione per il lavoro, l’istinto di libertà, il bisogno di dire la verità che mi porto dietro. Mi ha insegnato tutto lei, con quei suoi modi spicci che meriterebbero un libro a parte. E, una volta per tutte, davanti a tutti, voglio dirle grazie. Perché, prima di tutto questo, a mia madre devo la vita. E certo si può dire di ogni madre, ma ancora di più nel caso della mia. La frase esatta, infatti, è: «Devo tutto solo a mia madre». Perché la verità è che io non sarei nemmeno dovuta nascere. Quando rimase incinta, Anna aveva ventitré anni, una figlia di un anno e mezzo e un compagno – mio padre – con cui non andava più d’accordo e che, da tempo, aveva le valigie pronte per andarsene lontano. Una famiglia ferita.
Mia madre era una donna caparbia, uno spirito libero. Eppure, l’avevano quasi convinta che non avesse senso mettere al mondo un’altra bambina in quella situazione.
Ricordo quando me l’ha confessato, e ricordo il tempo che ci è voluto a digerire quel sasso. A volte penso che gli adulti farebbero meglio a tacere, a inibire quel loro morboso bisogno di mettersi a nudo. Ma poi ho capito il combattimento di una donna sola che si faceva Corte Suprema: farti nascere o farti tornare nel niente.
La mattina degli esami clinici che precedono l’interruzione di gravidanza si sveglia, rimane digiuna e si incammina verso il laboratorio. A questo punto, mi ha sempre raccontato, si ferma proprio davanti al portone, esita, vacilla. Non entra. Si chiede: è davvero una mia scelta – rinunciare a essere madre ancora una volta? La sua risposta è puro istinto: no, non voglio rinunciare, non voglio abortire. Mia figlia avrà una sorella.
È una mattina di primavera. C’è un’aria dolce e pulita. Sente di aver preso la decisione giusta. Adesso deve solo ratificarla, in qualche modo. In qualsiasi modo... Sul marciapiede opposto scorge un bar, attraversa la strada ed entra. «Buongiorno. Un cappuccino e un cornetto.» Digiuno infranto, analisi boicottate, interruzione di gravidanza dissolta in una bolla di sapone.
A quella colazione, a mia madre, alla sua ostinata scelta controvento, devo ogni cosa... «Dopo qualche mese mi rotolavo vittoriosa nel sole», per dirla con Oriana Fallaci.
Ci sono tante altre cose che però non ho mai saputo della sua giovane vita. Non le ho neppure mai chiesto come fosse cominciata la storia con mio padre, né come si era evoluta e poi infranta, e nemmeno quali fossero i suoi pensieri, i suoi sogni, le sue illusioni in quell’epoca così complicata: erano i famigerati anni Settanta, animati da un impeto giovanile presto dirottato da un potere cinico e spietato nella logica degli opposti estremismi, scontri di piazza, chiavi inglesi, e quella macabra successione di corpi sul selciato. Quegli anni, però, non sono stati soltanto questo, ma anche un’inarrestabile voglia di cambiare tutto, di condividere tutto, di discutere tutto, che in quest’epoca di vuoto a perdere, a volte, ti viene quasi da invidiare. Anni che mia madre ha attraversato appena uscita dall’adolescenza. Era stata una simpatizzante – forse a tratti anche una militante – della destra giovanile di allora, ma non mi ha mai detto molto di più. So che, a un certo punto, si è infatuata di un uomo più grande, con una vita già avviata. Non è mai facile capire gli amori degli altri. Però, con il tempo, ho maturato il sospetto che mia madre cercasse soprattutto una via di fuga da un ambito familiare rigido che a lei, con la sua anima profondamente ribelle, andava troppo stretto.
I suoi genitori erano la rappresentazione perfetta dell’incontro tra due mondi diversi. Mio nonno era un siciliano tutto d’un pezzo, il volto scolpito da un certo senso del dovere, mia nonna una «romana de Roma» che aveva governato le intemperanze di mia madre con la fermezza di un generale prussiano, un cipiglio autoritario che noi nipoti non abbiamo mai conosciuto. Succede sempre così: gli uomini, diversamente dagli alberi, con il passare degli anni, anziché indurirsi, diventano teneri come il legno verde.
Invece alla loro figlia i miei nonni non hanno mai concesso molto: quello che faceva era sempre sbagliato. Per carità, mia madre è sempre stata un tipo irregolare, ma non so dire se i miei nonni fossero così inflessibili con lei per questo, o se piuttosto sia stata quell’inflessibilità a renderla ribelle. Negli ultimi anni della sua vita ho spesso parlato con mia nonna di questa seconda possibilità. Non l’ho mai convinta.
Spinta dal desiderio di uscire di casa, quindi, mia madre aveva cominciato poco più che maggiorenne a costruirsi una famiglia, un pezzo alla volta, come coi mattoncini Lego. È che uno di quei pezzi (forse il più importante), mio padre, commercialista di Roma Nord, era evidentemente difettoso.
Tanto per dirne una, quando mia madre fu dimessa dall’ospedale dopo il parto, lui non ci venne neppure a prendere. Insomma, non era esattamente il prototipo del compagno ideale...
Quando io ero ancora molto piccola, decise di partire per le Canarie su una barca di nome Cavallo pazzo. Prese il largo e svanì dal nostro orizzonte.
Non ricordo il giorno in cui sparì. Semplicemente non ricordo di aver mai vissuto con lui.
Devo essermene resa conto poco per volta.
La percezione di un padre che non c’è più, che si dissolve, è qualcosa che non si riesce a spiegare. È forse una ferita più profonda di un padre che muore, perché in quel caso puoi sperare che ti guardi dal cielo, mentre quando se ne va sei costretta a fare i conti col suo fantasma.
Credo abbia vissuto con noi pochi mesi alla Camilluccia, un quartiere della cosiddetta Roma bene, in una casa in cui restammo per qualche tempo anche dopo che se n’era andato.
A quella casa sono legate due vicende che hanno lasciato un segno sulla mia vita. La prima sembra uscita dritta da uno di quei film polizieschi in voga all’epoca, l’altra dalla scena di un romanzo di Stephen King, autore che ho profondamente amato ma nelle cui storie è meglio non trovarsi.
Avevamo due pastori tedeschi, Ettore ed Eva. La femmina, come spesso fanno i cani con i neonati, si comportava con noi come una mamma. Si metteva a dormire sotto la culla e, se si avvicinava qualcuno, cominciava a ringhiare; e ringhiava persino a mio padre, per capire quanto fosse sicuro il suo intuito.
Come ho detto la zona era abbastanza elegante, e pare che un nostro vicino fosse un pezzo grosso della politica di quei tempi.
Una sera, forse insospettiti da qualche rumore, alcuni agenti della sua scorta si intrufolano nel giardino del nostro palazzo. Un semplice controllo di routine, solo che mia madre si spaventa, esce nel nostro giardino urlando: «Sono armata!» e, mentre si blocca impaurita nella penombra, ecco che sbucano Ettore ed Eva, abbaiando. Succede un po’ un parapiglia. Ma quella sera tutto finisce lì.
Qualche sera dopo, però, gli agenti tornano a effettuare le loro ispezioni. Solo che stavolta Ettore ed Eva decidono di scavalcare la recinzione per passare all’assalto. Gli agenti vedono piombarsi addosso quei due grandi pastori tedeschi, tirano fuori le armi e colpiscono Ettore a una zampa.
Messo in fuga, il cane comincia a scavare sotto la rete, si fa male e perde per sempre la vista a un occhio.
Che animale meraviglioso, Ettore. Anche menomato rimase lo stesso. Da noi accettava qualsiasi cosa – adoravamo mettergli i pattini – ma se percepiva una minaccia esterna la sua natura di lupo diventava subito evidente. Quando è morto avevo dodici anni e li avevo passati tutti con lui, la sua perdita è stata per me un dolore immenso. È in assoluto l’animale che ho amato di più nella mia vita.
Poi – e qui siamo al secondo ricordo che mi ha segnato – ho ancora impressa l’immagine del grande panda di peluche divorato dalle fiamme, i suoi occhi di vetro che mi fissano.
Io e mia sorella adoravamo fare esperimenti. Avevamo smontato la casa di Barbie per trasformarla in un’improbabile astronave, bruciavamo carte e piccoli oggetti per vedere come si accartocciavano, come fondevano, spostavamo i mobili per creare scenografie di storie che inventavamo di sana pianta. Siamo sempre state dinamite, insieme. Lei, semplicemente, fino alla nascita di mia figlia Ginevra è stata la persona più importante di tutta la mia vita. Non c’è segreto che non le confessi, consiglio che non le chieda, e ora che abbiamo entrambe una vita impegnatissima, mi manca qualcosa se non la sento almeno una volta al giorno. Io uso così tanto il telefono, per lavoro, che ho finito per avere una vera e propria avversione per le telefonate. Ma mia sorella è l’unica persona alla quale sento il bisogno fisico di telefonare per fare due chiacchiere. E lei, come faceva quando eravamo bambine e mi raccontava le favole per farmi addormentare, è ancora capace come nessun altro di darmi serenità, di farmi sentire a casa, di divertirmi. Il tempo passato con lei, per me, è necessario come l’aria che respiro. E non le dirò mai grazie abbastanza per l’amore che mi ha regalato, e per l’esempio che lungo tutta la mia esistenza ha rappresentato per me. Perché lei, Arianna, è la persona migliore che abbia conosciuto su questa terra.
Comunque, il giorno in cui nostra madre ha perso la casa, ma anche qualche anno di vita, noi volevamo soltanto organizzare una festicciola notturna. Avevamo perciò costruito una specie di capanna nella nostra stanza e l’avevamo riempita di giochi, bambole, leccornie e bibite. Una volta finito il nostro lavoro, ci guardiamo: cosa manca? La luce. Ma serve una luce fioca, altrimenti mamma capirà che siamo sveglie. Alla fine troviamo la soluzione. Una candela. La scova Arianna da qualche parte, ma sono io ad accenderla.
Sono appena le quattro del pomeriggio, e bisogna aspettare la notte per la nostra festa. Così, per ingannare il tempo, ce ne andiamo in un’altra stanza a guardare i cartoni animati. La candela resta lì, accesa.
Quanto sarà passato? Non saprei. Ricordo solo che, nel bel mezzo di un episodio di Candy Candy, sentiamo un rumore assordante provenire dalla nostra camera. Corriamo a vedere insieme a nostra madre, ma quando apriamo la porta per poco non veniamo avvolte dalle fiamme. Eccolo lì, il panda che arde, insieme a tutti gli altri giocattoli. Il rumore era stato provocato dal crollo della tapparella.
In poco tempo l’incendio si è preso tutto l’appartamento e noi siamo scappate con una sola borsa in cui avevamo infilato un pigiama, due paia di pantaloni e una maglietta. Ci siamo ritrovate, di punto in bianco, per strada, sole, senza più un tetto. Mia madre ha dovuto ricominciare letteralmente da zero. Un’impresa pazzesca. Qualche volta ci ripenso e, scherzando, mi dico che forse è per questo che ho trovato il coraggio, molti anni dopo, di rifondare una casa politica quando la nostra era andata in fumo. In fondo, lo avevo già visto fare a quattro anni, perché non potevo riuscirci a trentacinque?
Venduto l’appartamento uscito malconcio dalle fiamme, mia madre ne ha comprato un altro a poca distanza dai miei nonni, alla Garbatella. Un quartiere popolare appena fuori le mura aureliane, incastonato, come un piccolo gioiello, tra la via Ostiense e via Cristoforo Colombo, cresciuto negli anni Venti sopra la rupe tufacea che sovrasta la basilica di San Paolo.
La Garbatella è il mio quartiere non solo perché lì sono cresciuta e ho vissuto per lunghi anni, ma perché abitare in un determinato luogo non ci è mai indifferente, imprime dentro di noi un certo modo di stare al mondo.
È stata scoperta dal grande pubblico soprattutto per merito (o forse per colpa) della fiction dei Cesaroni. Ma il primo a parlarne al cinema è stato Nanni Moretti, che in Caro diario la definisce il suo quartiere preferito. Come dargli torto.
Oggi è una zona ricercata, perché consente di vivere, quasi nel cuore di Roma, in una sorta di borgo concepito a misura d’uomo, lontano anni luce dagli alveari metropolitani costruiti negli anni Settanta, figli di una cultura collettivista che ha immaginato le persone come polli in batteria. Io non abitavo in quella parte magica e segreta, ma a poche centinaia di metri, nella zona più moderna della Garbatella, vicino al palazzo della Regione Lazio. Anche lì, però, era molto forte il senso di appartenenza. Sembrava di vivere in un paese.
La mia vita di bambina è stata scandita tra la scuola, la parrocchia e la piccola casa dei miei nonni, che sono stati per me e per mia sorella una guida autorevole e quotidiana. Erano giovani, non avevano più di cinquant’anni, e ci hanno seguite come dei secondi genitori.
Mio nonno Gianni, quando lo ricordo, mi fa pensare a Emilio Salgari: non aveva mai viaggiato fuori dall’Italia, non aveva mai preso un aereo, eppure la sua specialità erano le storie avventurose ambientate nei luoghi più disparati, reali o immaginari. Siciliano, nato a Messina, dopo la guerra era venuto a Roma per un posto da dipendente nell’allora ministero della Marina militare. Era un uomo divertente. Ci faceva gareggiare su ogni cosa e, alla fine, chi perdeva tra me e mia sorella veniva proclamata «Regina della monnezza». È stato il solo vero padre che abbiamo avuto, ed è morto che io e Arianna eravamo poco più che maggiorenni. Noi lo abbiamo sempre visto forte, ma era malato, da anni, e sempre di più. Due infarti, poi un ictus, poi la dialisi. Ha combattuto tantissimo, anche con mia nonna Maria, che lo torturava, costringendolo a bere litri di acqua al giorno, come da prescrizione medica, non poteva mangiare questo, non poteva mangiare quello, non poteva fumare, ma poi usciva e, di nascosto, si andava a comprare le cotolette fritte.
Da bambine, io e mia sorella abbiamo avuto la fortuna di conoscere anche la nostra bisnonna, nonna Nena, che poi morì quando aveva novantadue anni. Nonna Nena, diminutivo di Maddalena, aveva perso un figlio di soli cinque anni, Angelino, a causa della meningite, ed era rimasta vedova molto presto, quando mia nonna Maria aveva dodici anni. Nena – come quasi chiunque, nella prima metà del Novecento – aveva avuto lutti e vissuto momenti molto difficili; per questo sua figlia, mia nonna, era stata mandata al collegio delle suore dove le era stata impartita un’educazione piuttosto severa, oggetto preferito dei suoi racconti. Nonna Maria non ha mai dimenticato il suo fratellino. Per tutta la vita gli ha portato i fiori al cimitero e gli ha acceso una candela, e quando non aveva più le forze per raggiungere il Verano, ha chiesto a noi di farlo. Oggi che lei non c’è più ancora onoriamo quell’impegno.
I miei nonni abitavano in un palazzo in cui c’erano gli alloggi riservati ai dipendenti dei ministeri. Ricordo quanto mio nonno fosse fiero il giorno in cui terminò di pagare il mutuo, sentiva finalmente suo quel minuscolo appartamento. Un bilocale di quarantacinque metri quadri, lo stesso in cui era cresciuta mia madre. La cucina, che era anche la sala da pranzo, era il luogo in cui si svolgeva tutta la vita domestica. Nessuno, in quelle quattro mura, ha mai visto un divano. C’era un tavolo: lì si mangiava, si facevano i compiti, si giocava, si guardava la tv. Mia madre ha sempre lavorato, quindi i pomeriggi dopo la scuola li passavamo in quel soggiorno polifunzionale. E poi c’era un corridoio piuttosto angusto con un mobile-letto che aprivamo per dormire quando mia madre decideva di uscire la sera, per cercare di vivere un po’ la sua vita. Come diceva mia nonna, dormivamo «una da capo e una da piedi». Da bambina, insomma, ho passato tante notti in un corridoio con i piedi di mia sorella spalmati sulla faccia. Quando poi siamo cresciute ho avuto, in premio, una brandina in cucina, tutta per me. È stata una bella conquista.
Nonna Maria ha sempre fatto la casalinga, per lei la cura della casa era una vera missione, scandita secondo orari fissi e procedure seguite alla perfezione. Per pulire quarantacinque metri quadri di casa iniziava all’alba e finiva al tramonto. Addirittura il cane era compreso nel protocollo: veniva chiuso in bagno e sottoposto persino al lavaggio dei denti con lo spazzolino. Il cagnolino con il sorriso smagliante era un barboncino di nome Charlie, che io e mia sorella avevamo l’incarico di portare a spasso nel pomeriggio; compito che abbiamo eseguito per anni, tanto che nel quartiere eravamo conosciute – indifferentemente, l’una o l’altra – come «la padrona di Charlie».
Ogni volta che osservo la quantità spropositata di giocattoli di mia figlia sparsi per la casa, penso a quella vecchia scatola da scarpe dentro cui conservavo le costruzioni, il mio gioco preferito. Mia figlia, oggi, con i suoi mattoncini potrebbe costruire la terza corsia del Grande raccordo anulare, mentre io e Arianna con quei pochi mattoncini potevamo ricostruire, al massimo, la cucina di casa di nonna, in scala. Ma non so dire quale, tra i due, sia il modo migliore per crescere. O forse lo so, ma ho paura di ammetterlo.
Io e Arianna eravamo molto indipendenti, prendevamo addirittura l’aereo da sole – avevamo otto, nove, dieci anni – per andare a trascorrere qualche settimana di vacanza da mio padre, alle Canarie. Le hostess ci legavano una bustina rossa con i documenti al collo e salivamo a bordo dell’aereo che ci portava a Madrid, dove facevamo scalo. Una volta, in quell’aeroporto per noi gigantesco, l’addetto che doveva attenderci non c’era e così finimmo con il perderci. Io ero imbambolata, Arianna no; mi prese per mano e trovò, non so come, l’aereo che dovevamo prendere. I miei discussero a lungo, e aspramente, su quella nostra disavventura.
Può sembrare incredibile, ma fino ai quattordici anni sono stata una bambina piuttosto chiusa. Già da piccolissima avevo un’espressione corrucciata, la stessa che faccio oggi quando mi preparo a rispondere alle domande di Lilli Gruber. A chi mi prende in giro per quel mio sguardo sfrontato e ingrugnito ho mostrato una foto dell’asilo in cui sono già esattamente così. Sono sempre stata sulla difensiva. Un amico di mia madre mi ha detto, di recente, che ero una bambina alla quale non si potevano raccontare le favole, che non gradiva essere presa in giro, e che scrutava gli adulti con una certa diffidenza e il ciglio alzato. Alla domanda «Che bambina ero?» la risposta è stata: «Una persona seria». Ancora mi interrogo su quella definizione.
Avevo un carattere difficile, e stringere amicizia per me era una faccenda di non poco conto. Un vero Capricorno.
Non era timidezza né diffidenza, ma piuttosto una gelosa, tenace difesa del mio spazio vitale. Non ero, insomma, una bambina espansiva, me ne rendo conto ancora di più oggi quando vedo mia figlia Ginevra ridere e parlare continuamente, e attaccare bottone con tutti. Io passavo il tempo con mia sorella e con pochi altri. A scuola mi capitava di reagire a certe provocazioni. Una volta me la presi con una compagna di classe, colpevole di avermi detto che lei con quelle senza padre non ci parlava. Sì, ero ombrosa, rispondevo male, e il mio aspetto certo non agevolava le relazioni sociali.
Mia nonna non aveva propriamente una formazione da nutrizionista. Era quel tipo di persona, per intenderci, che pensa che la ciccia sia sinonimo di salute. Ci faceva cenare con latte e biscotti. Tutte le sere. Risultato: a nove anni pesavo sessantacinque chili. È ufficiale: è stata lei, mia nonna, a devastare il mio metabolismo. Eppure, fino alla fine, se andavo a trovarla mi offriva una merendina. «A ni’» mi diceva, «mangia, che sei troppo magra.»
A lei sembravo sempre secca, pure se ero una balena: «Ma sei secca. Ma mangi? Ma che te magni?». Tutte le volte che sono andata all’estero la sua preoccupazione più grande era sempre la stessa: «Dimme la verità: ma che te fanno magnà?». Quando con la scuola partimmo per due settimane, destinazione Berlino, mia nonna al telefono mi chiedeva: «Ma che te danno, i fiusti? Quelli se magnano solo i fiusti!» (perché lei i würstel li chiamava così). L’ho sempre presa in giro per questo, ma in fondo era normale. Per chi ha sofferto la fame, durante la guerra, avere lo stomaco pieno è la cosa più importante di tutte.
Della «congiura antiestetica» faceva parte anche mia madre che per praticità ci tagliava i capelli corti, con quei bei tagli anni Ottanta a «bananone», incrocio tra Annie Lennox e Bobby Solo, che non donerebbero neanche a Charlize Theron, figuriamoci a me, che avevo la testa grande, tanto da essermi guadagnata da mia nonna il soprannome di «capocciona». Certo, potrei dire che nonna mi chiamava così per la grandiosa intelligenza, ma no, non era per questo. Non contente, ci mandavano in giro in tuta. Per cui, ecco, diciamo che non ero un granché e i bambini, si sa, non sono proprio politicamente corretti quando c’è qualcuno da prendere in giro perché è grasso o malvestito.
O magari perché le sue condizioni familiari non sono nello standard. Mia madre lavorava sempre, inventandosi mestieri ogni volta diversi, tanto che a un certo punto si mise a fare la scrittrice ed è finita che ha scritto circa centoquaranta romanzi rosa. La sua straordinaria intelligenza l’ha resa eclettica. Però è sempre stata un po’ sfortunata, e di soldi non ce n’erano mai abbastanza. Un mix capace di produrre piccole dimenticanze, o limiti, che nella vita di un bambino possono lasciare il segno. Ricordo una festa di carnevale a scuola; io ero l’unica che non aveva la maschera e la maestra ne realizzò una lì per lì, fatta di carta: mi travestì da margherita. Ma c’è da dire che non andò meglio a mia sorella, quando nostra madre le comprò un costume, visto che il costume era quello di Capitan Harlock, non il massimo per una bambina. E Arianna racconta sempre anche di quella volta in cui nonna Maria, sollecitata a contribuire al buffet di non so quale festa, diede a mia sorella 5000 lire. Ari va al bar, compra cinque paste, e arriva alla festa con questa piccola busta di carta mentre tutti gli altri avevano portato vassoi ricolmi e torte fatte in casa. Le maestre per salvare la situazione presero le cinque paste e le mischiarono in un vassoio. Mia sorella da questa esperienza è rimasta segnata, tant’è che oggi quando deve organizzare una festa per i suoi bambini sforna torte e tramezzini che potrebbero sfamare un’intera scolaresca.
Detto questo, però, su una cosa voglio essere chiara. Noi siamo state bambine felici. Sicuramente io ero un po’ irascibile, ma non sono stata mai triste, perché, nonostante l’assenza di mio padre, avevo una famiglia che mi dava tutto l’amore di cui avevo bisogno. Lo dico perché, mentre difendo la famiglia naturale fondata sul matrimonio – credo che lo Stato debba incentivare la forma di unione più solida possibile, proprio guardando ai figli –, sono testimone di come, anche in una famiglia nella quale una delle due figure genitoriali viene meno, si possa crescere perfettamente felici, grazie al sacrificio di chi si sobbarca questa responsabilità.
In famiglia avevo quello che mi serviva. Era al di fuori della cerchia familiare che non trovavo la stessa comprensione.
L’ho raccontato durante una seduta in Parlamento, in occasione della discussione sul ddl Zan, il provvedimento che dice di voler tutelare gli omosessuali dalla discriminazione, ma nei fatti diventa un pericoloso strumento pensato soprattutto per imporre la dottrina gender fin già dalle scuole elementari.
Il collega Zan diceva di volere questo provvedimento perché lui, da bambino, era stato vittima di bullismo in quanto omosessuale. Anch’io sono stata vittima di bullismo, e sono etero. Il bullismo, per ragioni disparate, è un’esperienza capitata a molti, in maniera più o meno grave. Per questo diventa difficile pensare di risolvere la questione facendo un lungo elenco di specifici reati di discriminazione. Come se un insulto o un’umiliazione fossero più gravi di altri. La nostra Costituzione già condanna ogni discriminazione per sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali. Formula che a me sembra comprendere già tutto, inclusa l’omosessualità. Stilare un elenco più specifico diventa un’operazione pericolosa perché giocoforza finirebbe per escludere chi non è espressamente tutelato da norme specifiche, in un meccanismo che potrebbe non avere fine e rischia di creare pericolose gerarchie. È più grave insultare una donna o un gay? Un gay o qualcuno di colore? Un nero o un disabile? La discriminazione è discriminazione, punto. Non ce n’è una migliore o peggiore delle altre.
Il bullismo, per me, è stato durissimo mentre lo subivo, ma devo anche dire che mi ha dato la determinazione necessaria per uscire dalla mia condizione di facile bersaglio.
Ho ricordi nitidi. Un giorno ero in spiaggia e quindi, ovviamente, indossavo un costume da bagno. Alcuni ragazzi più grandi stavano giocando a pallavolo, e io chiesi di potermi unire a loro. Ma quelli, urlando, mi risposero: «A cicciona! Te nun poi giocà» e mi tirarono una pallonata in faccia. Lì per lì volevo morire. Arianna prese, come sempre, le mie parti, lei che invece era inseritissima, bella e simpatica, costretta a portarsi dietro un tubero, cioè la sottoscritta, che la obbligava a litigare con tutti.
A distanza di anni ringrazio quei cafoni. Loro per primi, mi hanno insegnato che i nemici sono utili. Uno sprone a fare cose che altrimenti pensi di poter rimandare, a superare i tuoi limiti e correggere i tuoi errori. Certo, Plutarco lo spiega molto meglio di me parlando dell’«utilità dei nemici»: «Poiché ai nostri giorni la voce degli amici è flebile quando dovrebbe esprimersi con franchezza, è vivace nell’adulare, e resta muta quando dovrebbe ammonirci, è proprio dalla bocca dei nemici che dobbiamo ascoltare la verità». È anche grazie a quei ragazzi se ho sviluppato un carattere che mi porta ad affrontare di petto difficoltà e paure. Fu allora che decisi di mettermi a dieta, e persi dieci chili in tre mesi. Avrei giocato a pallavolo, eccome. E lo feci, prima della fine della stagione.
Ho imparato sulla mia pelle che le dinamiche del comportamento alimentare nei giovani sono molto importanti, non soltanto per la salute, ma per la socialità, perché l’accettazione di noi passa tantissimo anche attraverso il corpo. È un dato di fatto, per quanto possa sembrare superficiale.
Negli anni in cui sono stata ministro della Gioventù, ho portato questa sensibilità nell’azione politica. Commissionai anche uno studio su questa materia, ed emerse che i disordini alimentari erano molto più diffusi di quanto si pensasse e che esistevano nel mondo circa trecentomila siti internet Pro-Ana: community e blog personali che promuovevano l’anoressia, nei quali ci si scambiava informazioni su come non far scoprire ai genitori i digiuni, o addirittura come arrivare a non avere fame, con pratiche anche atroci e autopunitive. Non esisteva, invece, per contrastare questo fenomeno, nemmeno un sito che, anche se destinato solo alle famiglie, spiegasse quali segnali di allarme individuare, o a chi rivolgersi.
Io devo ringraziare il mio caratteraccio se non sono caduta nella spirale dei disturbi alimentari. Non ho dato la colpa a mio padre per essere stata una bambina difficile e, fino ai trent’anni, ero addirittura convinta che il suo abbandono fosse stato del tutto ininfluente per me. A un certo punto, mi sono guardata dentro e mi sono resa conto che forse stavo mentendo a me stessa. Ma mentire a te stesso non fa bene: devi sempre avere il coraggio di dirti la verità. Anche quando sbagli. Perché puoi sbagliare, certo, ma devi esserne consapevole, te ne devi assumere la responsabilità. Viviamo in una società nella quale, a sentir parlare le persone, la responsabilità di tutto ciò che accade è sempre di qualcun altro. Non è così. Ognuno di noi ha un ruolo, nel bene e nel male. L’Italia cambierà davvero quando finalmente capiremo che ciascuno di noi è parte del tutto, quando impareremo che non possiamo sempre guardare l’Italia da fuori, come se non ne fossimo parte. «I’m starting with the man in the mirror» direbbe Michael Jackson. Se vuoi cambiare, comincia dall’uomo nello specchio.
Tutte le cose sbagliate che ho fatto nella vita, le cose che mi fanno arrabbiare, quelle che non mi piacciono, quelle che non capisco: ecco, io ho sempre cercato e cerco di indagarne le ragioni. Ho bisogno di dirmi la verità per sapere chi sono.
Ho negato per molto tempo che il rapporto con mio padre fosse un problema. Poi, guardando la più stupida delle commedie romantiche americane, ho finalmente capito. La protagonista infila una serie di storie imbarazzanti, di uomini meschini, di pianti infiniti. E non si dà pace di come si disperi per uomini che, in fondo, non sembrano avere questo gran valore. È l’amico con cui parla della sua sfortuna a dirle la frase che mi ha finalmente aperto gli occhi: «Noi accettiamo l’amore che pensiamo di meritare».
Ho capito che la vicenda di mio padre aveva pesato. Non tanto per il fatto che lui se ne fosse andato di casa. Tanti padri dopo la separazione sono, comunque, presenti nelle vite dei loro figli. A ferirmi è stata la sua indifferenza nei nostri confronti. Quello che mi ha segnato davvero è stato il suo totale disinteresse verso di noi.
Esattamente il motivo per il quale, a undici anni, decisi che non avrei voluto vederlo mai più.
È stata una mia scelta, ma c’è da dire che lui non sembra essersene fatto un cruccio più di tanto. Fino ad allora lo vedevamo per qualche settimana d’estate, poi – per anni – interrompemmo ogni contatto. Dopo aver girato il mondo in barca a vela, mio padre si era fermato in una delle isole più piccole delle Canarie, La Gomera. Una ventina di chilometri di diametro e il paesaggio primordiale tipico delle isole vulcaniche: spiagge di sabbia nera, rocce dall’aspetto alieno e una foresta preistorica. Io e mia sorella eravamo piccole e forse non coglievamo del tutto la bellezza dell’isola, più prese dai nostri giochi e dalla libertà pressoché totale che sperimentavamo in quel luogo. Gli abitanti si conoscevano tutti e il turismo non era certo di massa, quindi i bambini scorrazzavano soli dalla mattina alla sera.
Noi vivevamo nella cittadina principale, San Sebastián, e passavamo molto tempo nel locale che mio padre aveva aperto lì, un grande ristorante nel paese. Ricordo che un giorno io e Arianna abbiamo rischiato di morire schiacciate sulle rocce di una spiaggia vicina, più selvaggia. Avevamo raggiunto gli scogli dopo aver nuotato un po’, ma nel frattempo la marea era salita e uscire dall’acqua fu un’impresa titanica. Ne venimmo fuori tutte sbucciate e sanguinanti.
Eravamo due sorelle molto vivaci ed era palese che mio padre subisse la nostra presenza poco discreta, per dirla così. Gli facevamo anche degli scherzacci, e in un paio di occasioni si infuriò. E a ragione, questo glielo devo. Come quando mia sorella lanciò un masso in acqua mentre io mi nascondevo e poi gridò a mio padre, che era in barca: «Papà, papà! Giorgia è caduta in mare!». Lui si tuffò spaventatissimo per ripescarmi, ma non riusciva a trovarmi, quasi affogò... finché io sbucai fuori dal mio nascondiglio ridendo come una matta con Arianna.
L’ultima estate in cui andammo a trovarlo lui ha creduto bene di partire per una settimana lasciandoci a casa con la sua compagna, la quale, com’è comprensibile, non fece esattamente i salti di gioia. Al ritorno, mio padre, invece di scusarsi con lei e con noi, ci fece un discorso che non ho mai dimenticato e che per me fu la pietra tombale sulla nostra relazione. Non voglio ripetere le parole, ma diciamo che ci fece capire che non eravamo in cima alle sue priorità affettive e che dovevamo comportarci di conseguenza quando eravamo da lui.
È finita lì. O forse, una volta per tutte, il giorno in cui, due anni dopo, mi mandò un telegramma per i miei tredici anni: «Buon compleanno» firmato «Franco». «Papà» gli sembrava evidentemente troppo confidenziale.
Il bisogno costante di essere all’altezza, di essere accettata soprattutto in un ambiente maschile, oltre al terrore di deludere chi crede in me, vengono probabilmente dalla mancanza di amore che ci ha riservato nostro padre.
Sono cresciuta con l’idea di non meritare niente e la mia reazione è stata quella di impegnarmi con tutta me stessa per dimostrare il contrario. Perché il punto è sempre lo stesso: un conto è quello che succede e un conto è come lo affrontiamo. È proprio come lo affrontiamo a fare la differenza: la nostra vita non dipende sempre dalle azioni di qualcun altro, dipende soprattutto da come scegliamo di reagire, dal coraggio con cui fronteggiamo le situazioni. Insomma, alla fine mi sono riscoperta una seguace involontaria dello stoicismo.
Io ho paura ogni giorno, spesso mi sento inadeguata, ho paura che gli altri non mi considerino all’altezza. Ma questa paura è la mia forza, perché è la ragione per la quale non ho mai smesso di studiare e di imparare, è la ragione per la quale sento di dover sempre dimostrare cento, anche quando in un argomento parto da zero. È la ragione per cui sono così puntigliosa, così caparbia, così disposta al sacrificio. Che sia da sempre in competizione con gli uomini e non con le donne, che abbia cercato l’approvazione, l’amicizia, la stima dei miei compagni di militanza e oggi di partito, di tutti gli uomini che rispetto e che ho incontrato nella mia vita, è frutto di quella ferita.
Se oggi sono così, è anche grazie a mio padre, nel bene o nel male.
Quando è morto, qualche anno fa, la cosa mi ha lasciato indifferente. Lo scrivo con dolore. Mi ha fatto arrabbiare non provare niente quando l’ho saputo. Ho capito allora quanto fosse profondo il buco nero in cui avevo sepolto il dolore di non essere stata amata abbastanza.
a. Se finirà nel fuoco / Allora dovremmo tutti bruciare insieme / Guarda le fiamme che salgono nella notte.
Il battesimo del fuoco
Non è tempo per noi
Che non vestiamo come voi
Non ridiamo, non piangiamo,
non amiamo come voi
Forse ingenui o testardi
Poco furbi, casomai
Non è tempo per noi
E forse non lo sarà mai.
Luciano Ligabue, Non è tempo per noi
A quindici anni e mezzo non pensavo che bussando al portone blindato della sezione del Fronte della Gioventù alla Garbatella avrei trovato la mia seconda famiglia. Una famiglia decisamente più numerosa di quella di origine.
La sezione si trovava, quando si dice il destino, esattamente dietro l’angolo di casa mia, ma io non ero quasi mai passata in quella via e l’avevo dovuta cercare sul TuttoCittà, dopo aver telefonato alla sede centrale del Movimento Sociale Italiano di via della Scrofa, per chiedere quale fosse la sezione più vicina a casa. Via Guendalina Borghese numero 8: ecco l’indirizzo dove tutto è iniziato. E, ancora più dell’indirizzo, conta la data che fu il motivo scatenante di quella decisione: 19 luglio 1992, il giorno dell’attentato a Paolo Borsellino.
Erano mesi bui e di grandi tensioni, la classe politica era giustamente sotto accusa e l’inchiesta di Mani Pulite stava già falcidiando i principali partiti di quella che presto sarebbe stata archiviata col nome di Prima Repubblica. Un po’ per curiosità naturale, un po’ perché lo faceva mia madre, seguivo i telegiornali e la cosa prese a interessarmi. Ero anche stata a una manifestazione del Fronte della Gioventù qualche tempo prima, trascinata da una compagna di scuola. Avevano inscenato una rappresentazione in cui i ragazzi erano travestiti da alcuni dei personaggi principali dei partiti dell’epoca in tuta da carcerato, a simboleggiare una Prima Repubblica che aveva costruito la sua fortuna depredando le future generazioni. C’era un clima molto diverso dall’idea che si poteva avere di quell’ambiente, un’atmosfera goliardica, allegra. Mi ero sentita a mio agio e avevo cominciato a interessarmi un po’ di più a quel mondo che poi sarebbe diventato il mio. Il Movimento Sociale Italiano era del tutto estraneo alle ruberie e alla corruzione che venivano scoperchiate in quegli anni e fu inevitabilmente protagonista di quella tumultuosa stagione di passaggio.
Avevo ancora nelle orecchie le struggenti parole di Rosaria Costa, vedova a soli ventidue anni dell’agente di scorta Vito Schifani, morto nella strage di Capaci insieme a Giovanni Falcone, la moglie e altri due colleghi, quando a luglio fu ammazzato anche Paolo Borsellino, con altri cinque agenti, sotto casa della madre. Ho un’immagine nitida di me stessa, seduta in tinello, in una giornata caldissima, mentre guardo al telegiornale i fotogrammi sconvolgenti di quella devastazione. Riesco ancora a sentire la rabbia che si impasta con l’emozione. Un interruttore. Non accettavo più di sentirmi impotente, non sarei rimasta a guardare. Dovevo fare qualcosa, e fare qualcosa poteva significare solamente aggregarsi a quelli che consideravo alternativa e modello, e, più per istinto che per decisione ponderata, mi rivolsi al Fronte della Gioventù e al Movimento Sociale Italiano.
A quindici anni non si hanno ancora gli strumenti per distinguere con precisione le diverse tesi che animano la politica, l’appartenenza a un’area piuttosto che a un’altra è un fatto di puro istinto, una specie di affinità elettiva. E così aprii l’elenco del telefono e chiamai la sede del MSI.
Decisa a iscrivermi, andai a bussare al portone della sezione che mi era stata indicata, e che era stata da poco riaperta dopo aver subito un attentato da parte della sinistra extraparlamentare.
Il primo impatto fu un po’ diverso dalle aspettative. Mi aprì un tipo che si presentò dicendo: «Ciao, sono Marta» (poi ho scoperto che si chiamava Alessandro). «Ciao, mi vorrei iscrivere» gli dissi io. Mi guardò con una faccia perplessa, e mi invitò a seguirlo.
Attraversammo una prima stanza piuttosto grande, la sala riunioni. Un ragazzo alto (il Lungo, per l’appunto, al secolo Marco Marsilio, oggi presidente della Regione Abruzzo per Fratelli d’Italia) stava parlando in piedi e gli altri, seduti, lo ascoltavano. Tutti uomini. Appena mi videro l’oratore si zittì e aspettò che passassi. Intanto mi squadravano, tutti. Non nego che provai un certo imbarazzo.
Percorremmo poi un lungo corridoio con i muri scrostati, intravidi un piccolo bagno decisamente malandato e un’altra stanza in cui c’erano manifesti arrotolati, secchi per la colla e volantini sparsi. Il tour finì in un ambiente organizzato tipo segreteria, dove ad aspettarmi c’era l’allora segretario della sezione, tale Peo, un tipo con i capelli lunghi, la barba e un chiodo di pelle su cui spiccava la spilletta dei Ramones. «Ma non sarò finita in un centro sociale?» pensai. Scrivemmo i rispettivi numeri di telefono di casa sul volantino di una manifestazione che dividemmo a metà, un cimelio che ancora entrambi conserviamo. Peo, o meglio Andrea De Priamo, oggi nostro capogruppo in assemblea capitolina, è ancora convinto che quel giorno indossassi una tuta rosa. Un dettaglio che è sempre piaciuto molto ai giornalisti, tanto che è diventata una specie di leggenda metropolitana. Smentisco categoricamente, una volta per tutte, di aver mai non solo indossato, ma persino posseduto una tuta rosa in tutta la mia vita. Quel giorno portavo un più sobrio maglione blu, pantaloni blu e una camicia a scacchi bianchi e rossi. Figuriamoci se mi sarei mai presentata in tuta rosa al Fronte della Gioventù. Ero piccola ma un po’ di buon senso, ecco, ce l’avevo.
In una delle prime riunioni a cui partecipai, rimasi colpita da un ragazzo che, alla fine, domandò: «Qualcuno ha bisogno di essere accompagnato a casa?». Capii che, in quell’ambiente, ciascuno era responsabile degli altri, tutti si occupavano di tutti. Tutti erano la famiglia di tutti.
Eravamo dipinti come cattivi, addirittura violenti, ma la verità è invece che il Fronte della Gioventù era accogliente. Non c’era alcuna forma di preclusione nei confronti di nessuno, e anche persone che in altri contesti non avrebbero avuto la minima possibilità reale di socialità, in quell’ambiente potevano trovare una casa. Per questo, da sempre, in ogni nostra sezione che si rispetti c’è anche «il matto». O forse, a essere sinceri, un po’ tutti avevamo le nostre stranezze. Di recente, ripensandoci, mi sono resa conto che molti di quelli che abbracciavano la militanza politica arrivavano da situazioni familiari particolari: tanti avevano genitori separati o magari vivevano in contesti con qualche problema. I ragazzi che più si dedicavano all’impegno politico cercavano dei riferimenti, una loro dimensione, volevano appartenere a qualcosa.
È ciò che avviene anche in altre aggregazioni, come la parrocchia, il volontariato, l’associazionismo. È un fenomeno comune alle realtà che hanno un obiettivo ideale alto e inevitabilmente accolgono chiunque condivida quella strada.
Sentirsi parte di qualcosa di importante dà sicurezza in se stessi. Era ciò che cercavano molti di quei ragazzi, ed è stato così anche per me. L’aver trovato un punto di riferimento mi faceva sentire utile, averlo trovato in un mondo minoritario, costretto a difendersi sempre eppure capace di giocare d’attacco, mi dava persino la presunzione di essere migliore degli altri. Perché a me non è mai piaciuto stare dove vanno tutti, seguire il pensiero dominante. Mi diverte molto di più dimostrare la ragione di chi deve per forza avere torto. Le posizioni scomode sono quelle che ho sempre trovato più confortevoli. Non ho mai pensato ad esempio che fumare le canne fosse anticonformista. Se le fumavano tutti, anticonformista era dire no. Per questo non lo facevo, ancora prima della mia scelta politica. Poi ritrovai quella stessa valutazione in uno degli slogan più felici che il Fronte della Gioventù abbia prodotto: «Erba? Roba da conigli».
In quell’estate del 1992 iniziò dunque la battaglia che ancora oggi conduco. Ora la porto avanti nelle aule del Parlamento, allora nelle strade di Roma con le prime iniziative, le prime manifestazioni, i primi volantinaggi davanti alle scuole.
Il mio battesimo del fuoco era arrivato quasi subito con la prima affissione notturna di manifesti. Le affissioni per noi erano un vero e proprio rito. Si preparavano per giorni, arrotolando i manifesti con una tecnica che consentiva di attaccarli uno dopo l’altro con estrema velocità, si studiava la densità della colla, il percorso, si formavano le squadre e si dividevano i compiti al loro interno. Bisognava essere fulminei, sincronizzati, silenziosi, per evitare di doversi giustificare troppo con la polizia o dover discutere amabilmente con i compagni. In quella dimensione mi trovai benissimo e, da quel giorno, di affissioni ne ho fatte tante. Con il tempo, poi, mi specializzai nelle locandine, decisamente più adatte alla mia stazza e alle mie mani. Mi armavo di pennellessa e rotolo e, mentre gli altri attaccavano i manifesti, io correvo di qua e di là e affiggevo le locandine nei posti più impensati. Le affissioni erano un po’ come l’immersione subacquea: la prima regola è che non devi mai perdere di vista gli altri. E noi non lo facevamo. Al punto che ovunque si fosse, se c’era un problema, tutte le squadre convergevano lì, in aiuto. Ho conosciuto così, in quelle mie prime volte, il gruppo di Fare Fronte, gli universitari, allora capitanati da Marco Scurria, detto il Noto, che ne fu il leader per diversi anni e che in seguito è diventato nostro europarlamentare.
Rispetto ai nostri coetanei che pensavano alle mode o alla discoteca o andavano a fare shopping in via del Corso, noi impiegavamo il tempo libero in un’altra maniera. La militanza politica era una dimensione totalizzante. Quando hai l’ambizione di cambiare il mondo, non c’è spazio per altro. Quando c’è un’intera nazione da salvare, lasciarti andare ai tuoi personali desideri diventa un capriccio imperdonabile.
Così, la militanza finiva per comprendere tutto: a scuola facevi politica, al pomeriggio e nel fine settimana pure. Se la sera uscivi, lo facevi con gli altri militanti e ti ritrovavi a parlare sempre della stessa cosa. Quelle idee e quei valori entravano in tutto ciò che facevi. Persino i pochi soldi che avevi finivano nell’autofinanziamento. Le sezioni giovanili non ricevevano fondi dal partito e ciascuno contribuiva con 10.000 lire alle casse della sezione per comprare la colla o per stampare i manifesti. Con il tesseramento e qualche evento incassavamo qualcosa, ma erano davvero pochi spiccioli.
Per me la militanza significava inoltre aver scelto di lavorare la sera o la domenica per riuscire a contribuire alle spese di casa senza togliere tempo all’attività politica. E così ho fatto la babysitter (anche della figlia della compagna di Fiorello, sì), la guardarobiera, l’ambulante al mercato di Porta Portese in un banco di musica, la barman (al Piper mi ero persino inventata un cocktail di nome Giorgia con cinque superalcolici mescolati: una cosa atroce). Ho avuto anche la fortuna di lavorare al Tina Pika dove si esibivano comici diventati poi famosi, come Enrico Brignano, Antonio Giuliani, i Mamma mia che impressione, li ho visti tutti agli esordi e facevano già molto ridere. Tra i tavoli del locale ho combinato anch’io le mie comiche, tipo portare la torta sbagliata al festeggiato di un compleanno o guarnire la panna cotta col ketchup invece che con la salsa ai frutti di bosco.
Ben presto cominciai a frequentare anche la sezione di Colle Oppio, la capofila, diciamo così, di quella della Garbatella. A guidarla c’era Fabio Rampelli, oggi vicepresidente della Camera per Fratelli d’Italia.
Era un luogo suggestivo, un rudere romano con una grande storia iniziata nel dopoguerra, quando diede rifugio ai profughi di Istria e Dalmazia, che lo avevano occupato. Recentemente la sezione è stata sgomberata da Virginia Raggi, del tutto insensibile al valore storico e sociale di quel presidio. A Roma abbiamo avuto tanti sindaci di sinistra e nessuno si è mai sognato di procedere in questo modo. Solo qualcuno privo di qualsivoglia cultura politica poteva fregarsene di una storia del genere. Oltretutto, dopo questa bravata del sindaco grillino, cosa ne è stato di quei locali? Sono chiusi, ovviamente, da due anni. E non potrebbe essere altrimenti perché parliamo di uno spazio inutilizzabile, una sorta di grotta senza nemmeno un bagno – e infatti ricordo ancora le camminate per usare il bagno del bar più vicino, che era a mezzo chilometro.
La sezione di Colle Oppio è stata un baluardo di cultura, di militanza politica e di legalità, in un parco che ha avuto nel corso dei decenni problemi di spaccio, criminalità e bivacchi. Noi consideravamo Colle Oppio casa nostra, ci mobilitavamo per pulire il parco tutti gli anni, eravamo una luce accesa durante la sera. Ogni anno, per il quartiere, organizzavamo un piccolo evento chiamato Festa dei Rioni. La montavamo interamente da soli, usavamo delle grafiche dipinte a mano perché non avevamo i soldi per stamparle. In programma c’erano concerti, dibattiti, presentazioni di libri e spettacoli teatrali. È stata la base sulla quale è poi nata Atreju, che infatti nelle sue prime edizioni si svolgeva proprio lì.
Di recente ho rivisto un’agghiacciante foto di me vestita da Sam Gamgee, uno degli hobbit del Signore degli Anelli di Tolkien. Del resto, del libro Sam è sempre stato il mio personaggio preferito. Non ha la regalità di Aragorn, la magia di Gandalf, la forza di Gimli o la velocità di Legolas. È solo un hobbit, nella vita fa il giardiniere. Eppure, senza di lui Frodo non avrebbe mai compiuto la missione. Sa che non saranno le sue gesta a essere cantate in futuro, ma non è per la gloria che rischia tutto. «Sono le piccole mani a cambiare il mondo» dice Tolkien.
Per noi quel libro era un mito già all’epoca, prima che il cinema lo facesse diventare un fenomeno mediatico. Con una delle nostre associazioni organizzavamo feste di carnevale per i bambini della scuola. In quell’occasione tutti i nostri militanti si erano travestiti: chi da hobbit, chi da elfo, chi da nano, e ovviamente non mancavano Sauron, Aragorn, Gollum e Gandalf.
A un nostro militante, Giuseppe, costretto a recitare la parte di Tom Bombadil, avevano comprato dei collant marrone scuro anziché la calzamaglia, per cui si vedevano benissimo le mutande. Non dimenticherò mai la sua faccia. Faceva l’architetto e cercava di guadagnarsi una credibilità lavorativa, era giustamente molto preoccupato da quella sua performance.
Eravamo almeno trenta persone e animavamo una serie di tableaux vivants che rappresentavano gli episodi del libro; i bambini andavano da uno all’altro attraversando il parco. Per fare gli hobbit, ovviamente, avevano preso me e gli altri militanti più bassini. Io, Franceschina, Andrea detto Gibba, e manco a dirlo Frodo, così somigliante al protagonista del libro, nel fisico e nei modi, che Frodo era proprio il suo soprannome.
Al Fronte, avevamo tutti un soprannome. Di alcuni ho scoperto il vero nome dopo anni, di altri non l’ho mai saputo. Era una sorta di carboneria: ci consideravamo un po’ perseguitati, a volte a ragione, sia da una certa sinistra, sia dalle autorità; per un retaggio degli anni più cruenti dello scontro politico giovanile, tendevamo a non chiamare mai le persone con il loro nome, come forma di difesa. Il mio soprannome era Calimera, ma in realtà il mio alias non ha mai attecchito.
Questa storia dei nomi in codice dava adito a dialoghi piuttosto buffi. Quando ero rappresentante degli studenti di Roma, una sera alle dieci mi chiesero di convocare una riunione per il giorno dopo. Non c’erano i cellulari, per cui i ragazzi dovevo necessariamente chiamarli a casa. Cominciai a fare un sacco di telefonate. Finché telefonai a casa di un ragazzo che chiamavamo Pinotto. Mi rispose la madre. Tono di voce già vagamente scocciato, e io – appena sentii dire «Pronto?» – mi resi conto che non avevo idea di come si chiamasse, realmente, il figlio. Quindi dissi: «Salve signora... cerco... suo figlio». E lei: «Mio figlio chi?». Io: «Quello con gli occhiali, signora».
Un militante storico che chiamiamo da sempre Nocciolino racconta spesso, ridendo, questa scena. Un giorno il padre risponde a una telefonata, poi va da lui e guardandolo dritto negli occhi gli dice: «Senti un po’. Al telefono ce sta uno, e sottolineo uno, che dice di chiamarsi Marta e cerca tale Nocciolino. Ne sai qualcosa?».
Devo dire che nella nostra grotta nei pressi della Domus Aurea ci facevamo anche delle gran risate. Ma più di tutto ci ammazzavamo in dibattiti infiniti, nei quali si spaccava il capello in quattro più o meno su tutto lo scibile umano, con grande fervore, e con qualcuno che, talvolta, assumeva pure un’aria minacciosa magari anche solo perché il dubbio era: ma l’Ultimo Samurai interpretato da Tom Cruise fa bene o fa male ad affrontare i cannoni con la katana della tradizione? Ricordo discussioni accesissime tra chi sosteneva la sua scelta tradizionalista e chi riteneva che fosse solo scemo.
Ogni settimana ci vedevamo per il «richiamo del corno», dal possente corno di Boromir del Signore degli Anelli che chiamava a raccolta la Compagnia. Era un momento in cui si condivideva, si commentava la lettura di aforismi, libri, articoli di giornale. Il nostro è un ambiente che ha sempre dedicato molte energie all’elaborazione culturale, non avevamo paura di fare domande e di cercare di dare risposte su qualunque cosa. Era ed è un ambiente estremamente appassionato di politica estera, di grandi scontri internazionali: vicende come il conflitto tra Israele e Palestina, la guerra in Iraq, in generale la situazione mediorientale o il rapporto tra Stati Uniti ed Europa ci impegnavano in discussioni che potevano diventare anche molto aspre.
Si dice che siamo antieuropeisti ma è totalmente falso; basta ascoltare le canzoni della cosiddetta musica alternativa, come Sulla strada del gruppo Compagnia dell’Anello: è una canzone sull’Europa dei popoli e delle patrie, sull’Europa come dimensione di civiltà e di solidarietà, come grande soggetto geopolitico. Avevamo fin da allora un’idea precisa di Europa che ancora difendiamo e vorremmo costruire oggi: un’unione di liberi popoli europei, fondata sull’identità, capace di condividere le grandi questioni. Un modello molto diverso da quello dell’attuale Unione Europea, un’entità indefinita in mano a oscuri burocrati che vorrebbe prescindere dalle identità nazionali, o addirittura cancellarle.
Quando cadde il Muro di Berlino, per il nostro mondo fu festa grande. Nei decenni in cui tutti avevano finto di non vedere, o persino esaltato quel modello come il PCI, la destra non aveva dimenticato i fratelli dell’Est Europa schiacciati dall’oppressione comunista. Anche qui, la musica ci è testimone. Il maestro Pier Francesco Pingitore, fondatore del Bagaglino, aveva scritto dopo l’invasione dei carri armati sovietici in Ungheria una canzone che, da noi, hanno cantato intere generazioni. Avanti ragazzi di Buda, si intitola. Quando nel 2019 il primo ministro ungherese Viktor Orbán è stato ospite ad Atreju, nel suo discorso, ha ringraziato l’Italia e ha detto: «Fu scritta da italiani la canzone più bella sulla rivoluzione ungherese del 1956, che comincia dicendo “Avanti ragazzi di Buda...”». È stato un attimo. La platea ha preso a cantare, prima piano, poi sempre più forte, in piedi. «Avanti ragazzi di Buda / avanti ragazzi di Pest / studenti, braccianti, operai / il sole non sorge più ad est...» Migliaia di persone in sala, e tutti ricordavano da dove venivano. In oltre vent’anni di Atreju, credo che quello sia stato in assoluto il momento più emozionante.
Ma la caduta del Muro non significava solo che queste nazioni avevano ritrovato la loro libertà. Era molto di più per noi. La promessa di un’Europa che, unita, poteva ambire a essere protagonista dello scenario internazionale. Perché qualsiasi fosse la corrente di pensiero alla quale si apparteneva – epici furono, nel Movimento Sociale Italiano, gli scontri tra i filoatlantisti e chi era invece molto critico con gli USA – tutti erano d’accordo su una cosa: l’Europa era un gigante della storia, e doveva riprendere il suo posto. L’Europa, come noi la immaginavamo e la immaginiamo ancora, era soggetto fondamentale per difendere le nazioni che ne fanno parte.
Insomma, si studiava, si approfondiva, ci confrontavamo tantissimo. Ancora oggi quando sento dire, generalmente con aria stupita, «La Meloni è una che studia», sorrido. Per chi è cresciuto come me, per noi, la politica è una cosa seria, profonda. Lo slogan fine a se stesso, le cose dette solo per prendere voti, semplicemente non sono politica. Puoi non sapere tutto di tutto, sarebbe impossibile, ma non puoi non sapere di cosa parli. Se non lo sai, non ne parli, altrimenti rischi di diventare uno strumento nelle mani dell’avversario.
Però non c’era solo quest’anima incline all’approfondimento, anche maniacale. C’era pure una dimensione umana che travalicava la politica. Perché, quando condividi la «Rivoluzione», condividi tutto. A partire dall’amicizia. Ancora oggi tanti degli amici veri che ho sono cresciuti con me in quell’ambiente. Viene da lì la gran parte delle persone con le quali ho condiviso la mia esistenza; viene da lì la gran parte dei dirigenti di Fratelli d’Italia; viene da lì buona parte delle persone alle quali chiedo consiglio, fuori e dentro la politica. Perché sono ancora tutti militanti politici, indipendentemente dal percorso che hanno fatto nella vita. Quando sei figlio di quella storia non è che per fare politica devi per forza essere un deputato o un consigliere. Chi è portatore di una visione può aiutare a costruire quegli ideali e a difenderne i principi in qualunque ambito operi. Tanti ex militanti sono rimasti legati, e pur facendo tutt’altro continuano a vedersi, confrontarsi, scambiarsi libri e suggerimenti.
L’organizzazione era fortemente gerarchica, ma la gerarchia si costruiva sul campo. Dipendeva da ciò che ciascuno aveva saputo dimostrare. I capi, a tutti i livelli del movimento, erano semplicemente i migliori, quelli che erano riusciti a eccellere in termini di abnegazione, preparazione, dialettica, elaborazione e coraggio. Soprattutto coraggio. L’educazione al coraggio era un aspetto importante della nostra crescita, come militanti e come individui. Una persona che è stata educata al coraggio più difficilmente potrà essere corrotta quando sarà in un ufficio pubblico o in una posizione di potere, perché si è già trovata di fronte al bivio tra la propria convenienza da una parte e i propri principi dall’altra. È difficile che chi ha conosciuto il sacrificio per i propri ideali e la propria comunità umana poi si pieghi e abbassi la testa davanti alle ingiustizie e al malaffare. Per questo ritengo che il nostro mondo abbia fatto emergere persone di altissima qualità, perché fare politica giovanile in quei contesti era svantaggioso e richiedeva una notevole dose di audacia e motivazione. Non era per opportunismo o per tornaconto che si faceva politica nel Fronte, anzi, a quei tempi l’idea che qualcuno avesse l’ambizione di fare carriera politica rappresentava un vero marchio d’infamia.
L’educazione al coraggio è qualcosa di cui i giovani, oggi, sono decisamente privati. Per come la vedo io, dovrebbe essere materia scolastica. E, se lo fosse, il libro di testo che userei per il corso è Le porte di fuoco di Steven Pressfield. Nasce come romanzo storico per raccontare la battaglia delle Termopili, quei trecento soldati spartani guidati da Leonida che nel 480 a.C. tennero in scacco per giorni il potente esercito persiano di Serse, sapendo che nessuno di loro ne sarebbe uscito vivo. Ma per me quel libro è un testo filosofico prima che storico, perché spiega esattamente cosa sia il coraggio in tutte le sue forme, da quelle più grezze come la spavalderia, a quelle più nobili come combattere per proteggere ciò che si ama.
Essere identificati, come lo ero io, quale referente della destra all’interno della scuola comportava spesso anche una certa ostilità da parte di alcuni professori.
I primi anni della mia militanza giovanile li ho spesi all’interno del movimento studentesco, ero la responsabile romana delle scuole, quindi seguivo tutta l’attività degli istituti di Roma in un momento nel quale la mobilitazione era molto frizzante. Per agire in quel contesto noi scegliemmo lo strumento prepolitico del coordinamento studentesco unitario: non un’organizzazione schierata a livello partitico o ideologico, ma una forma di associazione trasversale che consentisse di far aderire tutti al nostro messaggio critico nei confronti della riforma della scuola. Il più riuscito di questi coordinamenti fu quello degli Antenati, che nel 1994, quando la destra non era esattamente maggioritaria, portò in piazza a Roma oltre ventimila persone. Il ministro Rosa Russo Jervolino stava lavorando a una riforma (mai entrata in vigore) che noi contestavamo pesantemente. Il nome «Antenati» lo aveva inventato Federico Mollicone, oggi parlamentare di Fratelli d’Italia, da sempre il più creativo in queste cose, per dire in modo goliardico che combattevamo contro una scuola giurassica. Era appena uscito il film Jurassic Park, e come molte altre volte decidemmo di sfruttare l’onda lunga di un fenomeno pop per far arrivare il nostro messaggio più facilmente, e per non dover subire l’ostracismo che le nostre sigle avrebbero comportato. Erano tempi in cui presentarsi alle assemblee con associazioni come Fare Fronte o Azione Studentesca significava venire messi alla porta, anche con la violenza, che la sinistra considera purtroppo da sempre uno strumento legittimo da usare contro le organizzazioni di destra. Ma c’erano anche forme più subdole di ostruzionismo, come quando ti iscrivevi a parlare in un’assemblea e per impedirti di farlo non ti dicevano no, ma ti facevano scalare nell’ordine fin quando l’assemblea finiva e non c’era più nessuno ad ascoltarti. Diciamo che a un certo punto ho capito che il diritto di parola me lo sarei dovuto «guadagnare». Ricordo un fantastico articolo dell’«Unità» del tempo, il cui incipit era: «Giorgia Meloni, responsabile di Azione Studentesca, c’è sempre alle assemblee. Anche stavolta è salita sui banchi che fungevano da palchetto e ha strappato il microfono...».
Dover imparare a cavarmela in quel contesto è stata una palestra straordinaria, per me. Me ne sono resa conto quando, a ventinove anni e senza mai aver fatto il semplice deputato, sono diventata vicepresidente della Camera dei Deputati e mi sono ritrovata a dover affrontare l’aula di Montecitorio. Molti erano convinti che avrebbero potuto mettermi sotto per via della mia inesperienza, ma, quando sei sopravvissuto alle assemblee studentesche, le assise nelle quali ci sono delle regole da rispettare sono più facili da affrontare. In generale credo che l’impegno politico studentesco sia uno strumento di formazione straordinario per chiunque voglia affermarsi nella vita, non solo nella politica. Bisogna avere coraggio, capacità persuasiva e dialettica, non c’è spazio per timidezze e tentennamenti.
In quegli anni ritengo di essere stata tra i più grandi esperti di riforme della scuola, perché ero costretta a studiare in modo approfondito i progetti di riforma per poter dire la mia in modo credibile.
Dalla seconda alla quinta superiore ho occupato o autogestito la scuola ogni anno, rimanendo a dormire nel sacco a pelo, non certo con l’intento di bivaccare o di rimorchiare, per dirla così, ma sempre prendendo la cosa in modo maledettamente serio. Gran parte del tempo lo dedicavo a organizzare dibattiti e riunioni, però dopotutto ero una ragazzina come le altre, e anche a me capitava, durante le occupazioni, di fermarmi a cantare con gli altri quando qualcuno tirava fuori la chitarra. Mi sono innamorata così dei Nomadi di Augusto Daolio. I versi della canzone Il paese delle favole hanno scandito diverse serate durante quelle occupazioni, e ancora oggi li considero uno dei più straordinari inni alla ribellione giovanile mai scritti: «Don Chisciotte non è contento ma lavora in un mulino a vento / Ali Babà e i quaranta ladroni hanno già vinto le elezioni / Hänsel e Gretel hanno fondato una fabbrica di cioccolato / e Alice nelle bottiglie cerca le sue meraviglie. / [...] E voi intellettuali non avete mai discusso / di come torna l’onda alla fine del riflusso».
Ovviamente questo ruolo di agitatore mi regalava ogni anno voti bassini in condotta, il che mi costringeva a essere inattaccabile studiando per avere una media alta, altrimenti mi avrebbero schiacciato come un granchio. Ero rappresentante di classe e d’istituto, quindi rompevo le scatole in tutte le sedi. Ero una specie di «avvocato delle cause perse» degli studenti, e andavo già in televisione come esponente del movimento studentesco (quando ho rivisto i video di quelle partecipazioni ho pensato che ero sinistramente uguale all’hippie di Carlo Verdone in Un sacco bello). Quando arrivò il mio esame di maturità, la professoressa designata come membro interno della nostra classe, che non mi aveva esattamente in simpatia, pensò che fosse l’occasione per farmela pagare. Allora si portavano due materie all’orale, una scelta dallo studente e l’altra dalla commissione, ma spesso i professori lasciavano che fosse lo studente a suggerirle entrambe. Io avevo deciso di portare all’orale italiano e francese, perché ero affascinata dai poeti decadenti. Non andò così. Il giorno prima dell’esame mi cambiarono italiano con tedesco. Il tedesco! Credo che nessun altro, quell’anno, fece l’orale in tedesco! A volte mi domando se derivi da lì una mia certa avversione per la Germania... Ricordo ancora che mi chiesero Der Tod in Venedig, La morte a Venezia di Thomas Mann... Non so come me la cavai, ma superato lo scoglio del tedesco si presentò la discussione sullo scritto di italiano. Avevo pensato bene di fare il tema sull’immigrazione e ovviamente l’orale si trasformò in una sorta di processo politico. Dopo mezz’ora di discussione a un certo punto sbottai: «Scusate, vi devo segnalare che voi qui state facendo un processo alle mie idee e questo non è consentito, siete qui per valutare la mia preparazione, non le mie idee». Il membro interno ridacchiando mi sfidò: «Perché altrimenti?». E io, ormai animata da intenzioni bellicose, risposi: «Perché altrimenti io faccio ricorso al TAR».
La commissione visibilmente si irrigidì. Si inserì allora la professoressa di inglese cercando di placare gli animi. Alla fine, nonostante le rimostranze del membro interno, ottenni il voto finale di 60/60, che a quel punto mi ero meritata.
Quegli anni sono stati importanti per me ma anche per tutto il nostro mondo. Arrivano da lì molte delle battaglie che sono poi diventate patrimonio comune, anche oltre i confini della destra. Ci battevamo, ad esempio, contro l’indicazione da parte del docente di un preciso testo scolastico nelle scuole superiori, ritenendo che l’insegnante dovesse limitarsi a indicare i temi del programma per poi lasciare agli studenti la libertà di scegliere il libro, sia per ragioni economiche sia per evitare che i testi scolastici si trasformassero in dispense di indottrinamento politico. L’anno in cui hanno inserito la storia del Novecento fino alla contemporaneità nel programma delle quinte, passammo l’estate a spulciare tutti i testi per individuare le frasi surreali e faziose contenute nei principali libri adottati e le raccogliemmo in un opuscolo che andò a ruba in tutta Italia. Buona parte di questo lavoro si concentrò sul dramma delle foibe, la tragica vicenda di migliaia di italiani uccisi dai partigiani jugoslavi di Tito in ossequio a un disegno di pulizia etnica alla fine della Seconda guerra mondiale, e dell’esodo giuliano-dalmata che seguì quella persecuzione, con centinaia di migliaia di nostri connazionali costretti a lasciare tutto ciò che avevano solo per poter continuare a essere italiani e non finire sotto il giogo comunista. Per decenni l’Italia ha fatto finta di non vedere quei martiri perché non si poteva, non si doveva dire che i partigiani titini erano degli assassini, ma noi non abbiamo mai smesso di lavorare perché quella vicenda fosse conosciuta da tutti. Non ho mai sopportato chi usa la storia per fare politica, chi rinfaccia tragedie avvenute decenni, o addirittura secoli prima, in modo strumentale e interessato. Ma senza la consapevolezza dei propri trascorsi non è possibile guardare avanti e cercare un terreno di memoria condiviso. Una nazione che dimentica i suoi morti per un interesse di parte non può definirsi tale.
La vicenda del nostro confine orientale, al tempo, sui testi scolastici semplicemente non esisteva. Una pagina strappata. E quasi era meglio che non se ne parlasse, perché quando accadeva lo si faceva in modo vergognoso. Ricordo ancora Elementi di storia – XX secolo di Augusto Camera e Renato Fabietti, uno dei testi più diffusi. Trattava le foibe in una scheda di approfondimento, all’interno della quale c’era una foto della targa che oggi campeggia sulla foiba di Basovizza, una delle due rimaste in territorio italiano. Sotto la foto, una didascalia scandalosa: «[...] Dopo la Prima guerra mondiale fu usata come discarica, anche di materiale bellico, ed ebbe una sua triste fama come meta di suicidi. È stata dichiarata come monumento nazionale nel 1992».
L’opuscolo scatenò un grande dibattito e costrinse i docenti a essere più attenti nella scelta, ma anche gli storiografi militanti di partito a contenere la loro faziosità nella stesura. Fu una grande vittoria politica. A destare scalpore fu anche l’azione dimostrativa che accompagnò quella campagna: entrammo in una libreria e timbrammo le pagine dei libri di testo più faziosi con la dicitura «Falso d’autore, non comprarlo». Poi, non volendo nuocere al libraio, chiedemmo ai pochi deputati di Alleanza Nazionale di allora di acquistare tutte le copie timbrate. Qualcuno ancora racconta che avevamo dato fuoco a quei libri, ma è falso. Li comprammo dal primo all’ultimo. Non mi stupisce questa mistificazione, da sempre il nostro mondo è distante anni luce dal racconto che se ne fa.
In pochi sanno, ad esempio, che la destra giovanile è sempre stata fortemente ecologista, e che nasce a destra una storica associazione ambientalista come Fare Verde. L’ha fondata Paolo Colli, detto Poldo per la sua somiglianza con l’amico mangiapanini di Braccio di Ferro, un visionario capace di ogni genere di impresa, dalla lotta senza quartiere al cotton fioc non biodegradabile, grande responsabile dell’inquinamento dei mari, fino alla cooperazione internazionale allo sviluppo in Africa o nei Balcani. Paolo è morto nel 2005, ucciso da una leucemia fulminante, secondo molti causata dall’esposizione all’uranio impoverito durante le sue iniziative in favore dei rifugiati in Kosovo. D’inverno ci portava a pulire le spiagge quando erano chiuse, d’estate in tenda, nei boschi, a spegnere incendi dolosi.
