MEMORIA DI RAGAZZA
Annie Ernaux
Recensione
È stato il primo libro che ho letto di questa autrice, e ne sono stato letteralmente scosso. Il romanzo è un inesorabile scavo nella memoria dell'adolescenza e della prima giovinezza in cui tutti noi nascondiamo qualcosa, che forse preferiremmo seppellito per sempre. Annie Ernaux invece indaga senza pudore, smascherandosi con grande coraggio e svelando tutti quei momenti, proibiti o comunque seminascosti nell'ombra, proprio per illuminare il suo percorso personale e comprenderne il senso.
MEMORIA DI RAGAZZA
Ci sono esseri che sono sommersi dalla realtà degli altri, dal loro modo di parlare, accavallare le gambe, accendere una sigaretta. Invischiati nella presenza degli altri. Un giorno, o piuttosto una notte, sono trascinati nel desiderio e nella volontà di un unico Altro. Ciò che credevano di essere scompare. Si dissolvono, e guardano il proprio riflesso agire, obbedire, trascinati nel corso sconosciuto delle cose. Sono sempre in ritardo sull'Altro, sulla sua volontà costantemente avanti di una mossa. Una volontà che non raggiungono mai.
Né sottomissione né consenso, soltanto lo sconcerto del reale che permette giusto di dirsi «cosa mi sta succedendo?» o «è a me che sta succedendo?», se non fosse che un me, un io, in questa circostanza non c'è più, o non è già più lo stesso. C'è soltanto l'Altro, padrone della situazione, dei gesti, del momento successivo, che è l'unico a conoscere.
Poi l'Altro se ne va, hai smesso di piacergli, non ti trova più di suo interesse. Ti abbandona con il reale, ad esempio un paio di mutandine macchiate. Ormai bada soltanto al suo tempo. Resti solo con quella che, di già, è diventata la tua abitudine di ubbidire. Solo in un tempo senza padrone.
Allora altri hanno buon gioco a circuirti, a precipitarsi nel tuo vuoto, non rifiuti loro niente, li senti appena. Aspetti il Padrone, che ti faccia la grazia di toccarti almeno una volta. Lo fa, una notte, ed esercita su di te quei pieni poteri che tutto il tuo essere ha supplicato di concedergli. Poi se ne va, il giorno dopo non c'è più. Non importa, la speranza di ritrovarlo è diventata la tua ragione di vivere, vestirti, farti una cultura, passare gli esami. Ritornerà, e sarai degno di lui, anzi meglio, lo abbaglierai con la tua nuova bellezza, cultura, autostima, la differenza tra te e l'individuo indistinto che eri un tempo.
Tutto ciò che fai è per il Padrone che ti sei dato in segreto. Ma, senza accorgertene, lavorando per aumentare il tuo valore, ti allontani inesorabilmente da lui. Prendi coscienza della tua follia, non lo vuoi vedere mai più. Ti giuri di dimenticare tutto, di non parlarne mai a nessuno.
Era un'estate senza particolari anomalie meteorologiche, quella del ritorno del generale de Gaulle, del franco pesante e di una nuova Repubblica, di Pelé campione del mondo di calcio, di Charly Gaul vincitore del Tour de France e della canzone di Dalida Mon histoire cest l'histoire d'un amour.
Un'estate immensa come lo sono tutte fino ai venticinque anni, prima di accorciarsi in piccole estati via via più brevi di cui la memoria spariglia la successione, lasciando sopravvivere soltanto quelle spettacolari per la siccità e il caldo estremo.
L'estate 1958.
Come le estati precedenti, una piccola parte della gioventù più agiata è scesa con i genitori verso il sole della Costa Azzurra, mentre quelli che frequentavano il liceo o l'istituto privato Saint JeanBaptiste de La Salle hanno preso il traghetto a Dieppe per andare a perfezionare sei anni di inglese balbettato sui manuali ma mai praticato dal vivo. Altri ancora, con lunghe vacanze ma pochi soldi a disposizione, studenti delle superiori, universitari, maestre di scuola, sono partiti per occuparsi dei bambini delle colonie allestite un po' dappertutto sul territorio francese all'interno di ville o persino castelli. Ovunque fossero dirette, le ragazze mettevano in valigia un pacco di assorbenti usa e getta chiedendosi, tra timore e desiderio, se sarebbe stata quella l'estate in cui avrebbero fatto l'amore con un ragazzo per la prima volta.