Ci manca, Paolo. Ci manca la sua saggezza, la sua follia, la sua capacità di far saltare tutti gli schemi, perché lui gli schemi proprio non li sopportava.
La nostra è stata una comunità piena di visionari, di persone che non ci stavano a guardarsi indietro, a essere relegate nel ruolo di nostalgici da operetta confezionato da altri. Per noi la politica non è mai stata pura testimonianza di un’idea, non lo è stata neanche quando il nostro partito di riferimento era ai margini. Per noi fare politica ha sempre significato costruirle, quelle idee, trasformarle in mattoni che potessero cambiare la vita delle persone. Lo testimoniano le sigle dei nostri movimenti giovanili, da «Fare» Fronte ad «Azione» Giovani. Così come il fatto che oggi ci sia qualcuno che chiama il suo partito «Azione» e copia la campagna adesioni che noi facemmo venticinque anni fa dimostra quanto fossimo avanguardia.
Lo racconta bene la vicenda di Paolo Di Nella, l’ultimo dei ragazzi del Fronte della Gioventù uccisi nella scia degli anni Settanta. Nel 1983 venne infatti assalito a colpi di spranga mentre era per strada ad attaccare manifesti, in compagnia di un’altra militante, Daniela. Non avrebbe dovuto andare in affissione così, non avrebbe dovuto trovarsi in quel quartiere romano poco «sicuro» per noi. Ma Paolo teneva troppo alla sua campagna per l’esproprio di Villa Chigi, abbandonata al degrado. Chiedeva che venisse utilizzata per servizi al quartiere, come luogo di comunità. Voleva che lì nascesse una comunità giovanile, uno spazio di aggregazione gestito dai ragazzi della zona. La nostra sfida era combattere l’isolamento dando risposte puntuali ai problemi quotidiani delle persone. E non è un caso che già allora le sezioni proliferassero nelle periferie più degradate della capitale.
Così, testardo, Paolo Di Nella era uscito ad attaccare i suoi manifesti. Lo avevano visto, lo avevano colpito, erano scappati. Paolo si era rialzato, aveva sciacquato la testa alla fontanella, aveva minimizzato con Daniela e si era fatto riaccompagnare a casa. Poi la notte il malore, e il ricovero. In poche ore Paolo era in coma. Furono sette giorni di agonia al Policlinico Umberto I, sette giorni in cui la sua comunità lo vegliò, senza sosta. Non fu sufficiente. Paolo morì il 9 febbraio, a poche ore dal suo ventesimo compleanno.
Ma in quella settimana di agonia accadde una cosa inaspettata: l’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini, il presidente partigiano, andò in ospedale a trovare Paolo. Fu un fatto storico, per la nostra comunità e non solo.
Negli anni di piombo erano stati molti, troppi, i nostri militanti uccisi per il semplice fatto di trovarsi in una sezione del Movimento Sociale, come ad Acca Larentia, o per aver scritto un tema contro le Brigate Rosse, come Sergio Ramelli a Milano. Morivano senza una ragione, senza una colpa, e venivano sistematicamente ignorati. E, le poche volte che se ne parlava, era per giustificare i loro assassini, secondo il principio – scritto sui muri, e non solo – per cui «uccidere un fascista non è reato». Lo dico perché è un pezzo rilevante della nostra storia, ma anche perché mi accorgo che quello della violenza giustificata se rivolta contro un «nemico impresentabile» è un concetto che si sta riaffacciando pericolosamente in questi anni e che viene alimentato in maniera irresponsabile da diversi politici e sedicenti intellettuali.
Il segnale che il presidente Pertini volle dare, allora, con quella visita era invece diametralmente opposto. Non era più accettabile che giovani vite fossero spezzate così, non era accettabile la violenza, e non lo era il silenzio vigliacco di un’Italia che per anni si era girata dall’altra parte.
Quello che cambiò davvero tutto, però, furono le elezioni amministrative di Roma del 1993. Io ero arrivata da poco, e forse al tempo non compresi come altri la portata del cambiamento che era in atto. Il ballottaggio per la carica di sindaco della capitale tra Gianfranco Fini e Francesco Rutelli diceva che l’argine era rotto. Era arrivato il momento in cui, finalmente, si poteva competere per vincere, governare, diventare la guida del nostro popolo. Le idee, ora, potevano trasformarsi in azione.
E sarà che non ci eravamo mai rassegnati a stare a guardare, ma di fatto fummo pronti. Sapevamo che dovevamo allargare i confini, che era necessario adeguare gli strumenti a quella nuova fase tanto attesa. Perché i partiti, che per molti diventano il fine dell’impegno politico, per noi sono sempre stati solo un mezzo. Il fine rimangono le idee.
Per noi la svolta di Fiuggi, il passaggio da MSI ad AN, fu assolutamente naturale. Per intenderci, tanti di noi hanno sofferto molto di più, anni dopo, il passaggio da Alleanza Nazionale a Popolo della Libertà. Fiuggi era un modo per rendere più appetibili le nostre istanze, la confluenza nel PDL rischiava di essere, e in parte fu, un modo per annacquarle, e indebolire quel patrimonio.
Al movimento giovanile, in particolare romano, che non aveva mai vissuto di nostalgia e aveva sempre ragionato da avanguardia anche rispetto al Movimento Sociale Italiano, fu immediatamente chiaro che Alleanza Nazionale fosse in quella fase storica più adatta all’obiettivo di far vincere le nostre idee, di fare ciò che per anni avevamo immaginato nel sottoscala di qualche sezione. Eravamo, peraltro, sempre stati immuni da un certo «torcicollismo», a quel folklore nostalgico che faceva gioco ai nostri avversari. L’avevamo, anzi, combattuto, perché sapevamo che con la nostalgia non avremmo mai costruito nulla. Se vuoi fare politica davvero, devi porti il problema del consenso. Devi essere compreso dall’uomo della strada, estraneo ai contorcimenti ideologici ma in cerca di una guida. Se le tue idee non convincono nessuno, se rimangono relegate a pochi eletti, non le stai difendendo. Le difendi quando sono condivise, e la sfida più difficile e più entusiasmante, oggi come ieri, è riuscire a convincere più persone possibile senza diventare qualcosa di diverso da quello che sei.
Un anno dopo la fondazione di Alleanza Nazionale, anche il Fronte della Gioventù seguì quell’evoluzione: finì la gloriosa storia del Fronte e iniziò quella di Azione Giovani. Il cambio di nome era stato, in realtà, anticipato ancora una volta da Roma, dove gli universitari, qualche tempo prima, erano passati dalla solenne sigla «Fare Fronte per il contropotere studentesco» a una più sobria «Azione Universitaria». Anche qui, il movimento si adeguava cercando di aprirsi. I valori rimanevano immutati, ma gli strumenti, le proposte, le battaglie attraverso i quali quei valori si difendevano e si costruivano dovevano essere adeguati a una società che cambiava.
Ogni generazione ha la responsabilità di realizzare il suo pezzo di strada in questo cammino. Chi pensa di fare politica scimmiottando quello che altri ragazzi hanno fatto venti, trent’anni prima non andrà mai da nessuna parte. Noi volevamo dimostrare quello che poteva fare la nostra generazione.
Fino ad allora avevamo fatto blocco per sopravvivere, ci eravamo difesi. Ora era arrivato il momento di passare all’attacco, di passare all’azione. La trasformazione dal Fronte ad Azione Giovani era esattamente questo. Si apriva una nuova epoca storica.
Abbiamo fatto tantissimo, da allora, e tutto è cambiato. In meglio? In peggio? Non lo so. So, però, che quegli anni sono stati, in assoluto, la parte più bella di tutto il mio impegno politico.
SONO UNA DONNA
Il sesso forte
Ma ho scoperto con il tempo
E diventando un po’ più dura
Che se l’uomo in gruppo è più cattivo
Quando è solo ha più paura.
Mia Martini, Gli uomini non cambiano
Sono una donna, ma confesso che in tutta la mia storia politica non mi sono mai sentita davvero discriminata.
Intendiamoci: ho certamente dovuto affrontare anche io atteggiamenti di diffidenza, e mi è capitato spesso di sentire addosso sguardi che dicevano: «Adesso vediamo un po’ questa come se la cava». Al fatto di essere donna, peraltro, si aggiungevano anche la giovane età e l’aver scelto di fare politica a destra, dove – secondo un odioso e falso pregiudizio radical chic – sono tutti inadeguati quando non impresentabili. Ma, ripensandoci, superare le aspettative di chi avevo di fronte è stato meno difficile del previsto.
Alla fine, tra il serio e il faceto, ho fatto mia la massima che fu di Charlotte Whitton, sindaco di Ottawa negli anni Cinquanta: «Le donne devono fare qualunque cosa due volte meglio degli uomini per essere giudicate brave la metà. Per fortuna non è difficile».
Sarà perché da noi la meritocrazia ha sempre avuto il suo peso. Chi deve guadagnarsi con il sudore ogni singolo centimetro di spazio vitale non può permettersi di selezionare le persone in base al cognome che portano, al conto in banca che hanno, agli studi che si sono potute permettere. Dalle parti nostre davvero «uno vale uno», non nel senso grillino dell’«uno vale l’altro, tanto non ci capisce niente nessuno», ma nel senso che tutti vengono messi sulla stessa griglia di partenza, senza favoritismi o preclusioni, e dove arrivi dipende da quello che sai dimostrare.
Non escludo che qualcuno in questi anni possa essersi detto, in cuor suo: «Ma dove andiamo con una donna al comando?», ma se anche fosse accaduto nessuno lo ha dato a vedere. Il fatto di essere una donna non ha impedito a nessuna di noi, a destra, di raggiungere ruoli di assoluto rilievo. E, a ben vedere, è proprio la destra in Italia ad aver fatto emergere il maggior numero di donne in ruoli di vertice. Io stessa prima di diventare presidente di Fratelli d’Italia ero stata eletta alla guida del movimento giovanile di Alleanza Nazionale nell’unico vero congresso che in quel partito si sia mai celebrato. E il punto è proprio questo: sono stata eletta. A sinistra parlano tanto di parità delle donne, ma in fondo pensano che la presenza femminile debba comunque essere una concessione maschile. Lo ha spiegato bene Matteo Renzi quando, lanciando il suo nuovo partito, Italia Viva (quando si dice l’ottimismo...), ha detto che sarebbe stato «il partito più femminista della storia italiana» perché lui aveva scelto di metterne alla guida Teresa Bellanova e come capogruppo alla Camera Maria Elena Boschi. Da noi le cose non funzionano così. Che tu sia donna o uomo, dove sei ci devi arrivare per capacità e non per cooptazione. E se le donne arrivano, quando arrivano, non è per concessione di un uomo.
Detto ciò, ho avuto i miei momenti complicati. Occasioni nelle quali anche io ho dovuto combattere contro ridicoli stereotipi. Su tutti, quando ho dichiarato che ero incinta di Ginevra. Quella volta, per la prima volta, ho pensato che davvero qualcuno poteva considerarmi inadeguata a ricoprire un incarico importante, per via del pancione. Erano i giorni in cui il centrodestra cercava un candidato sindaco per la capitale, guidata in quel momento da un commissario straordinario dopo le tristi vicende di Ignazio Marino, il sindaco chirurgo che il Partito Democratico aveva prima fortemente voluto al Campidoglio e poi, con feroce cinismo, abbandonato al suo destino giudiziario. Era l’inizio del 2016, avevo scoperto da due settimane che Andrea e io aspettavamo un bambino, e il pomeriggio del 30 gennaio partecipavo al Family Day di Roma, al Circo Massimo. Una manifestazione oceanica e molto sentita.
In un miscuglio di felicità ed euforia, e anche coccolata dal calore dei manifestanti, senza pensarci troppo, d’istinto, racconto la mia novità a una giornalista che mi sta intervistando. Lei mi guarda incredula, perché è chiaro che le sto regalando un piccolo scoop, e mi dice: «Davvero?». «Sì» le rispondo, «se Dio vorrà, la prossima volta sarò qui anche in veste di madre.»
Passano poche ore, il tempo che la notizia si diffonda, e subito si scatena una tremenda sarabanda di polemiche e volgari sarcasmi, tutto come al solito amplificato dal micidiale frullatore del web, dei social network, da dove arrivano anche insulti feroci. Io sono abituata a essere insultata, talmente tanto che a un certo punto sono diventata immune dalla cattiveria, ma quella volta no. Leggere che qualcuno mi augurava di abortire fece male, e parecchio. Non per me, che non ho mai avuto paura di quattro vigliacchi da tastiera, ma per quella vita indifesa che avevo in grembo e che, inconsapevolmente, avevo esposto a quella cattiveria. Era come se avessi fallito la mia prima missione di mamma. Ho un ricordo netto di attrici comiche con presenza fissa in RAI e habitué dei salotti televisivi che non si fecero sfuggire la ghiotta occasione per fare battute vecchie e banali, comunque contundenti: per quei fulgidi pensatori progressisti, per quelle donne moderne e liberal non avevo il diritto di annunciare che sarei diventata madre a una manifestazione in difesa della famiglia solo ed esclusivamente perché non ero sposata. Ho sentito dire molto spesso questa stupidaggine. Se non sei sposato non puoi difendere la famiglia naturale fondata sul matrimonio. Un po’ come dire che se sei giovane non puoi avere a cuore il problema degli anziani, o che se sei umano non puoi occuparti del benessere degli animali. Devo però dire che in quell’occasione ci furono anche diversi esponenti politici che mi espressero la loro solidarietà. Ricordo in particolare Roberta Pinotti, allora ministro della Difesa per il PD, che mi mandò un paio di scarpette da neonato con un bel messaggio il cui senso, in sostanza, era il «non ragioniam di lor, ma guarda e passa» di dantesca memoria.
La polemica però non si placò. Fin quando Guido Bertolaso, già capo della Protezione civile e candidato sindaco in pectore del centrodestra, disse in televisione ciò che molti altri pensavano ma non avevano avuto l’ingenuità di dichiarare apertamente: «La Meloni deve fare la mamma». Col senno di poi sono convinta che l’intento di Guido fosse paternalistico, e l’espressione sia solo uscita molto male, ma al tempo mi fece proprio arrabbiare.
Io stessa, pochi giorni dopo il Family Day – consapevole che una gravidanza alla mia età potesse presentare delle incognite –, avevo dichiarato di non volermi candidare al Campidoglio, e mi ero tirata fuori dal toto-nomi che sempre precede la designazione di un candidato. Poi però quell’assurdo invito di Bertolaso a restare a casa con il biberon davanti al seggiolone, e anche gli eventi un po’ confusi tra primarie e «gazebarie», mi fecero cambiare idea. Inconsapevolmente, Bertolaso era stato un grande motivatore. E non è stata l’ultima volta in cui abbia deciso di fare qualcosa semplicemente perché mi era stato detto che non potevo farlo.
Io non ho mai pensato che una donna debba fare politica per le donne, perché fai politica per tutti, per il bene comune. Però per quella candidatura in particolare devo ammettere che la motivazione «discriminazione femminile» fu la molla fondamentale. Se dicevano a me, una privilegiata, che dovevo farmi da parte perché aspettavo un bambino, che cosa avrebbero potuto fare a una giovane donna precaria in un call center, al momento della gravidanza? La candidatura a sindaco diventò così anche una battaglia fatta in nome delle donne, della loro libertà a non essere discriminate proprio quando diventano mamme. Volevo dimostrare che i figli non sono un limite, ma aiutano a superare i propri limiti; i figli danno una forza straordinaria. E non c’era luogo migliore in cui farlo della città che ha come simbolo una lupa che allatta due gemelli.
Naturalmente ci sono gravidanze difficili che vanno salvaguardate e tutelate, e ogni donna deve poter decidere liberamente come vivere la maternità. Ma, come sostenni allora, «nessun uomo può dire a una donna cosa deve o non deve fare».
Non volevo che la mia decisione venisse letta come un’imposizione, volevo e voglio che venga letta come una libera scelta. Voglio che in una società in cui i figli sono sempre di meno, la maternità sia considerata un valore da custodire e proteggere, non un problema o un limite.
Nei mesi della campagna elettorale, per mia fortuna, fui sostenuta da una magnifica forma fisica: visitai tutti i quartieri della città tra un’ecografia e l’altra, con la mia circonferenza che aumentava di settimana in settimana. E mi piacerebbe poter dire che ad aumentare era solo il pancione, ma tra un pasticcino offerto al bar e una cena elettorale non andò così. Sette chili in un mese, fu il risultato di quell’impresa. E, come molte mamme, a recuperare ci ho messo anni. Anche questo è stato oggetto di derisione. Ricordo Asia Argento che mi fece una foto al ristorante e la pubblicò scrivendo, chissà perché in inglese: «Back fat of the rich and shameless fascist spotted grazing» (La schiena lardosa della ricca e svergognata fascista ritratta al pascolo). C’è da presumere che al ristorante non avesse solo mangiato, Asia. In ogni caso non le avrei risposto se, con me, non avesse insultato tutte le donne che combattono con la linea dopo la gravidanza. Pubblicai il suo post con la mia risposta: «Pubblico questo commento di Asia Argento a una foto che mi ha fatto di nascosto (temeraria), perché, al di là dei soliti insulti triti e ritriti che non mi interessano, mi ha molto colpito che abbia parlato della mia “schiena lardosa”. Lo pubblico per dire a tutte le donne che hanno partorito da pochi mesi e che per dimagrire non usano la cocaina di non prendersela se qualche poveretta fa dell’ironia sulla loro forma fisica. Valeva la pena mille volte di prendere qualche chilo».
Tornando alla campagna elettorale, ho scoperto in quel periodo quartieri dei quali, persino io che mi vanto della mia romanità, non avevo mai sentito il nome. Però mi restano un mucchio di ricordi straordinari: a Tor Sapienza, per dire, una giovane mamma licenziata da pochi giorni mi regalò una copertina per Ginevra, un gesto semplice e forte al tempo stesso; e poi non dimentico certo le migliaia di lettere e di messaggi che ricevetti sul cellulare da altre donne, tutte lì a incoraggiarmi, a dirmi che dovevo farcela un po’ anche per loro.
Probabilmente per alcuni romani davvero non meritavo di vincere ed essere eletta sindaco a causa della mia condizione, eppure mai, mai mi sono pentita di essere scesa in campo portando Ginevra in grembo. Alla fine persi da candidata, ma vinsi da donna, da mamma. E mi piace pensare che il mio fu un segnale recepito: ricordo l’affetto sincero di Laura Boldrini, con la quale lo scontro politico è sempre stato totale, mentre mi accarezza la pancia dicendo che considera la scelta della candidatura molto importante sul piano simbolico.
Però davvero non ho mai capito la ragione per cui in Italia ci sia stata, e in qualche misura ancora ci sia, una resistenza più marcata che altrove ad affidare alle donne incarichi di massima responsabilità. Perché affidare alle donne il destino di un’impresa, di una banca, di una città, di una nazione, qui, appare talvolta rischioso, esotico o addirittura rivoluzionario? In fondo alle donne riconosciamo la capacità di amministrare, di gestire la famiglia e i figli, le donne sono centrali nella struttura della nostra società. Perché quelle stesse qualità che evidentemente vengono riconosciute all’interno del nucleo familiare – serietà, sensibilità, responsabilità, pragmatismo – non dovrebbero funzionare anche al di fuori? In Italia è spesso utilizzata la formula del «buon padre di famiglia», quando ad amministrare il focolare domestico sono invece le «buone madri di famiglia».
Ecco, io sono convinta che una maggiore presenza femminile qualificata nei luoghi decisionali contribuirebbe a risollevare il livello morale e l’efficacia produttiva della nostra classe dirigente, a volte flaccida, indolente, propensa a calpestare ogni forma di etica del lavoro. Ma per maggiore presenza non intendo un mero fatto di numeri. Capiamoci: io aborro le quote rosa. Le pari opportunità vanno costruite nel punto di partenza; se pensi di risolvere il problema con quote numeriche nel punto di arrivo, un semplice calcolo che prescinde dal valore delle singole persone, ottieni solo un livellamento verso il basso. Da capo di un partito (se devo scegliere io, perché da una vita mi batto contro le liste bloccate e per il ritorno delle preferenze) voglio poter scegliere le persone migliori indipendentemente dal genere. Ma non ditelo a certe sedicenti femministe, vi risponderanno: «Be’? È pieno di uomini mediocri, perché le donne devono essere tutte perfette?». Se ci sono uomini mediocri alla guida della nazione bisogna liberarsene, non mettere loro a fianco donne mediocri. Dunque il problema non è quante siano le donne al comando, ma quale sia il grado di comando.
Le donne capaci devono essere messe in condizione di competere ad armi pari, senza spinte e senza pregiudizi. Quando questo accadrà, allora capiremo il valore aggiunto che molte donne possono portare. Come la concretezza, figlia di una società nella quale le donne sono solitamente abituate a dover fare in una giornata il doppio delle cose che deve fare un uomo, e non hanno tempo da perdere.
Io, da quando c’è mia figlia, soffro tremendamente quei contesti nei quali si parla per ore e ore, a volte più per ascoltare se stessi che per risolvere un problema, e alla fine non si conclude mai niente. Penso spesso che non posso permettermi di stare lì, che ogni minuto è prezioso, e a volte di fronte a quegli sterili esercizi dialettici perdo la calma. «Rivendica il tuo diritto su te stesso e il tempo che fino ad oggi ti veniva portato via o carpito o andava perduto. Raccoglilo e fanne tesoro. [...] Niente ci appartiene, Lucilio, solo il tempo è nostro.» Non so quante volte mi è venuta voglia di interrompere tutti per leggere ad alta voce queste parole che Seneca ha affidato a Lucilio, il suo allievo. «Fatene tesoro» ho pensato spesso osservandoli. Sono parole di pietra: «Nessuno pensa di dover niente per il tempo che ha ricevuto, quando è proprio l’unica cosa che neppure una persona riconoscente può restituire». Che dire, non è cambiato granché dai tempi di Roma a oggi: per lo meno quando si parla fra «uomini».
Già, le donne sono più concrete, ma – lasciatemelo dire – anche più orgogliose e più restie a cedere alla corruzione, a tradire. Esistono diversi studi al riguardo, le spiegazioni sono differenti e non univoche, ma il dato di fatto è che, a parità di presenza, le donne sono statisticamente meno coinvolte in episodi di corruzione. Quando credono davvero in qualcosa è più difficile piegarle. E anche questo, nell’Italia di oggi, sarebbe parecchio utile. Una ragione in più per dire agli italiani che non devono avere paura di scommettere anche sulle donne.
Per quanto mi riguarda, ebbi la fiducia degli elettori, per la prima volta, poco più di vent’anni fa.
Avevo appena compiuto ventun anni quando fui candidata al consiglio provinciale di Roma nel collegio della Garbatella. Era un collegio plurinominale, il che significa che ogni partito aveva un solo candidato in ogni territorio. Si trattava di uno dei collegi più rossi della capitale, e Fabio Rampelli, il primo a puntare su di me, volle candidarmi perché immaginò che solo rompendo gli schemi con un «outsider» e una campagna elettorale irriverente si potesse tentare la corsa disperata. Il concetto era più o meno questo: presentiamo la Meloni, che ha un volto nuovo, e le facciamo fare una campagna elettorale di rottura. Perso per perso, tanto vale giocarsi il tutto per tutto.
Cosciente della situazione, le mie speranze di riuscire nell’impresa di essere eletta erano scarsissime, ma se torno con la memoria a quei giorni, a quelle ore, devo riconoscere che fummo estremamente determinati fin dall’inizio. Come sempre, anche nelle sfide impossibili, noi competiamo per vincere. Se ripenso alle smorfie che mi fecero fare sui manifesti, lo ammetto, mi vergogno ancora. Però ogni giorno ci inventavamo un’iniziativa, qualcosa che destasse l’attenzione di quei quartieri, e tra un’idea geniale e una strampalata, con tutta la mia comunità a lavorare senza sosta, alla fine la tornata elettorale si rivelò felicissima e fui inaspettatamente eletta.
Il centrodestra conquistò la Provincia per la prima volta: e lo fece con un presidente di Alleanza Nazionale, Silvano Moffa. Quello di AN fu un risultato storico, il partito ottenne diciotto consiglieri e tra loro – piazzandomi diciassettesima – c’ero anche io: maggiorenne da appena tre anni. È iniziata lì anche una delle mie amicizie più solide, di quelle che ti ritrovi accanto per una vita intera, e che vanno dal campo di battaglia alle vacanze estive. Con Francesco Lollobrigida, Lollo, oggi presidente dei deputati di Fratelli d’Italia. Carattere difficile, intelligenza veloce, lealtà. All’inizio ci detestavamo, oggi siamo come fratelli. Anche quando litighiamo, e lo facciamo spesso. Non mi sono mai piaciuti gli yes men, gli adulatori, chi ti dice una cosa in faccia, poi volta l’angolo e con gli altri fa l’esatto contrario. Penso che l’intelligenza delle persone, specie nei ruoli di comando, si veda soprattutto da coloro di cui si circondano. Io ho sempre preferito circondarmi di persone che dicessero la verità, anche quando fa male. Come Lollo. Sono quelle le persone che ti vogliono bene davvero. Quelle che ti fanno sentire al sicuro se le vedi al tuo fianco quando infuria la battaglia.
Devo ammettere che, poiché il mio spirito rivoluzionario ardeva, i problemi della Provincia mi sembrarono spesso un po’ polverosi, diciamo pure noiosi. Si affrontavano questioni importanti ma molto pratiche, dalla manutenzione delle strade alla gestione dei rifiuti. Certo, la mia sensibilità, da leader degli studenti, mi rendeva attenta al tema dell’edilizia scolastica, che consideravo, e ancora considero, una questione centrale per chiunque voglia migliorare il livello dell’istruzione in Italia. Dalle strutture fatiscenti dipende una parte non irrilevante del malfunzionamento del nostro sistema. Ecco, noi volevamo che la scuola diventasse uno spazio di aggregazione vero e proprio, come accade nelle altre grandi democrazie occidentali, dove gli istituti sono dotati di palestre, laboratori, sale lettura, mense. Luoghi che i ragazzi frequentano dalla mattina alla sera, oltre l’orario delle lezioni, per fare anche sport e molte altre attività.
Io stessa, per cinque anni, alle superiori, ho frequentato una scuola che non aveva la palestra. La nostra sede, come molti altri stabili, non era nata per ospitare una scuola. Così, al massimo, avevamo una misera rete da pallavolo appesa nel cortile.
Insomma, della scuola italiana conosco tutti i limiti per averli sperimentati da vicino. Verificare, toccare, immergermi nelle situazioni: è anche un mio metodo di lavoro. Perché per risolvere un problema devi prima entrarci dentro, comprenderlo davvero.
Iniziai a lavorare in Provincia nel gennaio del 1999, e per i successivi quattro anni feci la spola tra i diversi comuni per cercare di dare risposte alle varie difficoltà in cui si dibattevano le amministrazioni. Essendo nel gruppo di maggioranza, avevo libertà di azione e potere di intervento, e mi è capitato di essere felice quando riuscivo a risolvere problemi antichi e concreti. Tuttavia, quando tornavo al mio posto in consiglio, non rinunciavo a parlare di cose che con le questioni di cui si occupava tutti i giorni la Provincia avevano, obiettivamente, poco a che fare.
Fu così che finii in una tenda in mezzo al deserto, avvolta in una coperta di lana, cercando di non pensare alla sabbia che avevo ovunque e al bagno che, a un certo punto, avrei dovuto usare: una baracca di mattoni e fango con un buco, sul fondo, pullulante di enormi scarafaggi.
Ero lì, nel Sud dell’Algeria, non lontano dal Sahara Occidentale rivendicato dal Marocco nel 1975 con la celebre «marcia verde», dove il popolo Saharawi resisteva e resiste cercando di proteggere la propria cultura, le tradizioni antichissime, la sua dignità.
La storia di quel popolo è assolutamente emblematica per comprendere le logiche di una certa politica internazionale: dopo aver combattuto per sedici estenuanti anni, ecco che finalmente nel 1991 vedono arrivare l’ONU, con la sua bella missione di pace, i fuoristrada bianchi con le bandierine azzurre e i funzionari che scendono con l’obiettivo di far celebrare, al più presto, un referendum di autodeterminazione. Entusiasmo, speranza, attesa. Il problema è che, ancora oggi, di quel referendum non c’è traccia.
All’epoca, per sostenere quelle persone che vivono, da ospiti, nel bel mezzo del deserto con quasi nulla, avevo ottenuto i fondi necessari per acquistare e installare un dissalatore a energia solare, uno strumento che serve a rendere potabile l’acqua che corre nelle vene profonde del terreno: per la tendopoli del campo profughi, uno strumento di straordinaria necessità.
In quell’accampamento, insieme ad altri consiglieri, trascorsi dieci indimenticabili giorni: e ancora mi resta forte il ricordo di un popolo con un formidabile senso di appartenenza. Lì ho capito cosa significhi amare davvero la propria terra, sentirsene parte integrante, decidere di difenderla a ogni costo. Qualcuno ha scritto che ci viene offerto di amare e di servire un determinato luogo per onorarlo, e che ci viene data l’occasione di intraprendere un sacco di cose bizzarre per poter testimoniare, contro tutti i sofismi, che il Paradiso è in un certo luogo e non dovunque, e che è qualcosa di preciso e non qualsiasi cosa. Avevo imparato dal popolo Saharawi che anche un pugno di sabbia può diventare il nostro pezzo di cielo. Come in molte altre parti del mondo, la vicenda Saharawi è figlia delle complesse dinamiche che si creano nei teatri postcoloniali. Certo non facile da risolvere per la comunità internazionale, ma io ritengo che cercare una soluzione pacifica, e duratura, per quell’area sarebbe anche uno straordinario messaggio, perché aiuterebbe un popolo islamico moderato che ha rifiutato di accendere i riflettori sulla sua causa con atti di terrorismo ed estremismo preferendo affidarsi agli organismi internazionali. I Saharawi hanno scelto la diplomazia, e la verità è che questa scelta, finora, non li ha premiati.
Ho sorseggiato con le donne di questo fiero popolo dimenticato il celebre tè nel deserto, tè che viene versato e riversato da teiere con il beccuccio sottile, e servito in piccoli bicchieri. Devi sempre berne tre, con tre diverse gradazioni di zucchero, perché la tradizione dice che uno deve essere amaro come la vita, uno dolce come l’amore, uno soave come la morte.
Questa esperienza nel deserto è certamente la più curiosa delle tante che ho attraversato in quegli anni vissuti da consigliere provinciale, sempre impegnata a capire come funzionasse la macchina dell’amministrazione e, al tempo stesso, a cercare di dare un senso compiuto alle mie battaglie giovanili.
Sono una donna, e non mi piace essere trattata come un panda.
Di quegli anni da consigliere ricordo anche le mie ripetute polemiche contro una struttura di tutela delle donne che trovavo, e trovo, grottesca e controproducente: la cosiddetta «commissione delle Elette». Oltre alle varie commissioni ordinarie dedicate alle diverse materie, esisteva infatti una commissione sulle «pari opportunità» riservata alle donne di tutti gli schieramenti.
L’impressione era quella di essere confinate in una sorta di baby-parking, tutte lì costrette a parlare fra di noi dei nostri problemi mentre gli uomini, nella stanza accanto, facevano politica «vera». Abbandonai la commissione delle Elette dopo un paio di riunioni, perché la sfida per noi donne è saper competere nel gioco «dei grandi», e non quella di costruirne uno parallelo tra di noi, nel quale siamo a nostro agio solo perché chiuse nello spazio a cui pensiamo di appartenere. È forse per reazione a questo complesso di inferiorità – quello che porta molte donne a competere sempre e soprattutto tra di loro – che io mi diverto di più a competere con gli uomini.
Sono una donna, e non avevo il physique du rôle per guidare i giovani militanti di destra, in gran parte maschi. Come ho già detto non mi sono mai sentita discriminata, però ho sempre saputo che il capo deve essere un capo, deve dimostrare che è il più forte, il più coraggioso, che è quello capace di guidare la comunità oltre le difficoltà.
Ho sempre avuto chiaro che il mio essere una ragazza bionda e minuta poteva essere un ostacolo, un elemento di debolezza. La cosa però non mi ha fermato: ho semplicemente dovuto dimostrare più coraggio e, qualche volta, ho capito che sarebbe stato utile far ricorso persino a una certa dose di follia.
Mi ha aiutato non poco il timbro di voce potente che mi ritrovo. Ha compensato l’aspetto, mi ha reso facilmente riconoscibile. Qualche tempo fa Giuseppe Conte, durante la telefonata in cui cercava di convincermi a partecipare all’inutile passerella degli Stati Generali a Villa Pamphilj, dopo la prima ondata della pandemia, confessò di invidiarmi la voce, lui che in aula – per il timbro più roco e i toni vellutati – a volte stentava a imporsi.
La politica è fatta di stagioni, di percorsi, di salti. Quello importante, in una dimensione nazionale, lo feci nel 2004, a ventisette anni, al congresso del movimento giovanile di AN a Viterbo: dopo diversi giorni di aspri scontri dialettici tra i sostenitori dei due candidati, per un pugno di voti di differenza venni eletta presidente di Azione Giovani, battendo Carlo Fidanza, oggi capodelegazione di FDI al Parlamento europeo. Un osso duro, Carlo. Capacità dialettica, scaltrezza, una delle poche persone che conosco in grado di studiare come me. Per questo, la prima cosa che feci dopo aver vinto, non so come, quel congresso, fu andargli a chiedere una mano. Me la diede, e oggi ancora lavoriamo insieme. Sono moltissimi, per la verità, i protagonisti di quel congresso che sono diventati dirigenti e parlamentari di Fratelli d’Italia. Alcuni se le dettero di santa ragione, politicamente parlando e non solo, ed è bello che oggi siano un’unica squadra. Da Giovanni Donzelli, una delle persone sulle quali ho potuto, e posso tuttora, contare di più, a Mauro Rotelli, oggi nostro referente per la comunicazione e al tempo capo della realtà che ospitava il congresso, e poi il «terribile» Andrea Delmastro e il paziente Marcello Gemmato, Salvatore Deidda che tutti conoscono come Sasso, Augusta Montaruli e Carolina Varchi, due delle nostre più valide parlamentari, il veneto Ciro Maschio, l’ottimo sindaco di Catania Salvo Pogliese, e due dei protagonisti della più recente tra le vittorie di Fratelli d’Italia: Francesco Acquaroli, presidente della Regione Marche, il nostro secondo presidente di Regione dopo Marsilio (anch’egli fondamentale a Viterbo), ed Emanuele Prisco, che è stato il responsabile della sua campagna elettorale. Ma anche personalità meno note, che non hanno mai, volutamente, cercato la ribalta, come Roberto Mele, attuale tesoriere di FDI. Pochi lo conoscono, ma molti gli devono qualcosa.
Appena due anni più tardi, Gianfranco Fini mi farà diventare vicepresidente della Camera.
L’antefatto di quell’inaspettata investitura a una delle più alte cariche dello Stato si era svolto a Bologna, durante il congresso di Alleanza Nazionale del 2002.
Ero appena diventata una dei quattro commissari di Azione Giovani e, benché tentassi di scappare da quel momento, fu fissato il mio intervento per il sabato, giornata centrale dell’assemblea; mi toccava parlare dopo Francesco Storace e prima di Ignazio La Russa. Intervenire davanti a tutto il gotha del partito, su un palco immenso, con la mia faccia proiettata su due megaschermi, di fronte a circa cinquemila persone: era una dimensione del tutto nuova. Ero, letteralmente, pietrificata.
Però non persi il controllo della situazione, governai l’emozione, studiai le parole quasi a memoria, e alla fine l’intervento si rivelò un successo. Chiusi, tanto per cambiare, con una citazione del Signore degli Anelli: «Non tocca a noi dominare tutte le maree del mondo; il nostro compito è di fare il possibile per la salvezza degli anni nei quali viviamo, sradicando il male dai campi che conosciamo, al fine di lasciare a coloro che verranno dopo terra sana e pulita da coltivare».
Fini si alzò per complimentarsi, un piccolo evento che tutti notarono. E il giorno dopo, nella relazione finale, citò addirittura un passaggio del mio intervento.
Avevo incrociato Fini ai tempi della candidatura alla Provincia di Roma, ma era stata poco più di una presentazione formale; l’ho conosciuto meglio solo dopo l’elezione a presidente di Azione Giovani. Ruolo in cui lui, tra l’altro, avrebbe preferito Carlo Fidanza.
Per ricostruire fedelmente la genesi del nostro rapporto, devo dire che, dopo l’episodio di Bologna, ci fu un’altra circostanza in cui Fini fu costretto a notarmi: accadde a Roma, alla festa di Atreju, dove fu la prima vittima di quelle che, poi, sono diventate le nostre famose goliardate.
Siamo nel 2005, Fini è ministro degli Esteri. Fedeli al principio di autonomia giovanile, quando il segretario nazionale del partito partecipava alla nostra festa lo schema prevedeva che dovesse rispondere, senza filtro, alle domande dei ragazzi del pubblico. Devo riconoscere a Fini di non aver mai contestato quello schema. Era stato anche lui segretario del Fronte della Gioventù, rispettava la nostra autonomia e la nostra irriverenza. Nel fuoco di fila di domande, generalmente polemiche, sullo scibile umano, a un certo punto si alza Cristian, dirigente universitario che noi chiamavamo Hobbit.
«Il tema è l’autodeterminazione dei popoli: adesso che siamo al governo, è possibile fare qualcosa per la minoranza cristiana in Turkmenistan dei Kaziri?» Subito dopo si alza un figuro completamente pelato con una lunga barba rossa, che a mani giunte si mette a invocare aiuto con tono petulante e accento esotico: «Tanto aiuto, presidente, Kaziri aiuto».
Fini, senza perdere il suo aplomb, accavalla le gambe e inizia a rispondere: «Conosco la situazione, le discriminazioni...». A quel punto, Simone, un altro dirigente universitario, si alza e lo interrompe: «Siamo universitari, una piccola goliardata...». Lui, dopo un istante di smarrimento, ne esce benissimo e si alza per stringere la mano al finto Kaziro: «Kazaro con una zeta sola, non con due...».
Era solo l’inizio. Fini fu la prima delle nostre vittime, ma dopo di lui ce ne furono molte altre. A Berlusconi facemmo ricordare le efferatezze del dittatore inesistente del Laos, Pai Mei (nome preso dal film Kill Bill) perché era il periodo in cui il Cavaliere girava sempre con il librone nero del comunismo sotto al braccio. Ma si parlò molto anche dello scherzo a Walter Veltroni, che venne nel 2007, quando era sindaco di Roma. Gli chiedemmo conto del degrado della borgata Pinarelli. Veltroni non parve sorpreso, e iniziò anzi a snocciolare tutti gli interventi per le periferie. A un certo punto lo fermai: «Walter... Non esiste a Roma un quartiere che si chiama Pinarelli». Era un nome che avevamo preso da un film con Tomas Milian, Delitto in Formula Uno. Il sindaco non la prese benissimo: «Ah, se vogliamo fare questi giochetti... Credo di conoscere Roma molto bene!». Nel 2009 a Massimo D’Alema facemmo invece firmare una petizione per intitolare un parco all’unica vittima della caduta del Muro di Berlino. La tesi era che un pezzo di muro fosse finito in testa a un povero martire dell’unità europea, tal Friederich Kemp. D’Alema, inaspettatamente, ci rise su. Nel 2013 prendemmo di mira un altro primo cittadino della capitale, Ignazio Marino. A lui venne presentato l’ex canottiere medagliato del 1960 Daniele Oscherz per perorare la causa delle Olimpiadi a Roma. Credo che questo sia stato uno degli ultimi scherzi. Tutti ormai sapevano dei nostri agguati, tutti arrivavano parecchio guardinghi, ma la vena goliardica non ha mai lasciato la manifestazione.
Atreju nasce con Azione Giovani nel 1998, durante la presidenza di Basilio Catanoso, oggi anche lui in FDI. C’era chi lo chiamava Atreggiu, chi Atruia, chi per anni è stato convinto che fosse il nome di un pastore sardo. È evidente che non tutti hanno letto La storia infinita di Michael Ende, libro che ha per protagonista proprio Atreju, un giovane coraggioso impegnato a combattere il Nulla che avanza. Un simbolo della lotta al nichilismo, perfetto per la nostra visione. Per noi, la festa di Atreju è stata ed è importantissima. Da oltre ventidue anni è un punto di riferimento per tutto il mondo della destra. Tutto è cambiato, è crollato e poi è stato ricostruito, ma a settembre Atreju è sempre lì. Una guida solida, che anche negli anni più incerti e tormentati era lì a ricordarti chi eri e che non eri solo. A noi piace dire che è una festa di parte, non di partito. Non abbiamo mai messo simboli di movimenti in quello che oggi è uno dei principali eventi politici nazionali e internazionali. Non perché volessimo nasconderci, ma perché i confini ai quali Atreju si rivolge sono ben più ampi di quelli di un partito. È vero, ha rovinato quasi tutte le estati della mia vita, sempre al telefono per chiudere il programma e organizzare gli stand, ed è vero che per questo a tratti l’ho odiata. Ma mi ha anche regalato alcune tra le più grandi emozioni del mio impegno politico. Come l’incontro con Thomas e Kate, i giovani genitori del piccolo Alfie Evans, il bambino inglese con una grave malattia neurodegenerativa morto a due anni, quando l’ospedale dov’era in cura ha deciso di sospendergli la ventilazione. I genitori si erano opposti, c’era stata una lunga battaglia legale, e alla fine avevano chiesto il trasferimento del piccolo al Bambino Gesù di Roma, per proseguire le cure palliative. Insieme ad Angelino Alfano, allora ministro degli Esteri, e Marco Minniti, all’epoca titolare del Viminale, riuscimmo persino a conferire la cittadinanza italiana ad Alfie, nella speranza di facilitare il trasferimento. Purtroppo i giudici diedero ragione ai medici inglesi, non ci fu nulla da fare. Così, il premio Atreju 2018 lo abbiamo dato proprio a quella giovane coppia che aveva da poco vissuto il più straziante dei lutti, dopo essersi battuta ostinatamente e coraggiosamente non solo per il suo bambino, ma anche per il principio universale che la vita è sacra, sempre. Anche quella del piccolo Alfie, che i giudici inglesi avevano definito «futile». Quanto si sbagliavano. La verità è che ha inciso molto più Alfie in questo mondo nella sua brevissima esistenza di tanti che arrivano sani alla vecchiaia.
Mi sono chiesta, anni dopo, perché l’elemosiniere del papa non fosse andato a riattaccare quella di spina, invece che quella della corrente di un centro sociale moroso nel quale si organizzano rave party.
Atreju ha raccontato meglio di qualsiasi altra cosa chi siamo davvero. Persone curiose, che cercano risposte a problemi complessi, e non accettano l’arroganza del potere. Persone che non temono il confronto, perché sono portatrici di un’identità forte. Non per niente siamo stati i primi a organizzare confronti tra esponenti di aree politiche opposte; alla Festa dell’Unità, per dire, nessuno aveva mai invitato politici di destra, e dimostrano di avere difficoltà a farlo anche adesso. Non c’è personaggio politico rilevante che non sia venuto ad Atreju, con l’eccezione di Renzi, invitato inutilmente per ben tre o quattro anni ai tempi della sua Leopolda, prima che diventasse presidente del Consiglio.
Ha fatto storia invece la partecipazione nel 2006 – a un confronto con Gianfranco Fini – di Fausto Bertinotti, la cui scelta fu così di rottura che aprì un serrato dibattito interno all’allora Rifondazione Comunista.
Non da noi, dove era normale ascoltare con rispetto cosa avesse da dire un avversario. Fu così per Fausto Bertinotti, al quale ancora oggi mi lega un’amicizia sincera, perché la platea non condivise le sue idee, ma riconobbe la profondità con cui le aveva esposte. Credo che lui non se lo aspettasse, considerato il clima del tempo, ma fu applaudito dal nostro pubblico. In particolare alla fine dell’incontro, quando chiesi a entrambi di indicarci un film, un libro e una canzone che per loro rappresentavano un simbolo. Ricordo che Bertinotti citò una poesia di Ibsen e una canzone potentissima di Jacques Brel, Amsterdam. Fini, invece, ci disse che il suo film preferito era Oltre la siepe, dalla trama non proprio epica in una platea che si appassiona a pellicole come Braveheart, e oltretutto sbagliò il titolo, che è Oltre il giardino, tanto che fu corretto da Sandro Curzi, seduto in prima fila. Come canzone indicò, invece, My Way di Frank Sinatra. E ripensando ora al significato del verso «I did it my way», «Ho fatto a modo mio», forse avremmo dovuto capire che si trattava di un avvertimento.
Nel corso degli anni sono venuti davvero moltissimi esponenti della sinistra: da Bersani a Gentiloni, da Veltroni a Rutelli, da Violante a D’Alema, dalla Turco alla Boldrini, da Fico a Zingaretti, il quale, prima di diventare segretario del PD, si rallegrò di essere sul nostro palco anche perché alla Festa dell’Unità di epoca renziana non l’avevano ancora invitato. Ad Atreju invitiamo ogni anno i protagonisti della stagione, persone che stimiamo, che osteggiamo, oppure personalità discusse che ci interessa capire meglio. Quando qualche mese fa hanno arrestato Steve Bannon, ospite di Atreju 2018, la sinistra si è lanciata in grida di giubilo sostenendo che «il mio guru» fosse un poco di buono. Al netto della questione giudiziaria che non conosciamo nel dettaglio – perché, se le accuse che leggo sui giornali nei confronti di Bannon configurano un reato, temo che nessuna ONG sia al sicuro –, noi abbiamo invitato Bannon, come mille altri, semplicemente perché incuriositi dalla sua figura. Di guru dalle nostre parti non ne abbiamo mai avuti, men che meno stranieri. Magari avesse la sinistra italiana la stessa indipendenza.
Oppure si vuole sostenere la tesi che sia un mio guru anche Giuseppe Conte, invitato ad Atreju l’anno successivo, nel 2019?
Giuseppe Conte, se devo dire la verità, è l’unico ospite in ventidue edizioni che è stato faticoso riuscire a non far fischiare. La sacra regola di Atreju è che si invitano tutti e tutti devono essere rispettati. Con Conte il problema è che avevamo scelto di invitarlo a giugno, quando era premier del governo gialloverde, ma a settembre, mese in cui si svolge la manifestazione, ce lo eravamo ritrovato alla guida del governo rossogiallo, dopo il clamoroso accordo tra PD e 5 Stelle. Quando il nuovo governo si era insediato, una settimana prima dell’evento, FDI aveva lanciato una manifestazione di piazza contro l’ennesimo inciucio di palazzo, e la risposta degli italiani era stata sorprendente. Insomma, una situazione imbarazzante e incandescente.
Devo ammettere che Conte mostrò coraggio a venire. Forse aveva messo in conto la contestazione, ritenendo che se fosse avvenuta saremmo stati noi a uscirne male. Era vero. Riuscimmo a tenere la platea immobile, in un silenzio irreale. Non ci furono fischi né insulti. Uscendo, Rocco Casalino mi disse sorridendo: «E io che speravo in una minima contestazione...». «Rocco, caro, io organizzo questa manifestazione da prima che tu entrassi nella casa del Grande Fratello...» Era vero anche questo.
Ad Atreju avremmo voluto organizzare subito pure degli spettacoli serali, ma all’inizio fu difficilissimo, praticamente impossibile, perché nessun artista voleva venire. Consigliati da agenti ed etichette discografiche, non si presentavano, preferendo magari pagare qualche penale pur di non esporsi. I gruppi di musica alternativa non mancavano, ma con loro certo non saremmo riusciti a mettere su un evento da migliaia di persone. Ci inventammo allora una serata «anni Ottanta», che ci permise di invitare artisti che avevano fatto la loro fortuna soprattutto in quella stagione musicale: Pupo, Sabrina Salerno, i Righeira, Ivana Spagna, Jerry Calà, Alan Sorrenti. La serata andò benissimo. Si sparse la voce. Atreju era un posto fico. E così Mario Biondi fu il primo grande nome che venne a cantare da noi. Dopo di lui, sono saliti sul palco in tantissimi: da Max Pezzali a Max Gazzè, dagli Zero Assoluto a Irene Grandi. E Davide Van De Sfroos, di cui mi vanto di conoscere le canzoni a memoria anche se sono cantate in laghee, il dialetto del lago di Como. Ecco, il suo concerto è un vero e proprio regalo che mi sono fatta; l’unico, in tanti anni. Perché, diciamola tutta, non sono mai riuscita a godermi davvero le giornate di Atreju, i nostri ospiti, né gli spettacoli, sempre presa com’ero da mille cose e ossessionata dall’avere tutto sotto controllo. Solo nelle ultime edizioni ho potuto finalmente dedicarmi un po’ di più agli ospiti, perché sono riuscita a delegare, e così ora ci sono altri che si occupano dell’organizzazione, e devo riconoscere che lo fanno anche molto bene.
«Ho deciso che ti candido alla Camera.»
Nella primavera del 2006, durante un’assemblea nazionale di AN, Fini mi incrociò nel corridoio e mi disse queste sette parole senza muovere un solo muscolo del viso, passando poi oltre.
Benché fosse una tradizione abbastanza consolidata che i presidenti del movimento giovanile venissero candidati in Parlamento, io non avevo chiesto niente a nessuno. Evidentemente, però, forse anche grazie al sostegno del popolo Kaziro, mi ero guadagnata la stima del segretario. Candidata, ed eletta.
Il primo giorno arrivo davanti a Montecitorio in tailleur e camicetta, tutta in ghingheri, accompagnata dalla comunità politica in corteo.
I giornalisti già sapevano chi fossi, anche perché «Sette», il settimanale del «Corriere della Sera», mi aveva dedicato addirittura una copertina in uno speciale sui giovani candidati. Come tutte le matricole, destavo curiosità: infatti, non appena i fotografi mi videro arrivare, mi circondarono. «A Giò, facce un sorriso!» «Meloni, guarda da questa parte!»
All’improvviso, pensando di fare una cosa simpatica, Federico Mollicone decise di prendermi in braccio. Letteralmente. Mi afferrò, sollevandomi. Io, rigida come una saracca, gli assestai subito un paio di calci. Lui fu costretto a lasciarmi andare e io finii per rotolare sull’asfalto. Ovviamente i fotografi si scatenarono ma non riuscirono a ritrarmi a terra. Mi ero rialzata troppo velocemente. In compenso gira ancora una foto di me senza una scarpa e con gli occhiali da sole storti in testa.
Entrare in aula, dieci minuti dopo, è stata però un’emozione assoluta. Mi guardai intorno: gli scranni di legno, i velluti rossi, la bandiera tricolore lassù in alto. Pensai: «Ecco, sì, ora sono cavoli». Ma ancora non avevo idea di quanto grandi fossero.
Qualche giorno dopo Fini mi convocò alla Farnesina – erano i suoi ultimi giorni da ministro degli Esteri. Preoccupata, andai lì con un filo d’ansia. Bussai alla porta, lui mi invitò a entrare mettendo su un’aria un po’ tetra. La grande stanza era piena di scatoloni, scena da smobilitazione. Mi disse: «Non pensavo di dover arrivare a tanto con te...». Mi irrigidii. Che avrò fatto? Cerco cerco, ma la mia mente non trovava la risposta. Intanto lui era sempre più scuro in volto. «Senti» esordì con la voce piatta, «ho deciso che farai il vicepresidente della Camera.»
Passarono lunghi secondi di silenzio.
Io, incredula.
Lui, una maschera grigia. Che, all’improvviso, si allargò in un sorriso.
Tra me e me pensai: «È uno scherzo. Questo si sta vendicando di Atreju».
A quel punto, dopo un attimo di confusione, risposi come Bartleby il diligente scrivano del racconto di Melville: «Grazie, ma preferirei di no...».
Ero sincera. Non me la sentivo di presiedere l’aula. Avevo tanti anni di militanza alle spalle e avevo superato molte prove non facili, ma ero una neodeputata, come potevo andare alla Camera a zittire D’Alema? Non solo: avevo sul serio appena una vaga idea di come funzionassero i lavori parlamentari.
Ma questi, per Fini, erano aspetti secondari.
Lui aveva un solo, grosso problema: mettere d’accordo i colonnelli del partito che ambivano a quel posto, e io gli ero utile per spegnere le diatribe e dare un segnale di rinnovamento.
Così, la discussione tra noi due, in quella stanza della Farnesina, durò una manciata di minuti: lui tornò serio, mi disse che aveva deciso e che non mi potevo tirare indietro. Mentre stavo per uscire, con l’aria distratta, aggiunse: «Ti chiedo solo una cortesia. Dovresti prendere a lavorare con te Patrizia Scurti. È stata al mio fianco in questi anni, è una persona valida, ma ora non posso tenerla con me. Tra qualche giorno non avrò più uno staff come quello che posso vantare ora». Acconsentii, ovviamente, ma tra me e me pensai che mi avesse appioppato qualche caso umano. A pensarci adesso, tra la vicepresidenza della Camera e Patrizia, la vera buona notizia che mi aveva dato era la seconda. Sono passati quindici anni, e Patrizia è ancora al mio fianco. La mia padrona, dico spesso scherzando, perché non c’è nulla della mia vita che non passi da lei. Ormai mi piace pensare che un po’ mi consideri come sua figlia. In un mondo nel quale tutti pensano a cosa io possa fare per loro, Patrizia pensa sempre e solo a cosa lei possa fare per me. È il mio rifugio, la mia protezione, la mia tranquillità. È soprannominata Wolf, dal personaggio di Pulp Fiction che si presenta dicendo: «Risolvo problemi». Non c’è questione che non sappia affrontare, difficoltà che non sappia risolvere, e il massimo, per lei, è poter dire: «Già fatto». Sempre, rigorosamente, con il sorriso, anche se ormai la temono tutti. Non sbaglia mai, e a volte ti fa sentire tremendamente fallibile con quel suo implacabile perfezionismo. L’unico problema è che devi ricordarti di «sprogrammarla». Perché, se non lo fai, puoi incappare in molte disavventure. Per dire, spesso io mi metto a dieta. Quando lo faccio, lei dà istruzioni a tutti su cosa io debba mangiare. Un giorno parto finalmente per le vacanze. Salgo sul volo intercontinentale e appena mi metto seduta arriva lo stuart e mi fa: «Ha ordinato un pasto light?». All’inizio dico d’istinto «No», ma poi capisco. Non avevo detto a Patti che la dieta in vacanza non la faccio... Insomma, a lei non sfugge nulla. È più di un’assistente, e forse più di una madre e di un’amica. Ringrazio Dio e Gianfranco Fini ogni giorno per averla messa al mio fianco.
Comunque, quel pomeriggio, dopo il colloquio con Fini andai a Colle Oppio, in sezione, e i ragazzi mi accolsero con un applauso, perché la notizia era già stata battuta dalle agenzie di stampa. A me venne una mezza crisi isterica.
Già mi sembrava che il lavoro di deputato fosse più grande di me: tenere poi a bada un’aula intera, così affollata di gente con alle spalle decenni di Parlamento, era proprio fuori scala rispetto a quello che pensavo di essere in grado di fare.
Ma non c’era margine, Fini aveva deciso. Per cui reagii affrontando di petto la situazione: presi regolamenti e videocassette di sedute del passato, e cominciai a studiare come una pazza. Intuivo la trappola: l’aula è infida, se percepiscono che non hai polso, se ne approfittano.
La mia prima seduta fu facile: durante il voto per il presidente della Repubblica dovevo solo pronunciare le formule di apertura e chiusura delle votazioni. Ma è durante i lavori quotidiani che può succedere di tutto.
C’è il deputato convinto che il suo intervento possa durare un intero pomeriggio, e se provi a togliergli la parola la prende come un affronto personale. C’è quello che parla di un argomento a lui sconosciuto, infila una serie di sciocchezze e fa infuriare i suoi avversari in un pandemonio di urla e fischi. Ci sono quelli che tirano fuori cartelli, c’è chi per protestare si infila le magliette, c’è chi parla a voce alta, troppo alta, e c’è chi dorme, si sveglia di soprassalto, ascolta mezzo intervento, inizia a litigare, e mentre litiga magari perde il controllo, viene colto da una crisi isterica e allora devi far intervenire i commessi, che lo prendono di peso e lo portano fuori dall’emiciclo.
La prima volta che sono salita sullo scranno più alto speravo che nessuno mi notasse, andavo su zitta zitta con la testa incassata, e invece dalle postazioni di AN si alzò un grande, lungo applauso – e io, francamente, rimasi tramortita dall’imbarazzo. I decani della Repubblica dovevano considerarmi una bizzarra creatura; fu divertente Francesco Cossiga che un giorno mi telefonò e, forse per mettermi a mio agio, mi disse: «Ma lo sa che c’è stato un presidente della Camera più giovane di lei? Enrico De Nicola, trentasette anni». Dovetti precisare che ero solo vice e di anni ne avevo ventinove.
Comunque, nelle prime settimane, me li ricordo certi sguardi addosso. Del tipo: «Ora ti facciamo a pezzi». Tra l’altro, essendo all’opposizione, il mio ruolo era ancora più difficile, l’accusa di faziosità era sempre dietro l’angolo. Subito mi resi conto che avrei dovuto mettere da parte il mio ruolo di combattente per diventare un giudice imparziale. Da deputato potevo fare interventi molto duri, ma da vicepresidente ero garbata e difendevo anche gli avversari, ovviamente sul piano del regolamento.
Lo studio ossessivo e un po’ disperato di codici e codicilli, comunque, si rivelò decisivo.
In una delle prime sedute, cercai di far capire subito che non mi sarei prestata a fare da puntaspilli dell’assemblea. Nel mezzo della classica diatriba tra presidente e gruppi, ebbi la lucidità di rispondere a Dario Franceschini, allora capogruppo del PD, che mi richiamava per la mia conduzione dell’aula, citandogli l’articolo del caso a memoria: «Presidente Franceschini, lei dovrebbe sapere che ai sensi dell’articolo etc etc...». Tra i banchi di AN, dove fin lì avevano trattenuto il fiato, applaudirono urlandomi: «Bravaaa!». Gli avversari, basiti: «Hai capito ’sta Meloni?».
Ma qualche scivolone, nei due anni successivi, l’ho preso. Ed è capitato che a graziarmi fosse l’allora delegato d’aula del PD Roberto Giachetti, una specie di Rain Man del regolamento di Montecitorio. Intelligente, spiritoso, cattivo quando deve esserlo, Roberto è soprattutto sempre stato una persona libera. Forse per questo, o perché al tempo gli facevo tenerezza, in un paio di occasioni mi ha dato una mano. È iniziata così la più solida amicizia con un avversario che abbia costruito in Parlamento. Certo Roberto, avresti potuto stroncare sul nascere l’ascesa politica della Meloni... La storia con te sarà implacabile.
Il mare aperto
Sempre e per sempre tu
Ricordati
Dovunque sei
Se mi cercherai
Sempre e per sempre
Dalla stessa parte mi troverai.
Francesco De Gregori, Sempre e per sempre
Non so perché, ma nella mia vita è accaduto molto spesso che, appena riuscivo ad abituarmi a un incarico e mi sentivo finalmente a mio agio, quell’incarico mi veniva tolto e me ne veniva affidato uno più difficile. Così, appena mi sono abituata a presiedere l’aula di Montecitorio, dopo circa due anni, è caduta la legislatura.
Siamo nel gennaio del 2008, e il governo Prodi II, dopo aver lungamente traballato, viene sfiduciato dal Senato. Dopo il primo giro di consultazioni avviate dall’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano, la richiesta dei quattro leader dell’ex Casa delle Libertà, Berlusconi, Fini, Bossi e Casini, è precisa: vogliamo le elezioni anticipate. Tornata alla quale il centrodestra si presenterà – la decisione è unanime – con la candidatura del Cavaliere alla presidenza del Consiglio. Napolitano, nei vari colloqui che tiene al Quirinale, capisce che davvero non c’è altra soluzione. L’Italia non può che tornare a votare.
Ma le novità non finiscono qui. Perché, in quelle settimane, c’è un altro colpo di scena. Berlusconi, con il noto «discorso del predellino», aveva lanciato un paio di mesi prima l’idea di un nuovo partito nel quale far confluire le varie anime del centrodestra. L’idea era stata inizialmente presa con freddezza e poi respinta con forza al mittente da Gianfranco Fini. Molti di noi, gelosi del nostro simbolo e dell’identità della nostra comunità, tirarono un sospiro di sollievo quando sentirono dal capo di AN parole che non lasciavano spazio a dubbi: «Non esiste alcuna possibilità che AN si sciolga e confluisca nel nuovo partito di Berlusconi». Due mesi dopo eravamo nel PDL.
Ricordo perfettamente il giorno in cui fu dato l’annuncio. Assemblea regionale del partito a Roma, Hotel Plaza, via del Corso. Partecipa anche Fini, che chiude la manifestazione, come al solito, con un ottimo intervento di scenario sulla situazione politica e il ruolo di AN. Tutto normale. La riunione finisce e io, a piedi, torno verso Montecitorio per riprendere l’auto. Ci vogliono al massimo sette minuti per percorrere il tragitto. Ecco, non ero ancora lì, che mi arriva un sms: «Fini ha appena annunciato la nascita del partito unico». Mi irrigidisco. «Non è possibile, è falso, io c’ero! Non l’ha mai detto!» Il problema è che, in effetti, a noi non lo aveva detto. Aveva preferito nascondere una decisione che, si è poi scoperto, era stata presa giorni prima.
Parte così, tra sorpresa, paura e una certa dose di iniziale irritazione, la mia parentesi nel Popolo della Libertà. Di quella fase ricordo soprattutto la paura di non riuscire a tenere insieme il movimento giovanile nella transizione, e le difficoltà che avremmo trovato ad amalgamare i nostri ragazzi, tra i quali c’era chi girava ancora in mimetica, con quei giovani rampanti in giacca blu e tacchi alti che avevamo sempre guardato con una certa ironia. Azione Giovani però, ancora una volta, fu all’altezza della sfida.
L’idea di unificare i due partiti, sul piano del consenso, si rivela una scelta vincente: il Popolo della Libertà, nelle elezioni del 13 e 14 aprile 2008, riscuote un eccellente risultato con il 38 per cento dei voti, un dato superiore alla somma dei consensi di AN e FI nelle consultazioni precedenti.
AN elegge la pattuglia di parlamentari più numerosa di sempre, e tra loro ci sono io. Rieletta a Montecitorio.
Passano poche settimane, sui giornali impazza il totoministri, e io vengo di nuovo convocata da Fini. Che mi dice: «Ho pensato a te per un incarico di governo...». E io penso: «Aridaje... ho appena imparato come funziona il Parlamento e ora devo andare al governo?». Provo a divincolarmi ringraziandolo per la fiducia e dicendo che forse potrei essere più utile continuando a fare quello che stavo facendo. Anche stavolta, non lo convinco.
Poche ore dopo, dal Quirinale, Silvio Berlusconi legge la lista dei ministri del suo quarto governo. C’è anche il mio nome, tra quelli senza portafoglio. Divento così, a trentun anni, il ministro più giovane della storia d’Italia. Molte volte, in questi anni, quando da presidente di un partito alleato ma distinto da quello di Berlusconi ci sono stati momenti di frizione, mi sono sentita dire che ero «irriconoscente» con il Cavaliere che mi aveva fatto ministro. A parte che sono convinta che un buon politico debba essere leale con gli uomini ma ciecamente fedele solo alle proprie idee, le cose non stanno comunque così.
Quando sono diventata ministro della Gioventù, Berlusconi mi conosceva appena; per lui ero una di AN. Ho sempre avuto con il Cavaliere un rapporto franco e leale e ho di lui una grande considerazione, ma la mia storia appartiene a un mondo che lui non ha mai capito davvero. Io, per Berlusconi, sono sempre stata una diversità antropologica difficile da accettare completamente, sia come persona, sia come esponente di una cultura politica altra. Alleati leali ma spesso distanti nel modo di concepire il senso della politica.
Sono le sei di sera e il giuramento è fissato per il giorno dopo a mezzogiorno. Confusa, e tanto per cambiare con un po’ d’ansia, passo la serata con Giovanbattista Fazzolari. Giovanbattista, per gli amici antichi Spugna, per me Fazzo, è la persona più intelligente e giusta che abbia avuto la fortuna di conoscere. Oggi è senatore di Fratelli d’Italia, ma per me è molto di più. Non ricordo un solo momento difficile della mia vita in cui non ci fosse lui al mio fianco. Con quell’espressione sempre tranquilla, la battuta pronta per sdrammatizzare e una risposta a qualsiasi domanda, ha accompagnato tutto il mio percorso. Ormai ci capiamo al volo, e tra noi c’è una tale alchimia che a volte non ricordiamo più chi sia stato, dei due, a elaborare un determinato pensiero. Ci siamo completati a vicenda, e scherzando diciamo che ognuno ha salvato l’altro da se stesso. Con Fazzo puoi parlare di tutto, gli puoi raccontare ogni cosa, e sai che non ti giudicherà mai, ma ti dirà sempre la verità. Io credo che la destra sia stata fortunata ad averlo tra le sue file. Io sono stata fortunata.
Comunque, alla fine dormo poco e male, ma il giorno dopo i giornalisti non si accorgono delle borse sotto gli occhi perché sono troppo presi a giudicare il mio outfit. Perché per le donne è così: diventi ministro e tutti sono molto più interessati a come sei vestita piuttosto che ai progetti che hai in mente. Fenomeno che col Berlusconi IV si è tragicamente amplificato.
Il fatto è che avevo da poco comprato un tailleur di un elegante e noto marchio italiano, di un tessuto cangiante che piaceva tanto a me e probabilmente a Platinette. Era stato un capriccio di vanità, ma quando l’avevo comprato non immaginavo certo che l’avrei indossato in un’occasione così solenne come il giuramento da ministro. In ogni caso, mi era parso il momento perfetto per sfoggiarlo. Ma non lo era. Per i fotografi fui facile preda. Le riviste di gossip, con quelle foto della sottoscritta che entra ed esce dal Quirinale tipo catarifrangente con le gambe, ci andarono avanti per settimane.
E non basta: nello scatto ufficiale dei ministri donna qualcuno del cerimoniale ha l’ideona di disporci in ordine di altezza, come si faceva alle scuole elementari negli anni Cinquanta.
Risultato: non solo sono la più bassa, sono pure quella con il vestito più strano. Tra la Carfagna, la Prestigiacomo e la Gelmini sembro, obiettivamente, il brutto anatroccolo. Qualcuno ha anche fatto un fantastico fotomontaggio nel quale al mio posto compare Kermit, la rana dei Muppet, e dico «fantastico» anche perché io i Muppet li adoro. Non me la sono presa, e a ben guardare c’è a chi è andata peggio. Ricordo il fotomontaggio con il quale a Maria Elena Boschi fu appiccicato un perizoma il giorno del giuramento, e immagino che lei si sia divertita molto meno. E la cosa che deve far riflettere, per come la vedo io, non è tanto il fotomontaggio in sé, ma il fatto che in molti ci abbiano creduto. Così come per anni io ho dovuto combattere contro un video virale nel quale, durante il congresso di nascita del PDL, la voce di Berlusconi che mi chiamava in prima fila dicendo «Dov’è la piccola» (credo non ricordasse il nome) veniva distorta per far diventare quel «piccola», «zoccola». Ancora oggi stento a capire come una persona sana di mente abbia potuto ritenere che avrei accolto quell’insulto di fronte a milioni di persone sorridendo. Ma questi episodi sono soprattutto una spia di quella sottocultura per la quale qualsiasi donna vada a ricoprire un incarico deve essere accostata a riferimenti di carattere sessuale. Un riflesso condizionato che siamo parecchio distanti dallo sconfiggere.
Quello delle Politiche Giovanili era un ministero senza portafoglio di recente invenzione. Si potrebbe pensare che sia più semplice avere la responsabilità di un ministero poco importante e senza capacità di spesa, e quello che era stato dato a me era così poco rilevante da essere classificato come ultimo persino dal cerimoniale di Stato. In realtà non è così. I grandi ministeri hanno strutture che, per paradosso, potrebbero andare avanti anche senza il ministro (e in alcuni casi viene da dire «meno male»), competenze definite, un apparato di collaboratori esperto e rodato nel tempo che il ministro eredita. Nel caso di un ministero senza portafoglio, invece, la struttura è quasi inesistente, lo staff minimo, e quindi il ministro, e le idee che riesce a mettere in campo, diventano centrali. Ancora di più era difficile per me, che per il mio dicastero dovetti inventare anche le competenze, e realizzare una nuova struttura. Giovanna Melandri era stata ministro dei Giovani prima di me, ma aveva anche la delega allo Sport, e una volta che le due competenze erano state nuovamente scisse bisognava ricominciare da capo.
Lo facemmo, io e un gruppo di pazzi visionari. Patrizia a seguire, come sempre, me, Giovanbattista a capo della segreteria politica, Nicola Procaccini nel ruolo di portavoce. Nicola, oggi deputato europeo per Fratelli d’Italia, è la persona più abile che conosca nel dare alle cose un senso profondo. Ha lavorato fianco a fianco con me per molti anni, e quando mi ha comunicato che si sarebbe candidato sindaco nella sua città, Terracina, e che quindi non avrebbe più lavorato con me, mi è mancata la terra sotto i piedi. «Senza di lui non me la posso cavare» ho pensato. Ma ho pensato anche che, tra le mille qualità che Nicola ha, la concretezza necessaria a fare il sindaco non fosse compresa. Mi sbagliavo. È stato un sindaco amato, capace, umano. Riconfermato a furor di popolo quando le solite beghe tra partiti hanno fatto cadere la sua giunta prima della scadenza naturale. Oggi, a distanza di anni, sono contenta che abbia fatto quella scelta.
Al ministero partimmo dal cambio del nome, che mutò da ministero delle Politiche Giovanili a ministero della Gioventù. Se chiedete a gente illuminata e intelligente tipo Gad Lerner, vi dirà che il nome era frutto di una delle troppe reminiscenze fasciste che mi porto dietro. Per chi invece non è obnubilato dai deliri ideologici, la risposta è molto più lineare. Ritenevo semplicemente, e ritengo tutt’oggi, che le politiche giovanili, come quelle femminili, intese come politiche di settore, non esistano. E, quando esistono, sono puntualmente dei contentini. Esiste, invece, la sfida di garantire diritto di cittadinanza alle istanze giovanili e femminili in tutte le grandi scelte della politica. Per intenderci, non combatto la disoccupazione femminile in quanto semplice problema delle donne, ma in quanto questione nazionale. Così come ragionare di gioventù significa costringere la politica a interrogarsi sul futuro della nazione, su come determinati provvedimenti impatteranno non sulle prossime elezioni ma nei decenni successivi, e combattere quel presentismo che ha trasformato la civiltà più visionaria della storia in una nazione cintura nera di bonus a pioggia. Che poi è la ragione per la quale, da ministro, proposi di inserire in Costituzione una «verifica di impatto generazionale» nei provvedimenti del governo, una sorta di tagliando per valutare costi e benefici futuri di ogni scelta. Se lo avessimo fatto ci saremmo resi conto di come alle giovani generazioni abbiamo quasi sempre tolto più di quanto abbiamo dato.
Con questa mentalità abbiamo lavorato per quattro anni. Con una squadra esigua ma compatta, una visione chiara e coraggio da vendere abbiamo fatto del ministero della Gioventù una struttura agile e combattiva, capace di muoversi con velocità tra le corazzate dei grandi ministeri. E in quella velocità ci ha aiutato, forse, anche il fatto di aver preferito andare in giro con il motorino piuttosto che con l’auto blu. Ricordo l’espressione delusa degli uomini che mi erano stati assegnati di scorta quando dissi loro che avrei rifiutato quel privilegio, preferendo girare da sola e con la mia auto. Non era solo per un fatto di coerenza con la battaglia che per anni avevamo condotto contro gli sprechi della politica, ma soprattutto un modo per rimanere me stessa, non consentire a quel sistema di circuirmi e diventare per me indispensabile. Di tanti politici chiacchieroni, che hanno costruito le loro fortune con le battaglie anticasta salvo poi moltiplicare stipendi e codazzi una volta arrivati nel palazzo, credo di essere, a oggi, l’unica ad aver fatto per quattro anni il ministro rinunciando all’auto blu.
Passavamo in quegli uffici una media di tredici ore al giorno, abbiamo dedicato loro tutte le nostre energie, e abbiamo portato a casa i nostri risultati. Ricordo ancora Giulio Tremonti, il ministro dell’Economia che non scuciva un euro, chiedermi con disappunto dove fossi riuscita a trovare i 300 milioni necessari a finanziare il pacchetto «Diritto al futuro», tutto concentrato su iniziative in favore del lavoro e della stabilità dei giovani. «Velocità, Giulio. Siete un po’ lenti...» In verità, li avevamo recuperati da voci che erano di nostra competenza e che nessuno aveva rivendicato. Ma in quegli anni al governo ho imparato quanto contino i burocrati, e quanto sia importante sapere dove sono nascosti i veri gangli del potere, se non vuoi che ti facciano girare a vuoto.
Ogni tanto ancora incontro qualcuno che mi ringrazia per ciò che ha potuto fare grazie a quelle risorse. Come quando, di recente, una coppia di ragazzi mi ha detto: «Sai che noi abbiamo una casa grazie a te?». Il mutuo, infatti, erano riusciti a ottenerlo in virtù del nostro fondo di garanzia per l’acquisto della prima casa da parte di giovani precari. Noi abbiamo sempre pensato che la flessibilità del lavoro in sé non sia un male, ma che lo sia la precarietà che deriva da una società incapace di adeguarsi a un mercato del lavoro che cambia. Da una parte il tuo lavoro è sempre più flessibile, dall’altra la banca pretende il contratto fisso per prestarti i soldi. Non si può fare. Allora introducemmo una garanzia dello Stato per i mutui concessi dalle banche nei confronti dei giovani con contratto flessibile. Credo sia stato uno dei pochissimi casi di un fondo dello Stato non conveniente per il sistema bancario, tanto che inizialmente l’Associazione Bancaria Italiana fece resistenza. E soprattutto, appena il governo di centrodestra cadde e arrivò la sinistra, le regole furono modificate e anche questo fondo diventò più un sostegno alle banche che ai precari.
So di cosa parlo, perché io stessa ho lasciato la casa di famiglia molto tardi. Già a vent’anni mi mantenevo autonomamente e davo una mano al bilancio familiare, però ho sempre rifiutato l’idea di pagare un affitto. Un po’ per colpa delle cifre proibitive del mercato immobiliare della capitale, e un po’ perché ritenevo più sensato investire, eventualmente, in un mutuo.
E poi, come tutte le persone che hanno sperimentato condizioni economiche altalenanti, sono sempre spaventata dal domani, quindi devo avere la certezza di essere in grado di affrontare tutto quello che potrebbe accadere. Nel rapporto con la casa sono la tipica italiana: per tantissimi miei connazionali la prima casa è il principale rifugio economico e rappresenta simbolicamente, oltreché materialmente, il frutto dei sacrifici di una vita, a volte di più generazioni; l’ultimo regalo che si farà ai propri figli, perché possano ricordare ciò che è stato costruito. La prima casa non è un bene che produce reddito, non può essere trattata alla stregua di un’azienda o di un investimento finalizzato all’ottenimento di una rendita: la prima casa è indispensabile alla sussistenza del nucleo familiare. È un fatto culturale, e anche per questo noi di Fratelli d’Italia la consideriamo un bene sacro, non tassabile e non pignorabile.
Sono riuscita a realizzare il sogno di avere una casa tutta mia dopo i trent’anni. Posso dirmi fortunata rispetto a tanti della mia generazione. Quaranta metri quadri, a ridosso della Garbatella, pagati forse più del loro valore, ma che mi hanno reso semplicemente felice. Era il periodo dello scandalo delle case ai potenti, da quelle pagate «all’insaputa» del proprietario a quelle ottenute a prezzi stracciati, e fioccavano sui giornali articoli al vetriolo sui favori ai politici. Ospite a Un giorno da pecora, mi chiesero quanto l’avessi pagata e, una volta saputo il prezzo, si fecero una bella risata: «Possibile che se l’è fatta vendere? Lei, onorevole Meloni, è l’unico politico che si fa fregare da un cittadino comune!».
Eppure, ero assolutamente innamorata di quell’appartamento. Aveva un piccolo e silenzioso terrazzo, pieno di sole dall’ora di pranzo. Spesso mi mettevo seduta lì, con le gambe incrociate sul tavolo, ad ascoltare le mie canzoni preferite e soltanto così riuscivo a rilassarmi. E poi lì era tutto perfettamente in ordine, e anche questo mi aiutava a combattere lo stress. Il Capricorno che è in me ha bisogno che le cose siano tutte al loro posto, ho sempre pensato che sia meglio dare forma allo spazio piuttosto che costringere la mia mente a subirne il disordine. Certe volte mi chiedo come sia possibile che non abbia inventato io il gioco del Tetris. Quell’appartamento era tutto bianco, con un arredo essenziale, senza concessioni a fronzoli decorativi e a quei terribili «svuotatasche» fatti per lanciare le cose alla rinfusa. In pratica sembrava una di quelle case raffigurate nelle riviste di arredamento che quando le guardi pensi: «Ma dai, qui non ci vive nessuno». Nell’armadio c’erano i vestiti suddivisi per tonalità di colore («colore» è un parolone, diciamo che sono stata un’antesignana delle cinquanta sfumature di grigio) e nel cassetto delle posate i coltelli alternati lama/manico, in modo che rimanessero perfettamente dritti. Sì, lo so, non è normale.
Forse anche per questo non ho mai convissuto fino alla nascita di Ginevra. Persino durante la gravidanza vivevo da sola, perché Andrea lavorava ancora a Milano e ci vedevamo solo nel fine settimana.
Amavo quell’appartamento anche per il fatto che fosse così piccolo. Quel nido mi ricordava il motto scritto sulla facciata della casa di Ariosto, «Parva, sed apta mihi», piccola ma adatta a me. Mi dava la sensazione di essere al riparo, come fosse una tana. Quando ero ragazza fantasticavo spesso sul fatto di poter avere una casa mia, ed ero convinta che sarebbe stato molto difficile riuscirci. Era il tempo in cui arrivavo a fare anche cinque lavori contemporaneamente per guadagnare 1000 euro al mese; e così la domanda era sempre la stessa: avrò mai i soldi per accendere un mutuo? Nelle mie fantasie, però, immaginavo sempre una casa piccola. Rimanevo incantata di fronte alle microcase in esposizione in certi negozi di arredamento: studiavo come riuscissero a infilare tutto in dieci metri quadri. Quel mio bilocale, quindi, era esattamente ciò che avevo sognato. Il giorno in cui ho firmato il rogito è stato uno dei più belli della mia vita.
Ricordo che nei primi anni in cui ho abitato lì, quelli da ministro, quando rientravo la sera a casa, ringraziavo Dio per avermi consentito di avere un posto tutto per me, dove dal di dentro potevo chiudere il mondo fuori. Passavo le giornate a schivare insidie, affrontare problemi, discutere, contrastare, combattere. Ma lì dentro, una volta chiusa la porta, mi sentivo al sicuro, finalmente serena, libera. È così, sulla soglia di casa a una certa ora dopo il tramonto, che capisci appieno il valore delle mura e delle frontiere.
Ho vissuto in quella bomboniera per otto anni. Ho fatto il trasloco due settimane prima della data prevista per la nascita di Ginevra, al nono mese di gravidanza, quando ormai pesavo più o meno ottanta chili e il furgone dei traslochi serviva anche per spostare me.
Ricordo di aver pianto quando, da sola, sono andata a prendere le ultimissime cose. La casa era così spoglia, ormai, che sentivo il rimbombo dei passi. Ma, soprattutto, sapevo che sarei stata su quel terrazzo per l’ultima volta. Sapevo che lì stavo lasciando un pezzo della mia vita, e anche di me.
Sono molte altre le iniziative delle quali vado fiera nella mia attività di ministro. Penso tra le tante alla nascita del cosiddetto «forfettino», l’estensione della tassazione forfettaria del 15 per cento a tutti i giovani imprenditori fino al compimento dei trentacinque anni, che ci costò una battaglia durissima sempre con il temibile Tremonti. Alla fine Giulio preferì spendere questi soldi, piuttosto che spendere ore a sentire me. Tantissimi ragazzi hanno usufruito di questo meccanismo, e poco importa che quasi nessuno di loro sappia che è frutto del nostro impegno.
Lavorammo molto anche sull’educazione dei ragazzi, immaginandola come qualcosa di cui loro dovessero essere parte attiva e non beneficiari passivi. Se vuoi far capire qualcosa a un giovane, faglielo spiegare da un suo coetaneo. Partimmo dal tema della lotta alla mafia, fedeli all’insegnamento del giudice Borsellino, convinto che, «se la gioventù le negherà il consenso, anche la misteriosa e onnipotente mafia svanirà come un incubo». Così, ad esempio, distribuimmo per due anni in tutte le scuole superiori l’opuscolo Il profumo della libertà, con le testimonianze di chi aveva conosciuto e lavorato con Falcone e Borsellino, chiedendo di organizzare assemblee studentesche sul tema, e utilizzammo i writer per andare nelle periferie a realizzare murales che avessero per tema la lotta alla criminalità su spazi assegnati dalle amministrazioni comunali. Così come fece molto discutere l’operazione «Naso rosso», con la quale formavamo giovani che andassero nelle discoteche a sensibilizzare i loro coetanei al principio «se bevo non guido, se guido non bevo» e si rendessero disponibili a riaccompagnare eventualmente a casa chi aveva bevuto troppo. Non saprò mai se è vero, ma mi piace pensare che forse, anche così, qualche vita l’abbiamo salvata. E quando oggi penso alle risorse, alle energie e ai sacrifici che giustamente abbiamo dedicato a contrastare il COVID, per impedire che uccidesse molti più anziani, e li confronto con quelli, quasi inesistenti, che dedichiamo alla lotta agli incidenti stradali – e a una delle maggiori cause che li determinano, ovvero l’uso di droga e l’abuso di alcol – che uccidono ogni anno migliaia di giovani, non posso non fare i conti con una società che rassegnata ha smesso di combattere questo fenomeno, come se fosse inevitabile. E che, anzi, continua a fare di tutto per banalizzare, quando non propagandare, la cultura dello sballo. Ancora oggi mi fanno impazzire quelli che ti dicono che «grazie alla droga abbiamo avuto la musica di Kurt Cobain, di Jimi Hendrix, di Janis Joplin o di Amy Winehouse». Che idiozia. Non è la droga ad aver donato il talento a questi grandi della musica, è semmai la droga ad aver dilatato l’esasperazione e il conflitto interiore che hanno condotto il leader dei Nirvana a spararsi in bocca nella solitudine di casa sua, ad aver stordito il più grande chitarrista di tutti i tempi, morto soffocato dal suo vomito, e ad aver stroncato le due potenti icone femminili, morte di overdose. Tutti, per uno strano caso della storia, a ventisette anni.
Per un altro strano caso della storia, è capitato che proprio mentre ero al governo anche io, da sempre definita dai miei amici, scherzando, una «patriottarda di stile risorgimentale», ricorresse il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. Un’occasione per dare sfogo a tutto il nostro patriottismo che, ovviamente, non ci siamo fatti sfuggire. Finalmente, dopo decenni, avevamo il pretesto per sfoggiare tricolori di ogni forma e dimensione. E il ministero della Gioventù aveva molto da dire sulle celebrazioni, dal momento che – anche se pochi lo sanno, o lo ricordano – l’Unità d’Italia, in gran parte, è stata fatta proprio da giovanissimi. Un paradosso, se si considera che in questa nazione i ragazzi sono da sempre ritenuti marginali, raccontati come inadeguati e imbelli bamboccioni, viziati dalle loro mamme e tendenzialmente privi di ideali di sorta. In Italia si è sempre troppo giovani per fare qualsiasi cosa. Basti pensare che ancora oggi, nonostante una proposta di modifica costituzionale all’esame del Parlamento per consentire di votare anche per il Senato a diciotto anni invece che a venticinque, prima dei quarant’anni non si può essere eletti senatori. In pratica Gesù e Alessandro Magno non avrebbero potuto fare i senatori, e alla stessa età in cui è entrato in magistratura anche Paolo Borsellino non avrebbe potuto essere parlamentare. Personalmente, sono sempre stata convinta che, se una persona viene considerata abbastanza matura per poter scegliere da chi farsi rappresentare, debba automaticamente essere considerata adeguata anche per rappresentare la nazione.
A maggior ragione se pensiamo che le strofe dell’Inno d’Italia, parte del Canto degli Italiani, furono scritte da un giovane di vent’anni. Goffredo Mameli, uno dei protagonisti del Risorgimento. Quando fu colpito sul Gianicolo mentre difendeva la Repubblica Romana, e la sua gamba cominciò a sanguinare, pare abbia detto: «Tagliatela, che mi importa, che io voglio continuare a vivere, cantare e lottare». Lo fecero, ma non bastò. Morì a ventun anni. Ma sono molte le storie che si potrebbero ricordare. Quella del siciliano Rosalino Pilo, che dedicò una vita intera al sogno di unire l’isola all’Italia, e morì con una pallottola nella nuca, proprio quando i Mille di Garibaldi erano a un passo dall’impresa. I Mille... ragazzi provenienti da ogni angolo della nazione che si imbarcarono sulle due navi Piemonte e Lombardo e fecero l’Italia, a dispetto delle cancellerie internazionali, e di qualche onnipresente imbelle connazionale. E poi l’unica donna che partecipò alla spedizione. «A bordo non voglio né mogli, né madri, né volontarie» pare avesse tuonato il generale eroe Garibaldi, consapevole dei rischi. Rosalia Montmasson se ne infischiò, era abituata a sfidare l’autorità fin da quando si era fatta firmare la liberatoria dal padre per poter sposare chi voleva. Storie di eroi, di rivoluzionari, di patrioti, che i nostri ragazzi non conoscono neanche, e che parlano di identità, spirito di servizio e libertà in maniera così profonda da far impallidire quella di un argentino morto in Bolivia che ad alcuni piace tanto indossare sulle magliette rosse.
Raccogliemmo quell’epopea in una serie di iniziative dal titolo «Gioventù Ribelle». Mostre, piccole rappresentazioni teatrali, libri, eventi: furono davvero molte le iniziative promosse dal ministero della Gioventù. E, fuori dai confini della nostra competenza, rivendico che fu fondamentale il ruolo della delegazione di Alleanza Nazionale al governo nella celebrazione di quell’anniversario. Non tutti, al tempo, anche nel centrodestra, credevano nel valore dell’Italia unita. Considero, da questo punto di vista, il lavoro fatto negli ultimi anni da Matteo Salvini assolutamente pregevole, ma all’epoca noi ci confrontavamo con quella che ancora si chiamava, con orgoglio, Lega Nord per l’Indipendenza della Padania. Ricordo di aver avuto un paio di aspri scontri con Umberto Bossi – che mi chiamava, probabilmente con scherno, «la Romanina» – sulla richiesta di istituire il 17 marzo la festa dell’Unità nazionale. Una festa degna di questo nome, in uno Stato che ha preferito celebrare momenti nei quali gli italiani erano divisi piuttosto che quelli che ne hanno sancito l’unione. Alla fine, la spuntammo a metà. Per trovare un compromesso, Berlusconi decise che il 17 marzo sarebbe stato solo una celebrazione solenne e non una festa nazionale.
Mentre combattevo contro coloro che oggi sono i miei principali alleati, seppure con protagonisti e idee diversi, in quella vicenda mi ritrovai l’inaspettata sponda di Giorgio Napolitano, allora presidente della Repubblica. Lo avevo conosciuto nel 2006, in un programma televisivo su MTV. Il format prevedeva un confronto tra un giovane candidato alle prime armi e un vecchio saggio della politica. Quando ci ritrovammo qualche mese dopo, io vicepresidente della Camera e lui presidente della Repubblica, mi disse sorridendo: «Quella trasmissione televisiva ha portato bene a entrambi». Ma negli anni della sua presidenza quello delle celebrazioni dell’Unità d’Italia è stato il nostro unico momento di sintonia.
Un altro momento, diciamo così, «formativo» coincise con le Olimpiadi di Pechino 2008.
A differenza dei grillini oggi al governo, e di alcuni pezzi importanti della sinistra, io non ho mai avuto simpatia per il regime comunista cinese, e avevo sempre considerato un’assurdità tenere lì le Olimpiadi, portare risorse e visibilità senza neanche pretendere in cambio segnali rilevanti sul tema dei diritti umani, o sulla drammatica vicenda che, da anni, lacera il Tibet.
Incalzata da Federico Garimberti, allora all’ANSA, durante un’intervista dissi perciò: «Dagli atleti azzurri serve un gesto forte e in questo senso anche disertare l’inaugurazione sarebbe un segnale importante da dare, visto che il problema dei diritti in Cina sembra ormai caduto nel dimenticatoio». Il giorno seguente, il titolo di apertura che ricorreva sui grandi quotidiani suonava più o meno così: Olimpiadi, bufera sulla Meloni.
La polemica durò giorni, ma non me ne sono mai pentita. Certo, ho imparato quanto gli italiani siano sensibili quando si tocca l’argomento sport, e soprattutto ho dovuto fare i conti con il fatto che chi è al governo rappresenta un intero Stato e deve sempre soppesare ogni singola parola, ma credevo allora e credo tuttora che non abbia alcun senso ambire a guidare una nazione se, quando ci si arriva, non si ha il coraggio di essere fedeli a se stessi e alle battaglie che si sono condotte fin lì. Oggi, con maggiore esperienza, so che la forma è fondamentale anche per difendere la sostanza delle proprie convinzioni. Puoi dire tutto, ma devi saperlo fare.
L’esperienza di governo, in questo senso, è stata estremamente utile. Sebbene per me quei tre anni e mezzo siano stati assai faticosi: ero molto giovane e mi mancava una conoscenza approfondita del contesto e delle sue insidie. Imparare tutto in corsa non è stato facile, e spesso ho inciampato, soprattutto quando il governo scricchiolava su materie che, per me, erano ostiche o addirittura imbarazzanti.
Ecco, se c’è una cosa che mi rende felice di aver fondato Fratelli d’Italia è il fatto di dover rispondere sempre e solo di scelte delle quali sono consapevole. Mentre allora, in un partito in cui le decisioni non dipendevano da me e nel quale spesso non mi sentivo neanche troppo a mio agio, mi capitava a volte di vedere da lontano una telecamera e temere le domande che avrebbe potuto farmi il giornalista. Perché da un lato mi sentivo in difficoltà rispetto ai fatti oggetto del dibattito, dall’altro però facevo parte di una squadra che era sempre sotto attacco, e sapevo che – smarcandomi – avrei fatto il gioco dell’avversario. E io non sono mai stata brava a fare l’equilibrista.
A inizio legislatura caddi nella prima trappola di un giornalista, e mi feci subito notare per la mia ingenuità. Era un giorno di fine giugno e, in un attimo di pausa, mi trovavo al mare. Ricordo che passeggiavo sulla battigia quando mi chiamò al cellulare Fabrizio Roncone del «Corriere della Sera». Al tempo non avevo ben chiaro chi fosse, cioè uno dei più temuti castiga-politici del giornalismo italiano.
Poche ore prima erano uscite delle intercettazioni di telefonate tra aspiranti soubrette e Berlusconi, da cui si intuiva che queste ragazze erano in cerca di raccomandazioni.
Roncone iniziò la telefonata blandendomi, facendomi mille complimenti, e quanto sei brava e quanto sei seria... Io non capii dove volesse andare a parare, e abbassai le difese.
Ci vogliono anni e anni per imparare ad avere a che fare con i giornalisti. Adesso, quando mi chiamano, prima chiedo che titolo hanno intenzione di «appiopparmi», e poi decido se concedere l’intervista. Mentre in quella telefonata con Roncone dissi quello che pensavo e penso, e cioè che le raccomandazioni sono frutto di una società che non premia il merito, che le protagoniste della storia mi facevano tristezza e che il comportamento di Berlusconi, in quel frangente, da donna di destra, proprio non mi era piaciuto. Poi, già che c’ero, prima di salutarci infilai una stoccata a Rutelli per una controversa vicenda legata a una fiction televisiva.
Chiusi la telefonata pensando di essermela cavata tutto sommato bene e continuai a godermi il sole di una delle giornate più lunghe dell’anno.
La mattina dopo, all’alba, mi chiamò Ignazio La Russa, capodelegazione di Alleanza Nazionale al governo. Io stavo ancora dormendo, risposi assonnata e sentii lui dire, con la voce ferma: «Ma come ti viene in mente? C’è Berlusconi fuori dalla grazia di Dio». Saltai giù dal letto come un gatto, e mi diressi verso la porta di casa. A quel tempo non c’erano gli iPad o gli smartphone per leggere la rassegna stampa, così avevo un servizio di consegna dei quotidiani a domicilio che mi faceva trovare i giornali sullo zerbino di casa. Ci sono stati giorni, durante quell’esperienza di governo, nei quali ero letteralmente terrorizzata dall’aprire la porta e leggere la prima pagina dei quotidiani. Della serie: chissà cosa mi toccherà affrontare oggi.
Insomma, aprii la porta di casa per prendere il «Corriere della Sera» e a pagina 5 trovai la mia intervista, con richiamo in prima. Titolo: Questo Silvio non mi piace.
All’alba, Berlusconi aveva chiamato La Russa arrabbiatissimo: «La ragazza mi ha già rotto le palle». Le ore successive furono piuttosto complicate, tra mediazioni, spiegazioni, precisazioni, ma alla fine rimasi al mio posto. Con un insegnamento in più nel mio bagaglio: se sanno fare il loro lavoro, i giornalisti non sono amici tuoi. Nonostante i rapporti di stima che, negli anni, ho costruito con molti di questi professionisti, non ho più abbassato la guardia.
L’impatto con la popolarità, soprattutto in piena stagione dell’immagine, che inevitabilmente aveva già investito anche la politica – portando spesso a scegliere le candidate anche sulla base del loro aspetto fisico –, per me militante di trincea fu piuttosto complesso. Ero cresciuta pensando che l’aspetto di un combattente non avesse alcuna rilevanza e mi ritrovavo in una stagione nella quale si facevano i casting per scegliere i candidati. Qualcuno parlò di velinismo, contestando un fenomeno che umiliava il valore delle donne, ma la verità è che ciò valeva spesso anche per gli uomini.
Personalmente non ho mai amato le luci della ribalta. Parlare di timidezza può sembrare paradossale per descrivermi, e invece sono davvero una persona riservata: se entro in un negozio e noto che mi guardano, esco; se in un ristorante vedo che smettono di parlare e mi osservano, mi viene l’ansia. E mi innervosisce terribilmente che mi si facciano foto di soppiatto con il cellulare. Penso sempre che se una persona la foto te la fa di nascosto, invece di chiedertela, non è per una buona causa. Allora, quando li becco, mi avvicino sempre e chiedo: «So’ venuta bene?». Insomma, con gli anni mi sono un po’ abituata, ma all’inizio è stata molto tosta.
Non sono però mai riuscita ad abituarmi ai paparazzi, perché sono estremamente gelosa della mia vita privata e della mia normalità, e credo debba comunque esserci una differenza tra la legittima curiosità che si può avere per una persona nota e pensare che quella persona nota sia una specie di concorrente del Grande Fratello, con le telecamere puntate ventiquattr’ore su ventiquattro pure dentro il bagno. Con i paparazzi ho fatto qualche «piazzata» degna «dei peggiori bar di Caracas». Soprattutto quando hanno tentato di scattare, di nascosto, foto con Ginevra. Ma sono allergica in generale, perché mi manda ai matti, la totale indisponibilità a comprendere che non tutto è vendibile, che non su tutto sia legittimo guadagnare. Tra l’altro, la mia famiglia è stata vittima di uno stalker, quindi la questione non riguarda solo la privacy ma anche la sicurezza.
Così ho imparato a preferire mete dove è altamente improbabile imbattersi nei paparazzi specializzati di jet set e vita mondana. Da alcuni anni, per dire, ho optato per una spiaggia «qualche» chilometro più a sud di Capalbio. Si tratta della ridente Focene, a viale Coccia di Morto, suggestiva location del film Come un gatto in tangenziale. Si chiama Focene per via del Tevere che sfocia nel mare proprio lì, con la sua acqua notoriamente cristallina. Il mio amico Marco Mezzaroma dice, scherzando, che far fare il bagno a Ginevra in quel mare è l’undicesima vaccinazione obbligatoria richiesta dal ministero della Salute. Ma a me il posto piace, anche perché, negli anni, è diventato meta fissa dei miei amici storici. E, se a un certo punto riesco a scappare due ore, so che lì troverò sempre qualcuno di allegro.
Gli ultimi mesi della mia esperienza da ministro della Gioventù furono, forse, i più difficili di tutta la mia vicenda politica fino a oggi. Il culmine di quelle difficoltà arrivò con lo strappo di Gianfranco Fini, che rischiò di condannare la gloriosa storia della destra italiana all’estinzione. Allora non potevo saperlo, ma mentre smettevo di essere ministro dei Giovani diventavo politicamente adulta, dal momento che di lì a poco avrei assunto sulle mie spalle, insieme ad altri temerari, il destino di quella comunità.
Ancora oggi non riesco a spiegarmi le scelte di Gianfranco Fini. Non mi capacito di come l’uomo che aveva dedicato una vita a far crescere la destra in Italia, e che grazie alla sua abilità e alle sue intuizioni l’aveva tirata fuori dai margini dell’arco costituzionale per farne una forza di governo, in pochi mesi abbia fatto tutto ciò che poteva per distruggere quel patrimonio. Non capisco come abbia fatto chi aveva cominciato a fare politica per sfidare l’arroganza della sinistra a seguirne poi i consigli interessati, e a non rendersi conto che lo stavano usando contro la sua stessa gente.
Se lo conosco abbastanza credo che oggi anche lui, in cuor suo, non se ne faccia una ragione.
Ricordo il dramma di quei giorni. La distanza tra Fini e Berlusconi diventata abissale sul piano umano, prima ancora che politico. Lo scontro senza esclusione di colpi. La drammatica direzione nazionale del PDL in cui Fini si alzò con il dito puntato verso Berlusconi pronunciando il famoso «Che fai, mi cacci?». Lo smarrimento di una comunità che si trovò a dover scegliere tra le idee e i suoi storici compagni di viaggio. E davvero per nessuno fu una decisione presa a cuor leggero. Men che meno per me, che con Fini avevo anche un rapporto di amicizia, e passai nottate intere in bianco a bilanciare cosa fosse più grave fra tradire le nostre idee e abbandonare una persona alla quale comunque dovevo molto.
Provai a convincerlo. Gli dissi che eravamo pronti a seguirlo se avesse voluto rompere con il PDL per rifondare un partito di destra, ma che non avremmo potuto farlo se le sue intenzioni erano quelle di assecondare il gioco della sinistra di colpire un governo che aveva il consenso della gente e, nel bene e nel male, difendeva l’interesse nazionale. Non riuscii a convincerlo. Le sirene della sinistra, che cantavano dai palazzi più alti delle istituzioni italiane, lo avevano ammaliato.
Conosco quelle sirene così bene da riconoscerle ancora oggi. A volte cantano al mio orecchio, quando provano a adularmi per spingermi contro i miei alleati di centrodestra. Cari compagni, cercate un’altra strategia. Questa con me non funziona.
Seguirlo fu davvero impossibile per la maggior parte di noi, che alla fine ci ritrovammo orfani all’interno di un partito, il PDL, incapace ormai di rappresentarci pienamente. Credevamo fosse la fine, ma è stato un nuovo inizio. Mi piace accostare a quella fase così drammatica per la destra italiana la massima del filosofo Lao Tse: «Quella che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla». Tutti hanno paura dei cambiamenti, ma è sempre sbagliato non trovare il coraggio e la forza di affrontare le nuove sfide, soprattutto quando si è consapevoli della propria identità.
Probabilmente il nostro mondo non si riconcilierà mai con Fini e con le scelte che ha fatto. Eppure, quella vicenda ci ha dato un grande insegnamento: la destra, la nostra comunità, la nostra storia possono sopravvivere a tutto, e a tutti. Dicevano che senza Gianfranco non saremmo esistiti, come oggi dicono che senza la Meloni non esisterebbe Fratelli d’Italia. Non è vero. Vada come vada, ci sarà sempre qualcuno che non accetterà che tutto questo finisca, che getterà il cuore oltre l’ostacolo, che scoprirà in se stesso una forza che non credeva di avere e sarà pronto a caricarsi il fardello sulle spalle.
Quando guardo indietro, mi accorgo che la mia vita è stata una sfida continua. Ho bruciato le tappe, in un Paese gerontocratico come il nostro, e stabilito diversi record: sono stata la prima donna a capo di un movimento giovanile di destra, il ministro più giovane della storia della Repubblica, la prima donna a guidare un partito e, da poco, la prima donna italiana a capo di una grande famiglia politica europea, l’ECR. E sono stata per tutta la vita talmente concentrata sul dover svolgere bene il mio compito che a volte mi pare che «la Meloni» abbia finito per occupare tutto lo spazio di «Giorgia». Ogni tanto mi chiedo: «Cosa ti andrebbe di fare? Se potessi esprimere un desiderio per te, quale sarebbe?». E mi capita di non riuscire a dare una risposta. Non so più che cosa mi piacerebbe fare.
Una volta un medico mi ha detto che con tutto lo stress accumulato avrei rischiato il burnout, meglio noto come esaurimento nervoso. E mi ha dato un foglio con la prescrizione. Ma sulla ricetta non c’era il nome di un ansiolitico con le dosi di somministrazione. C’era scritto: «Ballare».
Diagnosi e cura erano corrette. Avevo e avrei ancora oggi bisogno di conquistare quella leggerezza che per carattere, e per destino, mi è sempre stata preclusa.
Ho imparato tutto in corsa, gettandomi ogni volta a capofitto, ma per farlo ho dovuto ricorrere a disciplina e concentrazione. La disciplina è stata la mia benzina, ma anche la mia gabbia. Il grande paradosso della mia vita è che, per costruirmi la libertà di essere la donna che voglio essere e di fare le scelte che voglio fare, ho rinunciato a ogni altra libertà.
Forse per questo non so ballare. Ma qualche volta, la domenica mattina, in pigiama, metto la musica, alzo il volume al massimo e ballo con Ginevra.
SONO UNA MADRE
Quando nasce una madre
È per te il dubbio e la certezza
La forza e la dolcezza
È per te che il mare sa di sale
Per te la notte di Natale.
Lorenzo Jovanotti, Per te
Ho scoperto di aspettare Ginevra il giorno del mio trentanovesimo compleanno. Quando un paio di anni dopo ho fatto il test che misura la fertilità, il medico mi ha detto che avrei avuto poche possibilità di avere un altro figlio.
«Ho ragione di credere che la situazione fosse la stessa di ora quando hai avuto Ginevra» ha aggiunto, «considera perciò tua figlia un dono di Dio.»
Tutti i bambini sono un dono ma, se scopri che diventerai madre il giorno del tuo compleanno, la parola «dono» ha un sapore diverso.
L’ho scoperto mentre stavo per uscire di casa con Andrea, per raggiungere i miei amici che avevano organizzato una cena a sorpresa per festeggiarmi. «Sorpresa», per la verità, è un parolone, perché quando avviene ogni anno per un decennio, diciamo così, te l’aspetti. La vera sorpresa arriverà quando smetteranno di farlo. Ma è colpa mia. La sola idea di organizzarmi una festa di compleanno e costringermi a stare al centro della scena anche quando non è necessario mi fa venire l’orticaria. Così mi sono sempre rifiutata di calendarizzare questo genere di eventi. Loro lo sanno, ma non rinunciano all’idea. L’ultima volta mia sorella, ridendo, mi ha detto: «Ti ci metto nella chat segreta della tua festa a sorpresa?». È stata lei, Arianna, la prima a cui l’ho detto, quella sera, nel bagno del ristorante. Lei deve sapere tutto per prima, come sempre. Ricordo che si è commossa, che aveva lo stesso sguardo di quando era stata lei a dare quella notizia a me, anni addietro, per la prima volta. Arianna è così: si tratti di cose belle o brutte, tutto ciò che mi accade lo vive come se stesse accadendo a lei. Per dirlo ad Andrea ho invece aspettato il momento giusto. E, quando quel momento è arrivato, gli ho consegnato un pacchetto. Dentro c’erano un paio di scarpette da neonato. Me lo ricordo come fosse ora il suo sguardo. Rimase senza parole. Credo sia stato uno dei momenti più teneri della mia vita.
Ho partorito all’ospedale San Camillo, a Roma, che mette a disposizione delle famiglie il rooming-in, ossia la possibilità di tenere con sé il neonato durante il ricovero. Un esempio bellissimo di sanità pubblica che consiglio alle future mamme romane. Ovviamente, anche l’annuncio della nascita di Ginevra ha avuto la sua fake news d’ordinanza. Quando scrissi sui social «È nata mia figlia Ginevra», qualcuno lo distorse volutamente trasformandolo in «È nata mia figlia a Ginevra». E giù insulti e derisioni. «La Meloni fa tanto la patriota e poi va a partorire in Svizzera.» E meno male che era Ginevra, chissà cosa avrebbero detto se l’avessi chiamata Luna...
La maternità non era mai stata uno dei grandi obiettivi della mia vita. Ho sempre pensato che i figli fossero soprattutto un prodotto dell’amore. Se trovi la persona giusta, allora suggellerai in questo modo quel legame. Rimpiango di essere stata così cieca. I figli sono l’amore, il più assoluto che esista, ma non sempre riesci a capirlo prima di provare quel sentimento. Io non lo avevo capito. Vorrei averlo fatto, vorrei essere diventata madre più giovane e più di una volta. Ginevra, con quell’ingenuità tipica dei bambini, mi dice a volte: «Mamma, io voglio una bambina piccola vera», e io mi sento in colpa per non poter assecondare quel suo desiderio. Mi sento in colpa di non poterle regalare un legame come quello che ho con Arianna. Mi sento in colpa per aver preferito concentrarmi su cose di importanza secondaria e non avere, ora, più tempo per compiere di nuovo la missione più straordinaria che la vita possa regalare. Viviamo in una società che ci inganna, convincendoci che saremo sempre giovani e fertili, che ci spinge a rimandare le decisioni fondamentali a tempo indeterminato per poi scoprire, troppo tardi, che quel tempo era tragicamente determinato. So che proporre una massiccia campagna per sensibilizzare le donne all’importanza di monitorare fin da giovani lo stato della loro fertilità comporta in automatico un riflesso condizionato da parte di certe femministe, pronte a sostenere che si tratta di una violazione del principio di autodeterminazione, se non della riproposizione del vecchio stereotipo della donna utile solo quando diventa madre. Ma io credo che la verità sia l’esatto contrario. Sei davvero libera di scegliere quando sai tutto, compreso il fatto che non potrai diventare madre per sempre. Libertà è, prima di tutto, consapevolezza.
Certo, anche per me la maternità è stata uno stravolgimento totale, tra momenti di estasi e altri in cui avrei voluto sbattere la testa contro il muro.
Noi parlamentari siamo per molti versi dei privilegiati, almeno dal punto di vista economico. Ma esiste anche un’altra faccia della medaglia. Nessuna legge o diritto sindacale tutela la tua dimensione di normale essere umano. I ritmi di lavoro sono estremamente frenetici, niente nella tua giornata è predeterminato, non ci sono orari prestabiliti e – soprattutto – non puoi permetterti di non essere lucido perché sei troppo stanco. E quando passi la notte in bianco, per mesi, a cullare tua figlia che non dorme, e sai che la mattina dopo avrai le telecamere puntate addosso e ti faranno domande a raffica, alcune volte pensi che non ce la puoi fare. Certe notti ho pianto, di quel pianto isterico che arriva quando il fisico non ce la fa più. In compenso, però, non sono mai stata informata come nei primi mesi di vita di mia figlia. Passavo la nottata davanti alla televisione sperando che lei si addormentasse. Seguivo i tg, sono persino riuscita a vedere qualche serie tv. Poi ci fu il periodo delle elezioni presidenziali americane, con l’inaspettata vittoria di Donald Trump. Mi sono vista tutti i dibattiti, i commenti, e alla fine sapevo a memoria i risultati di tutti gli Stati chiave. Il problema, poi, era riuscire a essere efficace quando ai dibattiti dovevo partecipare io, di giorno. Erano i mesi del referendum costituzionale voluto da Renzi: un momento molto delicato per il futuro della nazione, e dovevo a ogni costo far sentire la voce di Fratelli d’Italia.
Insomma, è stato faticoso, ma non ho mollato. Ho fatto tutto quello che potevo fare. Ho allattato Ginevra, ogni quattro ore, fino allo svezzamento, portandola con me alla Camera ogni giorno, e in giro per l’Italia quando dovevo partire. L’ho allattata anche dopo, fino a un anno e tre mesi, perché fortunatamente il latte non mi mancava e sapevo che quello materno è impareggiabile per il sistema immunitario dei bambini.
Ora va molto meglio, Ginevra la notte dorme e a svegliarmi ci pensano i gatti, Micia e Martino. Vai a capire perché, a loro le coccole piacciono all’alba. Da appassionata di cani, infatti, con il poco tempo a disposizione mi sono dovuta convertire e ora sono una «gattara».
Dicono che non sia importante la quantità del tempo che passi con i tuoi figli, ma la sua qualità. Mi piace pensare che sia vero, e quando sono a casa mi costringo a inventare sempre un gioco nuovo da fare con Gigì, diminutivo d’obbligo per chi si chiama Ginevra Giambruno. Anche sulla quantità del tempo, però, mi sono data delle regole ferree. Con Andrea facciamo i turni per accompagnarla a scuola la mattina, e una delle cose che mi fanno soffrire di più è che molto raramente posso permettermi il lusso di aspettarla all’uscita. E anche accompagnarla all’ingresso non è sempre facilissimo. Qualche tempo fa mi hanno chiesto un’intervista a Radio24: «Dalle 8.30 alle 8.45?». Non posso, perché è proprio l’orario in cui porto Ginevra. Fissiamo allora dalle 8.45 alle 8.55, «perché poi devo chiudere» mi avverte il conduttore. Fedele alla legge di Murphy («Se qualcosa può andare male, lo farà»), proprio quella mattina mia figlia fa una scenata davanti a scuola. Non vuole entrare e continua a ripetere: «Voglio restare con te». Intanto il telefono squilla, mi chiamano per la diretta. Io cerco di prendere tempo, ma di tempo non ce n’è. Imploro allora le maestre, e loro – con gentilezza – mi strappano letteralmente Ginevra dalla gamba, mentre io sto lì che barcollo e cerco di dire qualcosa di sensato sul Recovery Fund. Ma, mentre parlo, la vedo entrare in lacrime e io, non lo dimenticherò mai, in quel momento mi sono sentita un verme.
Mi tengo libera il sabato o la domenica per avere almeno un giorno intero da dedicarle, e poi, ogni sera, faccio di tutto per tornare a casa prima che vada a letto. Non voglio che si addormenti senza il nostro rituale della nanna. Le leggo i libri, a volte mi invento delle favole – con tutti i fantasy che ho letto non mi è difficile immaginare regni, draghi e principesse guerriere – e alla fine le canto, sempre, La canzone di Marinella di De André. Canzone allegra, direte, ma quando ho cominciato a cantarla lei era troppo piccola per capirne il testo. Per la precisione, le cantavo, perché a un certo punto ha sentito la versione di Caterina di X Factor e ora, se provo a cantare io, lei mi ferma subito: «Mamma, metti la signora che la canta, non cantare tu». Di recente, mentre la ascoltava, ha detto: «Voglio andare a casa di Marinella con te». Allora io le ho dato la mano. «Se chiudi gli occhi, ci puoi andare sognando, a casa di Marinella. Tu la pensi e puoi volare a casa sua. Però prendimi per mano se no io mi perdo.» Chiude gli occhi stringendomi forte con la sua manina, ma dopo un po’ li riapre. «Ci possiamo andare domani?» Poi lascia la mia mano e si gira dall’altra parte per dormire. I bambini sono così, un po’ teneri, un po’ spietati.
Per questa regola che mi sono data tendo a non partecipare a cene o eventi serali, registro le trasmissioni televisive nel tardo pomeriggio e, chiaramente, ho rinunciato alle poche serate con gli amici che ogni tanto mi distraevano dalle incombenze. Il problema sono le campagne elettorali. Ogni giorno ti trovi in una regione diversa, e quando tutte le sere vuoi rientrare a Roma, per ripartire la mattina dopo, i ritmi diventano disumani. Prima di Ginevra, uscivo di casa con la valigia senza sapere bene quando sarei tornata, stavo in giro anche per settimane dormendo ogni sera in un posto diverso. Da quando è arrivata lei, il tempo che trascorro sui mezzi di trasporto si è moltiplicato. Auto, aerei, treni, traghetti, vaporetti, filovie, cremagliere... A parte il monopattino – sarà che li odio perché il governo rossogiallo ha pensato bene di spendere, per incentivarli, centinaia di milioni di euro in piena pandemia –, i mezzi di trasporto li ho usati tutti. Spesso scappo alla fine delle manifestazioni per riuscire a prendere l’ultimo aereo, e a chi vorrebbe che mi fermassi per qualche selfie in più dico: «Non avrebbe senso cercare di convincervi che mi occuperò delle vostre famiglie, se poi non riesco a occuparmi nemmeno della mia». La gente lo capisce, e lo rispetta. In fondo anche questa è coerenza. Ho conosciuto persone che parlano tutto il giorno di famiglia e poi vedono i figli tre giorni l’anno.
In Italia la campagna elettorale non finisce mai. Si conclude con una regione e si comincia con l’altra. E poi europee, politiche, referendum, amministrative: ce n’è sempre una. E, per quanto cerchi di accontentare tutte le realtà che si stanno dando da fare, alla fine qualcuna rimane inevitabilmente esclusa. Mi spiace tantissimo, ma d’altronde il dono dell’ubiquità è prerogativa dei santi come Padre Pio. E poi, a vedere i programmi delle campagne elettorali, viene da pensare che chi le organizza non abbia ben chiare le leggi della fisica e il rapporto spazio-tempo. Capita che ci sia un comizio la mattina, due nel pomeriggio e uno la sera, in tre regioni diverse. La cosa incredibile è che questi programmi fantascientifici, seppure con qualche fisiologico ritardo, riesco a rispettarli, chiaramente rinunciando a cose secondarie tipo mangiare, bere o darmi una sistemata al viso. Poi puntualmente, la sera, arriva l’edificante commento di mia madre: «Amore, ti ho visto al tg. Brava sei brava, ma datti una truccata, sembri un ranocchio».
Una volta, durante uno di questi tour elettorali, arrivo in un paesino, e subito tutti sono lì che mi mettono fretta perché – mi spiegano – mi stanno aspettando da un’ora. Un’ansia... Appena apro lo sportello della macchina e metto piede a terra, mi prendono e mi accompagnano di corsa sul palco, dove hanno già parlato il candidato sindaco, i dirigenti del partito e, forse, anche qualche passante. Mi danno immediatamente il microfono, tocca a me. Faccio un paio di battute per rompere il ghiaccio e comincio a parlare. Ma quando è il momento di fare il nome del candidato sindaco, niente: mi rendo conto che non mi ricordo come si chiama. A dire il vero lo conosco bene, ma niente, vuoto totale. Allora prendo tempo, continuo a parlare, e intanto con lo sguardo inizio a cercare un manifesto, e fingendo di sistemarmi i capelli sbircio pure il cartellone alle mie spalle. Macché, niente. Neanche un volantino sul tavolo. Così vado avanti parlando per un’ora, senza che da nessun angolo della memoria salti fuori il nome del candidato sindaco. Intanto il sole tramonta e, piano piano, si fa l’ora di cena.
A quel punto, mi arrendo. E mentre continuo a parlare dicendo nemmeno io so più cosa, prendo il cellulare con disinvoltura e, rapidissima, scrivo un sms a quello che sta seduto accanto a me.
«Ma ’sto candidato come si chiama?»
Quello, veloce, mi passa un biglietto di carta con il nome.
Così io, ormai stremata, posso concludere: «Votatelo!».
Considero le iniziative sul territorio, il comizio di piazza, le manifestazioni che prevedono la presenza fisica assolutamente necessari. Incontrarsi di persona lascia qualcosa di diverso, una traccia più vera e più profonda; vedere dal vivo luoghi e situazioni è fondamentale anche per rendersi conto del vissuto di chi li abita. Non ho mai creduto che la politica si potesse fare unicamente attraverso il filtro della televisione o della rete. E ho ragione, dal momento che chi lo ha fatto si è sempre rivelato solido come un castello di carte.
I comizi sono la dimensione nella quale mi trovo più a mio agio, per due motivi. Il primo è che l’entusiasmo degli altri è la mia benzina. Il secondo è che io parlo a braccio, e nei comizi ho tutto il tempo necessario ad argomentare. Non ho mai letto un intervento, a parte quelli in inglese. Leggere toglie empatia, slancio, sincerità. E io sono figlia di una tradizione politica di grandi oratori, nella quale non c’è mai stato nessun leader che leggesse i suoi interventi. Faccio un esempio su tutti: quando Giorgio Almirante, il 16 gennaio 1971, riuscì a parlare a braccio per più di nove ore alla Camera contro lo Statuto speciale del Trentino-Alto Adige, provvedimento che scuoteva (e ne abbiamo ancora oggi diretta testimonianza) la bilancia dei diritti dall’equità a un trattamento di favore per gli abitanti di lingua tedesca, penalizzando proprio quelli di lingua italiana. Fare il possibile per essere all’altezza di questa «scuola» è un altro modo di dimostrare che non abbiamo dimenticato da dove veniamo. Certo, spesso preparo un testo, ma solo per gli interventi che hanno un tempo limitato. Pinuccio Tatarella, un altro dei grandi della destra italiana, diceva che più l’intervento è breve, più va preparato: devi sapere esattamente che cosa dire, e devi dirlo prima che finisca il tempo. Quando intervengo in aula, ad esempio, solitamente lo faccio in dichiarazione di voto, e ho al massimo dieci minuti. Così preparo una traccia. Non è detto che poi la segua, ma mi serve per avere chiaro il tempo che ho a disposizione. Un intervento di dieci minuti sono mediamente tre pagine, e so che, se vado lunga su qualcosa, dovrò tagliare qualcos’altro. La bozza mi serve per seguire un filo logico, e fissare i punti fondamentali di quello che voglio dire.
Per il comizio, invece, è diverso: segno solo le parole chiave dei punti che voglio trattare perché posso parlare quanto voglio, e alla fine non parlo mai meno di mezz’ora. Invidio quelli che riescono a fare dieci comizi al giorno: parlano per tre minuti, si prendono gli applausi e se ne vanno. Io non ne sono mai stata capace. È una specie di sindrome da attore di teatro: parto dal presupposto che, se anche coloro che sono venuti a sentirmi non pagano il biglietto, si sono comunque presi del tempo. Magari hanno chiuso prima il negozio, o hanno lasciato i figli dai nonni, o hanno interrotto lo studio. Lo hanno fatto per ascoltarmi, mi hanno dato un credito, quindi meritano che io li ripaghi dando il massimo. Che ad ascoltarmi ci siano venti persone o duemila, per me è uguale. Sento la responsabilità di non mandarle a casa deluse. Insomma, se venite a sentirmi, non pensate di cavarvela con poco.
Io scrivo su carta, a mano. È il mio metodo per fissare in testa le cose, da quando andavo a scuola e, per non dover studiare troppo il pomeriggio, mi costringevo a stare attenta in classe appuntando in tempo reale la spiegazione del professore.
Ho una mania per le penne, soprattutto stilografiche o con inchiostro colorato. Scrivo solo su quadretti, in stampatello, perché il testo deve essere comunque ordinato. Non amo leggere sul computer, e se volete farmi leggere un foglio stampato, sia chiaro che deve essere giustificato e la pagina deve finire con il punto. Chi lavora con me sa anche che i testi vanno stampati con carattere Segoe, corpo 12. Insomma, Sheldon Cooper, il protagonista maniacale della serie tv The Big Bang Theory, sarebbe fiero di me.
Mi porto sempre appresso tre quaderni: quello bianco per scrivere le «cose da dire», quello con le «cose dette di recente» e quello su cui appunto le «cose da fare». Tutti questi foglietti che scrivo li conservo, divisi per temi. Ogni foglietto è scritto con due colori diversi, che mi rimangono in testa, così è più facile ritrovarli se cerco qualcosa nello specifico. In ufficio esiste un’«enciclopedia dei foglietti», disponibile per la consultazione. Ogni tanto penso sorridendo a quel poveretto al quale, dopo la mia morte, dovessero chiedere di raccogliere in un libro il mio pensiero politico, e lo immagino affranto e sommerso da foglietti colorati.
Il bisogno maniacale che ho di avere tutto sotto controllo produce tante altre conseguenze nella mia vita. Ad esempio, a differenza di ciò che molti potrebbero pensare, non ho mai avuto uno spin doctor. Le persone con le quali quotidianamente metto a punto il mio lavoro sono le stesse da anni. Giovanna, ad esempio, la «temibile» responsabile dei rapporti con la stampa, lavora con me dai tempi di Azione Giovani. Era una militante, voleva diventare giornalista. Cominciammo a collaborare e non abbiamo mai smesso. Siamo cresciute insieme, imparando sul campo, tra errori, discussioni, sconfitte e vittorie. Certo, avrei potuto assumere qualcuno con maggiore esperienza, ma ho preferito privilegiare il legame che c’è tra persone che condividono le stesse idee e le stesse battaglie. Il resto si può imparare; la sincerità, la dedizione figlia di una convinzione profonda, no. Anche Paolo, il più pignolo e infallibile tra noi, che oggi prepara tutte le schede per le trasmissioni televisive e per le campagne elettorali, era un militante. Ora aspetta il terzo figlio, e davvero non so come faccia a concentrarsi quando è costretto a lavorare anche la sera o nel fine settimana, con tutti quei bambini che piangono, giocano e gli saltano addosso. E poi c’è Tommaso, il nostro social media manager, con Alberto e la loro piccola squadra di universitari. Ragazzi giovani, appassionati, intraprendenti, che sanno sempre darmi il loro punto di vista sul sentimento degli italiani. Tutti autodidatti. Io mi fido ciecamente, ma non c’è nessuno neanche tra loro che potrebbe convincermi a essere diversa da come sono o a fare qualcosa che non sento mio. Negli anni si sono presentati in tanti, professionisti del settore, pieni di consigli su come dovessi atteggiarmi in pubblico e, soprattutto, in televisione. Su come dovessi vestirmi e truccarmi. Ma non c’è verso: non indosserò mai un abito che non sia il mio. Chi lavora con me sa anche che è impossibile farmi entrare in testa una cosa che non mi convince. Se devo lanciare in televisione una manifestazione in cui non credo molto, puoi anche mettermi davanti un cartello scritto a caratteri cubitali, non ci riuscirò. Il mio cervello si inceppa se quello che arriva non è passato prima dal cuore.
Non è detto che sia un pregio. È questo tratto del mio carattere che mi ha impedito di correggere alcuni limiti. Come ad esempio il fatto che gesticolo come un polipo, che quando sono assorta o concentrata tendo a corrucciare la fronte e finisco per sembrare sempre arrabbiata, che essendo molto emotiva a volte mi lascio andare alla passione e mi metto a gridare, o che parlo troppo veloce. Ricordo l’espressione disperata dell’interprete della lingua dei segni, che durante un comizio, per tentare di stare al passo con il mio discorso, aveva finito per sudare. Ora chiedo sempre scusa in anticipo quando so che c’è un interprete LIS.
Se riuscissi a smussare questi difetti, la mia immagine sicuramente ne guadagnerebbe. Ma sarei davvero io? In fondo, credo che un personaggio pubblico non possa mentire. Alla lunga non puoi nascondere chi sei, nel bene e nel male. E non è neanche giusto farlo. Le persone devono credere in te per chi sei davvero, non per chi fingi di essere. E comunque il bluff, prima o poi, viene sempre scoperto. Ne ho visti di politici costruiti a tavolino, con una faccia e un’anima in pubblico che poi si deformano appena si spegne il riflettore. Non sono mai durati.
Certo, negli anni ho imparato anche io qualche piccolo trucco. In televisione, ad esempio. Quando ero agli inizi ero così in ansia prima di partecipare a un programma tv che sì e no ricordavo di vestirmi; ora che ho sufficiente esperienza da padroneggiare il mezzo, ho imparato a occuparmi anche di cose, in teoria, secondarie. Se so che devo andare in una certa trasmissione, penso alla scenografia dello studio e al «costume» da indossare per non essere troppo distonica. Una volta a Porta a Porta avevo indossato una camicia bianca, e sulla poltrona bianca sembravo l’uomo invisibile.
Ho scritto «cose, in teoria, secondarie» perché ho purtroppo dovuto fare i conti con il fatto che non lo sono. In tv, come appari rischia di essere più importante di quello che dici, ciò che si vede arriva molto prima di ciò che si ascolta. Così capita che dopo aver studiato per ore, aver imparato numeri e dati per essere autorevole e convincente, alla fine della tua partecipazione arrivi sempre, implacabile, il messaggio del tipo: «Ti ho seguito in tv. Sai che stai benissimo con quei capelli?».
Lo so, è la società dell’immagine, ma mi fa impazzire, ed è il motivo per cui preferisco di gran lunga la radio alla televisione. Perché in radio non c’è spazio per i fronzoli, per le cose che luccicano, per i colori. Tutto è immaginazione, e quello che arriva di te parte dritto dalla tua anima, senza alcun tipo di sovrastruttura.
Eppure dirò sempre grazie alla televisione. È stata indispensabile nella crescita della mia popolarità, e quindi del consenso a Fratelli d’Italia, e poi devo proprio a uno studio televisivo il mio incontro con Andrea.
Bello come il sole, aveva attirato la mia attenzione durante le mie prime partecipazioni alla trasmissione di Paolo Del Debbio, mentre dal bordo dello studio, munito di cuffie, impartiva i tempi. Lo avevo guardato spesso, cercando di non farmi notare, e non aveva mai ricambiato. Una volta sola mi aveva rivolto la parola. Quando, durante una pausa pubblicitaria, avevo mangiato una banana per fermare la fame. La pausa volgeva al termine e io, con i resti della banana in mano, mi guardavo intorno in cerca di aiuto. Si era avvicinato e con aria di sufficienza mi aveva strappato la buccia dalle mani. «Dammi qui. Ci manca solo che andiamo in onda con la banana.» «Carino sei carino, però ammazza che iena» avevo pensato.
Poi non l’avevo più visto in quella trasmissione. Mesi e mesi dopo ero a Milano ospite di Mattino Cinque, lo storico programma di Mediaset. Arrivai all’alba decisamente assonnata e mi infilai in sala trucco chiedendo che dessero una presentabilità alla mia faccia gonfia. A un certo punto, eccolo lì. Entrò in sala trucco con la sua camicia bianca, venne dritto verso di me e cominciò a scherzare. «Toh, è diventato pure simpatico» pensai. Dopo la trasmissione tornai a Roma, ma mi era rimasto impresso. Allora, con la concretezza tipica delle donne, rimediai il numero e gli mandai un sms dal contenuto innocuo. Non si fece sfuggire l’occasione.
È iniziata così la storia d’amore più bella che abbia vissuto. Un paio di mesi dopo mi portò a Parigi per il mio compleanno. Aveva prenotato la cena nel ristorante più bello e più caro della città, proprio di fronte a Notre-Dame. Credo si sia svenato per farmi vivere quella favola. Ricordo la sua faccia atterrita di fronte alla carta dei vini che il maître cercava di suggerirgli. Prese il librone e andò dritto verso le ultime pagine, probabilmente cercando una bottiglia che non comportasse accendere un altro mutuo. Disse deciso: «Va bene questo», e il maître lo guardò con aria compassionevole. Dopo un po’ cominciai a sdrammatizzare, e alla fine passammo tutta la serata a ridere in quell’ambiente azzimato, con le signore ingioiellate che ci guardavano con disappunto.
Andrea è intelligente e sicuro di sé, è molto bravo nel suo lavoro, e questo lo rende uno dei pochissimi uomini al mondo capaci di non soffrire se hanno accanto una donna affermata. Non ha mai avuto alcuna soggezione per il mio ruolo di «capo», forse anche perché conosce quella vulnerabilità che sono in grado di mostrare solo alle persone che amo. Il suo non è un carattere facile, come del resto anche il mio, ma abbiamo costruito il nostro solido equilibrio con amore e determinazione. Quando entrambi riusciamo a lasciare il mondo, con le sue intemperie, fuori dalla porta di casa, la nostra è ancora una favola.
Lui, estraneo all’universo nel quale ho passato e passo gran parte della mia esistenza, riesce a tenermi agganciata alla realtà, alla normalità. È questo che lo rende unico.
Andrea è un padre fenomenale, e io sono estremamente fiera del rapporto che Ginevra ha con lui. Nelle settimane in cui lavora a Milano, Gigì mi dice in continuazione: «Mamma, mi manca papà. Andiamo a Milano?». Ginevra adora andare a Milano, dove i suoi nonni paterni, Flavia ed Elio, i suoi zii Ilaria e Paolo e il suo cuginetto Ascanio la viziano come se non ci fosse un domani. Soffriamo tutti della distanza forzata, specialmente in epoca COVID. Per me, che da bambina ho sempre sognato una famiglia numerosa, averne oggi una e non riuscire mai a vederla tutta riunita è una specie di maledizione. Andrea e Ginevra giocano, ridono, scherzano, e hanno costruito una complicità che, di solito, i bambini riescono ad avere solamente con i loro coetanei. Così, alla fine, io mi ritrovo a fare la classica parte della madre rompiscatole che li rincorre con la giacca da infilare mentre si tirano le palle di neve. Ma ne sono felice. Dio solo sa se avrei voluto anche io vivere la felicità che oggi Ginevra sperimenta. Di tutte le frasi che mi hanno resa fiera come madre, la principale l’ha detta il pediatra. «È una bambina felice» ha risposto mentre la visitava, alla domanda «Come sta?».
Non so esattamente cosa sia la felicità. Io l’ho rincorsa tutta la vita e credo di non averla afferrata davvero mai. Alla fine mi sono convinta che aveva ragione Giacomo Leopardi quando scrisse Il sabato del villaggio. La felicità è soprattutto attesa di qualcosa che, pensi, ti renderà felice. Poi Gigì mi ha ricordato che la felicità la puoi acchiappare, per un secondo o due. Quando accade qualcosa che non ti aspetti e in un attimo, per un attimo, ti infiamma il cuore. Come quella volta in cui, dopo un pomeriggio passato insieme da sole perché Andrea era a Milano, Ginevra si avvicinò per darmi un bacio. Lo fa raramente, forse anche perché io la bacio così spesso da non darle il tempo di prendere l’iniziativa. «Perché mi baci?» le chiesi. «Mamma, sono tanto contenta quando stiamo insieme, io e te.» Eccola lì, in un niente, la felicità. Quando diventi madre sperimenti tutti i picchi. E, tra questi, felicità e paura a un livello che non avevi mai vissuto prima. Non c’è notte che non la accarezzi, quando si addormenta, ringraziando Dio per un altro giorno in cui è stata sana e felice. E non c’è notte in cui non mi addormenti pensando a tutte le cose tragiche che le sarebbero potute accadere durante la giornata appena trascorsa. All’inizio ho pensato di essere pazza, poi ho parlato con quasi tutte le mamme che conosco e ho scoperto che siamo tutte così. E se le donne non riescono a essere davvero solidali tra loro, tutte le mamme lo sono. Di quella solidarietà di cui sono capaci solo i veterani usciti vivi dal fronte. Qualsiasi dramma accada a un bambino, o più in generale a una persona, a qualunque latitudine, la prima cosa a cui penso è la mamma. La sua sofferenza. Piango per figli che non sono miei, ho fatto fioretti per bambini che non ho mai conosciuto, e cerco ogni giorno di fare qualcosa che possa alleviare le paure, le sofferenze, o le difficoltà di ogni madre. Non sono così io. Siamo così tutte.
Ho riflettuto molto sulla differenza di genitorialità tra la nostra generazione e quella dei nostri genitori. Noi passiamo la giornata a cercare un modo per far divertire i nostri figli, per far sperimentare loro cose nuove, come se dovessero avere tutto e subito. Noi facciamo quello che vogliono loro. I nostri genitori non erano così. Eri tu che avresti dovuto fare quello che volevano loro, che ti saresti dovuto adeguare. Forse la grande differenza sta nel fatto che i nostri genitori erano mediamente molto più giovani di noi, ed erano quindi molto più focalizzati sui loro desideri, sulla loro voglia di vivere, sulle loro aspettative. Noi abbiamo cominciato a fare figli quando avevamo già sperimentato tutto, e abbiamo finito per concentrare sui bambini tutte le nostre emozioni e le nostre attese. Ma c’è un paradosso in tutto questo. Se i nostri genitori erano più giovani di noi, perché sono riusciti a mantenere un’autorevolezza, una gerarchia nel rapporto con i loro figli, che noi oggi ci sogniamo? E quando a dicembre metti sotto l’albero una quantità di regali che Babbo Natale non riuscirebbe mai a trasportare sulla sua slitta, lo stai facendo felice o lo stai viziando? Quando dici troppe volte di sì, gli fai del bene oppure gli stai complicando l’esistenza, facendolo vivere in una campana di vetro nella quale tutto è possibile, per fargli scoprire troppo tardi che nella vita reale non sarà così? È meglio un sì ottenuto con facilità oggi o una conquista raggiunta con il sacrificio domani? Nessuno, probabilmente, ha una risposta certa per queste domande. Perché quello del genitore è un mestiere nel quale la formazione è permanente, e non ci sono testi che valgano per tutti sui quali imparare. Ma, anche qui, il pediatra mi è venuto in aiuto: «Sentirai tutto e il contrario di tutto su come devi fare con tua figlia. Fidati sempre dell’istinto. Nessuno sa cosa è bene per un bambino come la sua mamma».
Così con Andrea abbiamo deciso di fidarci dell’istinto, e dell’amore. Non era scontato che riuscissi a farmi amare, e ad amare, fuori dai confini della nostra comunità. Quando vivi una realtà totalizzante come quella della militanza politica fatta fin da ragazzo, capita, alla fine, di non avere altro fuori da lì. Per molti di noi è andata esattamente così. Ricordo quando, durante le campagne elettorali, qualcuno diceva: «Fate l’elenco dei vostri amici da contattare» e c’era gente che, per non ammettere di non aver più coltivato amicizie al di fuori del perimetro, si ritrovava a fare telefonate tipo Carlo Verdone in Un sacco bello, quando cercava amici per andare a Cracovia: «Pronto, Amedeo? Ciao, sono Enzo... No Renzo, Enzo. Se te ricordi bene ci siamo conosciuti circa due o tre mesi fa, no, al distretto militare, in coda... T’avevo telefonato pe’ sapè come t’eri messo per Ferragosto...».
Amori, amicizie, contesto sociale, lavoro, spesso tutto si è incrociato. Oggi mi fa sorridere quando qualche giornalista tira fuori lo scoop di due esponenti politici di Fratelli d’Italia che hanno tra loro rapporti di parentela, come se la parentela fosse arrivata prima dell’impegno politico, e non invece il contrario. Malignando, a volte, qualcuno chiama Lollo «il cognato della Meloni», come se fosse per il fatto di essere il compagno di mia sorella che oggi è uno dei dirigenti più in vista di Fratelli d’Italia. Non pretendo che questi «professionisti» sappiano che quando Lollo ha conosciuto Arianna era già consigliere provinciale, con me, ma una veloce ricerca aiuterebbe a raccontare la realtà per come è, e non per come si vorrebbe che fosse.
E mia sorella, forse, è stata la peggiore vittima di questo implacabile meccanismo distorsivo. Ogni tanto la piazzano sul giornale alla voce «raccomandati» perché lavora al gruppo regionale di Fratelli d’Italia. E poco importa che abbia cominciato a lavorare alla Regione da militante oltre vent’anni fa, quando io non ero nessuno. Poco importa che, di tutti quelli che hanno iniziato a lavorare lì con lei, sia l’unica, a quarantacinque anni suonati, a essere ancora precaria, che si sia rifiutata sempre di partecipare al concorso di stabilizzazione proprio perché, se l’avesse vinto, le avrebbero detto che era grazie a me che aveva ottenuto quel posto. Poco importa, se si può sbattere il mostro in prima pagina. Ogni volta che ho letto uno di questi articoli ho pensato che in Italia si fa sempre di tutto per dimostrare che non conviene essere persone oneste e perbene, se vogliono denigrarti troveranno comunque il modo di farlo. Ma non ci convinceranno a cambiare. Alla fine è soprattutto te stesso che devi poter sempre guardare dritto negli occhi. Finché riesci a fare questo, non ci sarà nessuno che potrà farti abbassare lo sguardo.
Il guaio di certa antipolitica è proprio questo. Dovendo per forza dimostrare che tutti i politici sono dei vermi schifosi, alla fine non riesce più a distinguere chi cerca di fare del proprio meglio da chi ha scambiato l’elezione in Parlamento con il concorso a premi «Turista per sempre».