Quell'estate, a partire sono stati anche migliaia di soldati di leva, diretti in Algeria per ristabilire l'ordine, spesso lontani da casa per la prima volta. Hanno scritto decine di lettere in cui raccontavano del gran caldo, delle zone montagnose, dei piccoli villaggi rurali, degli arabi analfabeti che dopo cent'anni di occupazione ancora non parlavano francese. Hanno spedito foto che li ritraevano in pantaloncini, allegri, assieme a qualche amico, in un paesaggio secco e roccioso. Sembravano scout in esplorazione, li si sarebbe detti in vacanza. Le ragazze non facevano domande, come se dovessero essere sempre altri i soldati toccati dalle «imboscate» e dagli «scontri a fuoco» descritti da radio e giornali. Ritenevano naturale che gli uomini facessero il proprio dovere e che, come si vociferava, legassero una capra a un picchetto per acquietare i loro bisogni fisici.
Sono tornati in licenza, hanno portato collane, mani di Fatima e un vassoio di rame, sono ripartiti. Sull'aria di Le Jour où la pluie viendra, la canzone di Bécaud, hanno cantato il giorno in cui il congedo arriverà. Infine sono rientrati a casa ai quattro angoli della Francia, si sono dovuti fare altri amici che non erano stati in Maghreb, che per riferirsi agli indipendentisti arabi non usavano i termini del fronte, fellouzes, crouillats, che erano vergini della guerra. Quanto a loro, si sentivano sfasati, ammutoliti. Non sapevano se ciò che avevano fatto fosse un bene o un male, se dovessero andarne fieri o vergognarsene.
Non c'è nessuna foto di lei nell'estate 1958.
Nemmeno del giorno dei suoi diciott'anni, festeggiati là, alla colonia la più giovane di tutto il gruppo degli educatori , un compleanno che aveva coinciso con un suo giorno libero, cosicché nel pomeriggio aveva avuto il tempo di fare un salto in città per comprare qualche bottiglia di spumante, savoiardi e biscottini Chamonix all'arancia, anche se poi erano stati in pochi a passare da camera sua per un bicchiere e uno spuntino, e quei pochi si erano eclissati in fretta — forse già considerata infrequentabile, o soltanto poco interessante perché non si era portata dietro né dischi né alcun apparecchio per ascoltarli.
Tra tutti coloro che hanno avuto a che fare con lei durante quell'estate 1958 alla colonia di S nell'Orne, c'è qualcuno che se la ricordi, quella ragazza? Probabilmente nessuno.
L'hanno dimenticata come si sono dimenticati l'uno dell'altro, dopo essersi dispersi a fine settembre per tornare ai loro licei, ai loro corsi di formazione per infermieri, alle loro Scuole normali di magistero, ai loro centri di educazione sportiva, oppure chiamati a raggiungere il contingente di stanza in Algeria. Quasi tutti soddisfatti di aver trascorso, badando a dei bambini, vacanze proficue dal punto di vista economico e morale. Ma lei dev'essere stata dimenticata più in fretta degli altri, come un'anomalia, un'infrazione al buon senso, un disordine qualcosa di risibile di cui sarebbe stato ridicolo ingombrarsi la memoria. Assente dai loro ricordi dell'estate '58, forse oggi ridotti a sagome sfocate su sfondi confusi, a quella Rissa di negri in una grotta a notte fonda che era il titolo di un quadro tutto nero e che, assieme alla locandina teatrale di quel balletto intitolato Giorno di riposo, rappresentava la loro battuta preferita.