Io sono stata vittima di questa logica varie volte. Ad esempio, i campioni di moralismo un tanto al chilo del Movimento 5 Stelle si divertono a cercare di dimostrare che non farei bene il mio lavoro pubblicando continuamente i dati delle mie presenze nelle votazioni a Montecitorio. I più temerari mettono addirittura in giro la voce che io cumulerei tre poltrone e tre stipendi, essendo contemporaneamente deputato al Parlamento italiano, componente del Parlamento europeo e consigliere comunale a Roma. Non bisogna essere un parlamentare per conoscere le norme che regolano il nostro ordinamento perché, come si sa, la legge non ammette ignoranza. Ma anche se sei un ignorante conclamato potresti studiare, e allora, caro grillino, scopriresti che in Italia è vietato per legge cumulare stipendi da incarichi pubblici, e persino cumulare determinati incarichi. Così, non è consentito essere contemporaneamente deputato al Parlamento italiano ed europeo, ragione per cui quando sono stata eletta in Europa ho dovuto scegliere tra i due incarichi, e ho deciso di rimanere in Italia. È invece consentito essere contemporaneamente parlamentare e consigliere comunale, ma in questo caso non si possono percepire due diarie. Il consigliere comunale a Roma lo faccio gratis, e dato che sono più presente del sindaco Raggi in assemblea capitolina, direi che è un bene che faccia il mio lavoro a Roma senza costare nulla alla collettività.
Diversa è la questione delle mie presenze durante i voti. È vero che, attualmente, risulto presente a circa il 40 per cento delle votazioni. Ma, anche qui, devi essere un miracolato grillino, che non sa cosa sia la politica, per ritenere che sia questo a misurare il grado di utilità di un parlamentare. Per capirci, dire che la capacità di un parlamentare si evince dal numero delle votazioni alle quali partecipa equivale a sostenere la tesi secondo cui il valore di uno chef si misurerebbe con il numero delle ore che passa a guardare i fornelli.
Attualmente, le mie presenze alle votazioni in aula sono in linea con quelle degli altri segretari di partito. Ma se anche non fosse così, non sarebbe questo dato a stabilire se gli italiani che hanno votato per Fratelli d’Italia hanno fatto bene oppure no. Il ruolo di un buon parlamentare non è dato dalle volte in cui schiaccia acriticamente un bottone, magari dietro l’indicazione arrivata dal collega che ha seguito il provvedimento in commissione, ma dalla sua produttività. Un parlamentare è utile se prova a risolvere i problemi e, fosse per me, a questo parametro legherei gli stipendi. Così, se calcolassimo il numero di emendamenti, mozioni, interrogazioni e proposte approvate che recano la mia firma, si scoprirebbe che io sono uno dei deputati più produttivi di Montecitorio. Tra i primissimi, su seicentotrenta eletti. Ma dico di più. Le votazioni alla Camera si concentrano, in pratica, in quarantotto ore settimanali. Iniziano il martedì pomeriggio e durano fino al giovedì all’ora di pranzo. In queste quarantotto ore si definisce anche lo stipendio, che viene calcolato sulla percentuale di presenza alle votazioni, mentre tutti gli altri giorni non contano. Per intenderci, io potrei lavorare per quarantotto ore e non fare nient’altro nei rimanenti cinque giorni, e avrei il 100 per cento di presenze e lo stipendio pieno. È la ragione per la quale se veniste alla Camera di lunedì, o di venerdì, la trovereste deserta. Ma, con ogni probabilità, incontrereste me, che a Montecitorio vado ogni giorno, se non sono fuori Roma (sempre per lavoro), proprio per svolgere tutte le infinite mansioni che il mio ruolo di segretario di partito richiede.
Perché il mio lavoro non si esaurisce nei comizi, o nell’attività parlamentare, o nella televisione, nelle interviste, nei giri per l’Italia. Il mio lavoro è fare al meglio tutto questo, e molto di più. Un segretario di partito elabora e detta la linea politica, chiaramente insieme ai deputati e ai responsabili dei dipartimenti competenti, costruisce il programma elettorale e sovrintende alle singole proposte, su ogni provvedimento, per verificare che siano compatibili con le linee generali. Dedica molta parte del suo tempo agli incontri con gli esponenti delle categorie e delle associazioni, perché un buon politico raccoglie gli spunti sui problemi che esistono e su come risolverli da chi li affronta tutti i giorni. E per me, che ho scelto di configurare Fratelli d’Italia come partito «produttivista», la task force più utile di tutte è composta da chi ogni giorno vive la trincea dell’economia reale. Se c’è una cosa che so, è che la ricchezza non la crea lo Stato. La creano le imprese e i lavoratori; lo Stato può al massimo redistribuire una parte di quella ricchezza, ma deve mettere chi può crearla in condizione di farlo nel modo migliore. Così, per noi, è fondamentale il dialogo con imprenditori, professionisti, lavoratori, volontari e rappresentanti della società civile.
E poi ci sono le questioni organizzative, perché un partito è anche una grande struttura. Un segretario di partito è come l’AD di una grossa azienda, e deve saper coordinare il funzionamento di quella complessa macchina. Affinché quel meccanismo funzioni servono regole certe e un’applicazione ferrea delle stesse, perché ogni volta che un ingranaggio si inceppa, il blocco ricade su chi lo guida. Noi abbiamo dovuto guadagnarci con sangue e sudore ogni singolo centimetro percorso dalla nostra nascita, e non possiamo permetterci defaillance. È anche la ragione per la quale il nostro movimento è autenticamente meritocratico, e ognuno deve saper fare bene il suo lavoro, senza sconti e senza limiti. È quello che accade ogni giorno. Mi arrabbio quando sento dire «La Meloni è brava, ma è sola» perché è falso. Io sono sicuramente il volto e il nome attraverso i quali un’intera comunità si rappresenta. Ma, se quella comunità non ci fosse, anche io non sarei nulla. Come direbbe Mowgli nel Libro della giungla: «La forza del lupo è il branco, la forza del branco è il lupo».
Le cose che contano
Canto e piango pensando che un uomo si butta via
Che un drogato è soltanto un malato di nostalgia
Che una madre si arrende ed un bambino non nascerà
Che potremmo restare abbracciati all’eternità.
Renato Zero, Più su
Agli occhi del pensiero unico dominante io sono una bigotta. Un’impresentabile oscurantista, che si aggira minacciosa nel tentativo di mettere al rogo chiunque voglia favorire il progresso. Intendendosi, per «progresso», questioni come la teoria gender, l’utero in affitto o l’aborto al nono mese.
Eh sì, perché io combatto queste pratiche. Non perché sia contraria al progresso, ma per la ragione diametralmente opposta: perché combatto la barbarie. E non lo faccio partendo da un approccio confessionale, anzi. Certo, credo in Dio, ma non ho mai fatto determinate battaglie per dogma religioso, o nel tentativo disperato di accaparrarmi le simpatie della Chiesa e dei fedeli, ammesso che – dopo la fine della Democrazia Cristiana – esista ancora, in Italia, un blocco elettorale cattolico. Conduco queste battaglie per convinzione, per laico buon senso. Sono una persona abituata a farsi delle domande scomode, e a darsi delle risposte sensate. E troppe volte le risposte che su questi temi sono arrivate dai sacerdoti del politicamente corretto, di sensato non avevano proprio nulla. È giusto che mentre un cucciolo di cane, correttamente, non si può strappare dal grembo della madre appena nato, lo si voglia consentire per un bambino? È sensato battersi per impedire che le donne siano costrette a vendere il loro corpo e allo stesso tempo considerare una conquista che siano portate a vendere i propri figli? Perché i giudici italiani tolgono la potestà genitoriale, contro il loro parere, a due genitori naturali di una bambina ritenendo che questi signori siano troppo anziani per occuparsene adeguatamente, ma se si tratta di due uomini ultracinquantenni che comprano un bambino all’estero si fa finta di nulla? Perché, se ci hanno detto che il papà di Eluana Englaro doveva essere libero di poter staccare la spina della macchina che la teneva in vita, dato che «nessuno sa meglio di un genitore cosa sia bene per i suoi figli», lo stesso diritto non è valso per i genitori di Charlie Gard e Alfie Evans, bambini ai quali i medici hanno voluto staccare la spina rivolgendosi addirittura ai giudici perché fosse imposta per legge quella decisione alle famiglie? Perché deve vincere sempre la cultura della morte? Perché mentre conduciamo la sacrosanta battaglia per impedire le sperimentazioni sugli animali, vogliono farci passare per progresso quella sugli embrioni umani? Perché nella stessa Europa che utilizza il tema della laicità dello Stato come una clava contro i simboli cristiani, si consente che vi siano interi quartieri nei quali ormai vige la Sharia, la legge islamica? E perché la giusta attenzione nei confronti di ogni minoranza non vale per i cristiani perseguitati nel mondo?
Nessuno dei miei avversari ha mai risposto a simili domande. Forse è questa la ragione per la quale sia io sia coloro che con me condividono questa stessa visione siamo sempre stati dipinti come delle persone orribili: per scappare dal confronto. La sinistra, e i cosiddetti buonisti, fanno sempre così. Quando non hanno argomenti convincenti da contrapporre ai tuoi, semplicemente dichiarano a monte la tua indegnità per non dover entrare nel merito delle questioni che poni. Ma sono disposta in ogni momento, e in ogni luogo, a una discussione pubblica su queste materie, partendo dalla banale logica.
Ricordo quando fui invitata al Congresso mondiale delle famiglie, un appuntamento promosso da alcune associazioni per confrontarsi sullo stato dell’arte delle tematiche legate alla famiglia in Italia, e fui oggetto, per questo, di ogni genere di insulto. Ricordo le manifestazioni a Verona, le femministe che mi urlavano contro, i picchetti per impedirci di entrare, e ricordo che si discusse persino sull’opportunità che il governo italiano concedesse il patrocinio all’iniziativa. Sì, perché lo stesso Stato che negli anni ha patrocinato le cose più impresentabili – dalle mostre con opere che ritraevano Gesù Cristo crocifisso immerso in un bicchiere di urina, o la Madonna che piange sperma, mentre fingeva di non vedere le iniziative nelle scuole in cui si prendono bambini di sei anni e si cambiano loro i vestiti, mettendo alle femminucce gli abiti dei maschietti, e viceversa, per spiegare la teoria gender – ora si vergognava di mettere le sue insegne su un convegno che parlava di come incentivare la famiglia naturale fondata sul matrimonio; di come aiutare le donne a non essere discriminate, a non dover scegliere tra mettere al mondo un bambino e avere un posto di lavoro; e di come combattere quella deriva che fa della vita umana uno strumento nelle mani della scienza, invece del contrario.
Il paradosso più inaccettabile di tutti è che secondo i sacerdoti del pensiero unico devi essere libero di poter fare ogni cosa. Libero di privare un bambino della madre o del padre, libero di decidere della vita di un altro, libero di abortire al nono mese, o di farlo a casa con una semplice pasticca, come se la gravidanza equivalesse a un banale mal di testa. Devi essere libero di definirti donna anche se non lo sei, uomo anche se non lo sei, libero di drogarti e disporre della tua morte come ritieni. Ma non puoi essere libero di dire che non sei d’accordo con tutto questo. Per paradosso, i sostenitori delle più estreme libertà sono anche i più feroci censori di chi afferma le tesi contrapposte.
Io credo che non ci sia nulla di mostruoso o impresentabile nel difendere la famiglia fondata sul matrimonio. E dico di più, credo che non ci sia neanche nulla di discriminatorio verso gli altri tipi di unione. Ognuno è libero di amare chi vuole, ovviamente, ma questo non c’entra niente con le leggi. Perché le leggi di uno Stato non normano i sentimenti, e ci mancherebbe altro. Lo Stato tende a incentivare ciò che considera utile e necessario per migliorare il funzionamento della società. Così, i nostri padri costituenti, non dei biechi bigotti, scelsero di inserire nella Costituzione il cosiddetto favor familiae, una legislazione dedicata per stimolare, attraverso una serie di benefici, l’unione solida tra un uomo e una donna. Per una ragione banale, che nulla ha a che fare con la sfera affettiva di ognuno: perché allo Stato la famiglia formata da un uomo e una donna che si sposano serve. Come ammortizzatore sociale, intanto, perché le istituzioni non potrebbero caricarsi il peso di tutto ciò che la famiglia garantisce. E in secondo luogo perché un uomo e una donna che si uniscono in matrimonio lo fanno quasi sempre anche nell’ottica di avere dei bambini, e alla società servono figli. Il popolo italiano sta scomparendo. È un fatto, non un’opinione. Pensate che il 2020 (annus horribilis) è stato l’anno in cui abbiamo registrato il minimo storico di figli dall’Unità d’Italia. Cioè dal 1861! E come se non bastasse, complice l’epidemia di COVID-19, è stato anche l’anno con più decessi dal dopoguerra. Quasi il doppio dei neonati. Purtroppo gli italiani fanno pochi figli e non condivido l’idea sostenuta sempre più apertamente dalla sinistra, che si possa fare a meno degli italiani, rimpiazzandoli con chi è appena arrivato da altre parti del mondo. Un grande conservatore contemporaneo, il filosofo francese Rémi Brague, ha giustamente annotato: «Un’epidemia uccide, un crollo della natalità impedisce di nascere. Il risultato è lo stesso...».
Quello della denatalità è il più grande problema che l’Occidente si trova ad affrontare. La denatalità mette a repentaglio non solo la nostra tenuta sociale, ma anche quella economica. Il nostro sistema di welfare, per essere mantenuto, ha bisogno di ricambio. Le nostre comunità continuano a invecchiare, l’età media, fortunatamente, si allunga, e il nostro sistema di protezione sociale non può reggere se, mentre gli anziani aumentano, i bambini invece diminuiscono. Andando avanti avremo sempre più persone da mantenere e sempre meno persone che lavorano per mantenerle. Tornare a fare figli è indispensabile, e questa è la principale ragione per la quale dovremmo rafforzare la legislazione di favore che abbiamo verso la famiglia, invece di picconarla come stiamo facendo, accecati dal furore ideologico.
So cosa qualcuno di voi starà pensando, mentre legge queste righe. «Parli tanto di famiglia fondata sul matrimonio ma intanto non sei sposata.» È vero. Personalmente, se lo facessi mi sposerei in chiesa, perché per come la vedo io, se decidi di prenderti verso un’altra persona l’impegno a fare tutto ciò che puoi per salvaguardare quell’unione, «nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, tutti i giorni della tua vita», ha senso che tu lo faccia al cospetto di Dio. Ma questa è una scelta personale. Se decidi di farlo di fronte allo Stato, sai che comunque questo premierà quell’impegno alla stabilità che ti stai prendendo. Puoi decidere di non farlo, certo, ed è quello che per ora ho fatto io, consapevole di perdere qualcosa. Ma il punto è che non pretendo che lo Stato riconosca a me gli stessi privilegi che riserva a chi quell’impegno lo ha messo per iscritto.
Perché il problema è che viviamo in una società nella quale pare non esistere più alcun nesso tra diritti e doveri. Ogni desiderio diventa un diritto, persino ogni capriccio, e di contro è sparito qualsiasi richiamo alla responsabilità. Io rivendico una società nella quale sia chiaro che a ogni scelta corrispondono delle conseguenze. Alla libertà serve responsabilità. Invece da noi l’egoismo si trasforma facilmente in programma politico. «Voglio partorire un bambino a settant’anni, voglio diventare madre anche se sono un uomo, voglio un reddito di cittadinanza anche se potrei lavorare, voglio la cittadinanza italiana anche se ho appena messo piede in Italia», e potrei fare una lunga lista di altre pretese che finiscono per diventare istanze politiche, quando non addirittura leggi dello Stato.
Oggi la famiglia, come nucleo fondante di ogni società e dell’identità di ciascuno di noi, è sotto attacco. Lo è come tutto ciò che ci definisce, perché per l’ideologia globalista l’identità in sé è il principale nemico da abbattere. Se ci fate caso, tutti i presidi identitari, tutto ciò che ci distingue è avversato con ogni mezzo. La famiglia come la nazione, l’identità di genere come la religione. Tutti questi principi sono considerati un retaggio del passato, qualcosa di stantio da superare, e il ruolo di chi come me si definisce conservatore è, invece, difenderli. «La vera ragione per cui le persone sono conservatrici è che sono attaccate alle cose che amano e vogliono preservarle da abusi e decadimenti» ha sempre ribadito Roger Scruton, il più grande pensatore conservatore contemporaneo, scomparso all’inizio del 2020 (arieccolo!).
Da ragazzi tutti abbiamo cantato la meravigliosa melodia di Imagine di John Lennon, una delle più famose canzoni della storia della musica. Tutti abbiamo pensato che le sue parole fossero rivoluzionarie, e che alla base del pensiero di quel pioniere del globalismo vi fosse il sogno di un mondo finalmente giusto, finalmente buono. Ma rifletteteci un attimo. È davvero un sogno da realizzare un mondo senza confini, senza distinzioni, privo delle sue culture millenarie e delle sue tradizioni, nel quale siamo tutti non uguali nei diritti, ma uguali e basta? È davvero ciò a cui dobbiamo tendere, rinunciare alla centralità della persona umana, alla sua unicità, diventare tutto e non essere niente, se non anelli di una catena di montaggio, semplici numeri, privi di consapevolezza e di radici, e dunque della civiltà che ci portiamo dietro, con la sofferenza delle sue conquiste? Non è invece, quella raccontata poeticamente da Lennon e perseguita con molta meno poesia dai buonisti di oggi, l’anticamera di una società omologata nella quale saremo così deboli da non poter più difendere i nostri diritti, e saremo in balia delle grandi concentrazioni economiche, di quel mondialismo spinto che accentra il potere e la ricchezza nelle mani di pochi, sulla pelle di miliardi di persone, che plasma a suo uso e consumo?
Tutti uguali, tutti consumatori dello stesso prodotto, tutti schiavi. «Produci, consuma, crepa» ammoniva non a caso Giovanni Lindo Ferretti con i suoi CCCP. E sempre Lindo Ferretti scrive invece, con la sua L’imbrunire, un inno che sembra la risposta proprio a Imagine di John Lennon, con quel suo incipit – «Sogno ponti levatoi e mura a protezione / piccole patrie sempre sul chi vive...» – che in molti tra i buonisti considererebbero scioccante. Perché, se c’è un nemico contro cui il «cretino planetario» – come lo definì Marcello Veneziani – si scaglia, esso è il muro. «L’appello ad abbattere i muri e a stendere ponti è ormai ossessivo e riguarda non solo i popoli e i confini territoriali ma anche i sessi e i confini naturali, le culture e i comportamenti, le religioni e le appartenenze, e perfino il regno umano dal regno animale. [...] Senza muri non c’è casa, non c’è tempio, non c’è sicurezza. Senza muri non c’è pudore, intimità, protezione dal freddo, dal buio e dall’incognito. Senza muri non c’è senso della misura, riconoscimento del limite e dei propri limiti. Senza muri non c’è bellezza, non c’è fortezza, non c’è fondazione delle città, non c’è erezione di civiltà. [...] I muri sono i bastioni della civiltà, gli ospedali della carità, le biblioteche della cultura, le pareti dell’arte, il raccoglimento della preghiera.»
L’idea secondo cui l’esistenza del limite rappresenta una violenza verso l’altro è pura follia. Peggio, è ignoranza. Lo disse bene Alberto Angela, il quale, in un monologo in RAI del 2017, seppe spiegare con parole semplici ed efficaci come «un muro unisce non solo un popolo ma anche tanti popoli lungo il tempo».
No, il mondo preconizzato dal leader dei Beatles non è la mia utopia. La mia utopia è che in questa società sempre più persone ritrovino il coraggio di dire ad alta voce quello che, in cuor loro, continuano a pensare ma preferiscono non esternare per non essere tacciate di impresentabilità. Perché sono idee tutt’altro che impresentabili, spesso sono tesi persino banali, e tuttavia oggi è necessario combattere per difenderle. «Fuochi verranno attizzati per testimoniare che due più due fa quattro. Spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate» scriveva Gilbert Keith Chesterton, e ancora più chiaro, tanto per cambiare, è Tolkien, che nelle Due torri fa dire al principe Faramir: «La guerra è indispensabile per difendere la nostra vita da un distruttore che divorerebbe ogni cosa; ma io non amo la lucente spada per la sua lama tagliente, né la freccia per la sua rapidità, né il guerriero per la gloria acquisita. Amo solo ciò che difendo: la città degli uomini di Nùmenor; e desidero che la si ami per tutto ciò che custodisce di ricordi, antichità, bellezza ed eredità di saggezza» (sì, lo so, due citazioni una attaccata all’altra non si dovrebbero mettere, ma stavolta era davvero impossibile scegliere tra le due).
Prendiamo la legge 194. Ripeterò fino allo sfinimento che non ho mai avuto alcuna intenzione di abolire la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza. Rivendico, invece, la sua piena applicazione, in particolare per tutta la parte che riguarda la prevenzione. La legge 194 fu immaginata e voluta per eliminare gli aborti clandestini, ma considerava comunque l’aborto una extrema ratio e si poneva l’obiettivo di aiutare le donne a non dovervi ricorrere. Poi è stato il furore ideologico di certa sinistra, tanto per cambiare, a impedire che tutta la parte relativa al sostegno delle donne in senso precauzionale venisse applicata. Per me, invece, è irrinunciabile affermare che le istituzioni sono dalla parte di chi decide di tenere un bambino.
Lungo il mio percorso politico ho più volte fatto proposte per impedire che per troppe donne l’interruzione di gravidanza fosse l’unica possibilità. Aiuti economici per portare a termine la gestazione, anche nel caso in cui si volesse dare il bambino in adozione, sostegno psicologico, il potenziamento dei centri di aiuto alla vita. Ogni volta che ho posto tali questioni si sono levati gli scudi, in nome del «diritto all’autodeterminazione della donna». E ogni volta, anche qui, nessuno ha risposto alle mie domande. Ma che autodeterminazione è, se l’unica strada che mi viene proposta è quella dell’aborto? Autodeterminazione significa poter fare una scelta libera, scevra da condizionamenti, pienamente consapevole, tra diverse opzioni. E questa libertà, oggi, spesso non viene garantita. Una cosa è impedire che le donne finiscano sotto i ferri di qualche macellaio illegale, ed è giusto, ma cosa completamente diversa è considerare l’aborto una vittoria, qualcosa a cui tendere o da incentivare o da banalizzare. Perché può essere doloroso, nel corpo e nell’anima, e non si può fingere che non sia così. Non si può escludere a priori che alcune donne che scelgono questa strada un giorno potrebbero pentirsene, e io ne ho incontrate diverse. Non si può dire che è una conquista di civiltà abortire da sole a casa con una pasticca, che produce contrazioni ed emorragie, solo perché bisogna sostenere per forza la tesi che abortire è facile. Invidio coloro che in questo campo hanno solo verità da dispensare. Quelli che ti dicono senza tentennamenti che un embrione non è vita, o che è tale dalla quattordicesima settimana di gravidanza. Io queste certezze non le ho, ma so che la prima cosa che ho visto di mia figlia Ginevra, durante un’ecografia, era il suo cuore che batteva. E so che ognuno di noi, dal momento del concepimento, è portatore di un codice genetico unico e irripetibile, per sempre. Questo, piaccia o no, ha del sacro. E il sacro non si maneggia con arroganza o con superficialità.
Ma poi, quale civiltà spende molti più soldi e molte più risorse per cercare modi per liberarsi più facilmente della vita umana di quanti ne spenda per cercare di favorirla? Davvero queste sono tesi impresentabili? Io credo di no. Credo che impresentabile sia una politica che si fa finanziare e sostenere dalle multinazionali degli aborti, come accade ai presidenti democratici USA con la Planned Parenthood, per poi magari proporre la legalizzazione di pratiche come l’aborto a nascita parziale, un orrore contro il quale il presidente degli Stati Uniti George W. Bush dovette fare un’apposita legge, e che Hillary Clinton, durante la sua campagna per le presidenziali, tornò a proporre. Saltate le prossime tre righe se non volete leggere qualcosa di davvero spaventoso. Aborto a nascita parziale significa che fanno uscire solo il corpo del bambino e schiacciano la testa mentre si trova ancora nel grembo, così da configurarlo come aborto e non come omicidio. Questa pratica io la combatterò sempre, con tutte le energie che ho, costi quel che costi.
Come combatterò una società che a parole si schiera con le donne, con le mamme, con i bambini ma nel concreto fatica a fare un salto culturale fondamentale: riconoscere che i figli sono una risorsa irrinunciabile, e che chi li mette al mondo sta facendo qualcosa di utile per tutti noi. Per questo, fra le altre cose, occorre dare vita a strumenti che consentano alle donne, nel terzo millennio, di non dover scegliere tra avere un figlio o un lavoro, e a chi potrebbe assumerle di non dover pagare di più per averlo fatto. Ci scagliamo spesso contro gli imprenditori che, a parità di condizioni e di capacità, tra assumere un uomo o una donna in età fertile, scelgono spesso il primo per «paura» che la seconda possa andare in maternità, ma omettiamo di dire che il nostro welfare scarica la gran parte del costo della maternità di quella dipendente proprio sulle imprese, e in un’era come questa non tutti se lo possono permettere. Così come ci lamentiamo che i giovani rinuncino troppo spesso alla genitorialità ma dimentichiamo che nell’attuale sistema un figlio equivale, per uno dei due genitori, di solito la madre, a dover rinunciare allo stipendio, per periodi più o meno brevi, in un’Italia nella quale, ormai, è difficile cavarsela per una famiglia monoreddito. Perché non è l’egoismo a scoraggiare i giovani dal fare figli, come in troppi dicono, ma la paura. Paura di non avere una stabilità, di non poter mai comprare una casa, di non avere una pensione dignitosa, eccetera. In una parola, di non poter garantire a quel bambino il meglio. Per paradosso, è l’amore verso quel figlio non ancora nato a impedirgli, spesso, di venire al mondo. Non a caso tante volte mi è capitato di definire eroi i giovani che scelgono di diventare genitori.
Partono da queste riflessioni molte delle proposte che abbiamo trasversalmente sostenuto, come l’assegno unico familiare – perché su alcune materie è fondamentale collaborare e non dividersi –, e molte delle rivendicazioni che abbiamo elaborato negli anni, particolarmente con Fratelli d’Italia.
Abbiamo ideato, ad esempio, un potenziamento dei nidi e delle scuole dell’infanzia, estendendo l’orario fino alla chiusura dei negozi, e prevedendo anche un’apertura estiva a rotazione, come viene fatto in Paesi ben più poveri dell’Italia; così come abbiamo fatto decine di proposte per far coprire allo Stato il costo di sostituzione di maternità, invece di scaricarlo sulle aziende, e aumentare la retribuzione dei congedi, portandola all’80 per cento anche dopo i primi mesi, perché l’attuale 30 per cento diventa spesso proibitivo. Sono tutte misure necessarie per agevolare e potenziare l’occupazione femminile. Certo costano, e di soldi non ce ne sono molti. È la ragione per la quale sia a Giuseppe Conte, sia a Mario Draghi, abbiamo proposto di inserire il tema della natalità tra le priorità del Recovery Plan. La questione demografica non è solo un problema italiano, ma europeo, e non mi capacito di come la stessa Europa che ha un programma per tutto, dall’Erasmus sulla mobilità all’Horizon sulla ricerca, non abbia mai ritenuto di investire risorse su questa questione con un programma Familiae. Ma, in ogni caso, in questo dibattito continuano a sfuggire alcuni punti fondamentali. Primo: non è vera la teoria di chi, rassegnato, dice che incentivare la natalità o addirittura le famiglie numerose sarebbe un deterrente al lavoro femminile. Con adeguati strumenti le due cose possono camminare insieme, come hanno ampiamente dimostrato nazioni, Francia e Stati del Nord in testa, nelle quali è stata messa in campo una strategia seria di sostegno alla maternità, e che oggi vantano un alto tasso di occupazione femminile e – contemporaneamente – un numero di nascite al di sopra della (tragica) media europea. Secondo: la disoccupazione femminile è un enorme freno allo sviluppo del nostro Paese. Per intenderci, dati alla mano, se l’Italia colmasse il gap occupazionale delle donne in rapporto agli uomini colmerebbe automaticamente anche buona parte del divario occupazionale tra Italia e media europea. Mettendo le donne italiane in condizione di lavorare, noi saremmo automaticamente una nazione più produttiva e più ricca, e questo comporterebbe anche maggiori risorse che entrano nelle casse dello Stato e che possono essere reinvestite in strumenti di protezione sociale e incentivo, creando un incredibile circolo virtuoso.
Spero davvero che questi miei ragionamenti non passino per essere ciò che non sono, e cioè legati a una visione passatista del ruolo delle donne, ma che possano invece essere considerati un terreno comune di riflessione su ciò che serve per modernizzare l’Italia. In queste materie, purtroppo, gli schemi ideologici di alcuni impediscono spesso di confrontarsi con serietà e coscienza sulle grandi questioni del nostro tempo. A me capita spessissimo di essere banalizzata, o ghettizzata da certa intellighenzia per le cose che dico, indipendentemente dal come e dal perché lo dico, come se il merito delle questioni non interessasse perché è più importante appiccicare un’etichetta o farmi rientrare nello stereotipo che altri hanno costruito per me. Tutti si dicono d’accordo sul fatto che la denatalità in Italia sia un problema, ma se lo dico io che sono di destra, allora la mia è nostalgia per l’Opera maternità e infanzia di Benito Mussolini.
Stessa cosa su tutte le materie definite etiche, e che io preferisco chiamare «valori non negoziabili», come la sacralità della vita. Un principio che ha fatto dell’Europa la civiltà che è, e dell’Italia una pioniera di quella civiltà. Fu infatti il Granducato di Toscana, nel 1786, ad abolire per primo la pena di morte nel continente. Perché siamo contrari alla pena di morte se la vita non è sacra? In altri Paesi, ancora oggi, finiscono sulla sedia elettrica i pluriassassini, persone non certo amabili, eppure noi in Europa ci rifiutiamo, giustamente, di accettare il principio che la vita di un essere umano, di qualsiasi essere umano, possa venire considerata, secondo la legge, come un interruttore che si può accendere o spegnere per mano dell’uomo. Se quel principio è un valore, e io credo lo sia, allora certi temi devono essere maneggiati con cura.
Prendiamo la questione, dibattutissima e complessa, dell’eutanasia. Ricordo la drammatica vicenda di dj Fabo, un bel ragazzo pieno di vita che in seguito a un incidente era rimasto totalmente paralizzato e a lungo ha combattuto per chiedere di farla finita, perché non riusciva a sopportare di dover attraversare in quella condizione la sua esistenza. Ricordo quando mia madre mi telefonò arrabbiatissima perché sosteneva la sua richiesta e considerava crudele la mia opposizione al principio dell’eutanasia. E ricordo quante volte mi sono domandata, guardando quel ragazzo, come mi sarei sentita io al suo posto, e quante altre ho provato a mettermi nei panni di sua madre, che straziata vede soffrire quel figlio ogni singolo giorno, e finisce per accettare di vederlo morire pur di mettere fine a quella sofferenza.
Sono umana come tutti quelli che hanno sostenuto la battaglia di Fabo, ma sono anche un legislatore, e il mio compito è capire la portata che hanno decisioni che sembrano facili, e umane, guardando al singolo caso, ma che inevitabilmente portano effetti disumani e impensabili quando vengono universalmente applicate. Perché «tutti i cittadini [...] sono eguali davanti alla legge». Mi spiego. Se io stabilisco, per norma, il principio secondo cui una persona che considera – a torto o a ragione – la sua vita non dignitosa è libera di porvi fine, questo varrà per tutti. E, poiché il giudizio sulla dignità della propria esistenza è soggettivo, non ci sarebbero più limiti. Se invece di essere paralizzato completamente, come Fabo, non avessi le gambe, sarei libero di chiedere che mi venga tolta la vita? E se fossi sano ma infelice? O dispongo della mia vita o non ne dispongo, non ci sono parametri che possano regolare questo discrimine. E non sto facendo filosofia, sto semplicemente raccontando la cronaca di quello che è successo nei Paesi che hanno fatto leggi sull’eutanasia, magari partendo da casi estremi, e poi si sono ritrovati con i minorenni depressi che chiedevano di essere uccisi. Il punto di vista del legislatore è molto più complesso di come può apparire dall’esame dei fatti di cronaca, e deve essere così. Serve qualcuno che si assuma la responsabilità di non inseguire l’emotività del momento e di farsi domande scomode. Spesso è doloroso, e difficile, ma è il compito della politica.
Non tutto ciò che è scientificamente possibile, per come la vedo io, è anche umanamente lecito. È lecito che una donna, magari costretta dall’indigenza, ceda il proprio utero per denaro e affronti un’intera gravidanza, un parto, e poi veda quel bambino nascere e lo venda, perché qualcuno possa avere un figlio col proprio patrimonio genetico quando non è biologicamente possibile, per l’età avanzata o perché gli aspiranti genitori sono due uomini? A mio avviso non lo è. Anche qui, si parte dal caso singolo, magari toccante, di chi vorrebbe giustamente vivere l’emozione e l’amore della genitorialità e si finisce con i supermercati di bambini, dove puoi scegliere il colore dei capelli del tuo futuro figlio come fosse un qualunque prodotto da banco. Perché o è lecito comprare un figlio o non lo è, e se lo è ci saranno automaticamente i «negozi» che li vendono, non lo potrai impedire.
Davvero nessuno si fa queste domande, o semplicemente si preferisce reprimerle per rincorrere il facile consenso? Perché c’è anche questo alla base della nostra società fuori controllo. L’idea che tutto sia dovuto, e la tendenza a privilegiare chi ha voce per rivendicare i suoi presunti diritti rispetto a chi quella voce non ce l’ha. Per un fatto di consenso. Chi vota, vince. Ma è giusto uno Stato che tutela il più forte, invece di difendere chi non può farlo da solo? No, non lo è dal mio punto di vista. Per questo, ad esempio, sono contraria alle adozioni da parte delle coppie omosessuali, e non per omofobia, come anche qui si dice per non dover rispondere alle domande banali che faccio.
In Italia non è consentita l’adozione ai single, e le leggi sull’adozione prevedono una serie di criteri molto stringenti per le coppie che si propongono, che vanno dalla situazione economica dell’aspirante famiglia, alla stabilità della coppia, fino all’età dei futuri genitori. Eppure nessuno ha mai parlato di singolofobia, o di poverofobia, o di anzianofobia. Semplicemente perché la fobia non c’entra nulla. Tutte queste norme vengono fatte a tutela del più debole, cioè del bambino, che non potendo scegliere da solo ha bisogno che sia lo Stato a occuparsi di lui, e perché si ritiene che a ogni bambino debba essere garantita la condizione ottimale. Avere un padre e una madre, una famiglia possibilmente unita, di un’età congrua. Resto convinta che ogni bambino abbia diritto ad avere un padre e una madre. Il che non significa dire che due uomini, o due donne, non potrebbero crescerlo con amore, esattamente come sono tantissimi i bambini felici cresciuti in famiglie monogenitoriali. Io sono una di questi, e ho avuto una bella infanzia della quale ringrazierò sempre la mia mamma, per gli enormi sacrifici che ha fatto. Ma quando vedo Ginevra giocare con suo padre devo fare i conti con una felicità che io non ho mai potuto provare. Perché la vita ci può privare di alcune cose, succede. Si guarda in faccia il proprio destino e ci si adatta. Cosa diversa, però, è che sia la legge a privartene, perché altri hanno ritenuto che il loro desiderio valesse più dei tuoi diritti. Se fossi in un dibattito ad argomentare questa tesi, il mio interlocutore replicherebbe, probabilmente, con una frase del tipo: «Ma non è meglio far crescere un bambino con qualcuno che lo ami, fossero anche una persona sola o due persone dello stesso sesso, piuttosto che farlo vivere in un istituto?». Giusto il principio, sbagliato il presupposto. Per variegate ragioni, oggi i bambini che si riescono a adottare sono molti meno delle famiglie che vorrebbero adottarli. E questo ci consente di garantire loro l’optimum, almeno sulla carta.
Mi dispiace se alcune persone omosessuali non condivideranno questa mia posizione ma io non faccio politica per rincorrere il consenso, bensì per difendere le idee in cui credo. Mi dispiace essere etichettata da qualcuno come «omofoba» per questo, anche perché penso di essere una delle persone meno bigotte del pianeta. Non lo dico per assecondare la vulgata del politicamente corretto, ma davvero reputo che ognuno, purché non faccia del male ad altri, possa amare chi vuole e vivere la propria vita sessuale come meglio crede. La mia non è «tolleranza» nei confronti di chi è altro rispetto a me, è proprio che non distinguo le persone in base alle scelte sentimentali che fanno. La mia è piuttosto intolleranza nei confronti delle cose illogiche, tipo l’ideologia gender, quella secondo la quale non esisterebbero le categorie biologiche di maschio e femmina, ma un’infinità di sfumature, in base ai gusti, al carattere e alle inclinazioni di ciascuno. Una tesi che apre numerosi interrogativi che in troppi fingono di non capire.
Da qualche tempo si cerca di portare le teorie gender nelle scuole, con la scusa di favorire la cultura della tolleranza. E si pretende che queste attività partano fin dalle elementari. È uno degli obiettivi della legge Zan, che formalmente si propone di combattere l’omofobia ma nella pratica fa tutt’altro. Quando la norma fu discussa in aula, feci ai colleghi una domanda alla quale nessuno rispose. È giusto spiegare cosa sia l’omosessualità a bambini di sei anni nella stessa scuola in cui si è scelto di non portare l’educazione sessuale? E perché, pur non essendo sessuofobi, non insegniamo l’educazione sessuale a scuola? Banalmente, perché si è ritenuto che bambini così piccoli non avessero gli elementi per metabolizzare adeguatamente alcune questioni, e che dovessero essere le famiglie, che conoscono quei bambini meglio di chiunque altro, a maneggiare una materia così delicata, e a me pare ancora la scelta giusta da fare.
Di nuovo, ognuno è libero di sentirsi come vuole, di ascriversi l’etichetta che più sente propria, ma quando si passa dai comportamenti individuali alle norme che regolano la vita della collettività, ai principi da applicare a tutti, con l’idea di «tutelare» qualcuno si rischiano nuove ingiustizie. La teoria gender portata all’estremo potrebbe avere conseguenze enormi, e finirebbe per discriminare soprattutto le donne. Ed è strano che, a volte, siano proprio alcune femministe le principali sponsor di queste bizzarre tesi.
Puoi essere uomo e sentirti donna, puoi essere donna e sentirti uomo, ma non puoi pretendere che le leggi dello Stato ti assecondino. Perché se lo facessero, semplicemente, sarebbe il caos, e soprattutto andrebbero disperse molte conquiste fatte fin qui, in particolare dal mondo femminile. Farò solo un esempio, per far comprendere cosa intendo: i transgender nel mondo dello sport. In Australia, un atleta uomo di pallamano è diventato donna e ora gioca nella nazionale femminile. Pesa cento chili per un metro e novanta. È giusto verso le atlete biologicamente donne, che non potranno mai competere con una tale forza? Martina Navratilova, campionessa di tennis lesbica e femminista, ha giustamente dichiarato: «Non basta definirsi donna per competere con le donne. [...] È una vera e propria truffa che ha consentito a centinaia di atleti che hanno cambiato genere di vincere quello che non avrebbero mai potuto ottenere in campo maschile, specialmente negli sport in cui è richiesta potenza». A me pare chiaro che le cose siano sfuggite di mano.
E ancora: arriveremo a stabilire le quote per ogni singolo orientamento sessuale e identità di genere? E, se lo facessimo, sarebbe corretto dire che è ingiusto nei confronti delle donne? Io, come si sa, non sono favorevole alle quote rosa, ma come la prenderebbe la sinistra se all’atto della compilazione delle liste elettorali, avendo problemi a stare nel bilancino della parità di genere, chiedessi a qualche mio deputato maschio di dichiarare che si sente femmina per metterlo al posto di una candidata donna? E ancora, se stabiliamo che sia discriminazione dire che gli uomini non hanno l’utero e non possono avere figli, significa anche che le leggi in favore delle mamme, e le risorse destinate, dovranno essere disponibili per chiunque senta in cuor suo di avere un utero anche se non risulta da nessuna ecografia? Fate pace con voi stessi, cari compagni, che rischiate di attorcigliarvi sulle vostre bizzarre rivendicazioni.
Se devo dirlo con una battuta, viene da pensare che gli uomini, avendo capito che è arrivato il tempo delle donne, si stiano buttando in questa metà campo; ma al di là delle semplificazioni rimane il fatto che, se decidiamo che i generi sono da abolire, andrà a discapito soprattutto delle donne, che saranno terribilmente penalizzate proprio mentre il mondo comincia a riconoscere il loro valore. Tutti i passi in avanti che sono stati fatti verranno cancellati. E a me, che non sono mai stata femminista ma sono sempre stata fiera di essere una donna, non pare una buona cosa.
Sono felice di essere nata donna, cresciuta in una famiglia tutta al femminile, perché non ho mai avuto a che fare con l’assurdo concetto dei ruoli subalterni riservati a moglie e figlie rispetto ai maschi di casa. Ovviamente le cose non sono cambiate nella mia attuale famiglia, dove non esistono ruoli precostituiti che considero retaggio di un mondo passato. Per me la famiglia è una squadra, i cui membri si suddividono i compiti a seconda del tempo e delle predisposizioni, senza stereotipi e senza sopraffazioni. È come un puzzle, in cui tutto sembra scombinato ma, alla fine, si incastra alla perfezione. Del resto, la prima regola dell’amore, come dell’amicizia, è che è una scelta. Se ti senti costretto, qualcosa non funziona. Con Milka, la mia migliore amica – una bella ragazza dallo sguardo fiero e il sorriso contagioso, che mi ha accompagnato, ascoltato, sopportato negli ultimi venticinque anni –, lo diciamo sempre. Possiamo passare settimane senza neanche sentirci, ma questo non cambia le cose. Io ci sarò sempre per lei e lei per me. Entrambe lo sappiamo, e ci basta. La vera amicizia è tutta qui.
Io non sono certo il prototipo della casalinga, ma quando sono a casa non mi dispiace occuparmi delle cose domestiche. Anzi, alcune mansioni, soprattutto mettere in ordine, mi rilassano. Mi piace anche cucinare, ma non posso dire che agli altri piaccia sempre mangiare quello che preparo. In ogni caso, se cucino poi non pretendo necessariamente che Andrea lavi i piatti. Li lavo io altrettanto volentieri, a patto che, mentre lo faccio, ci sia buona musica da ascoltare. Ma devo riconoscere che, se non posso fare qualcosa, per Andrea non è mai stato un problema sostituirmi. Anche questo me lo fa amare: Andrea si cimenta con qualsiasi incarico. Lui ha una madre molto presente, ma essendo andato a vivere da solo fin da giovane ha imparato presto a gestirsi. Sa stirare persino le camicie, all’occorrenza. E meno male, perché io a quarantaquattro anni suonati ancora non ho capito come cavolo si stiri la manica di una camicia da uomo.
Dividere gli spazi non è stato facile per chi come me era abituata a vivere da sola, e al massimo aveva condiviso la casa con il gatto Martino. Ma considerato lo spazio che gli ho lasciato negli armadi, per Andrea deve essere stato ancora più difficile. Comunque, ce la caviamo alla grande. Certo, con la mania dell’ordine che ho, ogni volta che lui lascia qualcosa fuori posto, o meglio fuori dal posto che la mia mente aveva assegnato a quell’oggetto, io lo vivo come un sacrilegio. Lui ama togliersi le scarpe e lasciarle in giro. A volte mi sembrano così tante, le sue scarpe, che mi pare di abitare con Carrie Bradshaw di Sex and the City. Quando sono a casa cammino dietro a lui e a Ginevra, e ogni volta che spostano qualcosa, io lo rimetto a posto. Devo risultare una figura inquietante, ai loro occhi. E forse anche ai vostri, se veniste a suonare alla mia porta senza preavviso. Perché rischiereste di trovarmi così: felpa con orsacchiotto di peluche, capelli tenuti alla rinfusa con un fermaglio e aspirapolvere in mano. Altro che dottor Jekyll e mister Hyde, noi siamo più veloci a trasformarci da donne in carriera che camminano a passo spedito su altissimi tacchi ad agguerriti manovali col pigiamone di pile.
E poi, lo ammetto, adoro fare la spesa. Al supermercato, se non ho tempo, ma soprattutto al mercato, dove puoi trovare genuinità, qualità e il più incredibile istituto di sondaggi che si possa sperare di avere. Quando ho bisogno di capire cosa pensa la gente, mi faccio un giro al mercato, per fare la spesa, sì, ma soprattutto per ascoltare. Qualsiasi cosa politicamente rilevante accada in Italia, qualcuno nei salotti tv vi dirà cosa ne pensano i mercati, intendendo però quelli finanziari. Mentre sono i mercati rionali gli unici che possono dirvi la verità. Forse è per questo mio bisogno di stare in mezzo alla gente, di non dimenticare da dove vengo, di preferire la voce del popolo a quella dei salotti, che i miei avversari mi definiscono, in tono dispregiativo, «carciofara» o «pesciarola», ma non me ne faccio un cruccio. Sono fiera di non essere come loro, che discettano del popolo e delle sue disgrazie comodamente seduti nelle loro ville a Capalbio, sorseggiando champagne a piedi nudi, con lunghi vestiti bianchi di lino. Se un giorno dovessi diventare così anch’io, vi prego, cancellatemi. Come molti italiani, che una volta votavano in buona fede a sinistra, hanno cancellato quell’opzione.
Quanto è distante la sinistra che si professava megafono degli esclusi, che prometteva di occuparsi dei diritti degli ultimi, da quella che oggi mi definisce, dalle colonne dei suoi grandi quotidiani, e per bocca di uno dei suoi guru, «la regina di coattonia» accusandomi di essere troppo «vicina agli emarginati», colpa evidentemente considerata imperdonabile? Quanto può definirsi socialista l’ex presidente francese François Hollande, che derideva i poveri chiamandoli «sdentati», come se non dovessimo vergognarci di una società nella quale molti non hanno neppure i soldi per pagarsi una protesi dentaria? E quanto può definirsi democratica l’ex candidata alla presidenza degli Stati Uniti Hillary Clinton, che chiamava «miserabili» gli elettori repubblicani di Donald Trump, come se il termine «miserabile» possa ancora essere usato in senso dispregiativo dopo il capolavoro di Victor Hugo che porta quel nome?
Da qualche tempo la sinistra benpensante ha preso di mira anche il mondo delle palestre e dello sport, come se dedicare tempo a fare attività fisica e a curare il proprio corpo sia sintomo di violenza o arretratezza. Invece a me le palestre piacciono e penso che lo sport sia la cosa più sana che i giovani possano fare, sicuramente molto meglio che bere, farsi le canne o passare il tempo davanti ai videogiochi.
Da molto tempo seguo il «modello Islanda». Negli anni Novanta, i dati sulla diffusione dell’alcolismo, della droga e dei suicidi giovanili nel piccolo Stato del Nord erano tra i peggiori al mondo. La risposta del governo islandese fu di investire tutto nello sport di base, per tutti, fatto ovunque, sfidando il freddo e il ghiaccio quando necessario. Il risultato di quell’intuizione è stato un miracolo sportivo nel calcio, nel basket e in molte altre discipline, ma soprattutto in campo sociale, dove i record negativi delle dipendenze hanno dovuto lasciare il posto a medaglie, vittorie e soddisfazioni. Credo che l’Italia dovrebbe seguire quel modello: se ne avessi il potere diffonderei lo sport e l’attività fisica dalla scuola dell’infanzia fino alla terza età.
A me lo sport ha cambiato la vita. Da ragazza ero quasi sempre sovrappeso, fumavo e lo stress pareva spesso prendere il sopravvento. Poi ho cominciato ad allenarmi, con costanza e tenacia, e a un certo punto mi sono resa conto che non potevo più farne a meno. Lo sport, qualunque sport io faccia – e ne faccio molti: corsa, bike, crossfit, pilates, nuoto, ora anche paddle –, è diventato la mia personale dipendenza. E non lo faccio solo per il fisico, ma soprattutto per la mente. Se mi fermo mi trasformo in una specie di pentola a pressione, perché ho bisogno delle endorfine che lo sport libera nel mio organismo. E ho bisogno della disciplina che mi ha insegnato ad avere.
Io devo trovare sempre un modo per allenarmi. Quando sono in giro per l’Italia in campagna elettorale cerco un albergo che mi consenta di correre la mattina presto, se sono in vacanza anche, e ricordo che durante i giorni di lockdown – quando era consentito allontanarsi da casa solo poche centinaia di metri – pur di non fermarmi ero arrivata a fare su e giù correndo sui cinquanta metri della salita sotto casa. Sembravo Forrest Gump. In epoca di chiusura di palestre, con il gruppo di ragazzi con i quali mi alleno da qualche anno ci siamo organizzati per fare cycling sul marciapiede o per correre tutti insieme. La palestra è anche uno dei pochi posti al mondo dove ho tollerato che qualcuno mi insultasse senza reagire: «Daje a balè che me stai a scredità la palestra». Fabrizio, il mio istruttore, è così. Mi chiamava «balena» anche quando ero magrissima. È il suo modo di spronarti. Peggio di lui solo Antonio, il mio parrucchiere, sempre implacabile quando mi lascio un po’ andare. Ricordo quando, dopo aver messo qualche chilo, gli dissi che secondo me aveva esagerato con i colpi di sole che mi aveva fatto. La risposta fu secca, nel suo stile perfido e sempre allegro: «Volevo sperimentare il look Barbie cicciona». Che dire, l’importante nella vita è avere sempre qualche amico che metta alla prova il tuo ego.
Lo sport ha anche un altro grande pregio. Forma il senso di appartenenza, la voglia di sentirsi parte di qualcosa e di spendersi per vederlo trionfare. Qui in Italia, poi, per lungo tempo lo sport è stato anche l’unica forma accettata di attaccamento al sentimento nazionale. Quando per decenni sventolare un tricolore era considerato un atto sovversivo, nostalgico, e gli unici ad avere il coraggio di farlo nelle manifestazioni erano i giovani della destra, c’era un solo momento in cui la bandiera italiana tornava ad appartenere a tutti: le partite di calcio della nazionale. Solo che, quando arrivava quel momento, molti italiani si rendevano conto di non avere un tricolore dentro casa. Pietrangelo Buttafuoco, poliedrico e geniale intellettuale della destra, lo raccontò benissimo in un articolo uscito su «Italianieuropei» qualche anno fa: «Gioca la Nazionale, magari vince qualcosa e tutta una folla di paesani si porta per strada a cercare la bandiera. Se ne trovano solo nelle sezioni del Movimento Sociale Italiano. Purché senza la fiamma in mezzo. Bandiere in prestito, dunque. E un solo grido: “Forza, Italia”. Con ovvia virgola in mezzo, a significare un presagio».
L’Italia ne ha fatta di strada, da allora, in termini di recupero della sua identità nazionale. Al punto che oggi praticamente tutti i partiti hanno, nel loro simbolo o comunque tra i loro vessilli, un riferimento al tricolore. E mi piace credere che un ruolo, in questo, lo abbiamo avuto anche – a tratti soprattutto – noi. Quando qualche anno fa definii Fratelli d’Italia il partito dei patrioti, alcuni ci fecero ironia, altri mi spiegarono che quel termine era troppo vecchio per poter essere compreso. Invece, ad ascoltare il dibattito politico di oggi è tutta una gara a definirsi patrioti. Renzi ha motivato proprio così, con l’essere patriota, la crisi con la quale ha mandato a casa il governo Conte. Graziano Delrio, membro di spicco del Partito Democratico, ha dichiarato durante un’assemblea di partito: «Non possiamo lasciare la parola “patrioti” alla Meloni». E persino Nicola Fratoianni, esponente della sinistra più radicale, ha detto in aula in un intervento: «I veri patrioti siamo noi». Ci sarebbe da discutere parecchio su cosa queste persone intendano per patriottismo, ma non è questo il punto. Il punto è che, come diceva Giorgio Almirante, «quando vedi la tua verità fiorire sulle labbra del tuo nemico, devi gioire, perché questo è il segno della vittoria».
Tutto è iniziato quando tutto stava per finire
Now my heart feels like an ember and it’s lighting up the dark
I’ll carry these torches for ya that you know I’ll never drop.a
Maroon 5, Memories
Roma, via della Scrofa 39. Il portone è quello della storica sede di AN e prima ancora del MSI. E io sono di nuovo qui. È una mattina di novembre del 2019. Dentro di me c’è una piccola tempesta di sensazioni, che vanno dall’ansia all’orgoglio. È qui che, ventisette anni fa, telefonai per chiedere quale fosse la sezione del Fronte della Gioventù più vicina a casa mia, ed è qui che, adesso, trasferiamo la sede di Fratelli d’Italia.
Gran parte della mia vita, della mia esperienza umana e politica, è legata a questo palazzo, a queste stanze, anche se – a pensarci bene – le ho frequentate pochissimo. Per anni, da presidente di Azione Giovani, ho avuto un ufficio in questo stabile, ma eravamo relegati in un’altra scala.
Salgo i gradini di quella che è la nostra nuova e vecchia casa, entro a passi lenti, cercando di non farmi notare. Arrivo nel mio nuovo ufficio e mi chiudo dietro la porta. Il cuore mi batte forte, ma non sono mai stata tanto lucida come in questi istanti. Quello stesso ufficio una volta era di Gianfranco Fini e, prima di lui, di Pino Rauti e Giorgio Almirante. Rimango in silenzio, e a un tratto mi rendo conto dell’enorme responsabilità che mi sono assunta. Ho raccolto il testimone di una storia lunga settant’anni, mi sono caricata sulle spalle i sogni e le speranze di un popolo che si era ritrovato senza un partito, senza un leader. Che aveva rischiato di smarrirsi. È come se quei milioni di persone, quelle che combattono oggi con me e quelle che non ci sono più, fossero tutte lì. Come se mi guardassero, in silenzio, chiedendomi: «Ne sarai all’altezza?».
Quando oltre un decennio prima entravo in questa stanza per parlare con Gianfranco Fini mi sentivo piccola. Forse anche per questo l’ambiente mi era sembrato più grande. Ora non mi sento più piccola, ma neanche abbastanza incosciente per essere a mio agio nel ruolo. Sarò forte, coraggiosa, giusta, capace quanto necessario per essere ricordata da chi verrà dopo di me come un leader che ha fatto la sua parte in questo nobile cammino?
Davanti agli occhi vedo un lungo film, una storia fatta di tragedie, tradimenti, desideri, vittorie, sconfitte, sogni. Un mondo intero che non ha mai smesso di credere, né di combattere. La storia di cui parlo non è solo quella di Fratelli d’Italia, è molto più antica, ed è la storia di molte più persone.
Anche per questo abbiamo fondato il nostro partito. Sappiamo di essere staffette di una corsa lunghissima, e corriamo nella speranza che ci saranno altri a raccogliere il testimone quando noi dovremo fermarci.
Oggi questa speranza è concreta. Nei sondaggi abbiamo percentuali che la destra italiana non ha mai avuto, ed è la prima volta che un leader che proviene da questo mondo è in testa alla classifica di gradimento dei capi di partito. In Parlamento i nostri numeri sono relativamente piccoli, ma nel dibattito pubblico la nostra opinione conta, pesa, sposta. Abbiamo fatto un lavoro enorme per ricostruire la nostra credibilità e guadagnarci questo spazio, perché a noi nessuno ha mai regalato niente: quando stai dalla parte che viene considerata quella sbagliata non ti puoi permettere il minimo errore. Oggi possiamo dire che la destra c’è, cresce e vince. E chi sperava che venisse travolta e marginalizzata dovrà farsene una ragione. È grazie a noi se le cose sono andate così, nonostante gli stormi di avvoltoi che volteggiavano sulle nostre teste.
Milioni di persone oggi sarebbero pronte a darci la loro fiducia, se ci fossero le elezioni. E anche noi siamo pronti ad andare al governo per mettere finalmente alla prova le nostre idee e le nostre ricette. Eppure non è stato per nulla semplice arrivare fino a qui.
Tutto è iniziato quando tutto stava per finire.
Il 12 novembre 2011, dopo un anno di continui attacchi, Silvio Berlusconi si dimise da presidente del Consiglio dei ministri. Ricorderete il panico da spread. Sembrava che l’Italia fosse sull’orlo del default e si chiedevano a gran voce le dimissioni del governo. Oggi nessuno avrebbe la faccia tosta di sostenere che la causa dello spread fosse l’inadeguatezza del governo in carica o la vita privata del presidente del Consiglio, come invece raccontavano in quei giorni i grandi media. Certo, con la sua condotta privata – francamente un po’ spregiudicata – Berlusconi aveva prestato il fianco ai suoi detrattori, ma la verità su quel biennio è un’altra.
Il governo di centrodestra di Berlusconi andava tolto di mezzo. Per le stesse identiche ragioni che mi spingono ancora oggi a essere fiera di averne fatto parte, pur con tutti i suoi limiti. Perché aveva a cuore la difesa dell’interesse nazionale, rifiutava la subalternità rispetto a Francia e Germania, si comportava da ciò che era, cioè il governo di una nazione fondatrice dell’Unione Europea, una delle principali potenze economiche mondiali, con un ruolo geopolitico strategico che andava valorizzato. Agli occhi di chi pensa che la funzione dell’Italia debba essere quella di una colonia, terreno di conquista dove poter liberamente portare avanti le proprie razzie, il governo Berlusconi era colpevole di voler considerare ancora l’Italia una grande nazione, ed era, dunque, un ostacolo da rimuovere. Quando si parla di una politica che in Italia ha saputo alzare la testa, e dimostrare il proprio orgoglio, si cita quasi sempre l’episodio di Sigonella, in cui il presidente del Consiglio Bettino Craxi, nel 1985, diede ordine di fronteggiare i militari americani – che senza concordare nulla con le nostre autorità avevano deviato un aereo con a bordo dei sequestratori, facendolo atterrare in Italia – per rivendicare il principio della sovranità territoriale. Ecco, il governo Berlusconi di «Sigonella» ne aveva fatte diverse, alcune delle quali persino più gravi agli occhi di certe consorterie straniere. Penso ad esempio al trattato di Bengasi del 2008, con il quale Berlusconi e Gheddafi sancivano una stretta alleanza tra Italia e Libia e ricucivano le ferite della stagione coloniale. Nel trattato si parlava di cooperazione per fermare la tratta degli immigrati clandestini, di investimenti italiani in Libia e, soprattutto, di accordi privilegiati in ambito di approvvigionamento energetico. Penso alla capacità dimostrata da Berlusconi di tenere l’Italia saldamente ancorata all’alleanza atlantica e nello stesso tempo costruire un dialogo con la Russia, mettendoci in una posizione di centralità sul piano internazionale, e riuscendo a porre le basi per iniziative come quella del gasdotto di South Stream che collegava la Russia con la nostra nazione. Ma penso soprattutto all’indisponibilità italiana a firmare in Europa trattati svantaggiosi per noi, come quello sul Fiscal Compact e quello sul fondo Salva Stati.
Rimettendo insieme i pezzi della nostra storia recente, il puzzle viene fuori con chiarezza per chi sa guardare. In Libia fummo costretti a partecipare all’attacco contro Gheddafi, che fu tolto di mezzo. E uso la parola «costretti» con cognizione, perché ero anche io al Teatro dell’Opera, il 17 marzo 2011, ad assistere alla Tosca per le celebrazioni del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, e ricordo gli echi di una riunione tenutasi durante l’intervallo tra due atti nella quale il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano aveva intimato al governo di partecipare all’intervento avviato dai francesi contro il colonnello. Un’operazione chiaramente anti-italiana, finalizzata a scalzare i nostri interessi, alla quale un Berlusconi già indebolito dagli scandali tentò di opporsi, invano.
L’avvento del governo di Mario Monti è un altro tassello fondamentale di questo disegno. Perché Mario Monti non arrivò alla presidenza del Consiglio italiano per caso, come soluzione «improvvisata» alle imprevedibili dimissioni di Berlusconi. No, quell’operazione fu voluta e pianificata in ogni dettaglio. Dalle consorterie europee, da alcuni poteri finanziari e da fiancheggiatori di casa nostra, alcuni dei quali occupavano le massime cariche dello Stato, Giorgio Napolitano in testa. Dicono che Berlusconi si sia dimesso perché la scarsa credibilità sua e del governo aveva creato panico nei mercati portando lo spread oltre i 600 punti, ma la questione è molto più complessa.
Intanto, cos’è lo spread? Tecnicamente è il differenziale tra i titoli di Stato tedeschi e quelli italiani, economicamente è uno degli indicatori che misurano la solvibilità di uno Stato, dunque la sua credibilità sui mercati, ma politicamente è lo strumento che da anni viene usato per aiutare o penalizzare i governi a seconda che siano invisi o no al manovratore. Ma, soprattutto, perché lo spread era salito così tanto nel 2011? Certo il governo italiano era indebolito dalle inchieste, ma la ragione di quel picco, facilmente verificabile, è che a un certo punto la Deutsche Bank, una banca tedesca, aveva deciso di vendere in poche ore gran parte dei titoli italiani che aveva in pancia, creando panico ed emulazione sul mercato. Fu una scelta tedesca. E chi era Mario Monti? Un esponente autorevole delle consorterie europee che poteva garantire alcune scelte impopolari in Italia ma popolari all’estero, a maggior ragione se fosse arrivato al governo non perché scelto dai cittadini ma grazie a un’operazione di palazzo.
Mario Monti fu salutato come un salvatore della patria, ma anche qui qualcosa non torna. Se penso a un «capitano coraggioso», per quella che è la mia visione del mondo, immagino qualcuno che sfida la sorte per fare il suo dovere, impavido, deciso, pronto a mettere a repentaglio se stesso pur di salvare gli altri. Il «capitano» Monti, invece, prima di mettersi alla guida della nave in tempesta aveva ottenuto per sé un gran bel salvagente, facendosi nominare senatore a vita dal capo dello Stato. Il suo governo, ovviamente, fu accolto da un coro unanime di gradimento ed entusiasmo, ma non ci volle molto perché gettasse la maschera. Dalla firma del Fiscal Compact a quella del fondo Salva Stati, passando per il cosiddetto decreto Salva Italia (se c’è una cosa che ho capito è che più una legge porta un nome rassicurante, più devi preoccuparti), la politica del governo Monti fu improntata alla più cieca austerità, che secondo l’ortodossia europea di allora doveva garantire la messa in ordine dei nostri conti pubblici ma finì solamente per fare macelleria sociale, peggiorando, oltretutto, i nostri indicatori macroeconomici.
Quando Berlusconi si dimise ero in Consiglio dei ministri. In poche ore, sotto le finestre di Palazzo Chigi, si radunarono migliaia di persone. Ne sentimmo prima il rumore sordo, ma poi le grida minacciose divennero nitide, e a quelle si sovrapposero le sirene dei blindati della polizia.
Tra piazza Colonna, il Quirinale e Palazzo Grazioli (il quartier generale di Berlusconi) montò un’atmosfera di pericolosa e pura eccitazione. La folla di militanti della sinistra e del Movimento 5 Stelle festeggiava la caduta dell’ultimo presidente del Consiglio di fatto chiaramente voluto dai cittadini attraverso un voto, con fischi di scherno, pugni chiusi mulinati nell’aria, cori offensivi – «Buffone! Buffone!», «Caimano!». Nel volgere di pochi minuti, il caos.
Esortati dal servizio di sicurezza, tutti i ministri furono invitati ad accomodarsi all’uscita secondaria di Palazzo Chigi.
Ciascuno salì sulla propria auto blu.
I lampeggianti spenti per una fuga nel buio della sera.
Ma io no. «Ho fatto tutto ciò che potevo fare. Non c’è niente di cui debba vergognarmi» mi dissi. Così decisi di uscire dall’ingresso principale insieme alla mia addetta stampa, mentre gli uomini della DIGOS ci gridavano: «Ma dove andate? Ma no! Ma che fate...».
La riunione del PDL si sarebbe tenuta a Palazzo Grazioli, dovevamo quindi attraversare via del Corso. Tagliai nel mezzo la folla dei manifestanti che procedevano in senso opposto. Quando si accorsero di me, cominciarono a insultarmi. Molti, increduli: «Ma è proprio la Meloni?». Io però andavo avanti con la testa alta e il passo sicuro. Nessuno osò sfiorarmi. L’avevo imparato da ragazzina come funziona con questi vigliacchi: se scappi, ti inseguono; ma se li affronti, nove volte su dieci si intimidiscono e ti fanno passare.
A Palazzo Grazioli dovevamo discutere del sostegno al governo Monti. Il mio ricordo di quelle ore concitate è un po’ confuso. Rammento però il clima tetro, le facce rassegnate, la stanchezza sul volto e nella voce di Berlusconi. Ricordo quelle cinquanta persone circa che prendevano la parola, a turno, per sostenere con argomentazioni più o meno convinte e convincenti la relazione con la quale il capo aveva detto, in sostanza, che avremmo dovuto appoggiare il nascente governo Monti. Ricordo quando alzai la mano per dire la mia, e il silenzio imbarazzato che si creò per il mio intervento in dissenso. Dissi a Berlusconi, con chiarezza, che il Popolo della Libertà non avrebbe dovuto assolutamente dare appoggio al governo Monti. Era intollerabile consegnare l’Italia agli emissari di quelle consorterie europee che avevano manovrato contro la nostra democrazia; era come dire che avevano ragione i nostri avversari, e non l’avevano. Diverse volte nella mia vita sono stata guardata nel modo in cui molti mi guardarono quella sera. Come la ragazzina ingenua, donchisciottesca, che non si intende di politica, che deve ancora crescere, che un giorno capirà il gioco dei grandi. Diverse volte, a distanza di anni, mi sono guardata indietro per chiedermi se avessi avuto ragione, e spesso la risposta è stata «sì». Come in quel caso.
Pochissimi altri mi seguirono nel ragionamento, quella sera. E a un certo punto capii: si erano arresi, Berlusconi in testa. Forse, ripensandoci, la prima scintilla di quella fiamma che mi ha portato di lì a un anno a fondare Fratelli d’Italia è scoccata quella sera, guardando i volti di una classe politica che non aveva più la forza di combattere. Per me non era così.
Il resto della storia è noto. Fu un anno di prove durissime. Per molti italiani, che pagarono sulla propria pelle le scelte del governo, e per me, sempre combattuta tra le mie idee e il rispetto del vincolo di mandato che mi legava al partito nel quale ero stata eletta. Per come la vedo io, infatti, la rappresentanza è una cosa seria: si viene eletti all’interno di un partito ed è un atto di responsabilità verso gli elettori rispettarne la linea. Il mio mandato era all’interno del Popolo della Libertà, e io l’ho sempre onorato, sebbene talvolta non ce l’abbia proprio fatta a dare il mio voto ad alcuni provvedimenti. Come quello sul Fiscal Compact e quello sul MES, il fondo Salva Stati. Recentemente si è detto che il MES lo ha sottoscritto Berlusconi. Ma anche qui la verità è un’altra. Berlusconi partecipò alle trattative per l’istituzione di uno strumento di sostegno agli Stati nazionali chiedendo che fosse finanziato con debito comune. La condizione per attivare un fondo di quel tipo, per noi, era infatti l’emissione di eurobond. Nella pratica, il fondo Salva Stati immaginato dal centrodestra era più simile al recente Recovery Fund che all’attuale MES. Quella proposta, però, non passò, Berlusconi si dimise e Monti sottoscrisse il Meccanismo Europeo di Stabilità che conosciamo oggi. Io la ratifica di quel trattato scelsi di non votarla.
Votai, invece, seppure con sofferenza, il Salva Italia, e a questo proposito voglio aprire una parentesi. Da anni, qualsiasi cosa faccia, orde di profili fake grillini mi accusano sempre della stessa cosa: «Vergognati, tu che hai votato la legge Fornero!». Credo sia arrivato il momento di far notare, sommessamente, che in Parlamento una «legge Fornero» non è mai arrivata. Le norme elaborate dal ministro Fornero in materia pensionistica facevano integralmente parte del Salva Italia, un provvedimento omnibus che allora tutti – ma proprio tutti – ritenevano necessario per evitare il default. Lo stesso Beppe Grillo considerava benevolmente quell’insieme di norme, ed elogiava pubblicamente, attraverso il suo blog, Monti e i suoi ministri.
I 5 Stelle possono rivendicare di non aver votato il Salva Italia, e di conseguenza la riforma delle pensioni, solo perché non erano in Parlamento. Se ci fossero stati avrebbero seguito il loro mentore, e avrebbero votato a favore pure loro. Anche perché, da quello che sappiamo oggi, non ci pare abbiano alcuna difficoltà a sostenere provvedimenti impresentabili pur di preservare la propria poltrona.
I grillini non sanno, o fingono di non sapere, che è invece grazie a me se con quella norma non è partito il blocco delle indicizzazioni delle pensioni superiori a 900 euro, come inizialmente proposto dal ministro Fornero, ma quello degli assegni superiori a 1400 euro. Siamo stati noi ad aver alzato quel tetto, anche se meno di quanto volevamo, con una battaglia durissima in commissione Lavoro. Così come è stato grazie a me, e al fatto che da ministro uscente avevo maggiore facilità a farmi ascoltare, se con il Salva Italia è stata introdotta la piena totalizzazione dei periodi contributivi (la possibilità di utilizzare anche i contributi versati in una determinata cassa per meno di tre anni, che prima andavano persi, ai fini del calcolo della pensione), e se è stato previsto che chi percepiva pensioni d’oro dovesse partecipare al momento difficile per la nazione con un contributo di solidarietà.
Questa della lotta alle pensioni d’oro è una mia antica battaglia, purtroppo poi sposata anche dai grillini che, puntualmente, l’hanno ridicolizzata e affossata. Ma ancora oggi sono convinta che sia una rivendicazione sacrosanta. Non ho nulla contro la ricchezza meritata e non ho nulla contro le alte pensioni frutto di contributi versati. Sono contro le ingiustizie e le furbate, però, come assegni da 30.000 euro al mese ottenuti grazie a leggi fatte apposta per favorire alcuni pochi fortunati a discapito di tutti gli altri. Per questo mi sono sempre battuta per chiedere che oltre una determinata somma, anche alta come 5000 euro al mese, si verificasse se la pensione percepita fosse frutto di contributi versati oppure no, e nel caso ridurla proporzionalmente. Sembra una proposta di buon senso, no? Peccato che quelli che decidono, tipo i membri della Corte Costituzionale, siano proprio quelli che beneficiano di questi meccanismi generosi. La disparità di trattamento pensionistico tra le vecchie generazioni, che percepiscono una pensione rapportata agli ultimi stipendi e non a quanto effettivamente versato, e le nuove generazioni, per le quali si applica il draconiano metodo contributivo per cui bisogna meritarsi e pagare ogni singolo centesimo di pensione, è il sintomo più evidente di un popolo che ha perso il sentimento di comunità nazionale. È una situazione profondamente ingiusta e le pensioni d’oro immeritate ne sono la più scandalosa rappresentazione. Non mi rassegno a tutto ciò, e forse anche per questo in molti non vorrebbero mai vedermi alla guida della nazione. Certo non mi sono fatta molti amici con la battaglia sulle pensioni d’oro. Ma come scriveva Charles Mackay nella poesia No Enemies, che Margaret Thatcher rileggeva nei momenti difficili: «Non hai nemici, dici? [...] Se non ne hai, è infimo il lavoro che hai fatto». Concetto che, con altre parole, era già conosciuto dalle nostre parti da qualche decennio.
Ma torniamo a quei mesi che passavano lentamente, rendendomi sempre più distante dal PDL e dal governo Monti. A inizio dicembre del 2012, Berlusconi annullò improvvisamente le elezioni primarie per il nuovo segretario del partito. Primarie a cui io mi ero candidata sfidando Angelino Alfano, allora considerato il delfino del Cavaliere.
Di fronte al nome di Alfano, il mondo che proveniva da Alleanza Nazionale si era spaccato. La maggior parte riteneva di dovere, con il proprio sostegno, rafforzare la leadership dell’ex ministro della Giustizia, ma c’era anche una parte minoritaria che era convinta della necessità che nella competizione ci fosse anche una nostra candidatura di bandiera. Altrimenti sarebbe stato come dire che le nostre idee non avevano diritto di rappresentanza ai massimi vertici del movimento. Mi candidai quasi come gesto di sfida, e forse anche per questo – perché interpretavo un sentimento comune a molti nel PDL – l’entusiasmo per la mia candidatura si rivelò importante, ben oltre ogni aspettativa. In pochi giorni depositammo ventimila firme che avevamo raccolto a sostegno della candidatura, con tanto di foto opportunity con gli scatoloni pieni di moduli davanti alla sede del partito. I giornali iniziarono a raccontare la partenza della sfida con grande curiosità, e qualcuno deve aver pensato che le cose potessero sfuggire di mano.
Così, una mattina, di punto in bianco, Berlusconi annunciò che le primarie non si sarebbero celebrate. Decisione comunicata a mezzo stampa, senza essere stata discussa da nessuna parte.
Fine, zero, non se ne fa più niente.
Eccola, la goccia che fa traboccare il vaso.
Il 16 dicembre, giorno in cui si sarebbero dovute tenere le primarie, organizzammo allora una manifestazione all’Auditorium della Conciliazione. Titolo: Le primarie delle idee. Eravamo a un passo da San Pietro, e la strada era piena di gente. «Ma sono qui per noi o sono pellegrini?» mi chiesi arrivando, la mattina, di fronte a quel muro di persone. Riconobbi i volti di gente che aveva smesso di fare politica da anni, e a un certo punto mi resi conto che in quella sala c’era un intero mondo che pregava Dio perché nascesse qualcosa di nuovo in cui sentirsi a casa.
Quella meravigliosa giornata di metà dicembre mi convinse definitivamente. Volevo tornare a essere fiera del mio lavoro. Volevo che quelle persone tornassero a essere fiere del loro partito, ad amare la politica, e a praticarla. Esisteva un popolo di destra, smarrito dopo anni di scandali e di crisi economica, a cui era necessario dare voce senza compromessi. Non volevo tradire gli ideali di una storia lunga settant’anni. A ogni applauso della platea, cresceva in me la convinzione che uscire dal PDL e fondare qualcosa di nuovo fosse la strada giusta.
Il problema, però, è che io mi sono sempre considerata un soldato della politica, mentre quella folla era alla ricerca di un condottiero. Non volevo essere sola a guidare quella traversata, servivano menti fini e spalle larghe, esperienza e passione, e qualcuno da guardare negli occhi quando hai bisogno della forza necessaria.
Guido Crosetto, il gigante buono, era al mio fianco quel giorno. C’era da prima per la verità, ma forse fino ad allora non ci eravamo resi conto di come i nostri destini si stessero indissolubilmente intrecciando. Avevamo legato quando io ero ministro e lui sottosegretario alla Difesa, e durante il governo Monti era spesso stato di ispirazione per me, come quando – unico in tutto il partito – si era alzato in aula a Montecitorio per annunciare il suo voto contrario al Fiscal Compact. Si era inizialmente candidato anche lui alle primarie, ma poi aveva deciso che occorreva unire le forze e si era ritirato per sostenermi. Quella mattina, sul palco, aveva parlato appena prima di me, ed era lì accanto quando, chiudendo il mio intervento, pronunciai le parole che tutti stavano aspettando: «Noi vogliamo un luogo giusto dove poterci battere. Dove poter trasformare i nostri sogni in realtà. Se quel luogo vuole essere il PDL, allora ci batteremo lì. Ma se invece quel luogo non vuole essere il Popolo della Libertà, allora siamo pronti a costruirne uno, a partire dalle idee che abbiamo raccontato stamattina, con le persone e l’entusiasmo che sono qui oggi, e con chiunque vorrà darci una mano». Guido mi guardò e i suoi occhi erano lucidi. Per una volta riuscivo a vederli perché eravamo alti uguale, essendo lui seduto e io in piedi.
Qualche giorno dopo, mentre stavamo per annunciare la scelta definitiva di andarcene, lui ebbe un tentennamento. Lo guardai e gli dissi: «Non abbandonarmi ora». Non lo fece, per amicizia più che per convinzione, credo. Perché Guido è così. La sua mole rispecchia il suo spirito. Sa proteggerti, aiutarti, e non ti tradirà, costi quel che costi. E a lui quella scelta costò. In questo io e Guido siamo stati subito fratelli, nella follia dell’istinto per cui salvare la propria anima è molto, molto più importante che preservare la propria poltrona. Anch’io avevo dei dubbi, ovviamente, ma non perché mettevo a repentaglio la possibilità di rielezione. In questo sono sempre stata fatalista. Credo che la politica, intesa come incarico elettivo, debba essere sempre vista come qualcosa di transitorio nella vita. Se vuoi essere un buon politico per prima cosa devi essere libero, e per essere libero devi essere disponibile a rischiare, sempre. Può andare bene o può andare male, o possono accadere cose che lì per lì sembrano sconfitte atroci ma a distanza di anni si rivelano grandi opportunità, e viceversa. Io, all’ultimo, mi affido sempre a Nostro Signore.
Dopo quella manifestazione, la strada era tracciata. In tanti cominciarono ad avvicinarsi, e tra tutti si fece avanti Ignazio La Russa. L’ex colonnello di AN, e storica colonna della destra, era nientemeno che uno dei coordinatori nazionali del Popolo della Libertà. Inizialmente aveva sostenuto la candidatura di Alfano alle primarie, credo non senza sofferenza, ma anche per lui l’epilogo di quella vicenda aveva segnato un punto di non ritorno. La presenza di Ignazio diede al progetto una solidità che spinse diversi parlamentari del Popolo della Libertà provenienti dalle file di Alleanza Nazionale a lanciarsi in questa folle avventura. Certo, ci fu anche chi storse il naso sostenendo la solita retorica dei volti nuovi, ma voglio dire con chiarezza che senza Ignazio La Russa e la sua esperienza noi non ce l’avremmo fatta. E credo che tutto il nostro mondo lo debba ringraziare di cuore per come, generosamente, ha abbandonato un ruolo certo e autorevole per spendersi in prima persona in una sfida dai contorni indefiniti e dai successi incerti. Ora che lo conosco molto meglio di allora, ho capito che per lui quella scelta era obbligata. Ignazio, semplicemente, è sempre rimasto fedele a se stesso. L’erede di una stirpe di sicura fede, il giovane militante della Giovane Italia che negli anni Settanta rompeva gli schemi conducendo trasmissioni radiofoniche, il dirigente politico che non ha mai messo i suoi interessi personali prima di quelli del partito. Un uomo sinceramente, convintamente, instancabilmente di destra, che per quello in cui crede è sempre stato pronto a rischiare.
Ci trovammo intorno al tavolo e cominciammo a parlare seriamente dell’ipotesi di quella nuova avventura. I dubbi erano molti, almeno quanti i rischi che avremmo corso. E, prima di rispondere a domande pragmatiche, furono quelle filosofiche a dover essere affrontate. Tipo, è meglio l’uovo oggi o (forse) la gallina domani? Cioè, se l’obiettivo era difendere le proprie idee, aveva più senso farlo mantenendo incarichi che già avevamo in un partito che però non rispecchiava perfettamente quelle idee, o piuttosto interpretare quell’identità rifiutando ogni compromesso, rischiando però di essere spazzati via? E se ciò che è utile e ciò che è giusto non coincidono, per quale dei due si dovrebbe optare? Scegliemmo quello che era giusto. Così, il 21 dicembre 2012 nacque Fratelli d’Italia. Un nuovo partito per un’antica tradizione.
A guardarla ora, quella scelta fu una grandiosa follia. Ogni volta che ci ripenso mi viene in mente il Cyrano de Bergerac di Edmond Rostand, con le parole semplici e straordinarie che usa dopo aver dato via tutti i suoi soldi per ripagare l’impresario di uno spettacolo che aveva interrotto per lanciarsi in una delle sue invettive. «In che modo vivrai adesso?» gli chiede il suo amico Le Bret. «Assai modesto» risponde lui, e l’altro: «Buttar la propria borsa è da pazzi!». «Ma che gesto!»
Fondare una nuova sigla a quaranta giorni dalle elezioni, senza risorse, senza amici tra i grandi media, senza sponsor, era certamente un azzardo, ma lo era ancora di più a guardarlo ora, che sappiamo quanto lavoro richieda. A distanza di anni, e dall’alto di quell’esperienza, mi divertono quelli che pensano di poter fondare un partito dall’oggi al domani. Non si rendono conto, come non ci rendevamo conto noi, che è tremendamente complicato. E le frecce al nostro arco non erano poche: avevamo una storia, una rete sul territorio, un’esperienza decennale e alcuni di noi anche una certa popolarità. Non partivamo esattamente da zero, eppure ci aspettava una lunga e faticosa scalata.
L’ansia di dover fare tutto in pochissimo tempo ci tenne svegli per giorni e giorni, chiusi in una stanza del palazzo dei gruppi parlamentari, proprio di fronte al bar Giolitti. Tra il fumo di mille sigarette e caffè a fiumi, nominammo i tre coordinatori, componemmo la lista dei candidati e scrivemmo lo statuto. Però fu la scelta del nome a impegnarci di più in quelle notti di infinite discussioni. In una manciata di giorni dovevamo infatti decidere il nome del nuovo partito senza l’aiuto di analisi di esperti della comunicazione. «Figli d’Italia», il nome della lista con cui mi ero candidata alla presidenza di Azione Giovani, era la nostra prima scelta, ma qualcuno fece timidamente notare che quel «Figli di...» si prestava a qualche doppio senso di troppo.
«Noi italiani» fu la mia proposta, ma non piacque. Alla fine fu Fabio Rampelli, anche lui tra i fondatori di FDI, a pensare all’Inno di Mameli, e così nacque Fratelli d’Italia.
A un certo punto di questo percorso decisi di comunicare personalmente a Berlusconi la nostra decisione. Quando glielo dissi, a Palazzo Grazioli, mi rispose con quel suo fare pragmatico da uomo d’affari che ha imparato come tutto, e quasi tutti, abbiano un prezzo. «Va bene, ho capito... Allora, dimmi: che cosa vuoi, che cosa vuoi fare?»
«Voglio essere fiera di quello che faccio. Lo dico con rispetto, ma davvero non mi sento più a casa.» Non era abituato a quel genere di risposta, anche se forse in fondo aveva fatto quella domanda più per verificare la mia risolutezza che per reale convinzione. Aveva dissuaso parecchie persone dall’andarsene, ma comprese che stavolta non sarebbe andata così. Avevo voluto quel colloquio per stima e affetto, però era un congedo a tutti gli effetti. Avevo deciso di alzare i tacchi e, semplicemente, lo feci, perché per me le persone serie fanno così.
Alla fine ci congedammo con molta gentilezza, e ricordo ancora oggi che mi guardava con la faccia compassionevole di chi sa che ti stai suicidando, e a ragione, perché, come spesso ha rivendicato in questi anni, nessuno di quelli che sono andati via dal suo partito è sopravvissuto politicamente. Nessuno, a parte noi, ma questo al tempo non potevamo darlo per scontato.
Il 21 dicembre presentammo il nuovo partito e ci lanciammo subito nella campagna elettorale per le elezioni politiche, che si sarebbero tenute dopo due mesi, per di più con il periodo natalizio di mezzo. Furono settimane vissute in apnea, perché sapevamo che ogni metro ce lo saremmo dovuto guadagnare con molta fatica. Alla fine ho fatto il conto di quello che solo io avevo fatto in quei lunghissimi quaranta giorni a cavallo tra la metà di gennaio e la fine di febbraio. Oltre trentamila chilometri, quasi trecento comuni, una piccola valigia sempre pronta. Avevo dormito a casa mia cinque notti al massimo. E, intorno a me, gli altri non furono da meno. Uno sforzo sovrumano, caratterizzato da grande fatica ed enorme entusiasmo. Le manifestazioni erano piene di gente, ma fuori da quelle sale e da quelle piazze nessuno parlava di noi. La voce di Fratelli d’Italia esisteva solo quando io, Guido o Ignazio riuscivamo a essere presenti in un dibattito televisivo. La grande comunicazione polarizzava, e inevitabilmente faceva scattare negli elettori la convinzione che il voto ai piccoli partiti fosse sprecato. I manifesti attaccati per lo più dai militanti, i banchetti che nonostante i sacrifici erano sempre troppo pochi. Capimmo che saremmo andati male. E infatti arrivò quel fatidico 25 febbraio, con il suo deludente risultato: Fratelli d’Italia si era fermato all’1,96 per cento.
La sera dei risultati, al comitato elettorale dove eravamo radunati in attesa del responso, l’aria era tutt’altro che euforica. Una sonora sconfitta, accompagnata dalla delusione per chi, come Francesco Lollobrigida e, ancora di più, Guido Crosetto, non era neanche stato eletto. Avevamo convenuto di candidarlo al Senato, perché potesse esserci una voce autorevole nella camera alta del Parlamento. La legge elettorale prevedeva che fosse sufficiente raggiungere il 3 per cento in almeno una regione per eleggere senatori, e noi eravamo certi di farcela almeno nel Lazio, ma pure in Campania, dove grazie a una delle colonne di Fratelli d’Italia, il generale Edmondo Cirielli, potevamo vantare una delle nostre realtà più radicate ed efficienti. Invece in entrambe le regioni avevamo mancato l’obiettivo per un soffio. Insomma, ci parve che le cose fossero andate molto male.
Poi, però, vidi il risultato non sulla base della percentuale, ma sui voti assoluti. Seicentosessantaseimilasettecentosessantacinque italiani avevano fatto la croce sul simbolo di Fratelli d’Italia. Provai, nella mia mente, a metterli in fila. Volti, storie, speranze di tantissime persone che – nonostante la nostra marginalità – avevano creduto in noi, e ci avevano portato a eleggere nove deputati, una minuscola ma agguerrita pattuglia. Partiti ben più riconoscibili di noi, come la destra di Francesco Storace che esisteva già da diversi anni e poteva contare sul suo leader candidato ancora una volta dal centrodestra alla guida della Regione Lazio, non ce l’avevano fatta.
Dovevamo farcelo bastare, e lo facemmo. Formammo il gruppo a Montecitorio, non senza difficoltà, perché sotto i venti eletti si deve chiedere e ottenere una deroga dagli altri partiti, e non so come riuscimmo a essere presenti su tutti i provvedimenti. All’inizio io ero anche il capogruppo, a Montecitorio. Tutte le parti della commedia erano mie. Ricordo la solitudine, e la frustrazione, di quegli anni. Facevamo, come ora, un minuzioso lavoro di elaborazione, approfondimento, proposte puntuali, ma troppo spesso ci sentivamo come fossimo dei fantasmi circondati da gente che non riesce a sentirti. I miei interventi, quelli che oggi a volte diventano virali, non li ha praticamente ascoltati nessuno per cinque anni: parlavo quasi sempre con l’aula vuota, perché nelle dichiarazioni di voto eravamo tra i primi a prendere la parola e l’aula si riempie verso la fine, a ridosso della votazione, e quei pochi che c’erano mi rivolgevano l’attenzione che si riserva a chi non è importante ascoltare. I colleghi di Fratelli d’Italia, dovendo fare un lavoro enorme, erano spesso impegnati in altre faccende, e mi capitava di parlare circondata da banchi completamente vuoti.
Al Senato guadagnammo un minimo di diritto di tribuna solo verso la fine della legislatura. Bartolomeo Amidei, che veniva da Forza Italia, e Stefano Bertacco, eletto anche lui con FI, decisero di iscriversi al Gruppo Misto, componente Fratelli d’Italia. Erano entrambi veneti. Stefano, veronese, è stato poi rieletto con Fratelli d’Italia nel 2018, ma oggi non c’è più. Il cancro lo ha sconfitto nel giugno del 2020. Io, semplicemente, lo adoravo. Ricordo quando, con la voce calma e lo sguardo rassicurante, mi disse che gli avevano diagnosticato un tumore. E ricordo la faccia che fece il giorno in cui, avvertita che la situazione si era aggravata, appena finito il lockdown presi un treno per Verona per andarlo a trovare in ospedale. Non si aspettava la mia visita, e quando mi vide entrare la sua espressione era felice e al tempo stesso consapevole. Credo avesse capito che la mia presenza lì significava che le notizie non erano buone. Ci abbracciammo forte, e piangemmo. «Non mollo di un millimetro» mi disse anche quel giorno, come faceva sempre, quasi fosse lui a dovermi rassicurare e non il contrario. Era così convinto che aveva convinto anche me. Ma fu l’ultima volta che lo vidi. Eppure, la malattia non l’ha piegato mai. Perché Stefano era così. Come in un romanzo, era stato tra gli ultimi e tra i primi. Da ragazzo era stato tossicodipendente e senzatetto, recuperato dalla Comunità di San Patrignano alla quale era legatissimo, e aveva fatto così tesoro di quell’esperienza che aveva dedicato tutta la sua esistenza residua a occuparsi di servizi sociali. Poi con me era entrato al Quirinale, alle consultazioni con il capo dello Stato per la formazione del governo.
Aveva visto tutto, e per questo sapeva affrontare tutto. Quando ripenso a lui, mi convinco che la vera forza abbia esattamente il suo volto. La vera forza sorride, ti guarda dritto negli occhi, ti prende per mano, ti dà coraggio. Stefano era questo. Forza pura, consapevole, serena, in un mondo di egoisti e vigliacchi. Stefano era tra i migliori, e non mi capacito che non ci sia più. Ma, se non possiamo impedire che le persone che amiamo se ne vadano, possiamo invece decidere di essere all’altezza del loro esempio. Impareremo da te, fratello nostro, a essere inesorabili. E, quando la vittoria arriverà, la dedicheremo a te.
Mi sono detta mille volte: «Giò, ma chi te l’ha fatto fare?».
Solo chi ci prova sa cosa voglia dire inventarsi un partito dal niente e affermarlo sulla scena politica quando i tuoi mezzi sono così scarsi che ti ritrovi a sparare contro i carri armati con una cerbottana.
Abbiamo vissuto dei momenti tragici, però vivaddio che abbiamo avuto questo coraggio.
Non ho mai dubitato di aver fatto la cosa giusta, neanche nelle fasi più dure. Perché l’orgoglio di poter camminare sempre a testa alta vale qualsiasi sacrificio. Non dovevo vergognarmi di niente, ero sempre libera di dire la mia senza dover rendere conto a nessuno, davanti a qualunque giornalista e a qualunque telecamera. Rispondevo, e rispondo, solo di me e delle mie scelte. Credo che sia la sensazione che prova il lavoratore dipendente che manda al diavolo il capufficio e un posto sicuro in un’azienda nella quale non si sente più a suo agio per aprire la sua attività in proprio. È una libertà che la vita regala di rado, la politica ancora di meno. Ed è soprattutto per questo che sono fiera di aver fondato Fratelli d’Italia.
L’inizio è stato duro, non lo nascondo. Collezionavamo soprattutto sconfitte, sempre fermi a un passo dall’obiettivo. Anche le europee del 2014 furono una delusione. Raddoppiammo quasi i voti arrivando al 3,67 per cento. Peccato che la soglia per eleggere rappresentanti al Parlamento europeo fosse fissata al 4 per cento. La sorte, ancora una volta, ci aveva tirato un brutto scherzo. Dopo quattro anni, alle politiche del 2018, ci presentammo di nuovo in coalizione con il centrodestra e ottenemmo un sempre insoddisfacente 4,35 per cento, grazie al quale però portammo in Parlamento trentadue deputati e diciotto senatori. Nonostante i numeri esigui, avevamo finalmente la forza minima necessaria a far emergere le nostre proposte. Un passetto alla volta, mattoncino su mattoncino, costruivamo la nostra casa politica. Chi va piano va sano e va lontano, recita il vecchio adagio.
Certo però non era facile mantenere l’entusiasmo quando attorno a noi altri correvano, anzi volavano, grazie a quattro slogan sgangherati e a una manciata di promesse alla Cetto La Qualunque. Come il Movimento 5 Stelle del comico Beppe Grillo che otteneva il 32 per cento dei consensi diffondendo l’elaborata teoria politica del Vaffa. Un insieme di menzogne, false promesse, demagogia che aveva affascinato gli italiani.
Sono convinta, in realtà, che solo i più ingenui credessero alla propaganda grillina, e che la stragrande maggioranza di chi li ha votati lo abbia fatto come massimo sfregio nei confronti di una classe politica screditata. La fetta di mortadella nella scheda elettorale con la scritta «Mangiatevi pure questa», il disegno osceno nella cabina elettorale, o la più pacata astensione o scheda bianca si tramutavano nel voto alla forza politica più grottesca della storia delle democrazie occidentali. Un’enorme pernacchia al sistema da parte di milioni di italiani (giustamente) arrabbiati, questo è stato il voto al Movimento 5 Stelle. Il problema è che, quando pensi di prenderti gioco della storia, alla fine rischi che sia la storia a prendersi gioco di te, e così è stato. Il Movimento 5 Stelle era solo un enorme bluff. Un gruppo di finti rivoluzionari che appena eletti si sono scoperti i più grandi difensori dello status quo, in Italia come in Europa. Ma anche di veri incompetenti che si sono ritrovati alla guida della nazione proprio nel momento più difficile degli ultimi cinquant’anni. E allora sono certa che moltissimi italiani si siano pentiti di quella goliardata e avrebbero voluto tanto poter tornare indietro per avere una diversa classe politica a decidere della sorte di imprese, lavoratori, famiglie flagellati dall’epidemia e dalla crisi.
Intanto però nel 2018 noi, a cinque anni dalla fondazione, ci dibattevamo ancora tra il 3 e il 4 per cento. A un certo punto si insinuò dentro di me il sospetto che, visto lo spirito dei tempi, fossi la persona sbagliata per guidare un partito.
Le cose non andavano e, quando mi chiedevo cosa non funzionasse, non potevo che partire da me stessa. Forse ero proprio io il problema. Forse il mio modo di concepire la vita politica non rispondeva al sentimento popolare, forse il mio modo di fare politica era troppo vecchio, troppo tradizionale, troppo riflessivo per l’era che brucia tutto e subito.
«Giorgia, il tuo problema è che argomenti troppo» mi disse, brusco, un sondaggista, «servono frasi semplici, slogan e immagini immediate, non concetti elaborati che richiedono troppi minuti per essere spiegati.» Ma come può essere un problema, per un politico, quello di argomentare troppo? Per anni anche qualcuno dei nostri mi ha esortato a banalizzare, «come fanno gli altri». È un modello vincente, non c’è dubbio, o almeno lo sembrava, ma non era il mio. «Ragazzi» ripetevo, «io quel modello lo combatto. Se pensate sia la cosa giusta da fare, avete bisogno di un altro presidente.» Insomma, quando le cose non vanno si deve essere pronti a prenderne atto, e se necessario a farsi da parte. In un mondo nel quale, quando qualcosa non funziona nei propri traguardi, si tende sempre a cercare una responsabilità negli altri, nelle avversità, nel fato, io mi sono sempre costretta a interrogarmi su cosa non funzionasse di quello che facevo io.
Il momento forse più difficile arrivò proprio dopo le ultime elezioni politiche, nel 2018. La pessima legge elettorale che non a caso Fratelli d’Italia aveva osteggiato, unico partito nel centrodestra, aveva prodotto un Parlamento con tre poli, nessuno dei quali aveva una maggioranza. Il centrodestra aveva avuto la fetta maggiore di voti, ma non aveva comunque i numeri per governare da solo. Il presidente della Repubblica preferì non tentare di dare l’incarico a un nostro esponente, segnatamente a Matteo Salvini, leader del partito che aveva preso più voti nella coalizione, e dunque premier designato secondo le regole che ci siamo sempre dati. Salvini, dal canto suo, non aveva insistito, ufficialmente perché considerava pericoloso presentarsi in Parlamento a cercare numeri che poteva anche non trovare, ma ufficiosamente, credo oggi, perché lo solleticava l’ipotesi di un’alleanza con il Movimento 5 Stelle. Del resto, durante la campagna elettorale avevo proposto il famoso «patto anti-inciucio» chiedendo ai miei alleati di escludere in ogni caso, dopo il voto, alleanze al di fuori del perimetro della coalizione di centrodestra, ma la mattina della manifestazione in cui questo impegno solenne avrebbe dovuto essere sottoscritto mi ero ritrovata da sola.
Così, dopo mesi di trattative, l’alleanza tra Lega e grillini si era materializzata. Un governo giovane, una maggioranza inedita e di rottura, che affascinava anche moltissimi tra i nostri. Ma non me. Io ho sempre pensato che il Movimento 5 Stelle fosse una forza di sinistra, tutt’altro che invisa al sistema, e che i margini per fare con loro qualcosa di buono e di nuovo non ci fossero. Ora tutti sanno che non mi sbagliavo, ma al tempo le discussioni anche al nostro interno furono esasperanti.
Comunque, alla fine non entrammo in questa bizzarra maggioranza. Alla nascita del primo governo Conte, gli spazi politici sembravano ridotti al minimo: da una parte il governo «populista e sovranista» gialloverde, dall’altra le forze moderate ed europeiste. In mezzo, noi, che dovevamo provare a far sentire la nostra voce. Dovevamo spiegare che i grillini non c’entravano nulla con chi difende la sovranità e l’indipendenza del popolo italiano. Erano populisti, sì, demagoghi meglio, ma certo non sovranisti e nulla avevano (e hanno) a che fare con la destra politica. Sapevo che quella decisione poteva essere molto rischiosa per il futuro di Fratelli d’Italia. Ma sapevo anche, allora come oggi, che il rispetto della parola data, in politica, è la base stessa della democrazia, del rapporto tra rappresentante e rappresentato. La chiamano coerenza, ma io penso si debba chiamare soprattutto serietà. Responsabilità. Se in campagna elettorale dici una cosa per prendere i voti e poi non la fai, vuol dire che non ci credevi, e allora ti sei preso gioco di quelli che hanno creduto in te. Io ci penso mille volte prima di prendermi un impegno, ma se lo assumo poi lo manterrò, costi quel che costi. Abbiamo sempre promesso che non saremmo andati al governo né con il PD né con il Movimento 5 Stelle, e abbiamo tenuto fede a quella promessa sia nel 2018, quando nacque il primo governo Conte, sia nel 2021, con l’avvento del governo Draghi.
Su questo genere di scelte Matteo Salvini è sempre stato molto meno rigido di me, e a volte l’ho invidiato per questo. Sa sempre interpretare quello che vuole la gente, è la sua forza. Quando diede vita al governo con i grillini, forse anche perché all’epoca voleva divincolarsi dall’abbraccio ancora parecchio invadente di Berlusconi, i numeri gli diedero ampiamente ragione, vista la straordinaria crescita della Lega in quella fase, a discapito, soprattutto, di Forza Italia. Per noi, invece, le cose sembravano sempre più difficili, e in quel quadro di massima forza del «Capitano» e della Lega arrivò la sfida delle elezioni europee del 2019.
«Stavolta se non si fa il 4 per cento prendo seriamente in considerazione di fare altro nella vita. Basta. Sembriamo criceti sulla ruota.» Mi ero sfogata spesso così, in quei mesi, con le persone che mi sono più vicine, e anche se penso che nessuno ci abbia davvero creduto, ero maledettamente seria. Era una grandissima occasione per toglierci di mezzo, in molti si staranno mangiando le mani scoprendolo oggi.
All’inizio del 2019 qualche sondaggio stimava Fratelli d’Italia poco sopra il 2 per cento, ritenendo che la crescita della Lega dovesse per forza drenare consenso anche a noi. Qualcuno cominciò a lasciarci per rifugiarsi sotto le più rassicuranti insegne di Alberto da Giussano. La soglia del 4 per cento sembrava abbastanza difficile da raggiungere, anche se qualche soddisfazione, intanto, era arrivata anche per noi. A febbraio, ad esempio, era stato eletto in Abruzzo il nostro primo presidente di Regione, Marco Marsilio. Ero così decisa a giocarmi il tutto per tutto che misi nel lavoro di quei mesi un’energia e una concentrazione enormi. Liste competitive, campagne martellanti, lavoro incessante. Non lasciammo nulla al caso. Se dovevo smettere, lo avrei fatto senza rimorsi o rimpianti.
Alla fine, contro ogni pronostico, alle elezioni europee del maggio 2019 ottenemmo un inatteso 6,44 per cento eleggendo sei europarlamentari. Da lì cambiò tutto, iniziò per Fratelli d’Italia una storia completamente nuova. Non più a combattere nelle retrovie preoccupati dalle soglie di sbarramento, ma finalmente lanciati a contendere nel 2020 la supremazia ai «grandi». Mentre scrivo i sondaggi dicono che Fratelli d’Italia è il terzo partito italiano, alcuni lo stimano addirittura al secondo posto, davanti al PD e al M5S, a pochi punti dalla Lega. Un risultato incredibile sul quale nessuno, nemmeno io, lo confesso, avrebbe scommesso un soldo nel 2018.
Però ho sempre saputo che per noi sarebbe stato più difficile arrivare al 5 per cento che passare dal 5 al 15 per cento. Il sistema democratico in questo è implacabile, è la sindrome del voto utile. Quando i partiti rischiano di non superare gli sbarramenti, gli elettori temono di sprecare il proprio voto. Per anni mi sono sentita dire dalle persone più disparate che si riconoscevano nelle nostre battaglie ma non ci votavano perché eravamo un piccolo partito. Ogni volta ho tentato di spiegare che eravamo un piccolo partito perché loro non avevano il coraggio di votarci. Quel 6 per cento e più delle europee, che ci metteva in sicurezza da ogni soglia di sbarramento, aveva consentito a tutti quelli che condividevano le nostre battaglie di votarci senza temere una scelta ininfluente.
Oggi, agli italiani, voglio dire che dovrebbero credere più nel loro istinto e meno nei sondaggi. Chi conterà e chi no dopo un’elezione si decide il giorno stesso del voto, e a decidere sono loro. Non bisogna cedere ai condizionamenti, ma scegliere sulla base delle convinzioni reali che si hanno. È quello l’unico modo di contare davvero.
Superata la fase drammatica di aver paura di non eleggere i nostri rappresentanti nelle istituzioni, è arrivata quella altrettanto preoccupante di eleggere persone non degne delle istituzioni. Essere di destra vuol dire anche avere un profondo senso dello Stato. Per noi la macchina pubblica, a ogni livello, è una cosa sacra, da rispettare e onorare con il proprio lavoro, a maggior ragione se si ricopre un incarico elettivo.
Per questo sono molto esigente nella scelta dei candidati. Pretendo persone di valore, con un’esperienza adeguata alle spalle. Gente di qualità, che abbia le carte in regola per potersi dire classe dirigente, anche a discapito di qualche voto se necessario. E su questo non transigo, pretendo solo persone oneste. Certo, non sempre le cose sono andate come volevo, in questi anni. In qualche caso ho sbagliato, e altre volte – soprattutto a livello locale – persone che parevano specchiate si sono poi rivelate disoneste o inadeguate.
Anche dopo le verifiche e le riflessioni più accurate, scegliere una persona resta una scommessa: delusioni e tradimenti spesso arrivano da dove meno te lo aspetti. E non puoi fisicamente conoscere vita, morte e miracoli di migliaia di uomini e donne che ti rappresentano su tutto il territorio nazionale. Nessuno potrebbe, e infatti le disavventure capitano in ogni partito. La differenza la fa come reagisci quando succede e quali strumenti metti in campo per evitare che accada. Io cerco di difendermi dai disonesti applicando dei criteri molto rigidi, controllando la fedina penale, certo, ma anche escludendo chi cambia casacca con troppa disinvoltura.
Eppure a volte neanche questo basta. Quando in pochi mesi ben tre esponenti di Fratelli d’Italia sono stati coinvolti in indagini legate a fatti di ’ndrangheta, oltre a prendere immediati provvedimenti, sono andata dritta a parlare con il procuratore antimafia Cafiero de Raho. Gli ho chiesto senza mezzi termini se ritenesse possibile un disegno di infiltrazioni, e come potessi, nel caso, difendermi. Perché se c’è una cosa che proprio non sono disposta ad accettare è che i miei più grandi nemici, cioè appunto gli esponenti della criminalità organizzata, pensino di poter utilizzare i sacrifici che sto facendo per fare i loro sporchi comodi.
Ho cominciato a fare politica contro il malaffare, e continuerò a combatterlo sempre con tutte le mie forze, costi quel che costi. Un vero patriota non può che essere una persona onesta, perché non potrebbe mai concepire di danneggiare la propria comunità nazionale con sotterfugi e ruberie. Anche per questo non c’è spazio per i disonesti in Fratelli d’Italia.
Il giorno in cui, con quel 6,44 per cento, avevamo abbattuto il muro che ci separava dai giochi seri, ero felice? No. Sono tornata a casa ed ero, semplicemente, serena. Ricordo che mi sono chiesta perché non riuscivo a lasciarmi andare, a festeggiare come avrebbe fatto chiunque altro fosse riuscito in un’impresa così importante per lui. «Hai fatto il tuo dovere» era la frase che mi riecheggiava nella mente. La stessa che, da ragazza, mia madre pronunciava con sufficienza dopo aver letto la pagella con la quale collezionavo solo voti alti, al netto della matematica, la mia bestia nera.
Forse è stato quell’insegnamento a rendermi così incapace di raggiungere la piena felicità in quello che faccio. Quando le cose mi vanno bene sono semplicemente tranquilla, e quando invece vanno male sembra la fine del mondo. Non è facile vivere così, ma in fondo è anche quello che mi ha reso tanto determinata. L’idea che la felicità stia sempre un po’ più in là, che ci sia ancora qualcosa da fare, un’altra battaglia da combattere. Alla ricerca di un traguardo che, in realtà, potrebbe non esistere.
a. Ora il mio cuore si sente come un tizzone e sta illuminando l’oscurità / Porterò queste torce per te e sai che non le farò mai cadere.
Conservare il futuro
Come può uno scoglio
Arginare il mare
Anche se non voglio
Torno già a volare.
Lucio Battisti, Io vorrei... non vorrei... ma se vuoi
Alla fine ce l’abbiamo fatta. Con Fratelli d’Italia al riparo da ogni rischio estinzione – a prescindere dalla possibile legge elettorale –, siamo riusciti nella difficile e motivante impresa di mettere in sicurezza la storia della destra italiana.
In questi anni moltissime persone cresciute nelle sezioni del MSI e di AN mi hanno fermata, stringendomi le mani, con gli occhi lucidi: «Grazie Giorgia». Ogni volta che mi è successo mi ha sorpreso, non per la felicità che queste persone dimostravano per avere ancora un partito di riferimento, ma per la commozione, l’affetto, la devozione quasi, che mostravano nei miei confronti. Come se, più di considerarmi un semplice soldato che ha fatto solo il proprio lavoro – cioè l’immagine che io ho di me stessa –, vedessero in me qualcosa di epico.
Un giorno alla fine di una manifestazione, marito e moglie, entrambi molto anziani, sono venuti ad abbracciarmi. «Sei la nostra eroina, Giorgia, sei la nostra Giovanna d’Arco, ci voleva una donna per guidare questo esercito allo sbando» aveva detto lui. E la moglie: «Lo sai che sei nata lo stesso giorno di Giovanna d’Arco, vero?». Non lo sapevo.
Ora, non sarò tanto ridicola da paragonarmi alla Pulzella d’Orléans, ma quel giorno ho capito che ben oltre i miei reali meriti – si attribuisce soprattutto a me un’impresa fatta da molti – si era creata attorno alla mia figura una sorta di piccola mitologia. Era il risultato della potenza comunicativa data dal contrasto tra l’immagine della giovane donna, piccoletta per giunta, e l’enormità della sfida che conduceva. La persona piccola e fragile che fronteggia un avversario molto più potente e che con il suo esempio mette a nudo la viltà di chi si sottrae a quel confronto. Chiaramente io la vedo in tutt’altro modo, e mi considero soltanto una persona mediamente coraggiosa in un ambito nel quale il coraggio difetta, o una donna che crede che l’onore sia la cosa più importante da salvaguardare in una società che preferisce mettere al riparo valori ben più materiali. Niente di eroico, forse in fondo sono solo un po’ vecchia di mentalità, nonostante i miei quarantaquattro anni.
Ce l’abbiamo fatta, dicevo, ma non voglio ci siano equivoci sulle ragioni per le quali abbiamo perseguito così caparbiamente l’obiettivo di salvare la destra. Farlo, per noi, non era semplicemente una questione affettiva, o di bandiera. Non era per garantire una testimonianza, che pure sarebbe una cosa assolutamente dignitosa. No. Noi abbiamo salvato la destra per salvare l’Italia. Abbiamo salvato la destra perché oggi, qui, più che in ogni altro tempo e in ogni altro luogo, la destra è necessaria. Lo abbiamo fatto guardando avanti e non indietro, pensando ai nostri figli più che ai nostri nonni, immaginando il futuro più che ricordando il passato.
Alla nostra nazione, al nostro popolo, serve un forte movimento politico di destra. Per questo non ho mai considerato gli sforzi che abbiamo fatto in questi anni per far nascere e crescere Fratelli d’Italia una battaglia meramente ideologica. Tutt’altro. Da patriota sono convinta che il bene dell’Italia venga sempre prima dell’interesse di parte. Un concetto che la sinistra, che non riconosce il valore dell’identità nazionale, non potrà mai capire appieno, nonostante faccia spesso appello (a sproposito) al «bene del Paese».
E non è un caso che lo chiami «Paese», e sia sempre restia a utilizzare i termini «nazione» o «patria». La differenza a molti potrebbe sembrare banale, ma decisamente non lo è. Vocabolario alla mano, il significato della parola «Paese» è «insediamento umano», quello del termine «nazione» è «gruppo di individui cosciente di una propria peculiarità e autonomia storica e culturale», e quello della parola «patria» è «territorio abitato da un popolo e al quale ciascuno dei suoi componenti sente di appartenere per nascita, lingua, cultura, storia e tradizioni».
Il Paese è un semplice luogo fisico, nel quale si vive insieme, indistinto, materiale, mentre la nazione è un luogo anche mentale, al quale si appartiene per condivisione di cultura, storia, tradizioni. E, ancora di più, la patria è un luogo che coinvolge il cuore, quella volontà di condividere le radici e partecipare al destino di una comunità che è l’essenza stessa del principio di appartenenza.
Alla sinistra non piace affatto la destra, e questo sembra abbastanza scontato. D’altronde anche a me la sinistra non piace e non ne faccio mistero. La cosa bizzarra è invece la pretesa della sinistra di voler spiegare a noi, ma non solo a noi, cosa dovrebbe essere la destra. Giornalisti, opinionisti, commentatori, politici, intellettuali più o meno validi di sinistra passano buona parte del loro tempo a dissertare di come sarebbe bello avere in Italia una destra «moderna e dialogante, che abbandonasse le sue posizioni impresentabili», tradendo, ancora una volta, quella presunta e mai dimostrata superiorità morale per la quale la sinistra pretende di decidere persino come dovrebbe essere l’avversario. Vorrebbero una destra diversa, che piacesse a loro. Cioè una destra che non prendesse più un voto, marginale, della quale potersi liberare con grande facilità. Perché, ovviamente, quando la destra piacerà alla sinistra non piacerà più a chi è di destra.
Come ho scritto, ci siamo già passati qualche anno fa, e abbiamo imparato la lezione. Quando la sinistra ti liscia il pelo e si complimenta con te per le tue posizioni «presentabili», vuol dire che stai sbagliando qualcosa. È la ragione per la quale io ci tengo a non piacere a quella gente. La loro ostilità è per me come una stella polare che mi conferma che la rotta è quella giusta.
Io sono di destra; lo dico, lo ripeto negli incontri pubblici e privati. Lo rivendico con l’orgoglio e la dignità con cui si rivendica un’identità, un’appartenenza vissuta. Anche sapendo che definirsi tale significa immediatamente essere esclusi dai circoli dell’élite, dai salotti radical chic che imperversano in Italia; significa attirarsi l’ostilità e il disprezzo di buona parte del mondo dei media, degli intellettuali, degli accademici, degli astratti custodi di verità imposte; significa essere additati come oscurantisti, reazionari nella migliore delle ipotesi; nella peggiore, come portatori di un virus d’intolleranza o di razzismo.
Destra e sinistra sono spesso considerate in politica e cultura categorie superate, figlie del secolo scorso e dei suoi schemi. In questo tempo che stiamo attraversando, in molti ritengono destra e sinistra reperti archeologici di un’epoca sepolta sotto le sabbie della storia. Non lo credo. Certo, se guardassimo agli stereotipi che definivano destra e sinistra lungo il Novecento e li confrontassimo con quelli che le definiscono oggi, a un osservatore superficiale potrebbe sembrare che tutto è mutato, che alcuni di quei cliché sono addirittura rovesciati, ma un’analisi più attenta dimostrerebbe facilmente come i valori di fondo, l’impostazione da cui si muove, siano sempre gli stessi, adattati a una realtà profondamente mutata. Non parlo degli stereotipi da operetta che Giorgio Gaber, cantautore, commediografo, regista, ma soprattutto poeta, libero, lucido, rivoluzionario – una delle pochissime persone che rimpiango di non aver conosciuto nella mia vita –, denunciava con stile dissacrante in uno dei suoi capolavori, Destra-Sinistra: «Una bella minestrina è di destra / il minestrone è sempre di sinistra / Tutti i film che fanno oggi son di destra / se annoiano son di sinistra / [...] Le scarpette da ginnastica o da tennis / hanno ancora un gusto un po’ di destra / ma portarle tutte sporche e un po’ slacciate / è da scemi più che di sinistra / Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra». No, parlo di qualcosa di molto più profondo, che non muta con le stagioni ed è troppo complesso per adeguarsi a banali etichette.
Aggiungo che, di solito, chi dice che destra e sinistra sono categorie superate, almeno nella politica, lo fa per giustificare l’allegria con la quale passa da una parte all’altra della barricata in cambio, spesso, di un’elegantissima poltrona. E il punto è questo: se alla politica togli le idee, le visioni distinte e contrapposte, rimarranno solo gli interessi da difendere, gli obiettivi personali ai quali in troppi sono disposti a piegare troppo. Per come la vedo io, finché esisteranno le democrazie, destra e sinistra avranno un fondamentale valore perché quella collocazione topografica (sedersi a destra o a sinistra in un Parlamento) differenzia un sistema di valori da incarnare e un progetto da realizzare.
Che poi esiste una coerente continuità tra la sinistra con cui abbiamo a che fare oggi e quella che decantava le lodi del modello comunista. La frattura, in fondo, è sempre la stessa: il conflitto tra delirio ideologico da una parte, e principio di realtà dall’altra. Ho già spiegato questo concetto nel mio contributo pubblicato nel libro I comunisti lo fanno meglio (oppure no?) curato da Luciano Tirinnanzi. Il comunismo era (ed è) un’ideologia incentrata sulla necessità di negare qualsiasi forma d’identità per conseguire il disegno di una società marxista, fatta di uomini in tutto e per tutto uguali tra loro. Da qui il tentativo di cancellare le appartenenze nazionali attraverso le deportazioni di massa per «mischiare» le etnie all’interno dell’URSS e di imporre l’ateismo di Stato vietando e reprimendo ogni religione.
Questa stessa visione, che nega il ruolo e il valore delle identità, la ritroviamo oggi nel pensiero liberal e globalista. Gli strumenti utilizzati sono ovviamente diversi, ma l’obiettivo finale è lo stesso. Le deportazioni di massa dell’epoca sovietica sono state sostituite dalle politiche immigrazioniste; la repressione violenta contro le religioni è stata rimpiazzata dalla demonizzazione sociale e culturale di ogni concetto di sacro; la lotta al «modello borghese» è diventata lotta alla «sovrastruttura» rappresentata dalla famiglia naturale. È incredibile come la visione comunista si sia rafforzata nel mondo da quando il socialismo reale è stato sconfitto dalla storia nei primi anni Novanta. Ecco, il confronto/scontro tra le visioni di destra e sinistra della società e del mondo, alla fine, è rimasto lo stesso. Da una parte (ri)troviamo la sinistra di sempre, che ha teorizzato, e ora tenta di imporlo, il migliore dei mondi possibili a tavolino: una società di «eguali» senza classi; in realtà senza libertà, senza fede, senza storia (o, come più prosaicamente direbbe Mario Brega nel film di Verdone Un sacco bello rivolgendosi al figlio Ruggero, novello hippie: «Senza ’na casa, senza ’na famija, co’ le pezze ar culo!»). Dall’altra parte c’è la destra, a preservare quelle stesse identità profonde che la sinistra vorrebbe cancellare.
Spesso mi sono chiesta perché, non provenendo da una famiglia ideologizzata, io abbia deciso di iniziare a fare politica a destra; in quell’angolo angusto che allora era considerato il luogo dei perdenti, o degli esuli in patria.
Può sembrare paradossale a molti, ma la verità è che io sentivo a destra una libertà che non sentivo a sinistra. La libertà dal conformismo, la libertà di non piegarsi allo «spirito del tempo», la libertà di una critica radicale che la sinistra, chiusa nella sua visione ideologica, non consentiva.
Mi colpiva il fatto che molti dei ragazzi che facevano politica con me non venissero da famiglie di destra, mentre la stragrande maggioranza dei miei amici di sinistra proveniva da famiglie di una sinistra spesso ortodossa. Per loro era quasi obbligatorio seguire il pensiero dei genitori, come una sorta di imitazione indotta, come se non conoscessero la libertà di trasgredire dal modo di pensare del proprio ambiente d’origine.
Non solo, ma a questo si aggiungeva un altro aspetto importante. In quelle sezioni un po’ catacombali trovavo luci inaspettate. Quei ragazzi nutrivano una curiosità intellettuale che era quasi impossibile trovare a sinistra. Non era raro vederli, severi e scorbutici, leggere Gramsci per poi recitare un verso di Ezra Pound o riflettere sul Ribelle jüngeriano. Perché in quell’ambiente vigeva il principio che «tutti gli uomini di valore sono fratelli», indipendentemente da dove la storia li avesse inseriti, così come tutte le idee valide, intelligenti, o semplicemente interessanti valgono un approfondimento, a prescindere da chi le abbia avute. È questa apertura mentale, data dall’assenza di «testi sacri», che ci ha regalato la libertà di leggere qualsiasi libro, ascoltare qualsiasi cantautore, approfondire qualsiasi personaggio storico, senza preclusioni e senza adesioni acritiche, per estrapolare il meglio che l’umanità avesse prodotto ai nostri occhi, a trecentosessanta gradi.
È la ragione per la quale la destra italiana per definire se stessa trova facilmente riferimenti culturali e politici in un vasto patrimonio nazionale e internazionale. E oggi Fratelli d’Italia aspira a farsi sintesi di tutte le idee maturate nell’alveo della tradizione conservatrice e liberale, non rinunciando a sperimentare nuove esigenze e nuove forme. Perciò non starò qui a elencare il cosiddetto pantheon degli intellettuali o dei testi da cui attingiamo valori e proposte. Sarebbe per forza di cose incompleto, forse addirittura ingiusto, una trappola politica che lascio ad altri. Le fonti dalle quali abbiamo attinto sono troppe. E ogni epoca, ogni generazione, a volte persino ogni battaglia, ha aggiunto nomi, scritti, pensieri per arricchire l’elenco. Se, ad esempio, dovessi citare uno dei pensatori che hanno maggiormente indirizzato la mia visione negli ultimi anni, farei il nome del principe del pensiero conservatore britannico: Sir Roger Scruton, che mi è già capitato di citare in questo libro.
L’ho conosciuto tardi, troppo tardi, grazie al Partito dei Conservatori e Riformisti Europei, di cui di recente ho assunto la guida, eppure mi ha aiutato a disegnare i tratti di quello che faccio più di molti autori letti in gioventù.
Nonostante il tipico aplomb britannico, Scruton ha avuto, come tanti altri intellettuali di destra, una vita artistica multiforme, incredibilmente intensa, coraggiosamente interventista. Un’esistenza equamente distribuita tra le barricate in strada, soprattutto negli anni Ottanta, e la poltrona accanto al camino acceso della sua casa di campagna.
Innamorato dell’Italia, pugnace sostenitore della bellezza come soluzione ai problemi più complessi d’ogni epoca, pur con tutte le differenze possibili, non c’è partito che possa definirsi di destra in Occidente che non sia debitore di Scruton. A me piace ricordare una sua citazione tratta da How to Be a Conservative: «I conservatori fanno propria la visione della società di Burke, che la concepiva come un’alleanza fra i vivi, i non nati e i morti; credono nell’associazione civile fra vicini, piuttosto che nell’intervento dello stato; e ammettono che la cosa più importante che un vivente può fare è di insediarsi, farsi una casa e passarla poi ai propri figli. L’oikophilia, l’amore per la propria casa, si addice alla causa ambientalista ed è sorprendente che molti partiti conservatori nel mondo non si siano impossessati di questa causa». Già, questo è uno dei passaggi che preferisco, e che spiega perché non vi sia in Italia un movimento politico più coerentemente ecologista del nostro.
La libertà che ha consentito alla destra di attingere senza pregiudizi da tutta la cultura nazionale e oltre non è mai esistita a sinistra. Loro avevano i libretti rossi, gli autori consentiti e quelli condannati, la musica da ascoltare e quella maledetta. Una gabbia. Perché, se consenti a qualcun altro di dirti in cosa puoi e devi credere, smetti di utilizzare la più grande libertà che il Signore ti abbia concesso: il libero arbitrio. Io ho sempre pensato che i libri, come la musica, o la filosofia, in realtà non ti insegnassero qualcosa, ma ti aiutassero semplicemente a spiegare con parole migliori quello che hai dentro. Se rinunci a cercare ovunque, alla fine rischi di non sapere chi sei. Invece rimaneva difficile convincere un mio amico di sinistra ad aprire un libro di Céline, uno dei più grandi scrittori del Novecento ma maledetto per la sua folle simpatia nei confronti del nazionalsocialismo, o fargli comprendere l’immensità eroica e narrativa di Yukio Mishima, il grande letterato giapponese patriota, reazionario, nazionalista da cui persino Moravia rimase incantato.
Durante la mia dichiarazione di voto in occasione della fiducia al governo Draghi, ho citato una frase di Bertolt Brecht – drammaturgo tedesco antinazista, amatissimo dalla sinistra – per spiegare la scelta di Fratelli d’Italia di rimanere l’unico partito all’opposizione: «Ci sedemmo dalla parte del torto perché tutti gli altri posti erano occupati». Apriti cielo! A sinistra sono impazziti. «Come ti permetti tu di citare Bertolt Brecht, è nostro!» Come se la cultura fosse di qualcuno, e non di tutti. Come se ognuno potesse citare solo alcuni autori consentiti, e non tutto ciò che condivide, o che ritiene adeguato al proprio contesto. Ho risposto, con una punta di perfidia: «Non ve la prendete. So che avreste voluto citarlo voi Brecht, ma forse non avete trovato la citazione nella quale elogiava il sostegno a un governo guidato da un banchiere mai passato da una legittimazione popolare...».
Al netto delle battute, mi sono molto interrogata su quel nervosismo. Perché se io avessi ascoltato un collega di sinistra utilizzare una citazione, che so, di Gabriele D’Annunzio per argomentare una sua impresa, ne sarei andata fiera. Loro no, perché i rigidi schemi mentali che hanno non lo consentono.
L’ho imparato da ragazzina. Dei miei amici rigorosamente di sinistra mi colpiva la sicurezza, le infrangibili certezze che caratterizzavano il loro modo di vedere le cose. Un assolutismo di idee e visioni che rendeva spesso sterile ogni dibattito e confronto: la loro convinzione di essere sempre e comunque dalla parte giusta della storia, anche quando la storia era chiaramente sbagliata, e le loro idee avevano prodotto orrori indicibili.
Mi viene in mente un libro che lessi una ventina d’anni fa, s’intitolava In attesa di un pullman. L’autore era un imprenditore tessile di Carpi, Renato Crotti – ormai scomparso –, fondatore della Silan, una delle aziende tessili più importanti d’Italia che segnò il miracolo economico di quella piccola e media impresa che è la vera ricchezza della nostra nazione e del nostro tessuto produttivo. Crotti, negli anni del dopoguerra e per di più nell’Emilia del sindacalismo rosso e del comunismo più oltranzista, si trovava a fare impresa tra l’incudine della concorrenza a partecipazione pubblica e il martello delle proteste operaie. In estrema sintesi, il libro racconta di come Crotti riuscì a governare i deflagranti fenomeni del sindacalismo barricadero di matrice comunista semplicemente pagando ai suoi operai – sindacalisti in primis – dei viaggi in pullman nell’utopico Eden dei lavoratori: l’URSS. In quei viaggi portava con sé anche giornalisti di sinistra perché guardassero con i propri occhi cos’era il comunismo che in Italia il PCI voleva importare. Molti di loro tornarono sconvolti raccontando l’inferno di quel finto paradiso. Eppure in Italia non vollero cedere le proprie certezze a ciò che veniva riportato da testimoni inattaccabili; in altre parole, se la realtà è diversa dalle mie idee, è sbagliata la realtà. Diciamo che la visione ideologica della sinistra è fotografata dalla famosa frase attribuita a Hegel: «Se i fatti non si accordano alla teoria, tanto peggio per i fatti».
Ecco, credo che il primo tratto dell’essere di destra sia il «realismo». Affrontare senza paraocchi ideologici il mondo e le sue sfide. Quello che si chiama, appunto, «principio di realtà»: il rifiuto di ogni decorazione utopista, di ogni costruzione ideologica. Per la destra la politica parte dalla realtà, non dall’idea che ci facciamo di essa. Si combatte per l’uomo concreto che vive nel mondo concreto. La realtà è la vita presente ma anche quella passata: la tradizione, la memoria. Quelle «radici profonde che non gelano», per dirla ancora con Tolkien, che sono a fondamento di ogni nascita e crescita.
Ma non parlo di una destra materialista, tutt’altro. Parlo di una destra divina e, come altri prima di me, per dipingerne le forme mi affiderò all’intellettuale italiano più irregolare del dopoguerra: Pier Paolo Pasolini. Può sembrare un paradosso, ma l’ultimo componimento scritto dal poeta friulano poco prima di morire è davvero un manifesto politico, conservatore, di straordinaria bellezza e coerenza. In Saluto e augurio Pasolini consegna nelle mani di un imberbe fascistello degli anni Settanta il suo testamento ideale: «Prenditi / tu, sulle spalle, questo fardello. / [...] Difendi i campi tra il paese / e la campagna, con le loro pannocchie / abbandonate. Difendi il prato / tra l’ultima casa del paese e la roggia. / [...] Difendi, conserva, prega!». Nei versi che seguono per ben tre volte Pasolini ripeterà il suo appassionato invito a difendere, conservare, pregare. «Dentro il nostro mondo, di’ / di non essere borghese, ma un santo / o un soldato: un santo senza ignoranza, / un soldato senza violenza. / Porta con mani di santo o soldato / l’intimità col Re, Destra divina / che è dentro di noi, nel sonno.»
Difficilmente si potrebbero trovare parole più liriche per definire un pensiero politico profondo e diffuso come quello che innerva la destra italiana. Un pensiero verticale, che va dalle Sacre Scritture al diritto romano, dai codici cavallereschi del Medioevo alla grande bellezza del Rinascimento, dai giovani poeti guerrieri del Risorgimento all’Europa cristiana di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Ma anche un pensiero orizzontale, che tiene insieme i mille e mille campanili che compongono l’Italia, da nord a sud, da est a ovest.
D’altronde, mi sono sempre riconosciuta in questa parte del campo più per istinto, per indole, che per consapevolezza culturale. Marcello Veneziani, con parole diverse ma ugualmente efficaci rispetto a quelle di Pasolini, scrive: «La destra esiste nella testa, nei cuori e nella pancia della gente, anche di chi non si reputa tale. È un sentire comune che stenta a diventare un pensiero comune. È il suo pregio e il suo limite». Dunque, compito di chi ne assume la guida in un determinato momento storico è fare della destra la leva per sollevare un destino comune al di sopra delle angosce individuali, senza paura né soggezione. Per quanto difficile possa essere.
Mi viene in mente la frase che Jean Guitton mise in bocca a Socrate in un dialogo che lui immagina dopo la propria morte nell’aldilà: «Mille miliardi di idee non valgono una sola persona. Dobbiamo amare le persone; è per loro che bisogna vivere e morire». Ecco, questa è la destra in cui io credo. Carica della mitezza, dell’umanità e della pietà che solo chi non perde il contatto con il mondo reale può custodire. Valori che non possono appartenere a chi è convinto di essere nel giusto.
Invece la sinistra insegue le utopie, infila la realtà in una scatola, la guarda dentro una teca di vetro pulita, trasparente, perfettamente aderente alle proprie convinzioni. Per la sinistra tutto è lineare, retto, onnicomprensivo.
Il pensiero di sinistra, ieri come oggi, è un’ideologia totalizzante in nome della quale si è disposti a giustificare qualunque forma di sopraffazione e di violenza. Sotto questo aspetto, la furia ideologica ha molte similitudini con l’integralismo religioso. Vale in astratto per ogni ideologia e per ogni religione, ma in questa epoca è tipico della sinistra e del fanatismo islamista. Se credo di essere portatore di una missione «alta e nobile», per costruire un mondo migliore o realizzare la volontà di Allah, allora è giusto e doveroso spazzare via con ogni mezzo chi mi ostacola. È quello che fanno i terroristi quando sparano su persone inermi, è quello che fa la dittatura del pensiero unico quando nega i diritti fondamentali di libertà e parola agli avversari politici. Io li chiamo, non a caso, i fanatici progressisti per i quali qualunque modo di schiacciare il nemico è lecito. E, come nell’islamismo, la loro furia mondialista è giocoforza portatrice di conflitto. Qual è infatti l’unico modo per realizzare la loro utopia di un mondo senza confini e differenze? Imporre di imperio questa visione del mondo e delle cose a tutti. Anche con la forza.
Per fare un esempio, nella geopolitica americana, sono i democratici – la sinistra liberal – i campioni della visione interventista, quella che sostiene la destabilizzante esportazione della democrazia nel mondo. Contro ogni stereotipo, invece, è la destra a stare dalla parte della pace e dell’equilibrio fra i popoli in tutto questo dibattito: non a caso, Donald Trump è stato l’unico presidente USA da oltre quarant’anni a non aver iniziato una guerra durante il proprio mandato. A differenza di Barack Obama, premio Nobel per la pace. Lo stesso avviene in politica interna. Che cos’è, infatti, se non istinto talebano quello che spinge capitalisti e maître à penser di sinistra a invocare e praticare la censura della libera espressione, rivendicandola come pratica di purificazione contro i «peccatori»? Che cos’è se non fanatismo la lotta iconoclasta dei Black Lives Matter – coccolati dalla sinistra di ogni latitudine – contro i grandi del passato, in nome di una riscrittura puritana della storia e della società? Ecco, davanti a tutto ciò, essere di destra in questo tempo, e a maggior ragione adesso, lo interpreto come un atto di resistenza nel nome della libertà. Della fiducia nella persona e della concordia fra i popoli. Libertà e pace che vanno difese, oggi come ieri, proprio dalla violenza di questi fanatici «democratici».
Viviamo in un tempo folle nel quale si profila una dittatura nuova, impalpabile; un’intolleranza imposta attraverso il massiccio potere della Tecnica e del controllo dell’immaginario. Il «politicamente corretto» imperversa e detta le proprie leggi assurde: dalle ridicole imposizioni di burocrati progressisti che vogliono cancellare la naturale appartenenza genitoriale scagliandosi sui termini «padre» e «madre»; passando per i figli di papà travestiti da rivoluzionari urbani che distruggono le statue che ricordano eroi di guerra, memorie di nazioni; arrivando alla rilettura censoria di favole, racconti per bambini, cartoni animati, film passati sotto la censura della psico-polizia del pensiero unico.
Uno dei fronti caldi, forse il più importante, dove si sta svolgendo questo attacco nei confronti del «reale» è – guarda caso – quello digitale, dei social network in particolare. Sorti, questi ultimi, come un formidabile strumento di condivisione, di comunicazione e di libero accesso all’informazione, negli ultimi anni sono diventati il luogo dove, da un lato, si è concentrata la repressione della libertà di espressione e, dall’altro, dove la propaganda liberal – con cui flirtano i magnati proprietari delle piattaforme – pretende in modo subdolo di dettare la narrazione del pensiero unico e standardizzato, di costruire su questo una sorta di «Costituzione» sovranazionale. Ovviamente senza contraddittorio. E senza nemmeno pagare le tasse dovute agli Stati. Vittima e ostaggio di questa deriva liberticida può essere chiunque e qualsiasi cosa: dalle opere d’arte rimosse dai social perché «offensive» della sensibilità delle minoranze (sic) alle testate giornalistiche «non conformiste» oscurate; dai movimenti politici bannati senza un perché fino all’incredibile decisione di bloccare il profilo Twitter della più importante carica elettiva del pianeta, come è accaduto proprio all’ex presidente degli Stati Uniti Trump.
Se quello che avviene nell’universo digitale risulta in qualche modo «lampante» – perché ogni decisione del genere scatena comunque un serrato dibattito giornalistico –, altrove l’intolleranza procede come un virus: quasi a instillare nell’uomo occidentale un silenzioso ma inesorabile senso di colpa per ciò che la sua civiltà ha costruito in Occidente e non solo.
Ecco, il politicamente corretto è un’onda d’urto, una cancel culture che prova a sconvolgere e a rimuovere proprio tutto quello che di bello, onorevole, umano la nostra civiltà ha elaborato. Anche attraverso il dolore, le divisioni, i conflitti e, ovviamente, le immancabili contraddizioni. È un vento nichilista di bruttezza inaudita che cerca di omologare tutto in nome del One World. Il politically correct insomma, il vangelo che un’élite apolide e sradicata vuole imporre, è la più grande minaccia al valore fondante delle identità.
Ma cosa sono le identità? Domanda difficile a cui ho sempre cercato di rispondere partendo da me. Io sono una donna, sono Giorgia, sono una madre, sono cristiana, sono italiana, sono europea. Io sono tante cose insieme che raccontano da dove provengo, definiscono chi ho scelto di essere, indicano dove vorrei andare. Sono le mie identità plurime che, come cerchi concentrici, incorniciano la mia vita su questa terra e lasceranno memoria in chi mi ha amato. Alcune di queste identità non le ho scelte, mi sono state donate; altre sono frutto della mia libertà.
La prima identità è il mio nome. Scelto dai miei genitori. Primo atto d’amore ricevuto. Il proprio nome è la prima parola che un bambino sente nelle sue orecchie; è il suono con cui riconosce la voce della mamma e del papà. I nomi, scriveva Ernst Jünger, «hanno il potere dell’evocazione», abitano la nostra anima trasformandola in un’identità immortale.
La seconda identità è il mio sesso. Scelto dalla natura o da Dio, fate voi. Mi colloca in una parte precisa del genere umano. Il mio è quello femminile. Oggi questa identità è minacciata dall’ombra di un «arcobaleno», diventato simbolo di un marasma culturale che dietro la retorica dell’inclusione sconfina nella negazione della semplice realtà, portandosi dietro incredibili cortocircuiti, come l’Arcigay che chiede di cacciare l’Arcilesbica, «colpevole» di rivendicare la specificità femminile.
La terza identità è la mia fede, nel mio caso tramandata dai miei genitori, dalla terra dove sono nata e cresciuta. È un’identità che può essere scelta, cambiata, negata... o anche trovata perché magari Dio è un incontro maturato nella vita. Ma quella cristiana può essere anche un’identità più laica che religiosa perché, per la nostra cultura, non è solo un’identità individuale ma collettiva. Perché non possiamo non dirci «cristiani», così intitolò un suo saggio del 1942 Benedetto Croce, laico e non credente, riconoscendo che l’intera storia moderna è debitrice della Rivelazione cristiana; perché «tutte le altre rivoluzioni, tutte le maggiori scoperte che segnano epoche nella storia umana, non sostengono il suo confronto». Questa identità è a fondamento della civiltà occidentale. Anzi, le radici stesse dell’Occidente non possono non essere classiche e cristiane.
La quarta identità, quella italiana, è il senso del mio patriottismo. È l’appartenenza a un popolo, è l’amore verso una terra, è la lingua comune, è il paesaggio che forma un’idea del mondo, sono gli usi e i costumi ereditati e da amare perché legame profondo con i nostri antenati, il loro lascito, ciò che si chiama Tradizione. È il «Noi» che costruisce la lealtà nazionale a fondamento della stessa democrazia. Per il pensiero conservatore, democrazia e stato di diritto sono inscindibili dalla lealtà nazionale e qualsiasi costruzione dell’Europa politica non può essere fatta prescindendo dalla nazione.
Dalla consapevolezza di questa identità – data dalla fede, dalle origini, dalla cultura, dalle caratteristiche con le quali nasciamo e cresciamo o, più semplicemente, da Dio, Patria e Famiglia, per dirla con Giuseppe Mazzini, e non con uno slogan fascista, come qualche ignorante a tratti sostiene – deriva una chiara, e inevitabile, visione del mondo. Visione che ci poniamo il compito di riportare nel dibattito pubblico, perché rappresenta il centro di gravità non solo per noi ma per tutta la cultura occidentale. È vero, la destra mette al centro la persona: eppure non credo che tale principio debba appartenere esclusivamente a un blocco politico. Ma su questo, purtroppo, la sinistra italiana registra un grossissimo e cronico sbilanciamento verso fantomatiche antropologie disumanizzanti. Perché è dall’integrità della persona, lo ribadisco, che si sviluppa quell’appartenenza armoniosa che si estende per cerchi concentrici: la famiglia, la nazione e l’Europa che compongono, tutte insieme, la civiltà millenaria che ha plasmato l’Occidente. Mettere al centro la persona vuol dire riconoscere prima di tutto la sacralità della vita, l’unicità di ogni singolo: ecco perché, per me e per noi, la difesa della vita fin dal suo concepimento è più che una battaglia epica. È un principio non negoziabile.