Scomparsa quindi dalla coscienza degli altri, da tutte quelle coscienze imbrigliate tra loro in quel luogo preciso dell'Orne, durante quell'estate precisa, quegli altri che valutavano i gesti, i comportamenti, il potere seduttivo dei corpi, del suo corpo. Che la giudicavano e la respingevano, facevano spallucce o alzavano gli occhi al cielo nel sentire il suo nome, sul quale uno di loro si vantava di aver inventato la spiritosaggine Anniecordiale Anniecordimaiale (Annie Cordy, ah ah!). Definitivamente dimenticata dagli altri, fusi nella società francese o altrove nel mondo, sposati, divorziati, solitari, nonni in pensione dai capelli grigi o tinti. Irriconoscibili.
Ho voluto dimenticarla anch'io, quella ragazza. Dimenticarla davvero, ossia non avere più voglia di scrivere di lei. Non pensare più di dover scrivere di lei, del suo desiderio, della sua follia, della sua idiozia e del suo orgoglio, della sua fame e del suo sangue prosciugato. Non ci sono mai riuscita.
Nel mio diario sempre frasi, allusioni a «la ragazza di S», «la ragazza del '58». Sono vent'anni che annoto «58» nei miei progetti di libri. È il testo mancante, sempre rimandato. Il buco inqualificabile.
Non sono mai andata oltre le prime pagine, tranne una volta, un anno in cui il calendario dei giorni della settimana corrispondeva a quello del 1958. Sabato 16 agosto 2003 ho cominciato a scrivere: «Sabato 16 agosto 1958. Ho un paio di jeans di seconda mano, comprati per 5.000 franchi da MarieClaude che li aveva pagati il doppio nella boutique Elda di Rouen, e una maglia senza maniche a righe orizzontali bianche e azzurre. È l'ultima volta che ho il mio corpo». Ho continuato a scrivere tutti i giorni, rapidamente, facendo in modo che la data del giorno in cui scrivevo coincidesse con quella del giorno corrispondente nel 1958, di cui registravo in disordine tutti i dettagli che riaffioravano. Era come se questa quotidiana scritturaanniversario, ininterrotta, fosse la più adatta per annullare quell'intervallo di quarantacinque anni, come se, a causa di questa giornaliera coincidenza di date, la scrittura mi consentisse di accedere direttamente a quella precisa estate con la stessa semplicità con cui si passa da una stanza all'altra.
Molto presto la mia scrittura ha cominciato a essere in ritardo sui fatti, a causa delle incessanti ramificazioni che l'affluire delle immagini, delle parole, faceva proliferare. Non riuscivo a racchiudere il tempo dell'estate 1958 nell'agenda del 2003, straripava da tutte le parti. Più andavo avanti, più mi accorgevo di non stare scrivendo davvero. Mi era chiaro che quelle pagine di inventario sarebbero dovute diventare qualcos'altro, ma ancora non sapevo cosa. Non me lo chiedevo neanche più. Mi accontentavo, in fondo, del puro godimento di tirar fuori i ricordi dalle loro scatole. Rifiutavo il dolore della forma. Ho smesso dopo cinquanta pagine.
È passato più di un decennio, altre undici estati che portano a cinquantacinque il computo degli anni trascorsi da quella del 1958, con guerre, rivoluzioni, esplosioni di centrali nucleari, tutte cose che si stanno già quasi dimenticando.
Il tempo davanti a me si accorcia. Ci dovrà essere un ultimo libro, come c'è un ultimo amante, un'ultima primavera, ma nessun segnale per saperlo prima. L'idea che potrei morire senza aver scritto di colei che presto ho preso a chiamare «la ragazza del '58» mi ossessiona. Un giorno non ci sarà più nessuno per ricordarsene. Ciò che è stato vissuto da quella ragazza, e da nessun'altra, resterà inspiegato, vissuto invano.
Nessun altro progetto di scrittura mi sembra, non dico luminoso o nuovo, e ancor meno felice, ma altrettanto vitale, capace di farmi vivere al di sopra del tempo. Limitarsi a «godersi la vita» è una prospettiva improponibile, dal momento che ogni istante senza un progetto di scrittura è come se fosse l'ultimo.