Per una cultura che pone al centro la persona, poi, non può che essere essenziale il concetto di libertà. Un principio assoluto per la destra, accompagnato ovviamente dal vincolo della responsabilità. Libertà o è o non è, e riguarda la parola, la scelta e l’espressione. Libertà significa autodeterminazione in ambito economico: perché anche così si promuove l’interesse generale. E libertà è anche privacy: perché io sono padrone della mia vita – a cui rispondo in coscienza o in fede. Ma non posso rispondere di ciò né allo Stato, che deve fermarsi necessariamente alla porta, né tantomeno ai padroni di Big Tech.
L’ulteriore stadio dell’identità viva è quello della famiglia e del suo ruolo mai abbastanza riconosciuto. È la famiglia il nucleo di socialità fondamentale dove ciascuno sviluppa la propria formazione, condivide il proprio destino e lega se stesso a un continuum che rappresenta il più determinante tonico della società, fin dalla notte dei tempi. Persona e famiglia sono gli elementi imprescindibili per la formazione di una comunità cittadina; e l’Italia è la patria umanistica per eccellenza delle identità cittadine. Quei mille campanili, diventati una sola cosa attraverso l’Unità d’Italia, cementata a sua volta con il sacrificio di tutti gli italiani con i loro dialetti nelle trincee della Grande Guerra, la cui vittoria ha permesso l’ingresso della nazione fra le grandi potenze del mondo. Ecco perché per la destra non vi è contraddizione né conflitto fra città e Stato. Fra identità locale e appartenenza nazionale.
Da persone, da cittadini e da italiani ci riconosciamo poi intimamente – e da sempre – come europei e occidentali. Perché il riconoscimento di far parte di un mito comune che affonda nelle radici classiche e cristiane abbraccia i popoli d’Europa, ma la sua sfera di influenza si estende ben oltre i confini del Vecchio Continente. Per me, dire «sono» significa appartenere allo stesso tempo a tutto questo; e riconoscere tutti questi «cerchi» non vuol dire subordinare l’uno all’altro ma scoprirne l’intrinseca sinfonia. E il crescendo. Che somiglia a una cavalcata inesorabile. A passo di musica.
Sono cristiana
Credo in noi
Strade d’Europa nello zaino libertà
Forse un giorno l’ombra fuggirà
Le sue mani sporche dal sole leverà
Un’aquila è nel cielo, un’aquila è nel cielo
Un’aquila è nel cielo sopra te.
Compagnia dell’Anello, Sulla strada
Mia nonna Maria era molto devota, di quella devozione popolare fatta di piccoli riti quotidiani. Cresciuta in un collegio di suore, dopo che suo padre era morto di tifo quando lei era una ragazzina, non aveva mai dimenticato quegli insegnamenti. E quando suo marito aveva rischiato la vita con il suo primo infarto, lei si era totalmente consegnata a Dio. Aveva pregato e pregato, e aveva promesso al Signore che se avesse salvato l’uomo della sua vita, l’unico uomo che avesse conosciuto, lei sarebbe andata a messa tutte le domeniche della sua esistenza. Ogni volta che ho ascoltato una delle mie canzoni preferite di una delle mie cantanti preferite, cioè Mon Dieu di Edith Piaf, ho pensato a lei che prega. «Mon Dieu! Mon Dieu! Mon Dieu! / Laissez-le-moi encore un peu / mon amoreux. / Six mois, trois mois, deux mois. / Laissez-le-moi pour seulement / un mois. / Le temps de commencer / ou de finir. / Le temps d’illuminer / ou de souffrir...»a Ha onorato quel giuramento fino alla fine, anche molti anni dopo che lui se n’era andato. Però nonna preferiva andare a messa il sabato pomeriggio. E noi venivamo obbligate a seguirla.
Per gran parte della nostra infanzia siamo dunque andate a messa tutte le settimane, in una minuscola chiesetta nel quartiere San Paolo. Ma francamente, a pensarci oggi, non so dire se Dio consideri validamente mantenuto quell’impegno, dal momento che nonna, durante la funzione, alla fine dormiva sempre. Comunque, a un certo punto io e mia sorella avevamo imparato la messa a memoria, ed eravamo arrivate a copiarla, intera, su un quaderno. Facevamo a gara a chi la ricordasse meglio. In chiesa abbiamo letto e abbiamo fatto le chierichette: la parrocchia era una parte importante delle nostre vite.
Ma la nostra vera parrocchia non era quella dove andavamo il sabato. Era la San Filippo Neri, alla Garbatella, il cui fulcro era padre Guido Chiaravalli, per il quartiere solo padre Guido, tanto che ho conosciuto il suo cognome solamente quando è morto. Padre Guido per me, ma anche per moltissimi altri, è una personalità vicina alla santità.
Padre nel senso etimologico del termine, aveva educato, accompagnato, aiutato i ragazzi della Garbatella per decenni. Lo vedevi camminare per il quartiere a passo svelto e deciso, sempre con lo stesso giaccone, estate e inverno. Era un bergamasco piuttosto ruvido, e all’occorrenza menava come un fabbro. Ma quando te lo trovavi davanti, i suoi occhi erano così limpidi, il suo sguardo così protettivo, le sue parole così efficaci che non riuscivi a non aprirgli il tuo cuore. Si occupava dei suoi ragazzi uno per uno, e molti di loro li aveva salvati dalla droga e dalle brutte compagnie. Quando è morto, nel 2014, all’età di ottantasette anni, al suo funerale c’erano migliaia di persone. I suoi ex ragazzi, di ogni età, con un semplice passaparola si erano ritrovati tutti lì, a dirgli grazie per l’ultima volta. E tra loro c’eravamo, ovviamente, anche Arianna e io.
Fu lui a imporsi con mia nonna, e con mia madre, perché fossimo battezzate, quando ormai avevamo sei e otto anni. Appena nate, infatti, mio padre, ateo impenitente, si era opposto all’ipotesi che ricevessimo il primo dei sacramenti. Ed era stato sempre padre Guido, poco tempo dopo, a prepararci per la prima comunione. Prima comunione per la quale io e mia sorella fummo impupazzate con pomposi abiti bianchi e una sorta di insalatiera di pizzo in testa, con tanto di enorme fiocco, dei quali al tempo eravamo molto orgogliose. Quando di recente ho rivisto le foto di quel giorno mi sono detta che, in fondo, qualche ragione per bullizzarci da parte degli altri bambini, c’era. Ma non ditelo a mia madre, che ancora oggi va fiera di quegli abiti, comprati con mille sacrifici.
Quando eravamo piccole padre Guido ci portava al mare in pullman, alla spiaggia libera dei cancelli di Torvaianica. E non ha mai smesso di seguirci quando siamo diventate adulte. Scrisse una polemica lettera a mia nonna perché Arianna aveva avuto figli senza essersi sposata. Dal suo gregge non lasciava allontanare neanche una pecorella. È grazie a lui che ho cominciato ad avvicinarmi a Dio, non ripetendo a memoria la messa da bambina, perché il senso profondo della liturgia lo si può comprendere solamente da adulti. E forse io l’ho compreso davvero soltanto quando, dovendo fare la madrina al battesimo di mia nipote, ho partecipato al corso di preparazione della cresima.
Oltre i sacramenti, le Scritture e le liturgie, il mio dialogo con Dio non si è mai interrotto. E siccome ho sempre pensato che, probabilmente, il Signore avesse cose più urgenti da fare che occuparsi di me, una persona in fin dei conti fortunata, nella quotidianità ho preferito rompere le scatole ad Harael, il mio angelo custode. Lo chiamo così per convenzione, perché una volta lessi che l’angelo custode dei nati il 15 gennaio si chiama così.
Ora, per me non è facile parlare di questo tema in modo razionale, perché certe cose le elabora il tuo cuore piuttosto che la tua mente, e perché il rischio di scadere nella new age è molto forte. Ma dirò che credo fermamente che gli angeli si manifestino con chiarezza nella vita di ciascuno di noi. Basta saper ascoltare. Con il tempo mi sono convinta che la voce del nostro angelo custode non sia altro che ciò che noi chiamiamo coscienza. Quella voce che parla dentro di noi, a volte come un controcanto, e della quale troppo poco spesso ascoltiamo i consigli. Tutte le volte in cui la nostra mente ci ha avvertito di qualcosa e noi non abbiamo dato retta a quello spunto, per poi ritrovarci a pensare, quando quell’eventualità si materializza: «Cavolo, ci avevo pensato». Ecco, sono convinta che quella voce sia il tuo angelo custode. Così io con il mio parlo sempre, chiedo consigli, cerco di ascoltare, e alla fine in un modo o nell’altro la sua risposta riesco a vederla quasi sempre. Una guida, un consigliere, il tuo migliore amico. Qualcuno a cui non puoi mentire perché sa tutto di te, e che è lì per aiutarti a tirare fuori la luce che hai dentro.
A un certo punto mi sono completamente appassionata all’angelologia, lo studio delle dottrine che riguardano gli angeli, e intorno ai diciotto anni ho cominciato a collezionare statuette che li raffigurano. Oggi ho persino smesso di contarli, i miei angeli, disseminati in ogni stanza, ufficio, casa che abbia avuto, provenienti da ogni parte del mondo, fatti dei più disparati materiali e delle più disparate forme e grandezze. Eppure i miei preferiti rimarranno sempre quelli fatti in legno e dipinti a mano. È un modo per ringraziare il mio custode, e – per il suo tramite – Dio che lo ha spedito a vegliare su di me. Ogni notte, quando Ginevra si addormenta, io le vado vicino e recito al suo orecchio l’Angelo di Dio, perché lei non sa ancora farlo da sola e spero davvero che il rapporto con il suo protettore possa essere quotidiano e franco come quello che io ho sempre avuto con il mio.
È stato un altro grandissimo uomo, un santo, ad avvicinarmi con semplicità, e con il suo potentissimo esempio, a Dio: Giovanni Paolo II, al secolo Karol Wojtyła. Il più grande pontefice dell’era moderna e il più grande statista di tutto il Novecento. Ma anche di più. Si dice che sia impossibile comprendere il valore di qualcosa che abbiamo fin quando non lo perdiamo. Papa Giovanni Paolo II fu eletto nel 1978, un anno dopo la mia nascita. Quando morì, nel 2005, io avevo ventotto anni. E in quei quasi trent’anni di vita lui era stato lì. Fu come se mancasse di nuovo mio nonno, perché lui, semplicemente, c’era sempre stato.
Santo e umanissimo, con la sua costante presenza si era imposto nella mia esistenza come fosse uno di famiglia. Quando la sua vita terrena si spense, fu naturale per me andare in piazza San Pietro a rendergli l’ultimo omaggio. Piangevo come mai mi è capitato di fare per qualcuno con cui non avessi un rapporto umano consolidato. Certo, avevo avuto il privilegio di incontrarlo, per ben quattro volte. Era tradizione, al tempo, che i primi giorni dell’anno il pontefice incontrasse gli eletti della capitale a tutti i livelli. Consiglieri comunali, provinciali e regionali. Io, come ho raccontato, ero stata eletta alla Provincia a ventun anni, e non ho mai mancato quegli appuntamenti, come è ovvio che fosse. Ricordo che il primo anno il cerimoniale mi scambiò per la figlia di un consigliere e mi sbarrò l’ingresso sostenendo che i familiari non erano ammessi. Servirono le rassicurazioni dei colleghi per consentirmi di entrare e partecipare all’udienza. Quando fu il mio turno sorrise con quell’espressione forte e compassionevole insieme, e disse: «La più giovane del consiglio». Fu semplice ed elettrizzante.
In quei cinque anni ho avuto il privilegio, e il dolore, di toccare con mano la progressione della sua malattia. Anno dopo anno lo piegava sempre di più, ma allo stesso tempo la sua dignità diventava più luminosa. Decise che la sua pena sarebbe stata un insegnamento, e non poteva prevederlo ma quella capacità di affrontare la sofferenza, ai nostri occhi, lo ha incredibilmente avvicinato alla figura di Cristo, nell’eroismo di accettare fino in fondo il proprio destino. Il suo messaggio era potente come quello di papa Benedetto XVI, ma più facile alla divulgazione, e la sua umanità era incisiva come quella di papa Francesco, ma più coerente con il sentimento diffuso dei cristiani. Io ho seguito ogni pontefice, ma non con lo stesso trasporto. Sarà anche l’età, e la consapevolezza che si porta dietro, ma benché sia cattolica e non mi sia mai permessa di criticare un pontefice, ammetto che non sempre ho compreso papa Francesco. A volte mi sono sentita una pecorella smarrita, e spero un giorno di avere il privilegio di poter parlare con lui, perché sono certa che i suoi occhi grandi e le sue parole dirette riusciranno a dare un senso a quello che non comprendo. Vedo troppi atei che lo osannano e troppi fedeli confusi, e sono certa ci sia una spiegazione che io non riesco ad afferrare.
Non ho mai smesso di credere in Dio. Ma la dimensione intima è talmente personale che non può e non deve essere utilizzata come paradigma di un movimento politico collettivo o addirittura di una nazione. La mia fede in Dio, imperfetta, dubbiosa, dolorosa, è mia e solo mia. Credo sia così per qualunque altra persona sulla terra.
Come tutti, di fronte ad alcuni fatti, mi sono interrogata sul disegno di Dio. Come molti ho chiesto aiuto quando ero in difficoltà, e ho ringraziato quando ho riconosciuto i suoi doni. Grazie a Lui ho scelto di essere una persona perbene, convinta che Lui veda, e consideri – su questa terra, non nell’aldilà –, chi sceglie di stare dalla sua parte. Grazie a Lui ho capito che ciascuno di noi ha una missione in vita, e non ho mai temuto la morte, almeno fino a quando sono diventata madre. Perché la verità è che, quando metti al mondo un figlio, a un certo punto ti rendi conto che non sei più davvero libero di fare nulla, neanche di morire. Grazie a Lui io credo che la vita non vada affrontata con lo sguardo rivolto in avanti, ma in alto. Il senso non è quanto riuscirai ad avanzare, ma quanto riuscirai ad ascendere, ad avvicinarti alla sua perfezione. E il paradosso è che per elevarti hai bisogno di scavare nel profondo della tua esistenza. Per questo mi hanno sempre affascinato le grandi cattedrali, con le loro fondamenta conficcate nel terreno e quelle navate altissime a simboleggiare l’ascesi, il tentativo di raggiungere Dio con la preghiera. Ricordo di essermi istintivamente commossa la prima volta che sono entrata a Notre-Dame, e di aver pensato che questi francesi devono essere completamente pazzi se hanno un tale patrimonio e preferiscono erigere a loro simbolo un «ammasso di ferraglia» come la Torre Eiffel. E quando ho visto bruciare la mia cattedrale preferita, due anni fa, è stato così doloroso che d’istinto ho lanciato una raccolta fondi per ricostruirla. Non sono stata l’unica, anzi. Le immagini della cattedrale avvolta dalle fiamme hanno rappresentato per molti il detonatore di un sussulto di consapevolezza. Hanno scatenato una reazione emotiva e intellettuale in controtendenza rispetto al flusso del pensiero corrente in Occidente. Ci si è stupiti allora di quanto la gente comune si sentisse gravemente ferita sul piano spirituale e identitario, più delle élite politiche e culturali alla guida dello Stato francese. Qui da noi è stato Ernesto Galli della Loggia a coglierne meglio il significato e lo scandalo: «Certo, le fiamme di Parigi sono state dovute a un incidente, ma è bastata la minaccia di vedere in cenere una delle icone della cristianità del continente perché in una vasta parte dell’opinione pubblica europea si verificasse una reazione al di là di ogni tradizionale divisione politica o confessionale. Un sussulto di autocoscienza identitaria: “Siamo questa cosa qui, questo luogo, anche questa chiesa, e non siamo disposti a rinnegare ciò che siamo”. Senza alcuna iattanza ma pure senza alcuna esitazione. Mostrando però fino a qual punto si era andato formando nell’uomo della strada europeo un sentire comune, un viluppo sentimentale e psicologico, lontani anni luce dalle idee correnti e dai pregiudizi delle élite politiche e mediatico-culturali».
Ancora oggi non sono note le cause dell’incendio, ma quelle immagini sono state così potenti perché certi simboli, quando crollano, è come se si portassero dietro un pezzo della nostra identità.
Non parlo di simboli italiani, ma di simboli europei. Ho pianto a Parigi, tra le mura e i rosoni di quel capolavoro dell’architettura gotica. Ho atteso l’alba a Stonehenge, dove massi che sembrano troppo grandi per essere trasportati dagli uomini sono in grado, ancora oggi, di prevedere il tragitto del sole. Mi sono emozionata ad Andria, al cospetto di Castel del Monte, la fortezza che nel XIII secolo volle Federico II di Svevia, imperatore del Sacro Romano Impero e re di Sicilia, la cui corte fu luogo di incontro tra le culture greca, latina, germanica, araba ed ebraica. Ho provato ammirazione e malinconia davanti all’imponenza di Westminster, pensando che sì, in fondo è vero che gli inglesi, più di altri, hanno saputo ereditare la grandezza di Roma antica.
Sono pezzi della mia identità, che è italiana, sì, ma anche europea.
L’Europa per me è sempre stata una speranza. E sorrido quando sento dire che sarei alla guida di un partito «antieuropeista». La mente corre veloce agli anni della militanza giovanile, ai cortei, agli slogan e alle tante canzoni che da sempre caratterizzano il bagaglio culturale della Destra italiana. Un’Europa che i nostri fratelli maggiori immaginavano forte e autonoma rispetto ai due blocchi, capace di unire i suoi popoli non con parametri astrusi o con una moneta, ma con la forza della sua civiltà millenaria. Poi con la caduta del Muro di Berlino il mondo è cambiato, abbiamo riabbracciato i nostri fratelli dell’Est che per decenni avevano conosciuto sulla propria pelle il socialismo reale. L’Europa poteva tornare a respirare con due polmoni, per dirla con l’immagine usata proprio da Giovanni Paolo II, ed era in quel momento che il sogno europeo avrebbe dovuto spiccare il volo. Ma purtroppo è accaduto il contrario.
Ho imparato ad amare l’Europa attraverso i viaggi e le letture, ma soprattutto attraverso alcune figure eroiche che con le loro gesta hanno segnato la mia immaginazione perché hanno difeso i nostri confini e la sopravvivenza stessa della nostra civiltà. Come l’eroico re di Sparta Leonida e i trecento soldati che ai suoi ordini si sacrificarono nella battaglia delle Termopili contro l’Impero persiano. O i guerrieri franchi guidati da Carlo Martello, vincitori della battaglia di Poitiers nel 732 d.C. con la quale fermarono la marea islamica che aveva già travolto la Spagna, e per questo furono i primi a essere definiti «europei». Come Costantino XI, ultimo imperatore di Costantinopoli e guerriero leggendario, che morì in battaglia, insieme a un pugno di eroi arrivati dall’Italia e da ogni parte d’Europa, durante il disperato tentativo di difendere quella che fino al 1453 era la capitale della cristianità ortodossa e oggi si chiama Istanbul. Come le migliaia di marinai veneti della Serenissima caduti nella battaglia di Lepanto del 1571 per fermare l’avanzata turca. O l’epica carica del re polacco Giovanni III Sobieski, alla testa di «ussari alati» e cosacchi ucraini che nel 1683 salvarono Vienna assediata dall’Impero ottomano. O come Jan Palach, lo studente cecoslovacco che nel 1969 si diede fuoco in piazza San Venceslao per invitare i suoi compatrioti a lottare contro l’occupazione sovietica, così come qualche anno prima i «ragazzi di Budapest» avevano sfidato i carri armati di Mosca. Ho pensato innumerevoli volte all’Europa. Al suo glorioso passato e al suo incerto futuro.
L’Europa unita è per me un ideale che viene da lontano e ha le sue radici più profonde in tre luoghi splendidi: Atene, Roma e Gerusalemme, dove tutto iniziò. Il cristianesimo le ha senza dubbio dato unità culturale e, come chiedevamo in una splendida manifestazione di Azione Giovani a Roma, il valore insostituibile delle radici cristiane avrebbe dovuto essere riconosciuto ufficialmente anche da Bruxelles, nel momento in cui si cercò, senza successo, di dare una Costituzione all’Europa. Non perché a me piacciano le visioni confessionali, ma perché nessun progetto politico è destinato a durare senza un sentimento di appartenenza condiviso, e sono convinta che solo valorizzando e trasmettendo la nostra comune identità si potrà rafforzare la consapevolezza degli europei di avere un destino che li unisce. C’è chi, come me, ritiene che il nostro patrimonio identitario debba essere difeso e curato al pari del patrimonio naturalistico ricevuto in eredità dai nostri padri. E c’è chi considera l’identità cristiana «un non dicibile per il discorso pubblico dell’Europa ufficiale». Al punto da criminalizzare i governi conservatori come Ungheria o Polonia che restano coerenti con la propria identità nazionale e cristiana. Arrivando a utilizzare vigliaccamente contro di loro il nobile principio dello stato di diritto, trasfigurato in una spranga di metallo da calare brutalmente sulla testa delle popolazioni ungheresi e polacche, persino durante la peggiore pandemia dal dopoguerra.
Che cos’è davvero l’Europa? È possibile parlare di Europa prescindendo dalla sua identità classica e cristiana? Fino a dove si estende il limes della sua civiltà? A me sembra che abbia avuto ragione l’allora cardinale Ratzinger, che in diverse occasioni ha sostenuto che il nostro «non è un continente nettamente afferrabile in termini geografici, ma è invece un concetto culturale e storico».
Del fatto che la storia dell’Europa, la forma della sua civiltà, siano legate in modo indissolubile alle sue radici cristiane, nessuno può onestamente dubitare. I confini europei sono oggi, a ben guardare, nient’altro che il perimetro entro il quale una specifica identità è riuscita ad affermarsi prima e a difendersi dopo.
A cominciare dal ruolo svolto dall’imponente movimento di evangelizzazione nel portare a compimento il complesso processo di unificazione tra Romani e Germani, vero e proprio snodo epocale della formazione dell’Europa. Né possono essere trascurate l’elaborazione del concetto di «persona», che è qualcosa di ben diverso e infinitamente più alto della semplice idea di «individuo», e la diffusione di valori inediti, come la solidarietà verso gli emarginati, i poveri, i malati, i bisognosi di aiuto. Etica religiosa cristiana che è alla base della scomparsa progressiva della schiavitù.
Accanto alle evidenze storiche derivanti dai lavori di studiosi del calibro di Franco Cardini e Giovanni Reale, ci sono poi le grandi vie dell’Europa, segnate da luoghi straordinari come il santuario di Santiago di Compostela o quello di Częstochowa, la cattedrale di Chartres, l’abbazia di Mont Saint-Michel, l’eremo di Camaldoli o il monastero di San Benedetto a Subiaco. In questi luoghi e in molti altri, che è impossibile nominare tutti, si può cogliere facilmente l’importanza imprescindibile che il cristianesimo ebbe nella formazione della cultura europea. Viaggiando attraverso l’Europa constatiamo ciò che abbiamo imparato sui banchi di scuola: i monasteri furono centri attivi di produzione culturale e fu grazie al lavoro dei monaci amanuensi che poté sopravvivere buona parte della cultura letteraria classica. In quegli stessi centri, poi, operarono in ruoli rilevanti donne come Caterina da Siena o Ildegarda di Bingen, vere e proprie figure di donne intellettuali, oggi «riscoperte» anche da studiose del movimento femminista. E che dire, a proposito di grandi donne del Medioevo, di Eleonora d’Arborea, la Giudicessa (Laura Boldrini sarà fiera di lei per questa definizione), reggente della Sardegna meridionale e promulgatrice della Carta de Logu, un insieme di norme da molti considerato precursore del nostro codice penale.
Le grandi cattedrali, spesso edificate nel cuore stesso della città, costituirono il centro propulsore della vita cittadina, e dobbiamo a queste, ad esempio, il significativo sviluppo della cultura che si ebbe grazie alle scuole vescovili, aperte anche ai laici.
La necessità di difendere le radici cristiane dell’Europa non deriva soltanto dal riconoscimento – laico e razionale – della loro rilevanza nel processo storico che ha portato l’Europa a essere quello che è. Se fosse così, in fondo, saremmo davanti al nobile gesto di fedeltà a un insieme di valori che rischiano di tramontare. Sono convinta invece che difenderli abbia una sua stringente attualità, una sua urgenza persino. Ce lo ha indicato sempre Benedetto XVI in quel discorso di straordinario valore intellettuale che pronunciò nell’aula magna dell’Università di Ratisbona nel 2006. Un discorso che è stato molte volte citato a sproposito e aspramente criticato da chi non ne ha colto il valore profetico, la lucidità della visione. Il grande messaggio che Ratzinger ci ha donato è che per noi cristiani ed europei esiste un legame indissolubile tra fede e ragione, perché «non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio».
Proprio in questo incontro tra fede biblica e pensiero greco (al quale si deve aggiungere il successivo contributo della civiltà romana) – sostiene il papa emerito – si deve individuare il fondamento di ciò che con ragione si può chiamare Europa.
Quando Joseph Ratzinger dice che non possiamo fare a meno di riconoscere come fondamento dell’identità europea il pensiero greco, la mia mente va all’ammonimento inciso sul frontone del tempio di Delfi: «Conosci te stesso». Cosa sarebbe la nostra moderna nozione di uomo senza queste parole? E penso alla nozione di diritto e di cittadinanza elaborata dalla civiltà romana, da cui discende la capacità straordinaria che essa ebbe di integrare le diverse culture con cui entrò in contatto senza rinunciare alla propria. Ma dicevo che non è solo questione di storia...
Per dialogare con l’altro da noi dobbiamo sapere chi siamo, riconoscerci per quel che siamo, e cioè uomini e donne dotati di due fonti del sapere e dell’amore, la ragione e la fede. È per questo che, personalmente, non ho mai creduto nella cultura della tolleranza mentre professo quella del rispetto. Perché in fin dei conti tolleri ciò che, nel profondo, non vorresti avere tra i piedi, mentre la parola «rispetto» deriva dal latino respicere, guardare in profondità. Dal che si deduce che non puoi amare l’altro se non lo conosci, come non puoi farti amare se non conosci te stesso. È la ragione per la quale considero surreale che nell’Europa di oggi, mentre professiamo la cultura dell’accoglienza, diciamo anche che per realizzarla occorre rinunciare ai simboli della nostra identità. Vuoi essere buono? Comincia a far sparire le effigie della tua religione. E via alla rimozione dei simboli cristiani, a partire dai crocifissi una volta appesi nelle nostre scuole. È un imperdonabile errore. È giusto tenere quelle immagini nei luoghi nei quali si impartisce un’educazione, lo è indipendentemente dal credo. È giusto proprio perché, che si creda in Dio oppure no, in quel simbolo sono raccolti i valori che hanno fondato la nostra civiltà. Non si tratta di imporre a qualcuno il nostro credo, ma di rendere chiunque edotto di chi siamo. Solidarietà, ragione, uguaglianza tra gli uomini sono insegnamenti trasmessi da quel simbolo. Il crocifisso appeso non sta a indicare l’imposizione di una religione, è semplicemente il segno di ciò che ci caratterizza come civiltà. Non è un elemento di esclusione, ma un promemoria di ciò che siamo e che ci unisce. Per quanto contaminate dagli eventi e dagli incontri della Storia, le radici del nostro pensiero affondano lì; reciderle può solo renderci instabili fino al punto di crollare. Ed è ciò che sta accadendo. In Italia e in Europa. Puoi essere ateo, o buddista, o musulmano, ma se sei nato e cresciuto in Europa i valori cristiani sono anche i tuoi, che ti piaccia oppure no.
L’altro grande messaggio contenuto nella lectio magistralis di Ratisbona verrà poi sintetizzato dal papa emerito in questa illuminante frase: «Senza ragione la fede minaccia di diventare fanatica, e senza fede la ragione si incatena e si priva della sua dignità».
Lungi da me avventurarmi in un dibattito teologico, ma personalmente credo che in sostanza la grande differenza tra la visione cristiana del mondo e quella musulmana sia tutta qui. Il cristianesimo pone al centro l’uomo e il suo libero arbitrio. Fatti a immagine e somiglianza di Dio, abbiamo dentro di noi la consapevolezza di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato. Per essere buoni cristiani, in fin dei conti, ci viene chiesto «solo» di amare il prossimo. Non così l’Islam, che ha un testo sacro che è esso stesso divino, e indica a ogni credente cosa debba fare fin nel minimo dettaglio. Per questo, mentre la laicità dello Stato è alla base della religione cristiana («A Cesare quel che è di Cesare»), questa è invece inconcepibile per l’Islam. L’Islam non può che essere politico, con l’affermazione della Sharia, cioè del modello giuridico e sociale previsto nel Corano. Sono semplicemente due impostazioni filosofiche, prima che religiose, distinte tra loro. A me piace quella greca, romana e cristiana. E vorrei rimanesse quella prevalente in Italia e in Europa. Dovrei sentirmi una bieca xenofoba e un’intollerante per questo?
Sono sempre stata convinta che senza le sue radici classiche e cristiane l’Europa sarebbe solo una mera espressione geografica. E ho sempre pensato che l’Europa avesse bisogno di una festa, una ricorrenza, che unisse tutti gli europei oltre le macerie delle «guerre civili europee» che l’hanno dilaniata nel Novecento. Per questo individuammo la data nel 9 novembre, in memoria di quella sera del 1989 in cui un funzionario della DDR comunicò che sarebbe stato possibile transitare da Est a Ovest senza controlli, e poche ore dopo il Muro veniva abbattuto da una folla festante. Dal decennale in poi, ogni anno la nostra comunità ricorda quella data con tante iniziative, e grazie a un gruppo di ragazzi di Azione Giovani oggi quella data è riconosciuta per legge come Giorno della Libertà e se ne dovrebbe parlare persino nelle scuole. Ma i presunti europeisti di oggi, comunisti di ieri, hanno ancora la coscienza troppo sporca e preferiscono enfatizzare altri momenti, decisamente più divisivi. O forse è la voglia di rimuovere un macigno dalla nostra coscienza di occidentali. Perché fingiamo di non sapere che alla fine della Seconda guerra mondiale abbiamo barattato la nostra libertà e la nostra tranquillità consegnando i popoli dell’Est Europa alla dittatura comunista. No, la democrazia in Europa non è tornata nel 1945 con la sconfitta della Germania nazista e dell’Italia fascista, come ci piace raccontare, ma solo nel 1989, quando si è dissolto anche il blocco sovietico. Abbiamo un grande debito nei confronti dei nostri fratelli europei dell’Est, e dovremmo ricordarcelo anche quando qualcuno si scaglia con ferocia contro il Gruppo di Visegrád o gli altri Stati ex socialisti. Provo grande rabbia quando sento i soliti politici e commentatori di sinistra affermare che «chi non rispetta la nostra visione va cacciato dall’Europa». Come se l’Europa fosse un club o un circolo dove il socio sgradito può essere messo alla porta, come se l’UE fosse l’Europa e non solo una specifica organizzazione tra le tante possibili.
Insomma, con l’Europa ho un rapporto da innamorata delusa, ci ho molto creduto e per questo oggi sono amareggiata. Forse di più, arrabbiata. Con chi ha preso un grande sogno e l’ha trasformato nel parco giochi di tecnocrati e banchieri che banchettano sulle spalle dei popoli. Si riempiono la bocca degli insegnamenti dei «padri fondatori» ma in verità, nel loro nome, li hanno traditi.
Sir Roger Scruton (mi rendo conto che lo sto citando troppo spesso, colpa sua che ha scritto troppe cose intelligenti) ci ha spiegato che il conservatorismo nasce dalla convinzione che è facile distruggere le cose buone ma non è facile crearle. Questo vale soprattutto per le cose che ci arrivano sotto forma di patrimonio collettivo come la pace, la libertà, la sicurezza e la civiltà. Scruton ci ha messo in guardia dai pericoli della «falsa Europa». Questa «falsa Europa», incarnata oggi dalle istituzioni comuni dell’UE, è utopica e potenzialmente tirannica. La «vera Europa» è una comunità di nazioni e oggi è minacciata dalla morsa soffocante di questa falsa idea e da un’ideologia «europeista» che viene proposta come l’unica alternativa possibile.
Tutti gli errori di impostazione dell’attuale UE continuano a provocare una crescente ostilità da parte dei suoi cittadini. I cosiddetti «europeisti» fanno finta di non sentire e di non vedere. Per loro è sempre colpa degli altri, di chi non vuole «più Europa» o dell’ignoranza degli elettori. Per loro, come stiamo tristemente constatando nella vicenda dei vaccini, la risposta alle crisi è sempre una maggiore cessione di sovranità a Bruxelles. Sono convinta che se volessimo salvare quello che di buono c’è nell’Unione Europea dovremmo rifondarla sulla base di valori e proposte liberi dal «pensiero unico europeista».
Già, perché non è vero che c’è un solo modo di essere «europeisti», cioè quello di cedere quote sempre maggiori di sovranità dagli Stati membri all’Unione Europea secondo il modello federale degli Stati Uniti d’Europa. Si chiama Ever Closer Union. È un modello che stiamo sperimentando da anni e che però ha tragicamente fallito, finendo per allontanare sempre di più i cittadini dalle istituzioni europee e per aumentare il deficit democratico del nostro tempo. Perché la sovranità democratica risiede prima di tutto negli Stati nazionali retti da governi e Parlamenti eletti direttamente dai cittadini, mentre devolvendo l’iniziativa legislativa a burocrati europei non eletti da nessuno si finisce proprio col ledere la democrazia.
Sì, lo so, è così più o meno ovunque tranne che in Italia, dove continuiamo imperterriti ad avere capi di governo che nessun italiano ha mai votato nemmeno alle assemblee di condominio, ma di norma dovrebbe essere così. Diciamo che in Italia il concetto di «vincolo esterno», cioè di una sorta di pilota automatico che da Bruxelles ci dice cosa dobbiamo fare a casa nostra, è stato sostituito dal «vincolo interno»: ci mettiamo direttamente noi i premier che vanno bene a Bruxelles così gli risparmiamo anche la brutta figura di passare da cattivi. Alla fine si è realizzata la sarcastica previsione di Indro Montanelli: «Quando si farà l’Europa unita, i francesi ci entreranno da francesi, i tedeschi da tedeschi e gli italiani da europei».
Noi pensiamo invece che si possa essere parte di una grande unione di popoli europei senza rinunciare a tutelare gli interessi nazionali dei singoli Stati. Ecco perché noi conservatori europei crediamo in un modello confederale e non federale. In quelle tre letterine sta una differenza radicale che va spiegata. Vi ricordate il lungo dibattito mai concluso sul federalismo in Italia? Nel nostro linguaggio federalismo significa devoluzione di poteri dal centro verso la periferia, un tempo si sarebbe detto «da Roma ai territori». Quando si applica questo concetto all’Europa si intende invece l’esatto contrario. E quindi chi come noi vuole mantenere competenze al livello più vicino al cittadino, lo Stato nazionale e le autonomie locali, promuove un modello confederale.
L’Europa che voglio è quella che si occupa delle grandi questioni, come la politica estera e di difesa, la protezione dei confini esterni e il completamento del mercato interno. E anche il contrasto alle pandemie, visto che ci siamo, dopo la disastrosa gestione del COVID e dell’approvvigionamento vaccinale fatta dall’Unione Europea. Mentre gran parte delle altre materie deve essere lasciata alle competenze nazionali e al livello di governo più vicino al cittadino. Si chiama sussidiarietà, sta scritta nei trattati, ma è di gran lunga il principio più violato dall’Unione Europea. Per noi, insomma, la questione è molto chiara: non faccia Bruxelles quello che può meglio essere fatto da Roma, Varsavia, Budapest o Madrid.
La mia, insomma, è «l’Europa delle Patrie, ma patria anch’essa» sognata dal generale De Gaulle e «l’Europa che va a destra o non si fa», come amava ripetere Giorgio Almirante. Abbiamo le nostre lingue, le nostre tradizioni, le nostre frontiere. Questa unità nella diversità mi è sempre sembrata del tutto naturale e la voglio difendere. Oggi, che ho l’onore di essere il presidente dei conservatori europei, sento tutto il peso di questa responsabilità.
L’Europa ormai ce l’abbiamo in casa e le politiche europee sono un pezzo fondamentale di quelle nazionali. Il tempo in cui erano parte della politica estera è ormai un lontano ricordo. Già, la politica estera. Mi ha sempre appassionato. Da giovanissimi poi, come ho raccontato, ci scannavamo nelle nostre infinite riunioni... Non eravamo gente da tonalità di grigio, o bianco o nero. Però per sostenere quelle discussioni bisognava essere preparati. Ecco, quella per la mia generazione è stata una straordinaria palestra politica, così come lo sono state le assemblee studentesche. Non potevi fare brutte figure, dovevi studiare. E quando confronto la nostra classe dirigente di oggi con gli improvvisati che sono arrivati in Parlamento saltando sul carro di Rousseau ne sono molto orgogliosa; e penso che molto lo abbiamo imparato in quelle riunioni affumicate e polverose in cui discettavamo degli yankee e degli indiani d’America, di israeliani e palestinesi, di inglesi e degli irlandesi come Bobby Sands, fino al Tibet con i suoi pacifici e implacabili monaci. Seguivamo le gesta del comandante Massoud che guidava i mujaheddin afghani contro i sovietici, vivevamo nel mito di Almerigo Grilz che con i suoi reportage ci ha portato dentro alle guerre più lontane e dimenticate. Ora che non sono più una ragazzina quel patrimonio me lo porto dietro e ho capito, ormai da qualche tempo, che oggi il modo migliore per approcciarsi alla politica estera per un patriota non può che essere quello dell’interesse nazionale.
L’ho detto a Mario Draghi, quando nella sua relazione di insediamento ha spiegato con orgoglio che il suo governo sarebbe stato «europeista e atlantista». Perché il punto non è questo. L’Italia fa già parte dell’Europa e della NATO. La domanda alla quale chi ci ha governato negli ultimi anni non è stato in grado di rispondere, piuttosto, è come l’Italia debba stare all’interno di questi organismi sovranazionali. Se con l’orgoglio e la forza che si devono a una delle principali potenze mondiali o invece da colonia, seguendo pedissequamente le indicazioni dei propri partner e concorrenti. L’autorevolezza di Draghi sarà un plus per porre con forza in Europa questioni come i paradisi fiscali che drenano ogni anno miliardi di euro dal bilancio dello Stato italiano, il dumping salariale dei Paesi dell’Est, le norme bancarie che hanno penalizzato i nostri istituti per i crediti deteriorati fingendo di non vedere la bolla dei derivati, fino alle iniziative predatorie della Francia verso le aziende italiane, oppure l’ex governatore della Banca Centrale Europea sarà piuttosto un novello cavallo di Troia dell’occupazione franco-tedesca dell’Italia?
In altre parole, a cosa serve l’autorevolezza di Draghi se lui non intende utilizzarla per fare ciò che nessuno dei capi del governo italiano ha più fatto da dieci anni a questa parte, cioè difendere l’interesse nazionale italiano senza se e senza ma, e rifiutare una volta per tutte di fare le ancelle delle nazioni straniere?
Troppo spesso abbiamo il vizio, un po’ provinciale, di pensare che ciò che accade all’estero o ciò che viene da fuori sia migliore di ciò che avviene all’interno dei nostri confini. Certo, abbiamo tanti difetti ma il peggiore tra questi, ne sono convinta, è che non ci amiamo abbastanza, non abbiamo abbastanza orgoglio per ciò che l’Italia ha rappresentato e rappresenta nel mondo. Il che non vuol dire sciovinismo o disprezzo, ma, appunto, rispetto. Amiamo noi stessi e rispettiamo gli altri, sorretti dalla consapevolezza che essere italiani è un dono di cui dobbiamo cercare di essere degni ogni giorno.
È quello che proviamo a fare noi, Fratelli d’Italia, fedeli all’insegnamento del più italiano tra gli italiani: Nazario Sauro, l’irredentista. Cittadino dell’Impero asburgico, si era arruolato nella Marina italiana per combattere l’Austria. Fatto prigioniero, fu condannato a morte. Il giorno prima della sua esecuzione scrisse una lettera al maggiore dei suoi figli, ma non poteva sapere che quel testo sarebbe diventato un testamento per molti di noi. L’addio si concludeva con la frase: «Su questa Patria giura, Nino, e farai giurare ai tuoi fratelli, quando avranno l’età per ben comprendere, che sarete sempre, ovunque e prima di tutto italiani».
a. «Dio mio! Dio mio! Dio mio! / Lasciatemelo ancora un po’ / il mio innamorato. / Sei mesi, tre mesi, due mesi. / Lasciatemelo solo per / un mese. / Il tempo di iniziare / o di finire. / Il tempo di infiammare / o di soffrire...»
Il razzismo del progresso
Mi fanno arrabbiare quelle trasmissioni televisive che ti invitano fingendo di essere interessate al tuo punto di vista, seppure non condiviso, e poi ti costruiscono intorno una specie di circo nel quale tu, inevitabilmente, devi fare la parte del mostro da additare, della bestia feroce, se possibile da addomesticare. Ne ho viste a decine, e a un certo punto ho smesso di stare al gioco. Se mi consideri così impresentabile, pericolosa, agghiacciante, per coerenza non dovresti tentare di alzare lo share usando me e le idee delle quali sono portatrice.
Una sera mi trovo a Piazzapulita, su La7. Corrado Formigli, il suo storico conduttore, la tocca subito piano: «Quando io la vedo con sua figlia in braccio penso che tutti abbiamo dei sogni per questi figli, vorremmo per loro il massimo e ci facciamo un mazzo così per dare loro delle chance. Poi mi viene in mente questa bambina. Si chiama Alima, credo abbia più o meno l’età di sua figlia. È stata salvata da una ONG, suo padre scappava dalla guerra, sua madre dal Niger. Se non fosse stata salvata sarebbe ancora in un lager in Libia. Allora la mia domanda è questa: perché questa bambina, che fortunatamente ora si trova in Europa, non ha diritto ad avere una chance come ce l’ha sua figlia? Perché se noi dovessimo applicare le regole che lei vuole, come il blocco navale, questa bambina non sarebbe potuta arrivare in Europa».
La domanda, ovviamente, era sbagliata, nel senso che trattandosi di una famiglia che scappava dalla guerra «secondo le mie proposte», compresa quella del blocco navale, che puntano banalmente a distinguere i profughi dagli immigrati clandestini, quella bambina in Europa sarebbe arrivata comunque. Lui se la prese molto perché io gli dissi: «Mi dispiace che nonostante ci conosciamo da anni lei non abbia avuto ancora la pazienza di leggere le mie proposte», e lo scontro verbale fu acceso, ma dimostrai, ancora una volta, quanto la realtà delle posizioni di FDI in tema di immigrazione fosse distante anni luce dal racconto superficiale e interessato che ne fa certa intellighentia di sinistra.
La cosa che mi fa andare ai matti, al netto dei programmi, è un’altra, ed è la ragione per la quale ho citato questo episodio. Ma davvero qualcuno che non abbia un paraocchi ideologico può credere, in cuor suo, che una persona come me non abbia un minimo di afflato umano, di sentimento di solidarietà verso bambini come Alima, o come i tanti che abbiamo visto morire nel Mediterraneo, caricati su imbarcazioni di fortuna da trafficanti mostruosi e cinici, loro sì, dei quali la sinistra così umana, guarda caso, non parla mai? Eppure sono riusciti a far passare esattamente questo messaggio. Quando, durante lo stesso periodo del 2019, lessi la notizia di una donna nigeriana che era stata derisa in ospedale per le sue urla dopo la morte della sua piccola, definite «disumane» da qualcuno dei presenti, scrissi un post dicendo che quei commenti mi facevano schifo. La notizia fu poi smentita dall’ospedale, ma la mia presa di posizione, banale, scontata, inevitabile, diventò essa stessa una notizia. Come se si desse per scontato che io non provi nulla di fronte al dolore di una madre straniera. Ovviamente, solo un cretino può credere a una cosa del genere.
È impossibile, ad esempio, rimuovere dalla mia memoria le urla dal barcone in mezzo al mare della mamma del piccolo Joseph, disperata perché aveva perso il figlioletto al largo delle coste della Libia. Così come le storie di tanti, troppi, naufragi che da anni avvengono durante i viaggi – li chiamano così – «della speranza». Davanti a scene strazianti come questa, non è necessario essere una madre per provare empatia e restare totalmente atterriti, sconvolti. Chi rimane indifferente di fronte a tragedie simili è, semplicemente, una non-persona. Come tutti, rivedendo quelle scene l’impulso istintivo che ho sarebbe quello di aprire il cuore, le braccia, le frontiere e le porte della mia casa: accogliere questa gente sofferente e metterla al riparo.
Quando lessi, da ragazza, L’uomo che ride di Victor Hugo mi rimasero indelebilmente impresse le pagine del romanzo nelle quali si racconta del piccolo protagonista, Gwynplaine, e della neonata che aveva trovato nella neve, sul corpo esanime della madre. Era riuscito, con la bimba in braccio, a sopravvivere a una feroce bufera e a raggiungere un villaggio. Quando finalmente ci arriva, e tu tiri un sospiro di sollievo perché pensi che l’abbiano scampata, inizia il vero dramma. Nessuno dà loro ospitalità. Così, racconta Hugo, davanti a quelle porte sbarrate «il fanciullo sentì più terribile il freddo degli uomini che non quello della notte». L’indifferenza degli uomini davanti alla sofferenza è una cosa che mi ha sempre spaventato. Perché, di fronte a storie come queste, è naturale che l’impulso di ognuno di noi sia quello di emulare l’insegnamento di san Francesco: spogliarsi di ogni cosa per salvare i poveri e i bisognosi, per liberare l’intera umanità dalla sofferenza.
Eppure, a dare sostanza all’istinto serve sempre la ragione. E allora, senza nulla togliere al principio di umanità, la domanda che devi avere il coraggio di farti è: aprirsi e spogliarsi di tutto sarebbe davvero la strada giusta per alleviare le pene che affliggono i più fragili? E, se questa è una domanda necessaria per ciascun essere umano, diventa addirittura inevitabile per un legislatore.
Lo ha insegnato a chiunque voglia occuparsi della cosa pubblica quel grande filosofo che fu Niccolò Machiavelli. Per qualcuno che, come me, ha sempre detestato l’idea che la politica possa essere scissa dalla morale, il pensiero dello storico fiorentino, semplificato con il celebre «il fine giustifica i mezzi», dovrebbe essere guardato con un certo sospetto. Ma io credo che non fosse questo il vero insegnamento di Machiavelli, quanto piuttosto quello, molto meno cinico, secondo cui il compito della politica è agire sempre per il bene del tutto, anche quando le scelte possono sembrare dolorose.
Per rispondere alla domanda se sia giusto accogliere tutti coloro che bussano alla porta della nostra nazione, dobbiamo prima porcene un’altra, ossia: accogliendo chiunque vuole entrare in Italia, alleggeriremmo le sofferenze del mondo? Ecco, la risposta, per chiunque sia intellettualmente onesto, è no.
Nel mondo ci sono centinaia e centinaia di milioni di persone che vivono in condizioni peggiori delle nostre e ambiscono, legittimamente, a trasferirsi in Italia o in Europa alla ricerca di una vita migliore. Solo l’Africa conta più di un miliardo di persone che avrebbero un oggettivo miglioramento della propria situazione se fossero occidentali. Ma possono l’Italia, l’Europa e l’Occidente accogliere queste centinaia di milioni di persone e dare loro una condizione di vita almeno simile a quella che possiamo vantare noi? No, diciamolo con franchezza e responsabilità. E non perché non lo si voglia, ma perché è oggettivamente impossibile, un’utopia. Lo abbiamo già visto con numeri molto più ridotti. Masse di immigrati che il nostro sistema, con le sue risorse limitate, non poteva dignitosamente integrare, lasciate ai margini della società, nelle mani della criminalità organizzata, magari a prostituirsi sulle nostre strade. Perché una delle tragiche realtà che i buonisti hanno sempre curiosamente ignorato è dove finiscano queste persone che il magnanimo Occidente «salva». E più questi immigrati saranno, più le loro condizioni di vita, qui, peggioreranno. E, con le loro, anche quelle di chi li accoglie. Con il risultato che, invece di sconfiggere la sofferenza, finiremmo per moltiplicarla.
In tutti questi anni di dibattiti sull’immigrazione, non sono mai riuscita ad avere risposte chiare da parte di un qualsiasi sostenitore delle teorie immigrazioniste a domande che pure erano semplici: devono poter entrare tutti coloro che lo chiedono, senza distinzioni e limiti? E, se non tutti, quanti? Un milione, due, dieci? Fossero pure venti milioni o anche più, cosa accadrebbe superata quella soglia? Si impedirebbe al migrante numero 20 milioni e 1 di entrare oppure no? E come, con i respingimenti, il blocco navale, come? E perché la nostra umanità dovrebbe essere colpita da chi vediamo fisicamente arrivare e rimanere invece insensibile nei confronti di chi non riesce a raggiungere le nostre coste, magari perché non ha i soldi necessari da dare agli scafisti, e pure versa in condizioni ancora più disperate di chi arriva?
La sinistra dice spesso che la destra sul tema immigrazione fa demagogia. Ma è vero esattamente l’opposto: è la sinistra che si limita ad affrontare la questione con un generico e ridicolo «volemose bene» – o con un’ancora più risibile accusa di razzismo nei confronti di chi tenta di argomentare sulle possibili soluzioni –, senza mai spiegare, nel concreto, quali siano le sue proposte su questo tema. Non ha mai spiegato le sue regole di ingaggio, si è rifiutata di fare i conti con i numeri e la realtà, e ha pensato che fosse sufficiente nascondersi dietro una vaga retorica dell’accoglienza. Dunque, come vedete, è proprio la sinistra ad avere sempre e solo fatto demagogia (e anche parecchi affari) sulla pelle degli immigrati.
Certo, pure a destra esiste chi fa demagogia. E c’è persino chi si spinge fino a toni di disprezzo e venature razziste. Ma non è il caso mio e di Fratelli d’Italia. Noi abbiamo sempre detto che l’immigrazione è una questione complessa che va governata in modo serio, e che per farlo servono regole chiare e buon senso.
La prima regola è che in Italia non si deve poter entrare illegalmente. Uno Stato responsabile non può dare il segnale che viene favorito chi arriva violando la legge rispetto a chi vuole rispettare le regole e si mette diligentemente in fila per poter entrare con un regolare permesso di soggiorno, come in questi anni è puntualmente accaduto con l’azzeramento dei «decreti flussi», ossia lo strumento con il quale lo Stato stabilisce quali siano le quote consentite di immigrazione legale, suddivise per nazionalità. Le quote di immigrati regolari autorizzati a entrare sono state, appunto, portate a zero per via dell’immigrazione illegale di massa che ha saturato la nostra capacità (e voglia) di accogliere stranieri. Risultato: migliaia di filippini, peruviani, moldavi, ucraini che in passato facevano domanda di ingresso non hanno potuto farlo. È giusto? Io penso di no. Il messaggio che è stato dato è scandaloso e criminale: caro straniero, se vuoi arrivare in Italia l’unico modo che hai di farlo è pagare uno scafista ed entrare illegalmente, perché qui la selezione all’ingresso non la fa lo Stato secondo le sue regole e valutazioni, ma gli schiavisti del terzo millennio, secondo le loro.
Per un fatto di serietà, ma anche di rispetto verso chi aspira legittimamente ad arrivare qui, qualsiasi Stato responsabile dovrebbe fare tutto ciò che è nelle sue prerogative per impedire l’immigrazione illegale di massa. Compreso costruire muri, o mettere in atto un blocco navale, se serve.
È proprio quest’ultima proposta ad aver maggiormente caratterizzato la posizione di Fratelli d’Italia negli ultimi tempi, tanto che per un periodo siamo stati definiti «il partito del blocco navale». Abbiamo avuto la forza di continuare a sostenerlo nonostante il fuoco di fila del mainstream e le sue bugie sul tema, tipo dire che si tratta di un’opzione inumana, irrealizzabile, e l’immancabile mantra «il blocco navale è un atto di guerra». È vero esattamente l’opposto: la nostra proposta, infatti, è l’unico strumento reale per far rispettare il diritto internazionale, fermare l’immigrazione illegale e mettere fine alla tragedia delle morti in mare.
Intanto è falso che si tratti di un atto di guerra, dato che la nostra idea è quella di un blocco navale fatto in accordo con le autorità del Nord Africa per impedire la partenza dei barconi. In secondo luogo, la nostra proposta è molto più umana di quello che sta accadendo in questi anni, con la selezione fatta in base ai soldi che puoi pagare per arrivare in Italia, e che inevitabilmente finisce per privilegiare i migranti economici abbandonando chi scappa davvero dalla guerra e dalle persecuzioni. Noi prevediamo infatti la costituzione, sempre in Nord Africa, di centri controllati dalla comunità internazionale nei quali valutare le domande di ammissione, consentendo che i profughi arrivino in Europa, come previsto dalle norme del diritto internazionale, mentre gli immigrati irregolari vengano rispediti a casa. In terzo luogo è decisamente più seria che ritrovarsi con uno Stato sovrano che – per il tramite delle ONG – tratta apertamente con gli scafisti dandosi appuntamento con loro per raccogliere i clandestini, arricchendo una delle più efferate e vergognose organizzazioni criminali del nostro tempo.
Una volta stabilito che non si entra illegalmente, è giusto parlare in modo serio delle «quote» di immigrazione di cui ha bisogno l’Italia. I dati demografici, come ho già scritto, sono terribili: stiamo assistendo a un progressivo decremento della popolazione e a una riduzione importante dei residenti in Italia. Ormai i morti superano il numero dei nati. Detto in altre parole, siamo destinati all’estinzione come popolo. A questo problema la prima risposta deve essere un piano di incentivo alla natalità, e non a caso il primo punto del programma di FDI è da sempre «il più imponente piano di sostegno alle famiglie e alla natalità della millenaria storia del popolo italiano». Detto così, con toni volutamente altisonanti. Purtroppo, però, non si è mai fatto quello che serviva e la crisi della natalità perdura ormai da troppi anni. Un’inversione di marcia, che proveremo a realizzare se e quando saremo al governo di questa nazione, ma che non potrà, purtroppo, portare i suoi frutti prima di diversi decenni se non addirittura di qualche secolo.
Dunque l’Italia, almeno al momento, ha effettivamente bisogno di una quota di immigrazione, e questo non lo ha mai negato nessuno. È un preciso dovere dello Stato selezionare questa quota di immigrazione legale (distinta rispetto ai profughi, lo ripeto perché su questo tema la confusione regna volutamente sovrana) per rispondere alle esigenze della comunità nazionale, garantendo però un futuro dignitoso agli immigrati che scegliamo di accogliere. Anche qui, senza nessuna demagogia, i dati sono semplici: l’unico fattore che incide sull’andamento demografico di qualunque «assembramento» di esseri umani è il numero di femmine fertili presenti in quella comunità. Tradotto: se l’immigrazione deve aiutare a combattere il declino demografico, il dato più rilevante è il numero di donne in età fertile che arrivano in Italia. Ma allora perché, mentre la sinistra ha sempre detto che gli immigrati ci servivano soprattutto a invertire i dati demografici, non ha dato la priorità ai nuclei familiari, ma ha consentito che circa il 90 per cento dei settecentomila immigrati illegali giunti negli ultimi anni con gli sbarchi fossero uomini soli? Misteri della cieca fede immigrazionista.
Poi c’è l’altro, surreale, ritornello. «Gli immigrati fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare.» Quante volte l’avete sentito? Migliaia. Eppure, a meno che la sinistra non intenda con questa frase rendere palese la sua speranza non dichiarata di avere migliaia di immigrati finalmente disposti a votarla, per l’appunto un lavoro che gli italiani, chiaramente, non vogliono più fare, anche questa affermazione risulterebbe falsa. La frase corretta sarebbe: «Gli immigrati sono disposti a fare determinati lavori a condizioni e salario che gli italiani, giustamente, non accettano». Che, come capite, è cosa ben diversa. L’immigrazione di massa immette sul mercato milioni di disperati che costringono i lavoratori a ricontrattare al ribasso i propri diritti. E chi ci guadagna ad abbassare salari e diritti? Le grandi concentrazioni economiche, ovviamente, gli speculatori finanziari che infatti, guarda caso, finanziano le organizzazioni non governative pro-immigrazione e sostengono le teorie immigrazioniste con il circo del mainstream.
Ricordo una polemica tra me e Alessandro Gassmann via social. L’attore aveva scritto: «Te piacciono i pomodori? Le verdure? Le fragole? Il vino? Senza di loro [gli immigrati] scordateli». Il bello è che Gassmann è anche ambasciatore UNHCR e credo abbia sinceramente a cuore i migranti, però non si era accorto che le sue argomentazioni somigliavano in maniera sinistra a quelle di chi sosteneva l’utilità degli schiavi nelle piantagioni di cotone. E questo c’entra decisamente poco con parole come «accoglienza» e «solidarietà». Un ragionamento accogliente e solidale sarebbe invece dire, con coraggio, che l’Italia accetta solo un’immigrazione compatibile con le esigenze del mercato del lavoro che ha, senza che questa vada a indebolire la forza contrattuale dei lavoratori, di tutti i lavoratori. Ed è esattamente quello che diciamo noi.
L’immigrazione sregolata impatta soprattutto sui più deboli, nel mercato del lavoro, nei servizi sociali, nelle periferie delle grandi città metropolitane. Per questo la sinistra, ormai chiusa nei suoi salotti vellutati, può far finta che il problema non esista. Non a caso in tutto l’Occidente le classi operaie, i poveri, come chi vive nei quartieri più periferici, sono sempre più vicini ai movimenti politici di destra e sempre più distanti da una sinistra insensibile ai loro problemi.
Un altro dato da tenere in considerazione è che uno Stato che intenda tutelare l’interesse dei suoi cittadini dovrebbe, senza nessuna timidezza, favorire l’ingresso di stranieri di quelle nazionalità che, statistiche alla mano, hanno dimostrato di sapersi integrare meglio. Destò enorme scandalo il cardinale Giacomo Biffi quando osò dire che l’Italia dovrebbe favorire un’immigrazione cristiana. Io penso che non ci sia nulla di scandaloso in questo. Anzi. Il fatto che uno Stato favorisca un’immigrazione il più possibile compatibile con quella della propria comunità nazionale è una dinamica del tutto ragionevole: perché la possibilità di assimilazione sarà alta e la conflittualità sociale e culturale più bassa.
Eppure proprio il tema dell’immigrazione compatibile è quello che manda più in tilt la sinistra. Perché? L’ho già spiegato lungo queste pagine. Perché l’immigrazione è uno strumento dei mondialisti per scardinare le appartenenze nazionali, per creare un miscuglio indistinto di culture, per avere un mondo tutto uguale e, possibilmente, tutto fatto di gente debole. E un’immigrazione compatibile non è utile in questo senso. Altro che dare risposte alla sofferenza dei migranti o considerarli come elemento di sviluppo della comunità nazionale. La verità è questa. Ed è dimostrabile con i fatti.
Prendiamo il caso polacco: la Polonia è da tempo sotto attacco perché fa resistenza alla redistribuzione di chi sbarca illegalmente nelle nazioni del Sud Europa. Di fronte alle accuse, Varsavia ha fatto notare che ospita sul suo territorio più di un milione di ucraini, gente che scappa da una guerra che in pochi anni ha fatto circa quattordicimila morti, altro che i finti profughi che sbarcano sulle nostre coste. La risposta del mainstream a questa obiezione? Gli ucraini non valgono, perché sono europei, cristiani e culturalmente molto affini ai polacchi. Quindi, come dicevamo, inutili al disegno mondialista di minare l’identità nazionale. E chi se ne frega se sono persone anche loro, se hanno bambini piccoli anche loro, come direbbe Formigli, se cercano di salvarsi. Semplicemente non sono utili. Ed è interessante notare come negli Stati dell’Est, da sempre molto legati alla loro identità e alla loro sovranità (anche perché hanno dovuto combattere parecchio per difenderla), non ci siano distinzioni tra destra e sinistra su questo punto. Ricordo ad esempio l’ex premier slovacco Robert Fico (quasi omonimo del grillino nostrano Roberto Fico, ma le affinità finiscono qui). Lui, membro autorevole del Partito Socialista Europeo, non ha mai smesso di sostenere che la Slovacchia, essendo un piccolo Stato cristiano, non può permettersi un’immigrazione musulmana di massa perché perderebbe la sua identità.
Tutto questo discorso assume una rilevanza ancora maggiore per l’Italia, per una ragione della quale non si tiene quasi mai conto: noi abbiamo circa sessanta milioni di persone di origine italiana in giro per il mondo. Di fatto, un’altra Italia. Molti di questi italiani sognano di essere riaccolti nella loro madrepatria, ma anche qui noi facciamo finta di non vederli. Invece io credo che abbia senso dire che se ci serve immigrazione dovremmo prima di tutto favorire il ritorno di quelli che hanno origini italiane, perché il loro arrivo non porterebbe nessun problema di integrazione.
E poi i cristiani? Quella contro i cristiani è la più diffusa e feroce persecuzione in atto nel mondo. Perché fingiamo di non vederla? Perché noi, che siamo la culla del cristianesimo, non dovremmo occuparci prioritariamente di loro, dal momento che non troveranno facilmente asilo nelle nazioni islamiche, che anzi quasi sempre li combattono, li marginalizzano o, appunto, li perseguitano?
Già li sento sbraitare, i campioni del buonismo un tanto al chilo, di solito buoni con i cattivi e cattivi con i buoni, per queste mie posizioni «scabrose», che probabilmente mi costeranno una grossa lettera rosso scarlatto cucita sul petto: «Razzista, xenofoba, vergognati!».
Ma davvero? Davvero si possono banalizzare temi come questi, che argomento con la logica, attraverso accuse superficiali e totalmente decontestualizzate? Vogliamo parlare di razzismo? Parliamone, che non ho niente da temere neanche su questo.
Partiamo da una considerazione semplice: solo una persona stupida può essere razzista, e io non mi considero affatto una persona stupida, e non lo sono. Aggiungo che non sono una persona facile all’odio, figuriamoci se potrei odiare qualcuno per i suoi tratti fisici, colore della pelle compreso. Piuttosto, l’odio l’ho sentito addosso, sulla mia di pelle, sin da quando ero ragazza, per le idee che manifestavo, chiaramente alternative e dunque sgradite alla cultura «progressista» dei miei avversari. Per i quali ero e sono, più che un’avversaria, un nemico. Io, secondo questi illuminati dispensatori di verità, non dovevo parlare, non potevo manifestare liberamente il mio pensiero, non ero libera di organizzare iniziative, senza sollevare lo scandalo e l’indignazione di chi era stato educato a considerarmi «non-umana» e indegna del consorzio civile. Quelli del «restiamo umani» che implicitamente, e inevitabilmente, marchiano come bestie e non-umani chi non sta dalla loro parte. Succedeva anche in buona fede, paradossalmente. D’altronde, se la persona che ti trovi davanti te la descrivono come una che odia ogni diversità, che ha sterminato milioni di ebrei con le camere a gas, che ha piazzato bombe nelle stazioni, schiavizzato i neri, sottomesso e stuprato le donne (agli occhi delle femministe radicali, una donna di destra è oggettivamente complice e vittima dei suoi carnefici maschilisti), ci sta pure che chi ci crede tenda a trattarti come meriti. Anche io, in fondo, mi disprezzerei e mi combatterei con ogni mezzo, se questa descrizione fosse anche solo lontanamente vera.
E mi disprezzerei profondamente se, come alcuni senza vergogna hanno sostenuto, io fossi con le mie idee e le mie battaglie la mandante dell’omicidio di Willy Monteiro Duarte. La sera del 6 settembre 2020 Willy, un cuoco ventunenne di origine capoverdiana, muore in seguito a un pestaggio, colpevole di aver tentato di aiutare un amico che era stato preso di mira da un gruppo di bifolchi locali. Lo hanno massacrato a calci e pugni, solo perché non si è girato dall’altra parte. Un ragazzo incapace di rimanere insensibile di fronte all’ingiustizia, e per questo ai miei occhi un eroe, in un tempo nel quale l’indifferenza domina sovrana.
Quando lessi la notizia ricordo di aver pianto, pensando a lui e, come sempre, alla sua mamma, che si vedeva strappato l’amore della sua vita solo per averlo cresciuto con valori sani, da uomo. Racconto la storia di Willy perché lui merita di essere ricordato, e perché lui e la sua famiglia non meritavano, invece, la strumentalizzazione che è stata fatta della sua morte.
Quando uscirono i dettagli di quel raccapricciante episodio, e le foto degli aguzzini, palestrati, tatuati, cocainomani, i soliti superficiali irresponsabili tentarono di trasformare la vicenda in un fatto politico. Si cominciarono a definire quegli animali dei «fascistelli», e indirettamente – o direttamente – si disse che quell’omicidio di un ragazzo di colore da parte di quelle bestie era il frutto della cultura dell’odio che io, e altri, professavamo. Mi sono vergognata di una classe dirigente che pensa di poter sfruttare qualsiasi cosa a suo uso e consumo, e che distorce la realtà pur di poterla piegare a suo vantaggio. Willy non è morto perché era di colore, Willy è morto perché era un bravo ragazzo. E i suoi assassini non l’hanno ammazzato per questioni di razza, ma perché erano imbottiti di cocaina in un’Italia nella quale la cocaina è diventata il simbolo dei vincenti. E dico di più. Quelle quattro bestie che hanno pestato a morte Willy, a differenza di ciò che qualche imbecille ha provato a sostenere, non c’entrano nulla con la cultura di destra, e infatti non avevano alcuna simpatia per noi. Sono invece figli di tutt’altra «cultura»: quella di chi ha propagandato tra i giovani modelli come Gomorra per farci sopra i milioni, di chi non ha combattuto l’uso e lo spaccio di sostanze stupefacenti (due dei quattro avevano precedenti per spaccio, e se fossero state accolte le nostre proposte probabilmente quella sera non si sarebbero trovati a piede libero), e sono figli di quei modelli cari a certi artisti «progressisti», o «comunisti col Rolex» che dir si voglia, per i quali il successo si misura con la cilindrata delle macchine, il costo delle borse, il numero di partner che si riescono ad avere e quello delle droghe che si riescono ad assumere. E, senza timore di smentita, questi modelli la destra li ha sempre combattuti. Quindi, semmai, sono altri che devono assumersi la responsabilità morale di quello che è accaduto al povero Willy e alla sua famiglia.
Quando i riflettori sulla vicenda si stavano già spegnendo, come sempre accade quando la vita delle persone e la loro tragedia vengono usate come fossero kleenex, chiamai la mamma di Willy per farle le mie personali condoglianze. Non dimenticherò mai la voce flebile che tradiva disperazione e insieme la dignità composta con le quali mi rispose. E non dimenticherò mai quel «È un onore sentirla» con cui mi salutò quando mi presentai, che dimostrava che almeno lei, la signora Lucia, non aveva creduto alle accuse indegne che mi erano state rivolte.
No, non potrei odiare gli stranieri, i diversi, l’altro da me, proprio io che nutro un’istintiva curiosità e attrazione verso il mondo, le altre culture, la ricchezza della diversità. E, anzi, è proprio la volontà di tutelare il valore della «diversità» che costituisce uno dei fattori decisivi della mia avversione alla sinistra, troppo attenta a sottolineare il valore dell’«uguaglianza», parola con la quale in realtà occulta la ferma intenzione di voler omologare tutto e tutti.
L’accusa di razzismo mi perseguita dal primo giorno. Te la strillano in faccia per tapparti la bocca e chiudere il discorso prima ancora che inizi; insieme a «fascista», di cui ha progressivamente sostituito e inglobato il potere intimidatorio e diffamatorio, è l’epiteto con il quale ti squalificano rendendoti indegna di una risposta, di un minimo di rispetto. Se sei razzista, ovvio, i tuoi argomenti non meritano di essere nemmeno presi in considerazione, non si spreca tempo a ragionarci sopra, a valutarli. Vanno solo condannati. Meglio ancora se ti impediscono proprio di esprimerli, con la censura preventiva applicata, questa sì, a te e a tutti quelli della tua «razza».
Campionessa di questa strategia è Rula Jebreal, la giornalista palestinese con cittadinanza israeliana e italiana che vediamo spesso pontificare nei nostri programmi. Non c’è confronto che abbia fatto con lei nel quale, a un certo punto, non se ne sia uscita con questa brillante affermazione: «Mi rendo conto che è dura guardare una donna di colore come me...». Una volta sbottai e, rivolta al pubblico, dissi: «Ma ’sta pazza ce l’ha con me?». Non era tattica, ero sinceramente basita da quell’accusa. Non solo perché, come ho detto cento volte, non c’è nulla di razzista in me, ma perché io ho un’immagine di Rula Jebreal decisamente diversa da quella che lei, per non doversi misurare ad armi pari con me, mi accusa di avere.
Mi sono trovata in difficoltà con la Jebreal, lo ammetto. Ma non per il colore della sua pelle. Mi sono trovata in difficoltà perché non è facile tentare di fare un discorso serio con qualcuno così scarso. Io in Rula Jebreal vedo qualcosa di molto diverso dalla vittima che lei vorrebbe essere. Una bellissima donna, ben inserita nel circuito dell’élite finanziaria – e probabilmente per questo così considerata a livello mediatico –, ma purtroppo non in grado di argomentare in un dibattito di un certo livello.
Dalle assemblee studentesche fino al Parlamento e ai talk show televisivi, è praticamente tutta la vita che sono costretta a difendermi, contrattaccare, spiegare, dimostrare che no, il razzismo non mi appartiene.
È stato così per tutti noi, da sempre. Ma, a ripensarci, è stato un bene. Perché dover fare i conti con l’accusa di razzismo, e con gli scemi razzisti che si avvicinavano a noi convinti di trovare tra le nostre file gente come loro, ha costretto il nostro ambiente a scavare in profondità, a capire, a cercare risposte sempre più ragionate e convincenti, a maggior ragione perché su questa disputa la destra parte da sempre in svantaggio, con il terribile portato storico delle persecuzioni antisemite nazifasciste a pesare come un macigno.
In pratica, si parte dall’idea che devi dimostrare di non essere razzista nonostante tu sia di destra. Perché da settantacinque anni nell’immaginario collettivo il razzismo è uno stigma che appartiene a una sola parte politica e culturale: se sei di destra sei anche immancabilmente razzista, intollerante, xenofobo, e allo stesso tempo si parte dal presupposto che le altre culture politiche siano, invece, tutte immuni da questa infezione dello spirito. Nel racconto superficiale della storia che va in voga dal dopoguerra, è come se improvvisamente il razzismo si fosse abbattuto nella società con le camicie brune hitleriane, successivamente imitate e seguite da quelle nere mussoliniane, poi entrambe sconfitte dai buoni del mondo che fecero la guerra contro i cattivi per combattere razzismo e totalitarismo. Prima, e altrove, è come se il razzismo non fosse mai esistito. Ma è andata davvero così?
Questa rappresentazione unilaterale è figlia dell’egemonia culturale che l’ideologia progressista ha saputo imporre sin dal dopoguerra, e che ha portato nel giro di alcuni decenni a maturare un’elaborazione della coscienza europea e occidentale sul razzismo caratterizzata dal tema della «rimozione». Traumatizzata dall’esperienza della Shoah, è come se la cultura occidentale, non volendo più essere razzista, abbia cercato di non esserlo mai stata, scaricando solo sull’esperienza nazista il peso di questa tremenda eredità. Tuttavia, che il razzismo fosse molto diffuso nella nostra civiltà per almeno due o tre secoli (salvo eccezioni) è purtroppo un dato di fatto incontrovertibile, che oggi sta riemergendo con esiti talora grotteschi (come nel caso delle statue decapitate di Churchill o Colombo).
Quando indaghi e scavi davvero a fondo, non solo trovi il razzismo presente in tutte le nazioni «sviluppate» (le altre, non a caso, erano catalogate tra i «Paesi sottosviluppati», prima che il politicamente corretto addolcisse la definizione); lo trovi anche in molte culture politiche e religiose. E, a dirla tutta, le sue radici affondano robustamente proprio dove viene negato che siano: nella filosofia illuministica e progressista, che è la matrice della moderna cultura di sinistra. Altro che destra. In confronto, il pensiero conservatore, intimamente legato al cristianesimo e alla concezione unitaria del genere umano, con il suo ineliminabile e categorico egualitarismo che scaturisce dalla convinzione che tutti gli uomini siano figli dello stesso Dio e da Dio egualmente amati, è un baluardo contro ogni deriva discriminatoria e xenofoba.
Marco Marsilio, sì, proprio l’attuale presidente di FDI della Regione Abruzzo, con una laurea in filosofia in tasca, ha spiegato bene questo percorso nel suo libro Razzismo. Un’origine illuminista. La socialdemocratica Svezia continuò a sterilizzare le donne «socialmente inutili» fino al 1975. Gli Stati Uniti usavano il Dizionario delle razze per controllare l’immigrazione fino agli anni Cinquanta (è celebre l’aneddoto di Einstein che scrive «umana» alla voce «razza» del questionario somministratogli alla dogana), con conseguenze disastrose per centinaia di migliaia di ebrei polacchi, ucraini, russi, baltici a cui negarono il visto, rimasti intrappolati in Europa alla vigilia dello scoppio della guerra. E fino agli anni Sessanta alle persone di colore negli USA non era permesso sedersi sugli autobus, frequentare l’università, essere servite nei locali. L’Impero britannico sparava con le mitragliatrici sulle folle indiane guidate dal Mahatma Gandhi che reclamavano l’indipendenza. Le truppe coloniali anglo-francesi erano notoriamente la «carne da macello» da mandare per prima all’assalto delle postazioni nemiche. Le potenze coloniali europee hanno concesso la libertà ai popoli oppressi solo a prezzo di sangue e rivolte. In Europa e Nord America fino agli anni Trenta spopolavano gli zoo umani nei quali venivano esibite famiglie di «selvaggi», alcuni messi nelle gabbie con le scimmie e gli oranghi per mostrare l’«anello mancante». Tutto si può dire, tranne che queste nazioni abbiano fatto la guerra alla Germania per combattere il razzismo. È stato un fortunato «incidente» della storia che da quella vicenda l’umanità ne sia uscita più consapevole, e abbia cominciato a riflettere sul tema, spinta dallo shock provocato dalle conseguenze più tragiche del razzismo, e che uno dopo l’altro si siano abbattuti muri e steccati che dividevano uomini, culture, religioni.
Il mondo sarebbe molto più semplice se veramente esistesse il «male assoluto» rappresentato dalla parentesi storica dell’ideologia nazifascista. Basterebbe condannare e combattere questo, e il problema sarebbe risolto. Purtroppo il razzismo ha dimensioni molto più vaste, e negarlo non aiuta a contrastare questa piaga. Un percorso ancora lungo, ma che possiamo e dobbiamo continuare a intraprendere. Senza scorciatoie, senza esitazioni, ma anche senza strumentalizzazioni o perenni sensi di colpa che fanno diventare «razzismo» anche quello che non lo è.
Come quando Fratelli d’Italia è stato accusato di razzismo perché per primo in Italia ha denunciato il fenomeno della mafia nigeriana, la terribile organizzazione criminale dedita allo spaccio di droga, allo sfruttamento della prostituzione, alla tratta di esseri umani, tra pratiche macabre come il juju o, si dice persino, il cannibalismo rituale.
La mafia nigeriana è di fatto la «quinta mafia» in Italia, per troppi anni ignorata dai media e sottovalutata dalle istituzioni, proprio per la paura di essere tacciati di razzismo. Anche dal mondo dell’informazione c’è sempre stata una certa riluttanza ad affrontare questo tema, quasi come se parlare di un’organizzazione criminale fatta da immigrati, strutturata e fortemente radicata in alcune zone d’Italia, mettesse in imbarazzo gli esegeti del refugees welcome, quelli che passano le giornate a scrivere articoli per convincere gli italiani ad accettare l’immigrazione clandestina di massa come una scelta che può portare solo vantaggi. Anche lo scrittore Roberto Saviano, che ha costruito la sua carriera professionale parlando di mafia e camorra, scovandola in ogni dove (anche se poi, stando alle sentenze della magistratura, pare che si sia limitato a raccogliere e rilegare le inchieste fatte da altri), per tanti anni è stato silente mentre la mafia nigeriana proliferava e metteva radici. Soltanto nel 2019 il paladino dell’antimafia per eccellenza ha cominciato a fare qualche timido accenno a questo fenomeno, ma ancora si guarda bene dal dedicare al tema uno dei suoi preziosi contributi letterari o giornalistici. Insomma, pare che non vedremo una serie tv incentrata su questa piaga. Forse sta aspettando che qualcuno scriva un articolo di giornale o un libro sull’argomento dal quale trarre «spunto», e al momento effettivamente c’è poco in giro, a parte un libro scritto da me, Alessandro Meluzzi e Valentina Mercurio. Magari potrebbe cominciare da lì. E da Castel Volturno, città della sua Campania.
Sono stata molte volte in quel gioiello devastato che è Castel Volturno, tanto che oggi Fratelli d’Italia esprime lì il sindaco, Luigi Petrella. «Città nastro» che si sviluppa lungo il litorale ai due lati della Domiziana, era la meta di vacanze prediletta da casertani e napoletani benestanti, ma nell’arco di qualche decennio si è trasformata in un territorio abitato per metà da una massa di invisibili. Ora quei ventiquattro chilometri di costa sono diventati la capitale di una tra le più efferate organizzazioni criminali del mondo: la mafia nigeriana, appunto. Camminando lungo la strada di palazzine vista mare, che una volta erano case di vacanza e oggi sono un muro di costruzioni fatiscenti, si scoprono un’umanità dimenticata e un degrado che non può lasciare insensibili. Una vera e propria zona franca: uomini che lavorano nei campi per pochi euro, spaccio di droga e delinquenza alla luce del sole. E poi le Connection House, nelle quali prostitute spesso minorenni vivono da schiave.
Durante un incontro in Prefettura ho avuto modo di parlare con una di loro, una delle poche che hanno avuto il coraggio di denunciare i propri aguzzini e di scampare a quell’inferno, anche se vive costantemente con l’incubo che quei carcerieri, un giorno, le facciano pagare la sua libertà. Il racconto che mi ha fatto, con il suo piglio assieme orgoglioso e terrorizzato, è degno di un film. Non era venuta in Italia per scelta, ma per costrizione. Per amore, più precisamente, del suo bambino, sul quale i criminali avevano fatto un rito voodoo (che lì si chiama, come detto, juju). Per salvare la vita di quel bambino avrebbe dovuto pagare 25.000 euro, e per guadagnarli c’era un solo modo: venire in Italia a prostituirsi. Anni passati in condizioni disumane, seviziata, violentata, dimenticata. Il corpo, e il cuore, devastati, ma la mente sempre concentrata sulla vita del suo bambino. Alla fine ha conosciuto un italiano, e lui l’ha aiutata a mettere in salvo suo figlio e a tirarla fuori da lì. Sta ancora raccogliendo i cocci della sua esistenza, ma si dice felice. E vorrebbe fare qualcosa per aiutare le tante, troppe, altre donne che vivono nella sua stessa condizione. Davvero i buonisti nostrani non conoscono questo spaccato? Davvero non hanno mai avuto la possibilità di parlare con queste vittime? Dove sono le femministe? Sono troppo impegnate a occuparsi di battaglie fondamentali come imporre che si dica «capa treno» e non «capo treno» per aiutarci a combattere questo schifo? Perché fingono di non vedere? Forse perché dovrebbero finalmente fare i conti con l’irragionevolezza delle loro battaglie?
Comunque, questa lotta la facciamo noi da anni, anche senza il loro aiuto. Tanto che abbiamo formalizzato una proposta per far sì che, quando questi schiavisti vengono presi, il reato contestato per quello che hanno fatto a queste donne non sia «sfruttamento della prostituzione» ma «riduzione in schiavitù», che prevede pene di tutt’altro calibro.
Ascoltando la storia di questa donna, e la sua sofferenza, mi è tornata alla mente una poesia di Charles Baudelaire che avevo letto molti anni prima. Io sono un’appassionata di decadentismo e, benché il mio preferito tra i poeti decadenti sia sempre stato Arthur Rimbaud, trovo che Baudelaire abbia scritto alcune tra le più straordinarie poesie della storia della letteratura mondiale. Tra queste, quella che si intitola A una malabarese (il Malabar è una regione dell’India) e si conclude così: «Perché, felice fanciulla, vuoi vedere la nostra Francia, terra troppo popolosa e sofferente, e ai marinai dalle forti braccia affidando la tua vita, vuoi dire a lungo addio ai tamarindi che ti sono così cari? [...] Rabbrividendo sotto la neve e la grandine, come rimpiangeresti i tuoi giochi liberi e dolci, se [...] dovessi nel nostro fango rimediare la cena, e vendere il profumo delle tue grazie esotiche, l’occhio assorto inseguendo nelle nostre sporche nebbie i fantasmi sparsi dei tuoi alberi assenti». Com’è possibile che a distanza di quasi due secoli quei versi siano ancora così attuali? E cosa c’è di umano in tutto questo?
Quella a difesa delle immigrate ridotte a schiave del sesso non è l’unica battaglia in favore degli africani, alla ricerca di un’umanità vera, che io e Fratelli d’Italia abbiamo condotto in questi anni. E tra esse ce n’è una, in particolare, che io considero la madre di tutte le questioni.
Quando si parla di immigrazione la narrazione mainstream è sempre la stessa: abbiamo il dovere «cristiano» di accogliere i profughi africani che scappano dalle guerre. Anche qui, se si provasse ad approfondire, a entrare nel merito, si verrebbe subito zittiti con un efficace, e vuoto «Razzista!». Ma io non la bevo, e da anni studio per approfondire anche questo aspetto. Mi sono chiesta: di quali guerre si parla? Da cosa effettivamente scappano questi ragazzi? Cosa li spinge ad abbandonare la propria patria? Perché l’Africa è un continente così povero?
Poi ho scoperto una cosa che ha chiuso il cerchio delle mie convinzioni su questa materia. L’Africa non è affatto un continente povero, anzi. Sulla carta è potenzialmente il più ricco tra tutti i continenti, essendo quello che ha i più ingenti giacimenti di materie prime. Petrolio, diamanti, oro, metalli e terre rare, e chi più ne ha più ne metta. Ma allora perché, se la sua terra è così ricca, i suoi abitanti sono così poveri? Perché quelle terre vengono sfruttate dagli stranieri, che portano via tutto lasciando solo macerie, nell’indifferenza generale, e con la compiacenza di governi locali spesso corrotti. E chi sono questi stranieri che li sfruttano? Diversi, e tra questi alcune nazioni europee, su tutte la Francia. Capito? Noi fingiamo di essere buoni perché accogliamo, per poi abbandonarle ai margini, persone che scappano da noi e dal nostro sfruttamento. Ma piuttosto che riempire l’Europa di africani, non sarebbe molto più sensato liberare l’Africa da certi europei?
Curiosamente, nessuno ha ritenuto di raccontare questa storia, di denunciarne il paradosso e la vergogna. Nessuno a parte Fratelli d’Italia.
Non più tardi di due anni fa organizzammo un convegno partecipatissimo alla Camera dei Deputati sul franco CFA, la moneta di derivazione coloniale con cui la Francia tiene sotto scacco molti Stati africani. A quel convegno presero parte anche dei giovani patrioti africani, che da sempre si battono per la libertà della loro terra. Raccontammo, per il tramite di questi testimoni diretti, come la stessa nazione europea il cui presidente, Emmanuel Macron, aveva definito l’Italia «dégueulasse» (vomitevole, in sostanza) per non aver fatto sbarcare l’ennesima nave di migranti sulle proprie coste, continui a battere moneta fuori dai suoi confini nazionali per controllare le esportazioni e l’economia di diversi Stati africani, quattordici per l’esattezza. Le materie prime nascoste nel sottosuolo del Continente Nero fanno gola a tutto il mondo, controllarne le esportazioni equivale a esercitare un vero e proprio signoraggio sulla ricchezza.
Prendiamo ad esempio il Niger, ex colonia francese del Sahel, e crocevia di tutti i flussi migratori dell’Africa centrale verso la Libia. Il Niger è una delle nazioni del mondo più ricche di uranio, materia prima indispensabile a far funzionare le centrali nucleari. In Niger sono presenti in pianta stabile società di proprietà dello Stato francese che estraggono uranio sin dal 1957. Ancora oggi grazie all’uranio del Niger il governo di Parigi riesce a soddisfare un terzo del fabbisogno energetico nazionale, quando nel 2021 oltre l’80 per cento dei nigerini non ha ancora accesso all’energia elettrica. Per di più, nei villaggi dove viene estratta questa preziosa risorsa, si beve acqua radioattiva e si coltiva su un terreno avvelenato dagli acidi dell’estrazione mineraria. Il Niger è il primo Paese al mondo per tasso d’analfabetismo, soltanto il 5 per cento della popolazione è collegato a internet, l’aspettativa di vita è tra le più basse del mondo.
Potrei raccontare molte altre di queste storie, che non troverete sulla grande stampa o nelle trasmissioni tv, perché quello del Niger è solo un piccolo spaccato di uno sfruttamento senza precedenti. Ma c’è molto di più: mentre in Europa, negli USA e in tutto il mondo progredito si discute di «transizione energetica» e di «green economy», pressoché a tutti sono sconosciuti i retroscena di questo nuovo paradigma. Pochi sanno che senza l’Africa non sarebbe possibile nessuna transizione energetica, nessuna economia verde. Quante persone hanno, ad esempio, mai sentito parlare di indio, gallio, cerio, lantanio o promezio? Si tratta dei cosiddetti metalli e terre rare che sono indispensabili alla produzione di tutte le nuove tecnologie, ingredienti essenziali per la green economy.
Non ci chiediamo mai come vengono prodotte le batterie delle auto elettriche, i pannelli solari o le pale eoliche. Così come tutti gli strumenti tecnologici che utilizziamo: cellulari, tablet, tv, computer. Tutto ciò viene realizzato grazie ai metalli e terre rare di cui l’Africa è, ancora una volta, estremamente ricca. E il paradosso è che questi preziosi elementi naturali, pur essendo di fatto il nuovo petrolio, rappresentano la sua disgrazia.
Il leader mondiale dell’estrazione e trasformazione di questi metalli in materiale tecnologico è indiscutibilmente la Cina, che non a caso da decenni ha preso di mira il Continente Nero. La dittatura di Pechino ha elargito enormi prestiti a molte nazioni africane, finalizzati alla costruzione di infrastrutture che la stessa Cina sfrutta per le sue rotte commerciali mondiali. Tantissimi Stati africani sono caduti nella trappola del debito cinese, aprendo la strada alla conquista del territorio, anzi del sottosuolo, da parte di Pechino.
Così l’Africa è diventata la miniera su cui la dittatura cinese ha edificato il suo impero, rendendo tutto l’Occidente che va verso la transizione energetica sempre più dipendente dalle tecnologie made in China.
Il saccheggio delle risorse africane non solo espropria i popoli della loro ricchezza, ma causa ulteriore desertificazione, alimenta i conflitti tribali in cui si insinua come una serpe il fondamentalismo islamico, e provoca flussi migratori che non fanno bene né all’Africa né all’Europa. Nessuno fuggirebbe mai dalla sua terra, dalla sua famiglia e dalle sue radici. Se i giovani africani avessero un futuro non abbandonerebbero mai la propria patria. Come scrive il cardinale africano Robert Sarah in uno dei suoi ultimi libri: «Bisogna fare di tutto perché gli uomini possano restare nei Paesi che li hanno visti nascere». Il legame con le proprie radici, con le proprie tradizioni, con la propria identità è insito nella natura umana. La lotta dei giovani africani per la sovranità e per l’indipendenza è una lotta per la difesa della propria identità. Questo fatto manda letteralmente in cortocircuito la sinistra, che liquida la questione africana con la solita retorica buonista, utile solo ad alimentare il sistema di sfruttamento che strozza l’Africa.
Nel 2019 mi trovavo a Ferrara per un’iniziativa sulla sicurezza. Qualche giorno prima alcune bande di nigeriani avevano scatenato una grossa rissa che aveva trasformato il GAD – acronimo che indica tre diversi quartieri da tempo interessati dall’aumento della criminalità – in una polveriera. Con un’enorme bandiera tricolore passeggiavamo nel quartiere a simboleggiare la necessità che lo Stato riprendesse il controllo di quei territori. A un certo punto vediamo, sullo sfondo, un gruppo di africani che ci aspettano, composti, con le bandiere del Camerun. Un giornalista mi guarda e mi dice: «Non le dà fastidio che queste persone si debbano sentire minacciate da voi?». Neanche gli rispondo, ma non capisco cosa stia per accadere. Continuiamo a camminare finché non passiamo accanto a queste persone. Si avvicina un ragazzo, con i tradizionali vestiti colorati che si indossano in molte di queste nazioni, e mi dice: «Onorevole Meloni, possiamo parlarle?» e io: «Certo, mi dica». Mi preparo alla contestazione, e intorno a me scende il silenzio. Lui mi guarda e mi fa: «Siamo patrioti camerunensi. La vogliamo ringraziare, perché lei e il suo partito siete gli unici a denunciare lo sfruttamento del nostro Paese. Ci aiuti a spiegare agli italiani che noi non vogliamo venire in Europa. Non vogliamo essere costretti a scappare dalla nostra terra. Noi vogliamo rimanere a casa. Ci aiuti a liberare la nostra nazione». Alla fine mi danno il megafono e finisco ad arringare anche quella folla, raccontando la nostra battaglia contro il franco coloniale, tra giornalisti basiti e arrabbiati perché dovranno riscrivere tutti i pezzi che avevano già preconfezionato e patrioti italiani e camerunensi che si abbracciano.
Con l’Africa, l’Europa deve cambiare totalmente il suo approccio, indietreggiando, abbandonando ogni velleità neocolonialista e abbracciando la strada di una vera cooperazione allo sviluppo che possa portare ricchezza reciproca. Solo così si può ridimensionare il dominio cinese: un’Africa libera e prospera è fondamentale per portare un nuovo equilibrio a livello globale.
Noi possiamo giocare un ruolo fondamentale su questo versante, riscoprendo l’insegnamento proficuo e pragmatico di un italiano illustre come Enrico Mattei, che fece grandi l’ENI e l’Italia stringendo accordi di vera cooperazione con i maggiori produttori di petrolio, scelta che potrebbe essergli costata la vita. Un modello italiano ben distante da quello predatorio delle altre nazioni occidentali, che è imperativo replicare in questa fase storica. L’Africa è la più grande riserva mondiale del «nuovo petrolio», consentire agli africani di godere della loro ricchezza è la chiave per inaugurare una nuova stagione di prosperità e libertà per tutti. Un modello Italia per l’Africa. Non è solo una suggestione, potrebbe diventare la grande sfida dei prossimi decenni, se la nostra nazione tornasse ad avere una visione di politica estera, e se la sua classe dirigente trovasse finalmente il coraggio di cercare la verità, invece di accontentarsi di stare nascosta dietro le stupide etichette che ama appiccicare.
Non andò tutto bene
Non ero mai stata al Festival di Sanremo, ma l’ho sempre guardato in televisione. Alcuni anni senza perdermi un minuto, altre volte rivolgendogli uno sguardo distratto. Penso di poter dire che il richiamo della principale manifestazione nazionalpopolare d’Italia sia sempre stato lì, ad attirarmi a sé, malgrado raramente vi abbiano partecipato i miei cantanti preferiti.
La mia vita, come quella di ciascuno di noi, ha la sua colonna sonora. E nel mio caso si tratta di una raccolta molto, molto corposa. Perché io, banalmente, la musica la amo tutta: dall’opera lirica all’heavy metal, dal pop più sdolcinato alla cosiddetta musica identitaria, come quella di Marcello De Angelis o degli Aurora, che ha accompagnato tutta la mia adolescenza. Eppure forse sorprenderà, ma di pochi cantautori conosco tante canzoni a memoria quanto quelle scritte da Francesco Guccini. Tanto che usai proprio una citazione del suo Cirano per chiudere la relazione congressuale con la quale mi candidavo alla guida di Azione Giovani: «E voi materialisti, col vostro chiodo fisso / che Dio è morto e l’uomo è solo in questo abisso / le verità cercate per terra, da maiali / tenetevi le ghiande, lasciatemi le ali». Per certa stampa fu una sorpresa, per la platea che mi ascoltava, invece, no.
Per le ragioni che ho già spiegato, figuratevi se io, come altri della mia comunità politica, potevamo mai restare indifferenti rispetto ai versi di De André o di altri grandi della musica italiana, per quanto organici potessero essere alla sinistra del secolo scorso.
Dunque, potete facilmente immaginare con quanta amarezza abbia accolto la versione riveduta e corretta di Bella ciao canticchiata da Guccini con i nomi di Giorgia Meloni, Salvini e Berlusconi, accompagnati dall’invito a esser «portati via» dai partigiani nel 2020.
Mi sono sentita come quando scopri che il Babbo Natale che ha appena suonato alla porta altri non è che tuo zio un po’ alticcio e un po’ imbolsito, ma fai finta di nulla, seppur con la morte nel cuore, pensando ai regali che ti ha portato.
E così, «al fin della licenza», continuerò comunque a cantare Cirano o Cristoforo Colombo, con la certezza che siano alcuni tra i versi più belli e profondi della musica italiana.
Ma torniamo al Festival di Sanremo. È il 17 febbraio 2011 e io ricordo la serata dedicata al centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. In sella a un cavallo bianco Roberto Benigni entra nel Teatro Ariston, sventolando una bandiera tricolore. È venuto per l’esegesi del Canto degli Italiani, il nostro inno. Comunemente conosciuto come Fratelli d’Italia. Poco dopo sarebbe diventato anche il nome del nostro partito. Una sorta di premonizione.
Non dimenticherò mai i cinquanta minuti seguenti di Benigni sul palco. Una pioggia di brividi e di pensieri che inondò me e tutti gli italiani che ebbero la fortuna di assistervi.
Non mancarono le battute sul premier Berlusconi, più o meno gradevoli, ma il racconto del Risorgimento fatto nel luogo più popolare d’Italia sprigionò uno straordinario senso di appartenenza.
«Una grandezza senza pari, intrisa di gioventù. [...] Non potete sapere quanti ragazzi sono morti per noi. [...] Loro hanno imparato a morire per la patria perché noi potessimo vivere per la patria.» Ha fatto bene Benigni a sottolinearlo più volte, perché non furono congressi mondiali, illustri monarchi o grandi statisti a fare unita e libera l’Italia. Fu un popolo a farsene carico, in particolare i suoi giovani poeti guerrieri. Disposti a morire pur di trasformare un antico sogno in una nuova nazione.
«L’Italia è l’unico Paese al mondo dove è nata prima la cultura e poi la nazione» fu un’altra delle affermazioni più belle e vere di Benigni, quella sera. Al punto che credo si possa affermare che lo stesso tricolore italiano non sia figlio di una concessione straniera, ma dei versi premonitori del più grande fra i poeti del mondo. «Sovra candido vel cinta d’uliva / donna m’apparve, sotto verde manto / vestita di color di fiamma viva» sono le parole che usa Dante Alighieri al cospetto di Beatrice, l’amore della sua vita.
Appartenere a questa bellezza è un privilegio, ma anche un compito gravoso per chi fa politica in Italia. Purtroppo il sentimento di amor patrio è stato nei decenni deriso o negato, particolarmente nel secondo dopoguerra. Credo che ciò sia stato non solo ingiusto nei confronti di tutti i giovani caduti per l’Italia, ma anche controproducente per uno sviluppo coerente e condiviso dello Stato italiano.
«Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani.» Questa frase, famosissima, attribuita a Massimo d’Azeglio rappresenta la critica che più spesso ci sentiamo rivolgere: quella di non essere uniti come popolo e quindi di essere una nazione dove ognuno pensa quasi esclusivamente per sé. La realtà è molto più complessa di così. Esiste una grande contraddizione nel nostro popolo: ha coscienza di sé da molto prima che nascesse lo Stato italiano, eppure appare spesso distaccato rispetto alla propria nazione. Non di rado si è dubitato del sentimento di appartenenza nazionale degli italiani. Lo si è fatto storicamente: ad esempio prima del Risorgimento, quando si provava a raccontare che l’Italia non era altro che «un’espressione geografica». E a questo racconto, che in sostanza sostiene che l’Italia come nazione non esista – e che l’unica omogeneità sarebbe quella locale e comunale –, un po’ gli italiani stessi ci credono, ogni tanto. Salvo cambiare idea, poi, quando davanti alla Storia – quella con la «S» maiuscola – e alle sue grandi sfide dimostrano in prima persona di avere un fortissimo senso della comunità nazionale.
Lo testimoniano, oltre al Risorgimento, le trincee della Prima guerra mondiale, lì dove il sangue degli italiani si mischiò diventando un unico indissolubile. Lo dimostrarono gli eroi di El Alamein, e ce lo ricordano spesso gli italiani, nei luoghi e nei momenti più impensabili, come accadde in Iraq con un semplice ragazzo siciliano cresciuto in Liguria, Fabrizio Quattrocchi, con quel suo maestoso «Vi faccio vedere come muore un italiano» sbattuto in faccia ai suoi vigliacchi aguzzini.
Non è vero che gli italiani non siano capaci di grandi slanci altruistici nei momenti difficili. Tanti di quelli che leggeranno questo libro si riconosceranno come protagonisti di storie di coraggio e solidarietà. Come scordare chi è corso ad Amatrice nel 2016, in Emilia-Romagna nel 2012, all’Aquila nel 2009, in Umbria nel 1997 e, più indietro nel tempo, in Irpinia, in Friuli, in Sicilia, senza citare tantissimi altri luoghi in cui la furia della natura si è abbattuta? E come dimenticare le decine di italiani che si fecero avanti a Vermicino, nel 1981, per cercare di tirare fuori da quel maledetto pozzo Alfredino Rampi, il bimbo di sei anni che ci era caduto dentro, rimanendo incastrato? Durante le tragedie, che in maniera diversa hanno colpito la nostra nazione, è mancata spesso l’organizzazione dei soccorsi, ma non sono mancati mai i soccorritori. Mai quelli che, saputo che altri italiani erano in difficoltà, si sono messi subito in azione portando acqua, cibo, coperte e mani per scavare. Alcuni, molti, accorsi con appresso un tricolore, come a dire: «Grazie a questo simbolo siamo tutti fratelli e allora eccomi qui, questo è il mio posto».
Gli eventi drammatici più recenti sono raccontati dalle fotografie, dai video, dalle testimonianze di qualcuno che c’è stato e che ricorda com’era scavare nelle case distrutte e trovare qualcuno che da quelle case non era più uscito, oppure i simboli di una quotidianità perduta: un giocattolo, un libro, una testimonianza di vita.
Storie di straordinaria solidarietà, la cui lista è meravigliosamente e drammaticamente lunga.
Eravamo nazione da poco più di quarant’anni quando il 28 dicembre 1908 più di ottantamila persone morirono uccise da un terremoto che rase al suolo Messina, Reggio Calabria e gli altri paesi sulle due sponde dello stretto. Un’apocalisse.
E il resto d’Italia? Comitati spontanei per raccogliere fondi e «passeggiate di beneficenza». Una gara di solidarietà incredibile.
Solo sette anni dopo, il 13 gennaio 1915, la terra tremò di nuovo. Ad Avezzano, in Abruzzo.
Trentamila morti. E anche qui subito solidarietà e tanti volontari accorsi per scavare tre le macerie. Tra loro Nazario Sauro. Sì, proprio l’eroe istriano che ho già citato. Quanto avevano da condividere un marinaio istriano e un pastore abruzzese? Forse poco, certamente non il dialetto, ma qualcosa c’era e bastava: l’essere italiani. E per questo gli istriani andarono là. E non furono i soli.
Nella stessa lettera che ho già menzionato, indirizzata al figlio prima di morire, Sauro scriverà: «Vi viene in aiuto la Patria». Ecco, è là in Abruzzo, come poi sul fronte nella Prima guerra mondiale, che diventiamo nazione, che siamo uniti.
Non finiscono qui i momenti di solidarietà. Oltre a quelli più recenti, già citati, non posso non pensare agli «angeli del fango» che a Firenze – ma poi lo stesso appellativo verrà usato in altre occasioni, come a Genova e Parma nel 2014 – aiutarono a ricostruire la città sommersa dal fango che l’alluvione del 1966 aveva depositato. E salvarono anche opere d’arte, libri e testimonianze culturali inestimabili. Perché noi siamo questo. Forse distratti, forse persi nei nostri interessi particolari, ma poi pronti ad accorrere senza pensarci.
Gli italiani, insomma, hanno sempre dimostrato con i fatti un fortissimo sentimento di comunità: da nord a sud. L’anomalia non è questa. Qual è allora? È quella che si registra, rispetto alla normalità degli altri grandi Stati nazionali, con la disaffezione nei confronti dello Stato e delle istituzioni. Già, purtroppo gli italiani credono poco nello Stato. E questo per una serie di conclamate questioni storiche che hanno fatto sì che la loro fiducia ogni tanto sia stata davvero mal riposta. Forse è l’eredità d’essere la nazione dei mille campanili. O forse d’essere figli di un grande impero che è crollato, come se la parte più grande del nostro cammino di popolo fosse alle spalle e non davanti a noi. Questa sindrome del «grande passato» noi italiani la accusiamo più di tanti altri per l’enormità rappresentata dalla storia di Roma per l’umanità. Poi è intervenuta l’Unità d’Italia: snodo fondamentale della nostra storia, ma passaggio sofferto perché avvenuto di fatto più come un’annessione dei territori del Sud al Regno sabaudo che non come un’armonica ricomposizione di un’unica nazione. E ciò in parte ha contribuito ad alimentare questo scetticismo del popolo nei confronti dell’autorità dello Stato e delle sue élite, proprio come Giuseppe Tomasi di Lampedusa ha magistralmente cristallizzato nella massima del Gattopardo: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi».
E nel primo Novecento di cose ne sono cambiate. I repentini mutamenti di uno Stato liberale ben lontano dal suffragio universale, nel quale era rappresentata una ristretta parte della popolazione aristocratica e borghese; l’avvento del fascismo e poi la nascita di una Repubblica sorta proprio sulle macerie del regime: tutto in poco più di vent’anni. È come se dal 2000 a oggi avessimo avuto tutti questi continui cambiamenti: uno Stato che per tre volte muta completamente disconoscendo quasi tutto quello che c’era prima. Compreso il passaggio dalla monarchia alla Repubblica. Poi, certo, abbiamo avuto nel dopoguerra una prima fase luminosa – quella del «miracolo italiano» –, a cui è seguito però un lungo pantano determinato dal peggio della Prima Repubblica. E proprio questo momento storico è quello che ha segnato un enorme solco fra il popolo e il Palazzo.
Il risultato di tutto questo è un’Italia che ha un forte senso della comunità nazionale ma che diffida profondamente dei propri governanti, avendo la percezione – purtroppo spesso fondata – che chi governa non lo faccia nel nome della comunità, del suo bene e del suo futuro. E allora si innesca il circolo vizioso secondo il quale, se il comandante è inadeguato, scarso e menefreghista, allora i soldati si sentono svincolati dalle loro consegne. La sfida dell’Italia è proprio questa: riuscire a risolvere la sua grande contraddizione, avendo una classe dirigente, uno Stato che siano all’altezza del popolo italiano e del forte sentimento di unità che gli italiani hanno più volte dimostrato.
Non sarà facile recuperare la piena fiducia degli italiani nelle istituzioni. Troppe volte dopo la loro solidarietà sono rimaste le macerie. Per anni. Non solo in senso figurato. Perché, oggi, siamo costretti come Fratelli d’Italia a batterci in Parlamento per destinare le risorse del Recovery Fund anche alle zone terremotate del 2009 e 2016? Perché vediamo, come già in troppe altre occasioni, le casette provvisorie magari coperte di neve con gli abitanti disperati per degli aiuti che potrebbero ridare stabilità e futuro, che però non arrivano mai?
Forse non ci sentiamo popolo perché lo Stato a volte non ha rispettato il suo popolo. E non lo siamo perché c’è chi non vuole.
Quando il terremoto distrusse Avezzano nel 1915, il più grande intellettuale e comunicatore dell’epoca, Gabriele D’Annunzio, disse che gli italiani che accorrevano per aiutare erano il simbolo di un’Italia che poteva essere migliore e i libri che venivano fatti leggere a scuola raccontavano lo stesso. Pensate alle storie del libro Cuore di Edmondo De Amicis.
Quell’Italia era unita perché la cultura, la storia, l’educazione ci spingevano a esserlo.
E oggi? Quanti film raccontano dei volontari della Protezione civile? Non sarebbe una bella storia quella di due che si innamorano mentre salvano vite? Non sarebbe commovente seguire le vicende di uno studente universitario che scopre il suo posto nel mondo accorrendo ad aiutare sconosciuti che sono, come lui, italiani?
Eppure film simili non vengono girati.
E questo perché per troppi anni la cultura è stata in mano a una sinistra senza patria, a quella che, svendendo la nostra identità, ci ha voluto più deboli e meno capaci di essere popolo.
Tuttavia, nonostante decenni di propaganda anti-italiana, ancora c’è chi crede alla nostra nazione. Perché, in fondo, l’unica lezione che conta è quella di una vecchia canzone, che tutti conosciamo e che ci ripete ogni giorno: «Uniti, per Dio, chi vincer ci può?».
Siamo figli della nostra storia. Di tutta la nostra storia. Come per ogni nazione, il percorso che abbiamo fatto è complesso, molto più articolato e complicato di come lo si vorrebbe raccontare. So di entrare in un campo minato, ma non ho alcuna paura a ribadire per l’ennesima volta di non avere il culto del fascismo. D’altra parte, conosco ogni nome e ogni storia dei giovani sacrificati negli anni Settanta sull’altare dell’antifascismo. Talvolta solo per aver scritto un tema a scuola, e per questo condannati a morte. Questa violenza, culturale oltre che fisica, ha certamente generato in me una ferma ribellione nei confronti dell’antifascismo politico. Non lo nego affatto. Ma qui finisce il mio rapporto col fascismo. Davvero non saprei cos’altro aggiungere in più di quanto potrebbe fare, molto meglio di me, un qualunque storico che volesse analizzarne le caratteristiche e l’impatto su una società di quasi cent’anni fa.
Se poi mi si chiedesse un giudizio sull’infamia delle leggi razziali, non potrei che rispondere raccontando le mie personali sensazioni all’interno dello Yad Vashem di Gerusalemme. O meglio, all’uscita.
Lo visitai durante un viaggio ufficiale in Israele, al quale partecipavo come ministro del governo italiano. Fui accolta con curiosità e rispetto dalle autorità israeliane, malgrado avessi voluto visitare anche un campo profughi palestinese. La fredda modernità della struttura museale dedicata alle vittime della Shoah, mi sarebbe poi apparsa stridente con l’atmosfera soffocante al suo interno. Un racconto devastante fatto di immagini, cose, suoni. La Sala dei Nomi conclude il cammino nel museo ed è l’essenza del percorso nella memoria. È costituita da due coni, uno sospeso in aria e l’altro alla sua base, riempito di acqua. E in quello spazio unico sono raccolti i volti e i nomi di chi perse la vita in quella follia, per sempre. Migliaia di fotografie, di storie, ed è come se fossero tutti lì a guardarti, a chiederti cosa tu sia disposto a fare per impedire che accada di nuovo. Così quelle vittime vivono ancora, in eterno. Perché la straordinaria legge del contrappasso dello Yad Vashem è proprio restituire la vita a chi è morto, restituire umanità a chi la perse brutalmente. Ripercorrendo la strada a ritroso: da numero a nome.
Credo che nessuno possa uscire da quel luogo essendo la stessa persona che vi è entrata.
Ho continuato a pensarci a lungo, domandandomi come fosse stato possibile quell’orrore. Un genocidio si consuma a piccoli passi, poco alla volta. Viltà dopo viltà. Fino ad arrivare alla completa disumanizzazione delle vittime, attraverso vignette all’apparenza innocenti, canzoncine offensive intonate senza pensarci, pettegolezzi diffusi sempre più insistentemente.
Si tratta del punto di caduta del genere umano, non ho dubbi su questo. E non è affatto scontato che non possa ripetersi in futuro, in qualunque parte del pianeta, nonostante la maggiore conoscenza a cui oggi il mondo può attingere con facilità. La persecuzione degli ebrei non venne perpetrata nell’ignoranza, ma sostenuta da intellettuali, filosofi, scrittori. Soprattutto in Germania, che mai come allora rappresentava il vertice planetario nell’economia, nel pensiero, nelle scienze, nella musica. Ma accadde anche in Italia, durante il fascismo, malgrado fossero ebrei molti dei protagonisti dell’ascesa di Mussolini, come tanti degli eroi italiani della Prima guerra mondiale. È qualcosa che non sono mai riuscita a comprendere, e credo valga lo stesso per molti italiani dell’epoca.
Nel vialetto dietro il Memoriale dei Bambini all’interno dello Yad Vashem, c’è un albero dedicato a Giorgio Perlasca. Poco distante c’è un’intera foresta in cui sono stati piantati diecimila alberi, a simboleggiare le vite degli ebrei da lui salvati in Ungheria. Perlasca non fu solo un fervente sostenitore del fascismo, una camicia nera, fu anche protagonista della guerra in Etiopia e un volontario nella guerra civile in Spagna al fianco di Franco. È lì che imparò lo spagnolo, che gli permise di fingersi console generale iberico, salvando migliaia di vite, mettendo a rischio la propria. Il paradosso che avvolge il miracolo di astuzia e coraggio compiuto da Perlasca è che sarebbe scivolato via, nel dimenticatoio delle umane vicende, se fosse dipeso dalla sua ritrosia o dalla cronaca antifascista nazionale. Se oggi conosciamo (in pochi) la sua storia è perché le persone salvate nel ghetto di Budapest non sono riuscite a dimenticarlo. Soprattutto le donne, quelle che poi sarebbero diventate madri e nonne, generando migliaia di bambini altrimenti mai nati. Che a loro volta diventeranno genitori e così via. È impressionante come un gesto di coraggio o di altruismo possa avere conseguenze così importanti, persino immortali. Come l’opposto, purtroppo.
Ed è qualcosa alla portata di ognuno, in ogni momento della Storia. È qualcosa che ci riguarda tutti.
Nel mio viaggio in Israele, come in quelli negli USA, nel Regno Unito, in Irlanda, in Francia, in Spagna, in Giappone, in Sudafrica e Kenya, e in tutti i luoghi che ho potuto visitare per conoscere popoli diversi e arricchire la mia anima, ho avuto il grande vantaggio di poter interloquire direttamente con molte persone, senza bisogno di un interprete. Potrebbe sembrare curioso che una persona come me, così legata alla sua appartenenza, sia, allo stesso tempo, appassionata di lingue straniere. Perché la verità è che il sogno della mia vita era fare, di mestiere, l’interprete. Alla fine del liceo tentai anche di iscrivermi alla scuola per interpreti e traduttori, ma dovetti rinunciare perché non potevo permettermela. Era a Trieste, aveva l’obbligo di frequenza e costava anche parecchio. E io, che già lavoravo per mantenermi e dare anche una mano a mia madre, dovetti rinunciare.
Comunque, in verità la mia passione per le lingue non è affatto distonica rispetto al mio legame con l’identità italiana. È invece proprio perché credo nel valore imprescindibile dell’identità che sono così curiosa verso gli altri. Delle lingue straniere mi appassiona tutto. La grammatica, l’etimologia delle parole e, soprattutto, le frasi idiomatiche, che dicono di un popolo quasi più della sua storia.
Io sono stata fortunata. Sono cresciuta sostanzialmente bilingue, parlando correntemente italiano e spagnolo, per via di quelle settimane d’estate passate da mio padre alle Canarie delle quali ho già raccontato. Mi sono convinta che chi impara una seconda lingua da bambino sia naturalmente portato, per il futuro, ad avere una dimestichezza con gli idiomi stranieri che gli altri non hanno. Non so se sia vero, ma per me è stato così. In fondo, se ci penso, non conosco tutte le regole grammaticali che mi consentono di parlare discretamente l’inglese e lo spagnolo e di cavarmela con il francese. Penso che la predisposizione verso le lingue straniere sia molto simile a quella che si ha per la musica. È un fatto di suono. Io non so dire, a volte, perché una frase in inglese mi suoni bene così, ma rimane che mi suona. Quindi per me le lingue sono soprattutto una questione di orecchio, e, di conseguenza, di educazione dell’orecchio a quel suono.
Così mi sono persuasa che non ci sia regalo più grande per un bambino di quello che gli si può fare insegnandogli da piccolino a parlare una lingua straniera. Ora, qui non cito conoscenze scientifiche, parlo per pura esperienza personale, e quindi prendete quello che dico con il beneficio del dubbio. Quando impari un’altra lingua da bambino, sei automaticamente portato a fare la cosa più preziosa che tu possa fare per parlare correttamente un idioma straniero: pensare in lingua. È questa la ragione per la quale mi sono imposta di fare in modo che Gigì imparasse l’inglese fin da piccola.
Certo, io sono sempre stata un’appassionata della materia e, come in tutte le cose alle quali mi appassiono, ci ho messo dedizione, testa, concentrazione. Mi iscrissi alle superiori da sola, alla disperata ricerca di un diploma in lingue, in un tempo nel quale il linguistico era solo privato. L’unica opzione fu iscrivermi all’allora Amerigo Vespucci, poi diventato Ernesto Nathan, un professionale per il turismo, sperimentale, che conferiva la maturità linguistica. Qualcuno, negli anni, ha ironizzato sui miei studi, sì, anche su quelli. Ma sono fiera di aver fatto quella scelta. Se vuoi una cosa devi andartela a prendere, anche a costo di sacrifici o rinunce. Così, dopo il primo anno, mi sono ritrovata in una sede distaccata sulla Nomentana, che dalla Garbatella significava, tra andata e ritorno, circa tre ore di autobus al giorno. Poco male, alla fine anche quei lunghi viaggi per me sono stati un modo per fare didattica. Con il mio walkman giallo non ho mai smesso di ascoltare musica, e tanta parte di inglese l’ho appresa così. In fondo, non posso dire di aver imparato le lingue solo grazie alla scuola, anzi. Molto di questo lavoro l’ho fatto piuttosto da autodidatta. Ho imparato l’inglese perché volevo capire il significato dei testi delle canzoni di Michael Jackson, e di molti altri. Ho perfezionato il francese perché volevo leggere le opere dei poeti decadenti in lingua originale, dal momento che la traduzione toglie sempre qualcosa. Lo spagnolo, invece, come ho detto, mi serviva a sopravvivere in quelle estati passate alle Isole Canarie. È stato così da ragazza, ed è così ora. Perché il problema con gli idiomi stranieri è che non devi mai smettere di esercitarli. La musica è ancora oggi il mio principale metodo di allenamento, ma ce ne sono altri: ad esempio, quando guardo un film straniero per la seconda volta, lo vedo in lingua originale, sottotitolato in inglese. Leggo i testi di tutte le canzoni che amo, quando non ne comprendo appieno il senso. Con Andrea, che da ragazzo ha vissuto per qualche anno in Francia, a volte parliamo in francese per esercitarci. Con la tata di mia figlia, l’insostituibile Betty (Ginevra la adora, e noi anche, e non smetterò mai di dirle grazie), in casa parliamo inglese. Insomma, ogni occasione per ripassare, per me, è buona.
Alla fine questa mia passione giovanile, e non, si è rivelata un passepartout per molte delle cose che ho fatto nella mia vita. Particolarmente, nella costruzione di una rete internazionale di alleanze e amicizie che, di recente, mi ha portato a essere eletta alla prestigiosa carica di presidente del Partito dei Conservatori e Riformisti Europei, che a sua volta racchiude quarantaquattro partiti conservatori europei e occidentali. Poter parlare direttamente in inglese, magari al telefono o via messaggio, con i colleghi britannici del Tory, i polacchi del PIS, gli israeliani del Likud, i repubblicani americani o i liberali australiani, e allo stesso tempo in spagnolo con Santiago Abascal, leader di Vox, il partito spagnolo praticamente gemello di Fratelli d’Italia, ha reso molto più semplice e immediata la gestione del ruolo.
Da questo punto di vista io vengo considerata una mosca bianca, insieme a pochi altri, nel panorama politico italiano. Non solo in patria, ma anche all’estero, dove mi sono spesso sentita dire: «Parli bene inglese per essere italiana». Ogni volta mi ha fatto male e ho risposto stizzita. Ma purtroppo è la verità. Sono ancora troppo pochi gli italiani che parlano correttamente almeno l’inglese, e, ci piaccia o no, nel nostro mondo globalizzato questa grave lacuna compromette molte opportunità soprattutto per i nostri ragazzi. E il paradosso è che mentre non ci preoccupiamo di quanto i nostri giovani siano indietro in questa materia, nello stesso tempo cerchiamo di darci un tono abusando di inglesismi, di termini che non ci appartengono, arrivando persino a dare alle leggi prodotte dal Parlamento della Repubblica italiana nomi inglesi. Un’altra espressione di certo ridicolo, vuoto provincialismo. Per come la vedo io dovrebbe essere il contrario. L’inglese andrebbe insegnato obbligatoriamente fin dalla scuola materna, e bene, e in parallelo dovremmo difendere l’uso della lingua italiana – la cui importanza non è riconosciuta neanche nella Costituzione, altra battaglia di Fratelli d’Italia – ai massimi livelli delle nostre istituzioni, e in Europa, dove non è inserita tra le lingue di lavoro.
Certo, da molti mesi ormai questa, come molte altre, sembra una battaglia surreale. Dall’inizio del 2020 il tempo pare sospeso, inghiottito dalla pandemia di coronavirus che ha investito tutto il mondo e che ha stravolto le nostre esistenze. In Occidente, l’Italia è stata la prima a essere colpita e, ancora una volta, gli italiani hanno risposto con una disciplina, un amore e una generosità che hanno stupito tutto il mondo e tutti gli osservatori.
Lo si accetti o no, il COVID ha avuto sulle nostre esistenze l’impatto di un uragano. Ha spazzato via centinaia di migliaia di vite, milioni di aziende e di posti di lavoro, e più o meno tutte le certezze che avevamo. E non intendo, per certezze, solo quelle di chi per una vita si era costruito con sudore un futuro poi scomparso in pochi mesi, ma anche le conquiste basilari della nostra civiltà. A un certo punto ci siamo resi conto che cose che abbiamo sempre dato per scontate, in fondo, non lo erano affatto. La democrazia, ad esempio, che qui da noi proprio con la scusa del COVID è ancora sospesa. Il presidente Mattarella, nell’annunciare che avrebbe chiesto a Mario Draghi di assumere l’incarico di formare il nuovo governo, ha argomentato proprio con il rischio contagio l’impossibilità di votare. Come se il diritto del popolo di scegliere da chi farsi guidare, soprattutto in un momento come questo, fosse una pratica di secondaria importanza. Come se la democrazia fosse meno vitale di lavorare, comprare vestiti, andare dal parrucchiere, tutte attività che in quei giorni, in Italia, si continuavano a portare avanti.
E, ancora di più, non possiamo dare per scontata la nostra libertà. Il diritto fondamentale degli esseri umani per eccellenza, quello dal quale dipendono tutti gli altri, si è infranto contro il muro dei DPCM, gli atti amministrativi con i quali Giuseppe Conte prima, e Mario Draghi dopo, hanno deciso se e quando potevamo uscire di casa, e dove potevamo andare quando lo facevamo. Abbiamo dato per scontato che fosse inevitabile, che la salute dei cittadini andasse tutelata pagando qualsiasi prezzo, anche quello della nostra libertà. Ma siamo sicuri che uno di questi diritti possa essere completamente sacrificato sull’altare dell’altro? Io no. È una riflessione che devo a Maria Fida Moro, la figlia di Aldo, che a un certo punto ha sottoscritto l’appello di Fratelli d’Italia rivolto, al tempo, contro la deriva liberticida dei famigerati decreti di Conte e dell’esecutivo rossogiallo che sospendevano persino i principi costituzionali. «Il governo faccia al meglio il proprio lavoro, cosa che fin ora non ha saputo fare, invece di tiranneggiare sugli italiani» si leggeva nella sua lettera, dove esorta – riprendendo le nostre battaglie – a non rassegnarsi al fatto che in nome del contenimento dell’epidemia un popolo abbia rinunciato alle sue libertà fondamentali. Perché, se è verissimo che uno non se ne fa nulla della libertà se è compromessa la sua vita, vale la pena di ricordare che è vero anche l’esatto opposto: gli uomini liberi non sono disposti a barattare in nome della salute la propria libertà. Perché allora staremmo dicendo – come ha affermato Maria Fida Moro – che i nostri eroi, morti sacrificandosi per la libertà, non avevano capito niente.
È stato necessario e comprensibile prendere provvedimenti drastici all’inizio della pandemia, quando non sapevamo con cosa ci stavamo confrontando. Ma l’interrogativo, se volete «filosofico», ora è d’obbligo. Per quanto tempo può essere imposto a un popolo libero il coprifuoco? O la chiusura dei luoghi pubblici, o il divieto di incontrarsi tra amici e parenti, o il permesso per lavorare e studiare? Lo stato di eccezione non può durare all’infinito, né può passare il concetto che davanti a un’emergenza sia consentito limitare la libertà dei cittadini e derogare ai principi democratici. È tempo di mettere fine a questa parentesi di «eccezione» e tornare alle regole di convivenza democratica sulle quali si fondano le società occidentali. Lo Stato deve indicare delle prescrizioni utili al contenimento dell’epidemia, delle regole da rispettare, dei protocolli anticontagio. Protezioni individuali, distanziamento, eccetera. Questo gli compete ed è utile che faccia. Ma non è nel potere del governo, né dello Stato tutto, limitare a tempo indeterminato le libertà fondamentali dei cittadini.
La terza cosa apparentemente scontata alla quale abbiamo dovuto rinunciare è stata la socialità. Stare insieme, magari abbracciarsi, persino baciarsi, insomma quell’insieme di abitudini senza le quali i nostri rapporti non possono davvero definirsi umani. E se questa privazione impatta in modo significativo sulla vita degli adulti, diventa addirittura devastante su quella dei giovani. Già prima della pandemia dovevamo fare i conti con la difficoltà delle nuove generazioni a vivere i loro rapporti umani senza lasciarli filtrare dallo schermo di un computer o di uno smartphone. Io ho due nipoti, Vittoria e Rachele, rispettivamente di dodici e dieci anni. Semplicemente, le adoro. Sono belle, intelligenti, brillanti. Sono esattamente come si vorrebbe che fossero i propri figli. Non ho dedicato loro il tempo che avrei voluto, e quando riusciamo a stare un po’ insieme cerco di recuperare le mie mancanze come zia. Eppure, non è facile per noi entrare nel loro mondo, comprenderlo fino in fondo. Non è facile interagire secondo i nostri schemi. L’impressione che ho, quando guardo Vitto e Rachi, così come tanti altri ragazzini e ragazzi, è che, qualsiasi cosa di rilevante abbiano da dirsi, preferiscano dirsela attraverso le chat, i social, i messaggi. Al riparo. Come se non avessero il coraggio necessario ad affrontare le loro emozioni guardando l’altro negli occhi. Sono capaci di stare fisicamente insieme nella stessa stanza e parlarsi attraverso i telefonini, in silenzio. E se credo che questa tendenza dovesse spaventarci prima della pandemia, oltre un anno di reclusione e didattica a distanza, con molte scuole chiuse, le palestre serrate, l’impossibilità di uscire per stare un po’ insieme, rischia di portare le nuove generazioni a un punto di non ritorno. E il paradosso è che, invece di interrogarci sul perché abbiamo consentito che i giovani fossero i più sacrificati dal COVID, quando chi era maggiormente a rischio erano gli anziani, abbiamo quasi sempre scaricato su di loro le responsabilità. Il coprifuoco alle ventidue per impedire la movida, i soloni che ci spiegavano in tv come la seconda ondata fosse figlia delle discoteche aperte in agosto – quando era e rimane chiaro che la colpa era soprattutto di un governo che non si era adeguatamente preparato durante i mesi estivi, ad esempio potenziando i mezzi pubblici – hanno trasformato, nell’immaginario collettivo, quelli che sul piano sociale, a lungo termine, saranno le principali vittime della pandemia nei più accreditati tra gli untori.
Il coronavirus, certo, ha impattato pesantemente anche sulla mia, di esistenza. Ricordo la paura dei primi mesi, quel senso di ansia dato dal fatto di non sapere con cosa tu abbia a che fare. Credo di essere stata tra i primi a chiamare Roberto Speranza per chiedere informazioni, durante i primi giorni di gennaio del 2020, quando il problema era circoscritto a Wuhan, in Cina, e a tutti pareva troppo lontano perché potesse coinvolgerci. Ero suggestionata dal ricordo di uno dei più bei romanzi che abbia letto in vita mia, L’ombra dello scorpione di Stephen King, che inizia proprio con un virus influenzale sfuggito da un laboratorio che in sessanta pagine, e poche settimane, stermina la quasi totalità della popolazione umana. Gli dissi: «Roberto, questa roba cinese del virus ricorda sinistramente un libro che ho letto da ragazza. Semplificando, morivano quasi tutti. Che notizie abbiamo?». Speranza mi rispose che no, non si trattava di un virus come quello narrato da King, ma la situazione era delicata e la stavano monitorando. Gli dissi di tenermi aggiornata e, ovviamente, di contare su di noi per quello che poteva servire. La mia inquietudine era amplificata dal fatto che c’era un’incredibile incongruenza tra le scene che arrivavano dalla Cina e il racconto che si faceva in Italia. Ricordate? Giungevano sui nostri schermi le immagini dello Stato cinese che circondava le città con l’esercito, di gente bardata come qui si vedeva solo nei film, della popolazione chiusa in casa e della sanificazione di massa delle città. Una situazione che colpiva ancora di più sapendo che la Cina non si fa prendere facilmente dal panico, non ha un’attenzione alla salute e alla vita umana paragonabile a quella che conosciamo in Occidente e non è famosa nel mondo per gli elevati standard igienico-sanitari. E quindi, se i cinesi stavano adottando quelle misure così drastiche, voleva forse dire che eravamo davanti a qualcosa di molto grave, a un’apocalisse? È quello che provavo a chiedere ai nostri ministri. A fronte di tutto questo, invece, il nostro governo – all’epoca il Conte II – ci spiegava che non bisognava farsi prendere dal sensazionalismo e dall’allarmismo, perché era tutto sotto controllo. «Siamo prontissimi» ci rassicurò Conte. Era l’epoca nella quale noi proponevamo di prevedere la quarantena per tutti coloro che arrivavano o rientravano dalla Cina. Il motivo, in quel frangente, era chiaro: se quelle sono le scene che ci arrivano, non sappiamo con che cosa abbiamo a che fare. Serviva, insomma, grande prudenza. E invece? Sono partite subito le accuse di razzismo e demagogia nei nostri confronti, assieme a tutte quelle sceneggiate che ricordiamo bene: l’aperitivo ai Navigli di Milano con Nicola Zingaretti, la campagna «Abbraccia un cinese» e le sardine che ammonivano con un intelligente «Anche il razzismo è un virus», le trasmissioni televisive con gli involtini primavera consumati come spot antidiscriminazione, gli «influencer» a lanciare sconsiderate rassicurazioni urbi et orbi. E infine, per non farci mancare nulla, gli stessi virologi «star» che parlavano del COVID come di una «semplice influenza». A completare il quadro, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ripresa anche dalle nostre autorità, ci istruiva circa l’inutilità delle mascherine e il fatto che solo chi aveva sintomi concreti poteva trasmettere il virus. Ovviamente era tutto sbagliato. Un mese dopo quella telefonata a Speranza il virus si era diffuso anche in Italia. Non sarebbe stata un’apocalisse, ma il più terribile shock dalla fine dei conflitti mondiali, con esiti drammatici per la salute e l’economia nazionali e mondiali.
Ricordo il ministro Speranza venire a riferire in Parlamento sulla situazione comunicando che non c’era motivo di allarme. Per lungo tempo il COVID è stato gestito come se l’evidenza che ognuno aveva sotto gli occhi non ci fosse. Ancora una volta la realtà piegata alla cieca ideologia, o al tornaconto. Nel giro di poco, però, la situazione è precipitata e abbiamo assistito a un radicale cambio di rotta fatto di chiusure totali e provvedimenti che hanno provato a inseguire una situazione ormai fuori controllo. Di colpo la realtà non si poteva più nascondere.
Tutto questo mi ha fatto venire in mente gli scritti di Nassim Nicholas Taleb, l’autore del famoso Il cigno nero. Di come cioè l’uomo si illude che la realtà che conosce solo negli ultimi anni sia destinata a rimanere immutata per sempre, invece di essere cosciente del fatto che l’imprevisto è parte della storia e della vita. E che per questo la differenza fra chi sopravvive agli imprevisti e chi ne viene travolto è data dalla capacità di rimanere sempre pronti ad affrontare un repentino cambiamento dello stato delle cose. L’Italia, è evidente a tutti, non era pronta a fronteggiare questa emergenza. L’Occidente non lo era. Quando è arrivato il «cigno nero» del COVID di colpo abbiamo scoperto che in Europa non si producevano mascherine né dispositivi sanitari per affrontare l’emergenza: nemmeno i guanti in lattice. Di più. Abbiamo scoperto di non essere padroni della produzione medica perché gran parte delle nostre medicine ha dei principi attivi prodotti fuori dai confini europei, prevalentemente in India. Non avevamo un piano pandemico aggiornato in Italia e l’UE, nonostante la produzione quotidiana di norme su ogni aspetto dell’umano, non aveva la minima strategia per fronteggiare l’imprevisto, anche se ampiamente «previsto» da anni dagli analisti e dai virologi. L’Unione Europea, ancora una volta, ha messo a nudo tutta la sua fragilità e la sua inadeguatezza a fronteggiare le grandi sfide della nostra epoca. Davanti alla pandemia, certo: ma lo stesso accadrebbe di fronte a un grande evento naturale o storico. A qualunque cosa esca fuori dalla routine della sua burocrazia.
Riprendo le puntuali osservazioni di Giulio Tremonti, che, riflettendo sul COVID, non si è fermato a ragionare sulla natura del virus «esperimento di laboratorio sì, esperimento di laboratorio no», ma è partito dal dato reale: la pandemia è sicuramente un esperimento della storia degli ultimi trent’anni. Perché un contagio scoppiato in un mercato di animali vivi di Wuhan, in una zona rimasta nelle più oscure retrovie della civilizzazione, con la globalizzazione incontrollata ha immediatamente coinvolto il mondo intero. Un mondo globalizzato e non pronto. «Questa volta il mostro è arrivato nella forma di un virus» ha osservato Tremonti sui Quaderni del CNEL. «Nella forma di un virus globale che dimostra e/o causa la intrinseca fragilità del mondo globale. Un virus che pone termine (o quasi) al fantasmagorico, felice ma artificiale trentennio della globalizzazione. Un virus che già ora altera, ed altererà in futuro e di molto, il disegno dell’ingegneria sociale finora applicata al mondo globale. Ed è questo un cambio radicale nel paradigma finora positivo e progressivo della globalizzazione.»
Di questo anno mi rimarrà soprattutto il senso di frustrazione per non essere riuscita a fare abbastanza, per non essere stata ascoltata, per non aver potuto dare risposte sensate a chi mi chiamava per chiedere aiuto, perché anche se sono all’opposizione per loro, giustamente, io rappresento il potere decisionale. C’è chi mi chiama per chiedere l’interpretazione di decreti incomprensibili, o le ragioni di misure totalmente prive di senso, chi si lamenta perché non riusciamo a farle correggere, e c’è chi mi ha confessato di piangere per il terrore del futuro, di notte, di nascosto dai figli. Ho passato parecchie notti insonni anche io, cercando soluzioni spendibili. Ho approfondito, studiato, insieme agli altri dirigenti e parlamentari di Fratelli d’Italia. Ci siamo dati la regola di non fare mai una critica senza avanzare anche una possibile soluzione. Non è servito a molto, perché le nostre proposte sono sempre – o quasi – state ignorate dal governo, in particolare da quello di Conte. A loro le nostre ricette non interessavano semplicemente perché arrivavano da noi, e poco importa se l’Italia stava affondando, per loro era più importante poter dire che l’opposizione era irresponsabile, e accogliere le nostre proposte – dicendo implicitamente che erano serie – sarebbe stato distonico con quel racconto.
Sintomatico di questo atteggiamento è stato quando abbiamo cercato di capire l’entità del fenomeno COVID a inizio pandemia. Ricordo che eravamo nella fase in cui da una parte c’erano coloro i quali dicevano «Stiamo morendo come mosche» e che i numeri che emergevano erano solo la punta di un iceberg; e dall’altra c’era chi diceva esattamente l’opposto: «Ci stanno terrorizzando, il COVID è solo un’influenza». Erano i giorni drammatici delle bare portate via a Bergamo dall’esercito: non potevamo stare fermi e in silenzio. Dovevamo dare delle risposte certe agli italiani. Per questo dissi personalmente a Giuseppe Conte, nel corso di un incontro a Palazzo Chigi tra governo e forze di opposizione, che c’era una sola cosa da fare immediatamente per capire che cosa stesse succedendo: confrontare il numero assoluto di morti in Italia nei primi mesi del 2020 con i decessi dello stesso periodo degli anni precedenti. Regione per regione, comune per comune. Stavamo avendo un incremento della mortalità in Italia oppure no? E di che entità? Come impattava il virus, e su chi impattava maggiormente? Lo abbiamo chiesto e richiesto al governo. Non ci hanno risposto. E allora abbiamo fatto l’unica cosa che potevamo fare: i calcoli li abbiamo fatti da soli. Grazie all’Ufficio Studi di Fratelli d’Italia capitanato dall’ottimo Francesco Filini – certo non avevamo i mezzi e le strutture a disposizione del governo – abbiamo preso i pochi dati pubblici disponibili, li abbiamo elaborati e con questi abbiamo realizzato uno studio consultabile da tutti. La fotografia emersa era inquietante: un’impennata di morti in determinate zone circoscritte d’Italia, Lombardia su tutte, e la constatazione che, se il virus si fosse diffuso nello stesso modo su tutto il territorio nazionale, avrebbe prodotto una vera ecatombe.
Allo stesso tempo, però, era affiorato un altro dato importante: la quasi totalità dell’aumento dei decessi riguardava le fasce più anziane. La letalità del COVID decresce col decrescere dell’età, diventando quasi irrilevante per i più giovani senza patologie gravi. Cominciavamo a scoprire i punti deboli di quel nemico «sconosciuto» che stavamo affrontando. Nemico subdolo che colpiva i più fragili e i nostri anziani. Un dato poi confermato in modo molto più puntuale dall’ISTAT e dall’Istituto Superiore di Sanità e che oggi rappresenta un assunto che sentiamo ripetere anche da chi, al tempo, lo negava.
Sulla base dello studio che avevamo realizzato, già ad aprile del 2020 presentammo in conferenza stampa le nostre proposte di contrasto dell’epidemia. A distanza di molti, troppi, mesi rimangono sostanzialmente le stesse.
La prima è che ogni sforzo deve essere rivolto a mettere in sicurezza gli anziani e le persone più fragili, attraverso una capillare assistenza domiciliare, con orari riservati negli uffici pubblici, alla posta, nei supermercati. Offrendo a chi lo volesse la possibilità di un alloggio sicuro in albergo o in appartamento, meglio se in piccoli centri meno esposti al contagio. E poi, certo, cure mediche a domicilio, priorità assoluta per i vaccini.
Abbiamo detto che bisognava intervenire sui principali fattori di trasmissione del virus, primi fra tutti i mezzi pubblici, rafforzandoli grazie al coinvolgimento del trasporto privato: taxi, NCC, bus turistici, di fatto inutilizzati.
Abbiamo chiesto un rigoroso controllo di chi arriva dall’estero e ovviamente di fermare l’immigrazione illegale di massa. Non siamo stati ascoltati. Non è stata messa in campo un’azione specifica per gli anziani e ci è stato detto che il virus non viaggiava sui mezzi pubblici e nemmeno sui barconi degli immigrati. La risposta del governo Conte, e poi del governo Draghi, è stata quella più facile: le chiusure.
Metropolitane strapiene, frontiere spalancate, ma bar, ristoranti, palestre, musei, cinema, negozi chiusi. A quel punto il COVID si è fatto una grande risata, ha ringraziato il governo per la collaborazione e ha continuato a correre. E a uccidere.
Uccidere i nostri anziani, uccidere i più fragili. E uccidere la nostra economia, migliaia di imprese, milioni di posti di lavoro. Mi sono rimaste impresse le scene strazianti della giovane ristoratrice seduta a terra con le mani sulla testa, quelle di commercianti e artigiani che non riescono a trattenere le lacrime davanti ai giornalisti. I sacrifici di una vita spazzati via. È questa l’inaccettabile contraddizione di una situazione che ci dipingono come una «guerra» per imporre chiusure e restrizioni, ma che poi una guerra non sembra quando vengono buttati miliardi di euro in cose inutili invece di mettere in sicurezza il nostro tessuto produttivo e i nostri posti di lavoro. Perché se siamo nel mezzo di un conflitto non è accettabile sperperare risorse nel cashback e nella lotteria degli scontrini, nel bonus monopattini, il bonus vacanze, i navigator, i viaggi in business class a Dubai per le delegazioni ministeriali, i banchi a rotelle, le mille regalie inutili. E soprattutto non è accettabile che il coronavirus sia diventato una mangiatoia per i soliti noti, guarda caso del solito circuito vicino alla sinistra. La magistratura stabilirà se ci sono stati dei reati ma, reati o meno, trovo schifoso e indegno il modo in cui sono stati spesi i soldi della gestione commissariale dell’emergenza: mascherine pagate il triplo del prezzo di mercato, affidamenti opachi dati a imprese fantasma, milioni e milioni di euro di commesse e consulenze. Mentre il popolo italiano dava il meglio di sé, con i suoi volontari, i suoi medici e infermieri, con i farmacisti rimasti aperti pur senza protezioni, le cassiere a rischiare ogni giorno, con l’abnegazione delle nostre forze armate e forze dell’ordine, il Palazzo mostrava tutto lo squallore della peggiore gestione clientelare. Anche per questo non avrei mai potuto andare al governo con chi si è reso complice di tutto ciò.
Nessuno mi toglie dalla testa che Conte e la sua maggioranza, i 5 Stelle soprattutto, abbiano attraversato la crisi pandemica con l’occhio più attento alla curva dei sondaggi che a quella dei contagi. Devono aver pensato che il COVID, in fondo, fosse anche un’opportunità. Le conferenze stampa sapientemente piazzate nel fine settimana a ridosso del tg serale, con una costanza tale che a un certo punto non capivi più se Conte facesse le conferenze per raccontare i DPCM o piuttosto i DPCM per garantirsi una nuova apparizione. E poi le frasi a effetto studiate, anche contro di noi, e i dati sul numero di spettatori diffusi dall’ufficio stampa con toni trionfalistici. Come se gli italiani guardassero quelle conferenze di Conte per adesione, e non invece perché, in un’Italia nella quale era stata sospesa anche la Costituzione, il presidente del Consiglio era diventato legge lui stesso, e ascoltarlo era l’unico modo per conoscere i propri diritti.
Mi colpirono molto le prime parole di una telefonata con Giuseppe Conte all’inizio della seconda ondata.
«Ciao Giorgia, come stai?» «Preoccupata, Giuseppe.» «Perché?» «Come perché, per la situazione...» «Aaah... Vabbè ma noi siamo messi meglio degli altri...» «Se lo dici tu...» A volte ho invidiato la sicurezza dell’ex premier, quella fiducia nelle proprie capacità che sconfinava nell’incoscienza. Io, se mi fossi trovata a dover scegliere tra rischiare di condannare a morte ventimila persone o rischiare di condannarne alla morte economica cinquecentomila, con una decisione, non sarei probabilmente stata in grado di mantenere quella freddezza. Ma lui ha capito prima di tutti che di fronte a una minaccia esterna i cittadini si attaccano alla bandiera, si affidano alle istituzioni. Per questo era certo di trarre un vantaggio, in termini di popolarità personale, da quella tempesta. E, per quanto io lo consideri un comportamento cinico, non aveva torto. Utilizzando quel periodo drammatico è riuscito a costruirsi uno spazio tutto suo, che oggi lo porta alla guida di un non-partito come i 5 Stelle.
Se sul piano politico quest’ultimo anno è stato tragico, perché ho vissuto e vivo appieno l’angoscia della nazione, dall’altra parte, nella dimensione privata, l’emergenza COVID mi ha fatto sperimentare una quotidianità quasi normale, che prima non conoscevo. Per me anche solo stare tre mesi di fila a Roma, come accaduto durante il primo lockdown, senza mai prendere un aereo per raggiungere un’altra città, è stata una novità assoluta. Pranzare a casa in settimana, un’altra. Poter giocare con mia figlia più volte durante il giorno, la più bella tra queste novità. Nel dramma del lockdown aver potuto vivere Ginevra ogni giorno, quasi tutto il giorno, è stato l’unico vero dono. Anche se io non ho mai smesso di andare a Montecitorio a lavorare, perché in casa con lei non era facile. Ricordo durante il lockdown l’ufficio deserto, il palazzo spettrale. E ricordo Roma, come di giorno non l’avevo mai vista e come spero di non rivederla mai più.
Di questi mesi strani mi resterà per sempre la consapevolezza del valore del tempo, e la certezza che niente va dato per scontato, perché tutto, ma proprio tutto, può cambiare da un giorno all’altro.
a. Lascia che il cielo cada / Quando si sbriciola / Resteremo in piedi / Lo affronteremo insieme.
Aggredire il declino
Povera patria
Schiacciata dagli abusi del potere
Di gente infame, che non sa cos’è il pudore
Si credono potenti e gli va bene quello che fanno
E tutto gli appartiene.
Franco Battiato, Povera patria
Io ho una sfortuna mondiale con le vacanze. Probabilmente il mio karma ritiene che il mio compito sia lavorare, sempre e comunque, senza soluzione di continuità, perché sta di fatto che ogni volta che provo a prendermi una pausa succede qualche tragedia, o qualche casino. Ormai sono arrivata a un punto tale che se penso di organizzare le vacanze mi monta l’ansia. Quando decisi di prendermi qualche giorno per visitare Londra, l’Italia fu colpita dal terribile attentato di Nassiriya. Rimasi talmente scossa che decisi di rientrare subito per partecipare ai funerali e portare la mia vicinanza alle famiglie delle diciannove vittime italiane. Quando Andrea mi regalò un fine settimana a Parigi per esaudire il mio desiderio di vedere l’enorme mercato di Natale che viene allestito ogni anno agli Champs-Élysées (io sono un’appassionata di mercatini di Natale) ci fu l’attentato islamista del Bataclan, e mi ritrovai praticamente a fare il corrispondente di quella tragedia. Lo scorso anno, con un’estate già tutta sacrificata alla campagna elettorale (si votava in sette regioni il 20 settembre), mi presi la libertà di una settimana nel Sud della Sardegna con un piccolo gruppo di amici, ma il giorno prima di partire ricoverarono d’urgenza mia madre che rischiava di morire. Ne potrei raccontare altre, ma non lo farò, per paura che diciate che porto iella. Posso dire però che un mio amico che lavorava all’unità di crisi del ministero degli Esteri a un certo punto, in luglio, mi chiamò e mi disse: «Giò, dove vai in vacanza quest’anno, che così organizzo i rinforzi?». Scherzava, ma neanche troppo.
Il più clamoroso di questi episodi di scalogna si consumò nell’estate del 2019. Ginevra aveva quasi tre anni e, dopo la gravidanza e le estati passate a gestire una neonata, pensai che forse potevo provare a organizzare una vacanza. Io ho il brevetto da sub e, quando viaggio, i posti mi piace vederli sopra e sotto la superficie del mare. Ma non sono mai riuscita a coronare il mio sogno di vedere dal vivo gli squali balena. Appartengono alla famiglia degli squali, ma come le balene sono grandissimi, innocui e si nutrono di plancton. Non è facile incontrarli, perché migrano seguendo il loro cibo, e infatti io li ho sempre mancati, a volte per un soffio. Ma in alcuni posti del mondo è più facile riuscire a immergersi con quegli enormi, e bellissimi, squali giganti. Uno di questi è Isla Mujeres, nello Yucatán messicano. Così, nel 2019 decisi che in agosto sarei andata in Messico, via USA. La partenza era prevista per l’8 del mese, e io ero così contenta di quel viaggio che avevo passato i due mesi precedenti a pensare, mentre mi addormentavo, a cosa avrei dovuto mettere in valigia. Quella data per me era diventata una specie di traguardo. Ovviamente, non avevo fatto i conti con il mio karma avverso alle vacanze.
Intorno al 5 agosto, mentre io ero ormai felicissima e contavo le ore che mi separavano dalla partenza, cominciarono a spirare venti di crisi di governo. Eravamo in pieno esecutivo gialloverde, che sarebbe passato al secolo come Conte I. Matteo Salvini e la Lega avevano iniziato a mostrare segni di irrequietezza sempre più evidenti, e si diceva che il Capitano fosse ormai giunto alla conclusione che quell’esperienza era finita. Il 7 agosto, alla vigilia della partenza, le voci si erano fatte così insistenti che cercai Matteo per sapere se fossero vere. Non rispose, segnale inquietante. Provai a chiedere lumi ad altri esponenti della Lega, ma neanche loro risposero. Panico. Alle dieci di sera decisi di gettare il cuore oltre l’ostacolo e preparai la famosa valigia. La mattina seguente ero così eccitata che mi svegliai alle cinque. In uno slancio di ottimismo, non pensavo più alle tensioni interne al governo Conte.
Presi un volo Roma-New York. Neanche a farlo apposta, appena mi accomodai sul sedile dell’aereo Ginevra, seduta accanto a me, mi guardò e mi disse: «Mamma, ma perché tu mi lasci sempre sola?». I bambini sanno benissimo quando piazzare la frase che ti rimarrà in testa per l’eternità. In quel momento, però, ero troppo euforica e le risposi con un rassicurante «Non preoccuparti, amore, nei prossimi giorni staremo sempre insieme». Lei mi abbracciò, e ci mettemmo a giocare con dei pupazzetti a forma di animale che si colorano con appositi pennarelli. Dopo qualche ora mangiammo, e ci addormentammo entrambe. Dormii non più di un paio d’ore, e quando mi svegliai notai che il telefono era strapieno di messaggi. Avevo attivato il wi-fi, disponibile sui voli intercontinentali, e quel pullulare di chat mi sembrò molto sospetto. L’ansia tornò a montare. Quando alla fine ebbi il coraggio di leggere, trovai la conferma delle mie paure. Il governo Conte stava cadendo. Proprio in quel momento. Non mesi prima come avrebbe meritato per la sua inconcludenza, non di lì a quindici giorni quando sarei tornata, ma proprio il giorno in cui ero partita con la mia famiglia. Lo ammetto, ho pianto su quell’aereo. Di un pianto isterico che tradiva la stanchezza accumulata e il senso di colpa verso la mia bambina, che avrebbe dovuto rinunciare ancora una volta alla sua mamma. Per farla breve, in Messico non ci sono mai arrivata. Gli squali balena rimangono ancora una chimera e quell’agosto l’ho passato tra casa mia e le consultazioni al Quirinale. Manco a farlo apposta, convocate proprio nel giorno in cui era prenotata la famosa immersione.
Di tutta la storia della Repubblica italiana, che di colpi di scena sicuramente non difetta, questa rimane la legislatura più pazza.
Sembra preistoria ma, se ci pensate, solo tre anni fa abbiamo battezzato questa diciottesima legislatura con un piccolo trauma, per l’Italia e l’Europa, cioè proprio il governo gialloverde, un esecutivo sovranista-populista che si presentava come un’esperienza di rottura. Ricorderete come quello shock fu accompagnato da estenuanti trattative e momenti di altissima tensione fin dalle indiscrezioni sulla sua composizione. Ricordo quando Sergio Mattarella si oppose a Paolo Savona come ministro dell’Economia, perché lo considerava troppo distante da certa ortodossia europea, e si impose per assicurare il ministero dell’Economia e delle Finanze a una figura di «garanzia». Quella decisione mi fece andare su tutte le furie, anche se non avevo alcun ruolo nella scelta di Savona come ministro. Semplicemente, non credevo e non credo rientri nelle prerogative del capo dello Stato impedire al governo di dettare la sua linea politica anche attraverso la scelta dei ministri, ovvero di chi deve occuparsi di una certa materia. Il presidente Mattarella, evidentemente, riteneva che il Conte I avesse come obiettivo quello di scardinare gli equilibri e lo status quo in Italia e in Europa, e intervenne per impedirlo, forzando, dal mio punto di vista, il suo ruolo.
Le cose, però, non andarono come Mattarella temeva e come molti italiani, invece, auspicavano. E noi di Fratelli d’Italia fummo tra i pochi a prevederlo. Scegliemmo di non far parte di quell’esperienza di governo, che pure nasceva con un consenso e uno slancio enormi, e ammetto che non fu per niente una scelta facile. A differenza di quello che è poi accaduto all’atto della nascita del governo Draghi – in tutte le nostre riunioni interne la decisione di restare all’opposizione fu votata all’unanimità –, quando nacque il governo gialloverde in molti, tra i nostri, spinsero perché Fratelli d’Italia facesse parte di quell’avventura. In alcuni momenti titubammo, perché la spinta a entrare, anche da parte di tanti dei nostri elettori, era fortissima. Tra tutti io ero probabilmente la più contraria, ma non ero serena. Sapevo che restare fuori da quello che si presentava come un governo di rottura poteva essere una scelta fatale, e già alle elezioni politiche il nostro risultato non era stato poi così esaltante. Avviai dei confronti, per essere certa che stessi facendo la cosa giusta. Ne parlai con Luigi Di Maio, nel mio ufficio, un pomeriggio di maggio. Lui, candidamente, mi disse che, nel caso in cui avessimo voluto far parte della maggioranza con loro e la Lega, si sarebbe detto favorevole solo a patto che il presidente del Consiglio fosse stato un esponente dei 5 Stelle, perché la nostra presenza avrebbe spostato troppo a destra l’asse della maggioranza e avendo loro anche una forte base di sinistra (oggi direi soprattutto una forte base di sinistra) era necessario riequilibrare. La condizione, ovviamente, era per noi irricevibile, e ringrazio Di Maio per avermi reso la scelta più facile da fare e da giustificare all’interno di Fratelli d’Italia. Ne parlai più volte anche con Salvini. Che prima mi chiese di entrare nel governo, probabilmente anche per alzare il prezzo con i grillini, e poi mi disse che, se anche avessimo scelto di entrare, la nostra presenza non sarebbe stata accettata. Insomma, alla fine riuscii a fare quello che io pensavo fosse giusto fare, anche grazie a loro.
Perché ero così contraria, intimamente, a far parte di un’esperienza di governo che si presentava come giovane, di rottura con gli schemi del passato, e con un consenso enorme, in partenza? Semplice. Perché oltre alle ubriacature del momento, di cui l’Italia è facile preda, conoscevo i 5†Stelle, e coglievo la differenza che c’era, e c’è, tra un soggetto populista come il M5S e una realtà sovranista – intesa come forza patriottica – che invece è ciò che rappresenta Fratelli d’Italia. Le due cose, il populismo e il sovranismo, sono state spesso raccontate come un tutt’uno. In realtà sono opzioni ben distanti tra loro. Semplificando, il sovranismo è l’idea che la sovranità debba essere riconsegnata ai popoli e agli Stati nazionali, in un’epoca nella quale si vorrebbe delegare ogni potere decisionale a indistinte entità che travalicano gli Stati, scollegate dal controllo e dalla volontà dei cittadini. In quanto tale, il sovranismo è una precisa visione del mondo e delle cose. Il populismo è l’esatto contrario. È l’antivisione, l’idea che il ruolo della politica sia assecondare l’umore della gente, inseguire le pulsioni del momento, rincorrere la società invece di guidarla. E il Movimento 5 Stelle è la forma, in assoluto, più riuscita di populismo; più che un partito, quello di Grillo è una specie di flacone del vuoto a perdere: un contenitore che puoi riempire di volta in volta con quello che vuoi, a seconda di cosa ti serve. Per questa ragione Di Maio & Co. sono capaci di passare, senza battere ciglio, da antieuropeisti convinti a soldati schierati in difesa degli equilibri europei tanto cari alla burocrazia di Bruxelles. Nel giro di pochi mesi, infatti, quelli che dovevano aprire il palazzo «come una scatoletta di tonno» sono diventati i più fervidi sostenitori dell’establishment. Anzi, sono diventati, essi stessi, l’establishment.
Il premier perfetto per un movimento così non poteva essere altri che Giuseppe Conte, anche detto Barbapapà, perché esattamente come il cartone animato della mia infanzia è in grado di assumere qualsiasi forma in base a ciò che gli viene richiesto dalla convenienza del momento. E la chiusura del cerchio di questo scenario è data proprio dall’avvento di Mario Draghi: sembra un paradosso, ma se ci pensate non lo è, che proprio il Parlamento che ha i 5 Stelle come partito maggioritario sia iniziato con la promessa di un governo di rottura e sia poi finito col portare a Palazzo Chigi Mario Draghi, cioè il rappresentante, il garante se vogliamo, degli equilibri nazionali e sovranazionali esistenti. Proprio quelli che in campagna elettorale il M5S prometteva che avrebbe scardinato. È per questo che non ho compreso la scelta dei miei alleati di centrodestra, e in particolare di Matteo Salvini, di seguire i grillini in questo percorso. Perché non considero la Lega un movimento populista e queste alleanze così variegate non mi sembrano naturali per loro. Ma non voglio giudicare le legittime decisioni dei miei alleati. In fin dei conti non è la prima volta che le forze di centrodestra prendono strade diverse in frangenti complessi. Alla fine non è stato mai un problema insormontabile. Anzi, l’eterogeneità dei partiti che compongono la nostra coalizione è sempre stata per noi un punto di forza, non uno svantaggio. E credo che sarà così anche stavolta.
Eppure, quello che è successo in Parlamento in questa legislatura – lo penso e l’ho ribadito in più di un’occasione – ha dell’incredibile. E non si può dare per scontato che sia tutto normale, inevitabile. Così, io credo che per tentare di dare un senso a tutto questo si debba provare a guardare gli eventi con un margine sufficiente di distacco dalle beghe della quotidianità. Provare a rimettere insieme i pezzi di un puzzle e vedere se alla fine ne viene fuori un quadro chiaro, anche se quel quadro dovesse risultare inquietante.
Si comincia, come ho scritto, con il M5S che raccoglie oltre il 30 per cento dei consensi alle elezioni politiche spacciandosi come forza antisistema e promettendo che non avrebbe fatto accordi con nessun altro partito. Poi cambia idea e si lancia in un’alleanza forzata, una specie di OGM con la Lega. Il governo dura poco più di un anno e Salvini lo manda, giustamente, a casa accorgendosi che con i grillini non è possibile fare alcuna rivoluzione. Quando l’esperienza grillo-leghista si frantuma, il M5S ci mette poche settimane a dare vita a un nuovo governo. Con chi? Con quelli che aveva presentato come i suoi peggiori nemici fino a quel momento, ovvero il Partito Democratico, il «partito dei ladri e di Bibbiano». Si è trattato, probabilmente, di una scelta dettata dalla disperazione, dato che i grillini nel giro di quindici mesi avevano perso ogni credibilità e già dilapidato più di metà del loro consenso. Ma anche di una scelta dettata dall’illusione di poter far pesare il fatto di essere in Parlamento la prima forza di maggioranza, nei confronti di un partito in pieno stato confusionale com’era quello guidato da Nicola Zingaretti. Insomma, credevano di poter dettare l’agenda politica a un PD «spalla» di Conte, Di Maio e Azzolina.
Questa suggestione, che a una lettura ingenua poteva pure funzionare, si è scontrata presto con la dura realtà: i 5 Stelle non avevano considerato che il PD rappresenta quello che gli americani chiamerebbero il deep State, lo Stato profondo. Era prevedibile, dunque, che alla prima occasione si sarebbe passati da un governo a guida 5 Stelle – con Conte e Casalino a fare da mattatori – a un governo nel quale il M5S non conta più niente. E che cosa è accaduto, infatti? Giuseppe Conte è stato accompagnato alla porta con l’avallo di spezzoni determinanti del centrosinistra. Ne approfitto per dirlo qui: non ho nulla di personale contro Conte. Riconosco, anzi, che non avendo mai governato nulla ha dimostrato una grande abilità tattica. Così come enorme abilità ha dimostrato il suo Rasputin, Rocco Casalino, tanto spregiudicato e capace da riuscire a creare intorno a un perfetto sconosciuto un vero e proprio fenomeno comunicativo. Ma che lo Stato profondo, alla prima occasione, si sarebbe liberato di questo signor nessuno e del suo ingombrante portavoce – con la loro velleitaria convinzione di avere in mano una nazione intera – era un’eventualità che stava nell’ordine delle cose. A maggior ragione dopo un anno di gestione di un evento imprevisto come il COVID, dove Conte, abile nel cercare di crearsi un’opportunità politica grazie all’esercizio dello stato di emergenza, come molti altri uomini ha finito per peccare di delirio di onnipotenza, con quello che ha comportato in termini di bulimia comunicativa, uso distorto e spregiudicato dei DPCM, e gestione dissennata e irresponsabile delle ingenti risorse che il Parlamento gli aveva messo a disposizione.
L’avvento di Mario Draghi non è che questo: il ritorno alla «normalità». E gli stessi che applaudivano il «populista» Conte, oggi si spellano le mani per l’ex presidente della BCE. Nei corridoi di certa politica è stato un attimo passare da «Conte o morte» a «Conte è (politicamente) morto». È questa l’enormità della vicenda. Ma forse in Italia siamo talmente abituati ad avere a che fare con il trasformismo che non riusciamo più a stupirci nemmeno di una cosa tanto grottesca.
Capiamoci. Con Mario Draghi ci sentiamo tutti, io per prima, più rassicurati nell’avere alla guida della nazione una persona con grande esperienza e grande prestigio internazionale, piuttosto che un intraprendente improvvisato come Giuseppe Conte. Ma la democrazia dov’è? Davvero basta un buon curriculum per arrivare alla guida di una nazione sovrana senza chiedere ai cittadini di quella nazione cosa ne pensino? Hanno definito quello di Draghi il «governo dei migliori», e chiaramente non lo è, perché sfido chiunque a dire che Di Maio sia il migliore ministro degli Esteri possibile per l’Italia, o che Speranza abbia meritato la riconferma al ministero della Salute, ma anche se lo fosse il problema resterebbe. Chi decide quali siano i migliori per governare una nazione, e sulla base di quali parametri? Il titolo di studio, o magari l’aspetto fisico, la capacità comunicativa, l’empatia con il popolo, il censo come accadeva oltre un secolo fa? Quali parametri possono considerarsi oggettivi? Per duemila anni la civiltà occidentale si è interrogata su questo, e la risposta che alla fine si è data è che i «migliori» da cui farsi governare, indipendentemente da tutto, sono coloro che vengono scelti dai cittadini in libere elezioni. Per un principio semplice: perché chi viene scelto dal popolo, almeno sulla carta, risponderà al popolo, mentre chi viene imposto dall’alto, con metodi più o meno legittimi, risponde ad altre logiche.
Questo interrogativo riguarda, ovviamente, anche Mario Draghi. L’autorevole ex governatore della Banca d’Italia ha assunto il compito di guidare il nostro Paese nella crisi per difenderne gli interessi, o per garantire altro? Nella mia mente, la risposta a questa domanda ancora non c’è.
In compenso, sono chiari altri elementi di questa vicenda, e non sono rassicuranti. Provo a raccontarlo con una metafora. L’Italia è una nave che naviga in piena tempesta, e quella nave ha un capitano, Conte, chiaramente inadeguato. Decidono allora di sostituirlo con un capitano di lungo corso dalle doti universalmente riconosciute. Solo che l’equipaggio resta lo stesso, la tempesta si fa sempre più forte e oltretutto non è più chiaro sotto quale bandiera questo nuovo capitano intenda navigare. Draghi è il capitano patriota che issa alta la bandiera tricolore e difende la nave Italia, i suoi interessi e la sua solidità, o è piuttosto il capitano imposto da altri affinché la nave Italia sia rimessa sulla rotta reputata giusta in qualche altra capitale europea, o extraeuropea? Non è una differenza da poco. Non per noi. Un Draghi patriota potrà sempre contare su Fratelli d’Italia, anche dall’opposizione. Un Draghi garante di interessi diversi da quelli dell’Italia invece troverà FDI a sbarrargli la strada. L’ho detto anche a lui, quando l’ho conosciuto in occasione delle consultazioni che hanno preceduto la nascita del suo governo. Mi è parso che, in cuor suo, apprezzasse la nostra genuina franchezza.
Io penso che l’unico «governo dei migliori» in cui dovrebbe sperare l’Italia sia un governo di patrioti. Di persone tanto coraggiose e innamorate di questa nazione da non essere disposte a barattarla per nulla e nessuno. Eccola la vera rivoluzione di cui avrebbe bisogno la nostra nazione. Eccola la missione di Fratelli d’Italia e, per come la vedo io, dell’intero centrodestra.
Perché in fin dei conti la dinamica politica e storica di quello che sta succedendo in Italia è in realtà piuttosto semplice se, anche qui, la si guarda con distacco, come potrebbe fare un osservatore esterno. Quando una nazione di media potenza vive una fase di debolezza – è purtroppo il caso dell’Italia dal 2011 a oggi – è giocoforza sottoposta alle ingerenze degli Stati vicini. Questo crea, all’interno di quella nazione in difficoltà, un confronto politico tra chi reputa che sia meglio collaborare con il vicino ingombrante e porsi in una prudente posizione di subordinazione, e chi invece rivendica la piena sovranità e indipendenza della nazione. In alcuni contesti questa contrapposizione degenera in scontri sanguinosi, in altri rimane, fortunatamente, nell’ambito della dialettica politica. In Italia questo scontro si manifesta tra chi rivendica «più Europa» e chi si definisce patriota. Da una parte chi è convinto, magari persino in buona fede, che la giusta posizione dell’Italia sia quella di Stato subalterno a un’UE in mano all’asse franco-tedesco, dall’altra chi rivendica invece per l’Italia un ruolo di pari dignità con gli altri Stati fondatori dell’UE. Semplificando, da una parte il PD, partito «collaborazionista» delle ingerenze straniere, dall’altra Fratelli d’Italia, il movimento dei patrioti. E sono convinta che sarà sempre più questo il bipolarismo dei prossimi anni in Italia. Già, perché in fondo la sinistra, ma non solo lei, pensa che gli italiani non siano in grado di «rigare dritto» da soli, e che per questo serva una sorta di azionista occulto con diritto di veto sulle scelte nazionali che ci insegni come redimerci dai nostri atavici peccati.
Ecco, io non sono d’accordo. Credo che i nostri dirimpettai siano troppo precisi nell’occuparsi dei propri interessi nazionali per rivolgere un aiuto sincero e non viziato dal loro egoismo alle nostre alterne vicende. Credo che gli unici che possano tirare fuori l’Italia dalla sua difficile situazione siamo noi italiani, con un po’ di rinnovato coraggio e amor proprio.
Ricucire il rapporto tra popolo e Stato è il compito storico che ci appartiene. Un movimento di patrioti serve a interpretare autenticamente lo spirito della nazione, a difenderne gli interessi culturali, strategici ed economici. E in una nazione divisa e frammentata il compito dei patrioti è prima di tutto quello di ricucire le tante ferite che abbiamo ereditato. Ricordo le tesi fondative di Alleanza Nazionale affermare con coraggio che andava ricomposta una memoria storica condivisa che superasse le grandi fratture della storia italiana recente. Eppure oggi non bastano più: un movimento di patrioti deve avere soprattutto una visione di lungo periodo, difendere l’identità italiana come la casa sicura dove allevare i nostri figli e dare loro un futuro di serenità, sicurezza, giustizia e prosperità. L’individuo è troppo solo in questo grande mondo, e il mondo intero è troppo vasto e meravigliosamente ricco di diversità per farne la propria dimora. Il «cittadino del mondo» altro non è che colui che, rincorrendo l’illusione di poter fare del mondo intero la sua casa, a un certo punto si riscopre un «senzatetto». Per questo abbiamo ancora bisogno di patrie. Soprattutto nella nostra epoca.
Voglio dedicare ogni mia energia a questo «noi» che è l’Italia, senza il quale una frase come «Io sono Giorgia» mi risuonerebbe vuota, banale e priva di senso. Ma è un macigno da portare sulle spalle, non lo nascondo. A volte penso a quanto sarebbe più facile disinteressarmi di tutti i grandi problemi che affliggono la mia terra, non chiedermi cosa ne sarà del futuro di questo bizzarro popolo che siamo, e pensare solo al «giardino di casa mia». Ricordo una grandiosa provocazione di Vittorio Feltri in una trasmissione televisiva. Si parlava di immigrazione, e al suo interlocutore che continuava ad accusarlo di avercela coi migranti Feltri disse, con quel fare che solo lui può permettersi, qualcosa che suonava più o meno così: «Ma che volete che me ne freghi a me se questi sbarcano o no, io vivo in una bella casa, sono pure benestante, più entrano meglio sto, questi lavorano per due soldi, a me sta benissimo. Lo dico per quei poveracci di italiani che vivono nelle periferie, mica per me». Quel genio di Feltri era riuscito, in poche parole sarcastiche, a rendere un concetto complesso e profondo che chiunque altro avrebbe provato a spiegare, in modo decisamente meno efficace, con una frase del tipo: «Vorrei poter guardare alle cose pensando solo al mio personale tornaconto, ma non ci riesco, purtroppo». Ovviamente l’interlocutore del direttore di «Libero», il solito opinionista di sinistra, non capì il sarcasmo e si dichiarò indignato per le parole che aveva sentito.
La verità è che, se credi di poterti disinteressare alle sorti della tua nazione, la realtà arriverà presto a infrangere questa illusione. Anche qui, lo racconto con una diapositiva della mia vita. Un paio di anni fa, un giorno d’estate, ero a pranzo al mare a Maccarese. Non era ancora epoca di COVID e restrizioni. Tra noi c’erano due bambine: Lucrezia, figlia di miei amici di lunga data, e Ania, figlia di una coppia di simpatici polacchi che avevo conosciuto quel giorno. Le due bambine, che si erano incontrate in quel momento, per una strana coincidenza non solo avevano la stessa età, ma erano nate esattamente lo stesso giorno. Lucrezia crescerà in Italia. Ania in Polonia. Sapete cosa è emerso parlando di loro due quel giorno? Che Ania, da adulta, vivrà probabilmente in uno Stato più ricco di quello nel quale vivrà Lucrezia. Ania avrà, quindi, maggiori opportunità lavorative e un migliore contesto sociale. Capito? Proiettando i dati sulla crescita economica, tra pochi decenni la Polonia potrebbe avere un reddito pro capite superiore a quello dell’Italia. Una cosa semplicemente impensabile fino a qualche tempo fa. L’Italia, che era una delle massime potenze europee, oggi rischia di essere superata da nazioni che una volta erano molto al di sotto della sua ricchezza.
Io non ci sto. Non voglio rassegnarmi al declino della nostra nazione. E non lo farò, costi quel che costi. Per il bene di mia figlia, perché lei e gli altri giovani italiani non si trovino costretti, un giorno, a lasciare la loro terra in cerca di una vita migliore, come milioni di italiani dovettero fare in passato. Non lo farò per la profonda riconoscenza che nutro nei confronti di chi ha reso grande l’Italia nei secoli, per poi guardarci dilapidare quel patrimonio. Non lo farò, semplicemente, perché amo la mia patria nonostante lei, a volte, faccia di tutto per allontanarci. Lavorerò, invece, perché questa nazione torni a pensare in grande, cosciente dei suoi immensi punti di forza. Mi batterò perché riacquisti consapevolezza del fatto che la caduta si può arrestare, che può tornare a crescere, a correre e a volare, come ha fatto, contro ogni aspettativa, negli anni del «miracolo italiano».
E sono convinta che non servano idee geniali e trovate strabilianti. Basterebbe la giusta dose di dedizione, serietà e buon senso. Insieme al coraggio necessario per scardinare un sistema che conviene a pochi, a discapito di tutti gli altri.
Non intendo riproporre qui l’intero programma di Fratelli d’Italia; chi ha deciso di leggere questo libro ed è arrivato fin qui, all’ultimo capitolo, non lo ha fatto per ritrovarsi quello che può facilmente reperire sul sito del partito (andateci però, se vi va: ci troverete le tesi dell’ultimo congresso di FDI, i nostri programmi e molti documenti a mio avviso utili e interessanti). Tuttavia ci tengo a tratteggiare velocemente, per chi sta leggendo, un’idea di Italia possibile. Quella in cui credo e per la quale mi batto insieme a molti altri.
Di sostegno alla famiglia, al lavoro femminile, alla natalità ho già parlato a lungo. Potrei tediarvi per altre trecento pagine sullo stesso argomento. Non lo farò (stavolta). Ma voglio ripetere almeno che questa dovrebbe essere la nostra assoluta priorità. Non lo è, e non me ne capacito.
Quella che già cento anni fa Gramsci chiamava «questione meridionale» è ancora oggi la più grande ferita nazionale. Le profonde differenze che sussistono tra le diverse zone della nostra nazione sono vergognose e inaccettabili. Io mi preoccupo del Mezzogiorno d’Italia non perché sia ancorata a una vecchia idea statalista, assistenzialista e meridionalista. È vero esattamente l’opposto. Penso allo sviluppo del Sud come a un elemento imprescindibile per una grande riscossa nazionale. Penso con ammirazione, e anche con invidia, a come la Germania abbia gestito la fase della riunificazione a partire dagli anni Novanta, a come abbia dedicato ogni energia a riassorbire le regioni dell’Est liberate dal comunismo. Uno sforzo enorme, sostenuto anche dalla generosità europea, degno di un grande popolo. È quello che vorrei vedere in Italia per il nostro Mezzogiorno. La fragilità economica del Sud è, per paradosso, una grande opportunità per tutta l’Italia, perché rende maggiore il potenziale di crescita che la nazione ha nel suo complesso. Puntando seriamente, e senza intenti caritatevoli, sullo sviluppo delle zone più in difficoltà, non solo del Sud, potremmo ottenere tassi di crescita complessivi superiori a quelli dei nostri vicini europei. Servono infrastrutture, investimenti pubblici, sostegno a chi ha il coraggio di investire e assumere in contesti difficili. Il Mezzogiorno ha bisogno delle precondizioni per poter crescere, non di elemosina. Per questo mi avete visto arrabbiata tante volte quando negli ultimi anni è stato offerto come prospettiva di crescita al Sud solo il peggio delle politiche assistenzialiste. Partiamo da una cosa molto concreta: dedicare il 50 per cento della spesa in infrastrutture al Sud, invece dell’attuale 30 per cento circa, quando va bene.
Il tema dell’arretratezza infrastrutturale non è purtroppo un problema solo del Sud, ma ormai dell’intero territorio nazionale. Da troppi anni abbiamo smesso di pensare al futuro e di spendere in investimenti pubblici. Fratelli d’Italia è stato il primo partito a parlare chiaramente della differenza tra «spesa buona» e «spesa cattiva», tanto di moda negli ultimi tempi. Quando per anni il dibattito era tra i rigoristi sostenitori dell’austerità cara all’UE e i fanta-keynesiani del terzo millennio con la loro teoria naïf per cui «il debito non esiste, più si spende meglio è», solo noi argomentavamo che non tutto il deficit è uguale. Il problema non è «deficit sì» o «deficit no», ma «deficit per farci cosa». Come una famiglia fa bene a indebitarsi per il mutuo della casa dove vive e fa male a firmare cambiali per andare in vacanza alle Maldive, così uno Stato fa bene a fare deficit per realizzare infrastrutture, ammodernare la nazione, costruire ospedali, mettere in sicurezza il territorio, e sbaglia a indebitarsi per aumentare la spesa corrente improduttiva, magari per finanziare il «bonus diciottenni».
Infrastrutture da costruire, ma anche da mettere al servizio degli italiani, non di interessi stranieri o di qualche potentato economico. Fratelli d’Italia è l’unico partito del panorama italiano che ha messo al centro della sua azione politica il tema della proprietà delle infrastrutture strategiche. È una questione molto ostica da affrontare, soprattutto perché difficilmente se ne parla. Sarà forse perché quei gruppi finanziari che traggono enormi benefici dalla gestione delle infrastrutture investono pesantemente anche nell’editoria, col risultato che gran parte dei giornali e del cosiddetto mainstream evita di informare l’opinione pubblica su queste materie. Invece in tutte le grandi nazioni esiste una vera e propria cultura della proprietà pubblica sulle articolazioni vitali all’esistenza stessa dello Stato. In pochi sanno che in Francia a partire dal 1997 è nata un’autentica «scuola di guerra economica» (École de Guerre Économique) che ha tra i suoi obiettivi quello di formare una classe dirigente e studiare strategie di difesa del tessuto produttivo nazionale da eventuali aggressioni estere, assumendo il ruolo di una vera e propria intelligence economica. Non sarà sfuggito a chi segue attentamente le dinamiche economiche all’interno dell’UE che da anni la presenza francese nel tessuto produttivo italiano si è rafforzata, andando a occupare ruoli di primo piano anche nelle aziende e nelle infrastrutture strategiche, di recente persino assumendo il controllo della Borsa italiana. Su questi dossier il nostro senatore Adolfo Urso conduce, anche in seno al COPASIR, con determinazione e coraggio, una battaglia da autentico patriota. Ci sono degli asset che gli Stati nazionali si tengono ben stretti, perché sono giudicati vitali per l’esistenza stessa della nazione. In Italia negli ultimi decenni è – diciamo così – mancata l’attenzione verso questo grande tema, e quando invece l’attenzione c’è stata, non erano italiani gli interessi che venivano tutelati. Un giorno, quando avrò la forza per farlo, su questa questione proporrò l’istituzione di una commissione di inchiesta, per scoprire chi è stato troppo distratto e chi troppo accondiscendente, e non escludo che, a un certo punto, potremmo trovarci di fronte al più grande scandalo della storia d’Italia.
Negli anni Novanta in Russia i pozzi di petrolio e i giacimenti di gas finivano in mano agli oligarchi, in Italia succedeva la stessa cosa con le nostre infrastrutture. Invece di «liberare» l’economia e i settori produttivi dall’eccessivo controllo statale, si è preferito privatizzare, o meglio svendere. Certa politica ha letteralmente regalato agli amici degli amici interi pezzi di nazione, ottenendo in cambio finanziamenti e posti di lavoro. Così sono nati i monopoli privati sulle infrastrutture strategiche, grazie ai quali fortunatissimi «oligarchi» nostrani comodamente seduti su «pozzi di petrolio» hanno prosperato per decenni. Senza dare nulla in cambio alla collettività. Il risultato è che noi che abbiamo inventato il telefono con Antonio Meucci oggi siamo l’unica nazione europea a non avere la proprietà della rete di telecomunicazioni. E che una civiltà famosa nel mondo per i ponti e le strade che era in grado di costruire vede oggi crollare ponti e strade come accaduto con la tragedia del ponte Morandi. Come abbiamo permesso che tutto questo succedesse? Perché, nonostante l’iniziale indignazione e rabbia per le quarantatré vittime di Genova e le promesse dei governanti, nulla è veramente cambiato da allora? Oggi, se vogliamo tornare a essere una grande nazione, non abbiamo alcuna alternativa: dobbiamo invertire questo processo perverso. Nella visione di Fratelli d’Italia lo Stato italiano è proprietario e ha il controllo delle infrastrutture strategiche come porti, aeroporti, ferrovie, autostrade, reti di telecomunicazione, reti idriche, elettriche e digitali. La gestione di queste può poi essere pubblica o privata, purché sia sempre garantita la tutela dell’interesse nazionale. E di sicuro non sotto il controllo di potenze straniere. Idee rivoluzionarie, o autarchiche? Veramente funziona così in tutte le nazioni libere del pianeta.
E sì che ce ne sarebbero di opere da realizzare. Intanto, se è vero che ormai senza internet non si può fare quasi nulla, com’è possibile che intere zone d’Italia siano prive di un collegamento dignitoso? Portare la banda larga in tutto il territorio, anche nelle aree interne, per combattere lo spopolamento e creare condizioni tecnologiche favorevoli per la competitività delle aziende è il minimo che si possa pretendere dallo Stato.
Dovremmo sottoporre l’Italia a una massiccia «cura del ferro», e non sto parlando delle fiale amare che ci davano da bambini, ma della capacità ferroviaria per pendolari, merci e trasporti. Il trasporto su ferro è veloce, economico ed ecologico. È il futuro ancora più che il passato. La sfida è portare l’alta velocità e l’alta capacità ferroviaria dalla TAV fino a Lecce sulla dorsale adriatica e fino a Reggio Calabria, e poi ancora fino in Sicilia attraverso il ponte sullo stretto di Messina.
Perché una penisola al centro del Mediterraneo si comporta come se fosse la Svizzera e non avesse il mare? L’«economia blu» collegata al mare dovrebbe essere una delle nostre principali caratteristiche. Dovremmo, come minimo, avere un ministero del Mare. Dovremmo investire sulla portualità e i collegamenti retroportuali per intercettare il traffico merci generato dal raddoppio del canale di Suez, diventando una vera piattaforma logistica nel centro del Mediterraneo. Invece oggi le grandi navi provenienti da Oriente preferiscono arrivare fino in Olanda invece di sdoganare le merci in Italia, dove incontrerebbero mille difficoltà logistiche.
A volte penso che all’Italia servirebbe un bravo «mental coach», di quelli che ti spiegano le cose semplici che dovresti capire da solo: «Pesi centoquaranta chili, sei forte come un toro, ma non particolarmente agile, forse dovresti prendere in considerazione l’idea di giocare a rugby invece di fare ginnastica artistica». Perché continuiamo a non sfruttare i nostri punti di forza? L’Italia è la nazione con il marchio, il «brand» si direbbe, più riconoscibile al mondo. Il made in Italy è garanzia di qualità, ma anche di fascino e prestigio. Potremmo prosperare solo grazie a questo. La visione economica e di politica industriale italiana dovrebbe essere scontata: riconvertire progressivamente tutto ciò che non è identificabile con il marchio Italia in ciò che ha una forte identificazione. Tutto il nostro settore agroalimentare, certo, ma anche l’alta tecnologia, la cantieristica, la moda, il mobile e il design. Nessuno sarà disposto a pagare di più un bullone prodotto in Italia piuttosto che uno prodotto in Cina, ma tutti sono disposti a pagare profumatamente un paio di scarpe o un’automobile perché italiani. Già, il nostro glorioso settore automobilistico, finito con il gruppo FIAT-FCA prima furbescamente con sede in Olanda e Regno Unito e ora addirittura, con l’operazione Stellantis, sotto controllo francese. Uno scandalo che mette a rischio in Italia migliaia di posti di lavoro e tutte le imprese dell’indotto, avvenuto nel totale, e colpevole, silenzio di governo, grandi media e forze politiche. Tutti, tranne Fratelli d’Italia, ovviamente. Certo che siamo un partito scomodo, perché con noi al governo operare questo scempio non sarebbe stato così semplice. E chissà se è per questo che i giornaloni controllati dalla «galassia FIAT» ci dedicano così tanta attenzione...
Io definisco spesso Fratelli d’Italia un «partito fieramente produttivista». Ma per noi stare dalla parte delle imprese è una cosa ben precisa, e diversa da certa politica industriale che abbiamo visto in questi anni. Vuol dire sostenere chi produce e assume in Italia. Si può fare, se si ascolta il vero tessuto produttivo invece dei grandi potentati economici e finanziari. Le nostre proposte in questo campo sono numerosissime. Cominciamo col far pagare le tasse in base al principio «più assumi, meno paghi», in modo da agevolare chi crea posti di lavoro in Italia e penalizzare le multinazionali e i giganti del web che ben poco contribuiscono alla crescita economica della nazione. Perché chi fa impresa in Italia per noi è un eroe, a maggior ragione dopo il cataclisma COVID. Un eroe che va sostenuto in ogni modo, non trattato come un delinquente e un evasore. Meno tasse, meno oppressione fiscale, meno burocrazia, certo. Ma soprattutto più libertà e più rispetto da parte dello Stato.
Non è da nazione civile la barbarie dell’inversione dell’onere della prova in ambito tributario. Perché in Italia, se lo Stato sostiene che sei un evasore, non è lui che deve provarlo, ma tu che devi provare che non è vero. Questa non è lotta all’evasione, questo è il bullismo di uno Stato debole con i forti e forte con i deboli. La lotta all’evasione la si fa contrastando l’evasione delle banche, che trasferiscono utili e risorse nei paradisi fiscali, le sedi fintamente spostate all’estero, le finte cooperative care alla sinistra, le «frodi carosello» sull’IVA delle grandi aziende che distolgono miliardi all’erario. E contrastando le attività «apri e chiudi» dei cinesi, dei bengalesi e degli extracomunitari in generale. Attività che aprono come funghi, non pagano un euro di tasse e poi cambiano ragione sociale prima che lo Stato si faccia vivo. Così le imprese italiane chiudono e quelle straniere aprono. La soluzione c’è e l’abbiamo proposta: una cauzione per le imprese di extracomunitari come anticipo sulle tasse da pagare. Proposta sistematicamente bocciata dal Parlamento.
Così come la nostra proposta di adottare in Italia lo stesso limite al denaro contante che c’è in Germania e in gran parte d’Europa, dove, guarda un po’, non c’è alcun limite. Che credibilità ha sostenere che per combattere l’evasione bisogna abolire il contante, quando posso andare in Austria o in Germania e spendere tutti i soldi contanti che voglio? La verità è che la crociata a favore della moneta elettronica serve solo per fare l’ennesimo regalo al circuito bancario e finanziario, che guadagna su ogni transazione di denaro elettronico ma non sul contante, oltre che per controllare i cittadini. Proprio così. Abbiamo sentito i parlamentari grillini parlare di «spese immorali» e gli esponenti della sinistra dire apertamente: «Dobbiamo sapere chi spende e per cosa». Ecco, io penso invece che un cittadino libero abbia il diritto di spendere i propri soldi come meglio crede, senza dover dare spiegazioni a uno Stato guardone che ti spia dal buco della serratura.
Ci vuole meno Stato nella sfera privata delle persone e più Stato quando si esce di casa, perché solo le istituzioni possono garantire quella sicurezza che è una precondizione della libertà. Perché lo stesso Stato che pretende di controllare ogni nostra spesa e ogni nostra azione non controlla le piazze e le città dalla criminalità? Intere parti d’Italia sono zone franche in mano allo spaccio e alla delinquenza, le mafie controllano interi quartieri. Ecco, è lì che la forza dello Stato deve farsi sentire. Con maggiore presenza delle forze dell’ordine – che vanno rispettate, rafforzate, meglio pagate ed equipaggiate –, con telecamere nelle zone a rischio, anche con l’esercito quando serve. Perché a me le divise non spaventano affatto, mi spaventa invece chi si dice spaventato dalle divise. Come mi spaventano i gruppi di criminali che pensano di poter fare impunemente quello che vogliono. E spesso è purtroppo così. Perché la giustizia è un’altra grande malata della nostra nazione.
In questa pazza Italia, spesso, sono le persone oneste, più che i criminali, ad avere paura della giustizia. Penso che quello della giustizia non possa essere un tema da stadio e ho sempre volutamente disertato la curva degli ultras garantisti come quella degli ultras manettari. Diciamo che mi sento garantista nella fase del processo, e giustizialista in quella dell’esecuzione della pena. Ovvero, finché non si dimostra che sei colpevole devi avere tutte le garanzie e le tutele di uno Stato moderno, ma se si stabilisce che sei colpevole la pena la sconti eccome. Certezza dei diritti dell’imputato, certezza della pena del condannato. Oggi è esattamente l’inverso.
Sogno una giustizia alla quale il cittadino possa avvicinarsi, soprattutto se innocente, senza timore e senza subire la gogna mediatica nella fase delle indagini e dell’accertamento. Per farlo dobbiamo avere il coraggio di riformare la nostra giustizia. La magistratura è un potere che deve stare al di sopra di ogni sospetto, che non può essere frutto di uno scontro fra bande politiche, di lottizzazioni, di spartizioni che difficilmente consentono ai migliori di emergere.
Il clima da basso impero che impietosamente ci viene restituito dall’affaire Palamara impone una radicale, urgente, riforma della magistratura, a partire dal suo organo di autogoverno, il CSM. Lo dobbiamo fare non solo per ripristinare un clima di serena fiducia, ma lo dobbiamo soprattutto ai tanti magistrati italiani che hanno sempre svolto correttamente il loro dovere e che sono state le prime vittime, nelle loro carriere, del cosiddetto sistema Palamara.
E va ricucita una volta per tutte anche la dinamica tra impresa e lavoro, che in un tessuto fatto in gran parte di micro, piccole e medie imprese non può certo essere conflittuale come vuole una certa dialettica marxista sindacalizzata, ma deve invece essere improntata alla condivisione. Promuovere statuti ed esperienze di partecipazione dei lavoratori al destino della propria impresa, stimolare l’azionariato diffuso, incrementare le politiche di welfare aziendale in una stagione in cui gli enti pubblici fanno sempre più fatica a garantire prestazioni sociali di qualità, rafforzare il peso della contrattazione legata ai territori e alla dimensione aziendale per superare le rigidità dei contratti nazionali senza smarrire le tutele del lavoro. Sono questi solo alcuni dei punti di un rinascimento partecipativo che una nazione moderna, che fa della coesione sociale la sua cifra, deve perseguire.
Questo orizzonte ci parla del rapporto tra gli imprenditori e i loro dipendenti, di tutele, di garanzie.
Eppure c’è un’Italia che è completamente esclusa da questo orizzonte, quella di milioni di lavoratori autonomi, partite IVA, professionisti che sono l’emblema drammatico di una grande frattura da sanare: quella tra garantiti e non garantiti. La crisi COVID ha così tragicamente portato alla luce il fatto che, a fronte di una platea di dipendenti a cui sono stati correttamente assicurati per mesi blocco dei licenziamenti e cassa integrazione (anche se insufficiente, anche se pagata in ritardo), agli autonomi è stato riservato un trattamento vergognoso. Il futuro deve essere quello di un sistema di ammortizzatori sociali uguali per tutti: una forma di «assegno di disoccupazione» per chi ha perso il lavoro, dipendente o autonomo che sia, e un «assegno di solidarietà» minimo per tutti coloro che non possono lavorare per ragioni oggettive, in sostituzione della formula acchiappavoti e diseducativa del reddito di cittadinanza.
Argomenti che a volte sembrano distanti, ma che in realtà incidono direttamente sulla vita di ognuno di noi.
Vale anche per la politica estera, che già dal nome sembra riguardarci poco, e invece ha molto a che fare con la nostra sicurezza, il nostro benessere, i nostri approvvigionamenti energetici, il commercio, persino il nostro tenore di vita.
Occuparsi di politica estera significa per me in primo luogo promuovere e tutelare i nostri interessi nazionali. Per molti altri vuol dire invece fare i tifosi di questa o quella potenza economica. Noi di Fratelli d’Italia non siamo «filo» niente e nessuno, i fili ce li hanno i burattini. Noi guardiamo a ogni questione di politica estera sempre dalla prospettiva dell’Italia. E ho avuto modo di constatare che questa nostra caratteristica è molto apprezzata all’estero, molto più di chi fa la cheerleader con pon pon colorati, spillette e magliette, tipo la sinistra nostrana con Obama, Macron, Merkel o Biden. Mi viene in mente un aforisma di un re spartano citato da Plutarco: «Parlando con uno straniero che si vantava di essere considerato dai suoi concittadini un filospartano, il re gli disse: per te sarebbe meglio godere fama di patriota che di filospartano». In sintesi, comportati da patriota e ti tratteranno con rispetto, comportati da servo e ti tratteranno da servo.
Per troppo tempo la politica italiana si è concentrata solo sui fatti nazionali. Ha sottovalutato quanto sia importante incidere su quello che avviene al di fuori dei nostri confini per cambiare i destini della nostra patria.
Sono sempre stata attratta dai popoli fieri e orgogliosi del proprio passato e della propria cultura. Anche per questo motivo sono affascinata dal patriottismo degli americani e dal loro attaccamento viscerale alla bandiera nazionale. Non è più questione di essere pro o anti-USA, ma di riconoscere che Europa e Stati Uniti sono accomunati da un legame indissolubile e insieme devono cercare di vincere le sfide del futuro. Certo, l’America è complessa e per noi non sarà semplice confrontarci con quella di Joe Biden che, pronti via, ha già dato prova di quanto sia destabilizzante una visione ideologica dei presunti «diritti umani», usati un po’ qua e un po’ là per colpire nuovi nemici. Ma c’è un’America profonda rappresentata da settantacinque milioni di elettori che a novembre hanno votato per Donald Trump e che non possono essere ignorati come se fossero tutti degli esaltati con le corna e la pelliccia di bisonte. Molti dei loro argomenti sono anche i nostri. Con questa America profonda noi conservatori europei continueremo a rapportarci in modo sempre più stabile e proficuo.
Questa alleanza servirà in primo luogo a contenere l’ascesa della Cina e il suo espansionismo. Pechino sembra non avere più limiti. I suoi interessi spaziano dalle materie prime africane e dell’America Latina fino alle infrastrutture strategiche europee come i porti e le ferrovie. Sullo sfondo vi è la Belt and Road Initiative, la cosiddetta «Nuova via della seta» annunciata in pompa magna dal presidente Xi Jinping. Una colossale iniziativa che coinvolge più di sessantotto Stati nel mondo. Sono convinta che sia stato un gravissimo errore permettere la delocalizzazione in massa di interi comparti produttivi europei in Cina, ma che lo sia ancora di più perseverare nel voler trattare alla pari con una potenza che non gioca seguendo le stesse nostre regole.
Proprio per questa ragione, dobbiamo curare i rapporti con la Russia per evitare di consegnarla armi e bagagli a un asse con la Cina. Sarebbe devastante per gli interessi europei e occidentali. Certo, per volerlo bisogna essere in due e anche Mosca deve fare seri passi avanti verso la comunità internazionale. Ricordo spesso col sorriso quando Berlusconi veniva ad Atreju a raccontarci i momenti in cui, da presidente del Consiglio, si era adoperato per evitare la guerra tra Russia e Georgia. Non so se sia effettivamente andata così ma ricordo bene quello che venne chiamato lo «spirito di Pratica di Mare», quando alle porte di Roma si svolse un vertice NATO allargato alla Russia, in uno spirito di cooperazione cordiale e positivo. Quei tempi sono lontanissimi, ma la Russia è parte del nostro sistema di valori europei, difende l’identità cristiana e combatte il fondamentalismo islamico. Deve farlo in pace con le nazioni vicine, e gli Stati europei che confinano con il grande orso russo devono poter guardare al futuro con serenità senza il timore di veder tornare l’aggressiva politica imperiale di Mosca. Abbiamo bisogno di un equilibrio che assicuri una pace secolare, definitiva, tra Europa e Russia, e questo non si otterrà con la miope politica della contrapposizione muscolare tanto cara a Obama prima e a Biden adesso. Se riusciremo a farlo, con intelligenza, Occidente e Russia saranno entrambi più forti e sicuri. E il Dragone cinese sarà un po’ più solo.
La nostra storia e la nostra posizione geografica, poi, ci impongono di guardare prioritariamente al Mediterraneo. Sulle sue sponde, da troppo tempo ormai, si sta concretizzando il disegno neo-ottomano della Turchia di Erdoğan. Una Turchia che nel giro di pochi decenni è passata dall’essere uno Stato laico e musulmano moderato, a un Paese islamista sotto l’influenza del Qatar e dei Fratelli musulmani. Le trivellazioni illegali al largo di Cipro ai danni degli interessi italiani e francesi e l’intervento in Libia sono solo gli ultimi di una lunghissima serie di provocazioni e ricatti nei confronti dell’Europa. Ma la Turchia oggi ha esteso la sua sfera di influenza, ha inviato mercenari jihadisti a combattere in Nagorno-Karabakh, è sempre più presente nel Corno d’Africa. Ma soprattutto si è fatta promotrice dell’Islam politico, finanzia l’apertura di moschee e centri culturali islamici in tutta Europa. Ciononostante l’UE non ha ancora revocato definitivamente lo status di Paese candidato all’adesione. Penso sia il caso di dire no, una volta per tutte, all’ingresso della Turchia nell’Unione Europea. Questo non significa fare la guerra alla Turchia ma riconoscere che è per noi un soggetto terzo, distante dai nostri valori e dai nostri interessi, con cui magari potremo fare accordi commerciali ma non potremo condividere lo stesso spazio politico. Mi pare il minimo, francamente. E visto che Mario Draghi si è portato parecchio avanti definendo, a sorpresa, Erdoğan un dittatore, mi aspetto che sia coerente e che chieda lui, a Bruxelles, di fermare il cammino turco verso l’Unione Europea.
A sud delle nostre coste si trova il grande continente dimenticato, l’Africa, di cui ho già parlato. Con affetto, prima ancora che con rispetto. Come noto, il contrasto alle cause profonde dell’emigrazione dipende strettamente e direttamente dalla sua stabilità e dal suo sviluppo economico. Fino a quando non avremo restituito a questi popoli la stabilità politica e la sovranità economica saranno esposti a turbolenze di ogni tipo e all’imperversare delle milizie islamiste.
Già, perché il fondamentalismo islamico è un’altra piaga del nostro tempo. La sconfitta militare dell’ISIS in Siria e Iraq non lo ha debellato per sempre. Vive nelle cellule terroristiche dormienti in Europa, nelle milizie di Boko Haram, Al-Shabaab e molte altre in Africa, nella predicazione di imam pericolosissimi in tutto il mondo e in tante nazioni occidentali. Penso ai cristiani perseguitati nel mondo che sono troppo spesso dimenticati da un’Europa che sembra non avere più un’anima, dove il relativismo culturale mette tutto e tutti sullo stesso piano. Dall’Asia al Medio Oriente, passando per Paesi quali Egitto e Nigeria, Congo e Somalia, fino alle notizie orribili dei bambini decapitati in Mozambico. Migliaia di persone rischiano la vita ogni giorno per il semplice fatto di professare una fede. Non possiamo più girarci dall’altra parte e dobbiamo usare tutte le forme di pressione affinché ciò non accada più. Penso alle molte donne che lottano contro l’oscurantismo dell’Islam salafita che le vuole sottomesse. Anche in questo caso non possiamo più far finta di nulla, e non per niente Fratelli d’Italia continua a condurre tali battaglie, Daniela Santanchè in testa. Soprattutto quando questo accade non solo in Paesi come l’Arabia Saudita ma anche a Londra o a Parigi, a Bruxelles o a Berlino, dove interi quartieri sono governati secondo la legge coranica.
E l’Italia non può non guardare all’America Latina con la quale ha strettissimi legami culturali e identitari. I sudamericani si sentono naturalmente legati alla Spagna, per via del passato coloniale, e all’Italia, per i moltissimi nostri connazionali che nei secoli hanno plasmato quelle terre. Ma, mentre Madrid coltiva questi rapporti privilegiati, noi li trascuriamo del tutto. A volte addirittura tradendo chi in America Latina guarda all’Italia con speranza. Penso, tra gli altri, ai venezuelani che lottano contro il regime comunista e corrotto di Nicolás Maduro. La situazione economica e sociale del Venezuela è sempre più grave. A causa delle fallimentari politiche intraprese dai chavisti, aggravate dalla pandemia di COVID-19, è in corso una vera e propria emergenza umanitaria. Oltre sei milioni di persone sono già fuggite all’estero alla disperata ricerca di sicurezza, cibo, medicine e altri beni di prima necessità. Tra loro moltissimi italiani. Ma sono profughi dimenticati, scomodi per il mainstream, perché sono cristiani, di origine europea e scappano dal comunismo. Meglio voltarsi dall’altra parte.
Politica estera significa anche occuparsi degli italiani nel mondo. Come ci ha insegnato quel gigante di Mirko Tremaglia, là dove c’è un nostro connazionale c’è un presidio importante di italianità da tutelare e valorizzare. Una rete costituita da oltre quattro milioni di persone residenti all’estero con in tasca il passaporto della nostra Repubblica e da quasi sessanta milioni di oriundi, a cui dobbiamo dedicare più attenzione, ogni giorno e non soltanto sotto elezioni. Purtroppo, anche a causa dell’incapacità della classe politica, moltissimi giovani stanno nuovamente scegliendo di emigrare in cerca di fortuna. Dobbiamo invertire questa tendenza e fare tutto il possibile affinché sia solo il frutto di una libera scelta e non di una necessità.
Per promuovere il nostro interesse nazionale abbiamo molti strumenti a disposizione. Ma senza ombra di dubbio il più formidabile è quello rappresentato dalla nostra cultura e in particolare dalla nostra lingua, amatissima e studiatissima in tutto il mondo. Il 2021 è l’anno delle celebrazioni dantesche. Ricorrono, infatti, i settecento anni dalla morte del sommo poeta. La figura di Dante è centrale nella storia della nostra nazione e nella formazione della sua cultura comune. Il «padre della lingua italiana» è giustamente considerato nel mondo uno dei massimi esempi del genio e del talento nostrani. Seguire l’esempio di Dante, diffondere la lingua italiana all’estero, difenderla in patria dall’eccessivo utilizzo di anglicismi e neologismi tecnici inascoltabili. Tutto ciò che è Italia viene guardato con ammirazione nel mondo, dobbiamo sempre esserne fieri e non dimenticarlo mai.
Mentre il mondo parla di Italia, noi parliamo di Prima, Seconda, Terza Repubblica. Queste numerazioni mi hanno stancato, e in fin dei conti ben poco è cambiato tra queste varie presunte fasi della nostra Repubblica. L’unico cambiamento vero sarebbe passare dalla Repubblica del Palazzo alla Repubblica degli italiani. E questo può avvenire solo con una riforma presidenziale della Costituzione. Esiste uno stretto legame tra elezione diretta del capo dello Stato (e/o del governo, a seconda del modello di presidenzialismo) e sovranità popolare. Il punto è tutto qui. Un popolo libero e «maturo» sceglie ed elegge i propri governanti, senza lasciare al «Palazzo» la possibilità di distorcerne la volontà. Un popolo sotto tutela, considerato incapace di autodeterminarsi, invece, deve accontentarsi di una forma mediata di democrazia, nella quale ha la possibilità di dire la sua, ci mancherebbe, ma poi sono altri a decidere chi sarà il capo del governo, e pure il capo dello Stato.
Non a caso il presidenzialismo durante gli anni della contrapposizione fra blocchi era semplicemente inimmaginabile: l’Italia non aveva la libertà di scegliere il proprio posizionamento internazionale. E quindi un sistema parlamentare e proporzionale, dove il pallino restava sempre in mano al Palazzo, era l’unico per garantire una sovranità più che controllata. Dopodiché con la caduta del Muro di Berlino si aprì una fase di ritrovata indipendenza per l’Italia e si tornò a parlare di rappresentanza diretta: ci avvicinammo all’ipotesi del «sindaco d’Italia», con un sistema elettorale maggioritario che prevedeva l’indicazione del premier. In quel frangente abbiamo conosciuto, per la prima volta nella storia repubblicana, un minimo di alternanza al governo ma soprattutto esecutivi espressione di un sentimento popolare prevalente.
Sfortunatamente questa fase è durata troppo poco. Nel 2011 l’asse franco-tedesco ha dato un segnale inequivocabile all’Italia: «La sovranità ve la potete scordare». Ce lo ricordano puntualmente gli esponenti della sinistra quando affermano senza decenza che un esecutivo di centrodestra non sarebbe «tollerato» dall’Unione Europea e dal contesto internazionale e che quindi non c’è alternativa al fatto che il PD debba stare al governo, anche se perde le elezioni. In questo scenario non si poteva che accantonare ogni ipotesi di elezione diretta del capo dello Stato, di premierato forte e, ovviamente, era inevitabile che si tornasse a parlare di legge proporzionale. L’obiettivo è fin troppo chiaro: continuare a «garantire» un’Italia a sovranità limitata.
Per questo la sfida politica attorno al presidenzialismo è in realtà il principale scontro tra patrioti e sinistra. La nostra non è una semplice battaglia di principio. Una nazione a sovranità dimezzata come l’Italia è esposta alle ingerenze straniere; è esposta ai capricci del potere economico e finanziario; è debole sul fronte internazionale. Non avere piena sovranità vuol dire assecondare un assetto europeo penalizzante per l’Italia. Il presidenzialismo non è un orpello, insomma, ma la riforma delle riforme. Una nazione senza il controllo di se stessa paga in termini di crescita economica, di ricchezza, di posti di lavoro. Di dignità e di futuro.
E quindi sì, continuerò a battermi perché l’Italia abbia un giorno un presidente della Repubblica scelto direttamente dagli italiani e un governo che risponda direttamente al popolo. So che è la cosa che spaventa di più l’attuale sistema di potere in Italia e in Europa, per questo so anche che è la cosa giusta da fare.
Del resto, molte delle battaglie che conduco mi stanno garantendo nemici potenti e pericolosi. Ma io, dall’alto della mia statura minuta, ho alcuni vantaggi. Primo, non ho paura di niente e di nessuno, e l’unica cosa che mi terrorizza, come avete imparato da queste pagine, è deludere me stessa e chi crede in me. Secondo, non sono ricattabile, perché non faccio cose delle quali dovrei vergognarmi e non accetto aiuto da chi potrebbe chiedermi qualcosa in cambio. Terzo, non sono sola, e mediamente chi ha scelto di accompagnarmi in questa battaglia è molto simile a me. Quarto, e ultimo, sono sempre stata sottovalutata, e questa, in fin dei conti, è una grande fortuna.
Certo, è possibile che un giorno le cose cambino. Molto probabilmente, se dovessi arrivare a poter cambiare cose che in troppi preferiscono rimangano uguali, allora mi accorgerò di quanto possono essere davvero determinati, certi poteri. L’ho messo in conto e ho deciso di schierarmi lo stesso sul campo di battaglia. Come nel Medioevo faceva chi combatteva in prima fila sapendo che poteva essere il primo a cadere, colpito da un dardo, o come faceva chi durante la Grande Guerra avanzava pregando Dio che il cannone lo schivasse. Oggi dardi e cannoni non si usano più, i metodi per colpirti sono molto più subdoli e sofisticati. Ho messo in conto anche questo, ma non diserterò. È la guerra dei nostri tempi, e io sono un soldato.
A Ginevra
But take your time, think a lot
Think of everything you’ve got
For you will still be here tomorrow
But your dreams may not.a
Cat Stevens, Father and Son
«Guarda, c’è la bandiera di mamma!» hai detto un giorno, indicando un tricolore, mentre ti accompagnavo a scuola. Avevi poco meno di tre anni, e da allora non hai mai smesso di ripeterlo.
Sono sempre stata fiera che mi collegassi da sola al simbolo per il quale combatto quotidianamente. Eppure, tante volte mi sono chiesta se un giorno, quando sarai abbastanza grande da capire, sarai orgogliosa di me. Mi chiedo se riuscirai a perdonarmi per il tempo che non ti ho dedicato, per le cose che non sono riuscita a insegnarti, per le tue piccole conquiste quotidiane che mi sono persa. E ogni giorno mi chiedo se, in fondo, sia giusto rinunciare a viverti come vorrei, e come probabilmente vorresti tu, per assolvere i miei molteplici compiti. Certe notti mi stendo accanto a te, mentre dormi, e ti sussurro all’orecchio: «La tua mamma è qui», come se volessi farmi perdonare per le ore in cui non ci sono stata durante il giorno. Il senso di colpa nei tuoi confronti non mi abbandona mai, Gì, come il terrore di non essere la madre che avrei dovuto. Reagisco convincendomi che in fondo non ci sia insegnamento migliore di quello che posso darti con l’esempio. Mi illudo che la mia incrollabile ostinazione, la mia dedizione, quella consapevolezza che la vita non ti regalerà nulla che mi ha spinto a dare sempre il massimo, la rabbia e l’amore con i quali ho sempre combattuto per quello in cui credo siano, in fondo, l’insegnamento più grande che posso darti. Eppure ci sono milioni di cose che vorrei dirti, su quello che ho imparato dalla vita e su come vorrei che tu la affrontassi. Ci penso quando ti porto a scuola. Lascio la tua manina e ti guardo mentre, con la tua piccola cartella, sfidi il mondo da sola. So che è giusto così, ma ogni volta il mio cuore trema.
Sii buona, amore mio. Ricordati che il cuore vede con molta più nitidezza di quanto sappiano fare gli occhi. Tieni le radici ben piantate nel profondo della tua terra, ma rivolgi sempre lo sguardo verso il cielo. Accontentati di ciò che hai, ma mai di ciò che sai, né di ciò che hai fatto. Continua a cercare. Non dimenticare che è nella nostra natura di esseri umani desiderare, sempre. Se cercherai di appagare quel desiderio con le cose materiali, il viaggio potrebbe essere molto breve, ed effimero. Anche se possedessi tutte le cose del mondo, ti accorgeresti che non hai quasi nulla. Migliorarsi, elevarsi, superare i propri limiti: è questa l’unica vera ricchezza che non diventerà mai sabbia tra le tue dita.
Non essere altezzosa – perché chiunque incontri può insegnarti qualcosa – né distratta, perché in questa vita frenetica le meraviglie che abbiamo intorno scorrono così veloci che rischiamo di vederle solo sfocate. Qualsiasi cosa tu voglia, non busserà alla tua porta. Sarai tu a doverla rincorrere. Prendi la strada lunga, le scorciatoie sono un’illusione. Non vergognarti mai di dire quello che pensi, non assecondare le idee degli altri per quieto vivere. Dire la verità può essere doloroso, a volte, ma solo se credi davvero in qualcosa riuscirai a difenderlo. Dunque, quando sarà necessario, non temere di nuotare controcorrente. Sarà faticoso, certo, ma ti renderà più forte, più resistente, più tenace.
Non rinunciare mai a essere buona, e generosa, anche quando gli altri dovessero non esserlo con te. Egoismo, cattiveria e arrivismo non ti porteranno mai da nessuna parte. È l’amore la benzina del mondo. E la felicità, ricorda, esiste solo se la puoi condividere.
Continua a ridere come hai fatto stamattina, topolino mio, e per tutto il resto troveremo un rimedio.
a. Ma prenditi il tuo tempo, pensa molto / Pensa a tutto quello che hai / Perché domani tu sarai ancora qui / Ma i tuoi sogni forse no.