L'idea di essere rimasta, come credo, l'unica a ricordarsi mi incanta. Come se mi conferisse un potere sovrano. Una superiorità definitiva su di loro, gli altri dell'estate '58, il lascito ereditato dalla vergogna dei miei desideri, dei miei sogni sconclusionati per le strade di Rouen, del mio sangue di diciottenne prosciugato come quello di una vecchia. La grande memoria della vergogna, più minuziosa, più irremovibile di tutte le altre. Quella memoria che, insomma, della vergogna è lo specifico dono.
Mi rendo conto che quanto scritto finora ha lo scopo di scostare di lato ciò che mi trattiene, ciò che, come nei brutti sogni, mi impedisce di avanzare. Un modo per neutralizzare la violenza dell'inizio, del salto che mi appresto a effettuare per raggiungere la ragazza del '58, lei e gli altri, riposizionarli tutti in quell'estate di un anno che oramai è più lontano di quanto, all'epoca, non lo fosse il 1914.
Guardo la fototessera in bianco e nero incollata nell'album scolastico preparato dal collegio SaintMichel di Yvetot per la maturità, Indirizzo classico sezione C. Vedo, di tre quarti, un volto dall'ovale regolare, il naso dritto, gli zigomi poco pronunciati, la fronte alta sulla quale — di certo per ridurne l'ampiezza ricadono con uno strano effetto da un lato una frangetta arricciata e dall'altro una singola ciocca a mo' di tirabaci. Il resto della chioma, castano scuro, è tirato all'indietro e tenuto insieme in uno chignon. Le labbra abbozzano un sorriso che si potrebbe definire dolce, o triste, o entrambe le cose. Il maglione nero, con il collo alto e le maniche raglan, risulta austero e coprente come una tonaca. Nel complesso, una ragazza carina pettinata male, da cui scaturisce una sensazione di dolcezza, o di indolenza, alla quale oggi darei più dei suoi diciassette anni.
Più resto a fissare la ragazza della foto, più mi sembra che sia lei a guardarmi. E davvero me, quella ragazza? Sono davvero lei? Per esserlo dovrei saper risolvere un problema di fisica e un'equazione di secondo grado leggere tutte le settimane il «romanzo completo» pubblicato sulle pagine della rivista Les Bonnes Soirees non vedere l'ora di partecipare, finalmente, a un «party» trovarmi d'accordo con la conservazione dell'Algeria francese sentirmi addosso gli occhi grigi di mia madre ovunque vada non aver letto né Beauvoir né Proust né Virginia Woolf né eccetera chiamarmi Annie Duchesne.
Beninteso dovrei anche non sapere nulla del futuro, di quell'estate 1958. Dovrei essere colpita da un'amnesia che d'un sol colpo cancelli tanto la storia della mia vita quanto quella del mondo.
La ragazza della foto non è me, ma non è una finzione. Non esiste nessun'altra persona al mondo di cui abbia una conoscenza tanto estesa, inesauribile, che mi permette di dire, per esempio, che è andata a fare la fototessera dal fotografo nella piazza del municipio con la sua amica del cuore Odile, un pomeriggio delle vacanze di febbraio i riccioli sulla fronte sono il risultato dei bigodini che porta la notte e che la dolcezza dello sguardo è dovuta alla sua miopia non indossa i soliti occhiali dalle lenti spesse all'angolo sinistro delle labbra ha una piccola cicatrice ricurva, invisibile nella foto, conseguenza di una caduta su un coccio di bottiglia quando aveva tre anni il maglione proviene da Delhoume, un grossista di Fécamp fornitore del negozio della madre per quanto riguarda calze, cartoleria per la scuola, acqua di colonia eccetera, il cui rappresentante due volte l'anno viene a svuotare le sue valigie di campioni su un tavolino del bar, rappresentante grande e grosso in giacca e cravatta che lei ha trovato sgradevole il giorno in cui le ha fatto notare di avere lo stesso nome della cantante del momento, quella della canzone La fitte du cowboy, Annie Cordy
E così via, all'infinito.
Nessun altro, quindi, di cui la mia memoria sia, per così dire, altrettanto satura. E non ho altra memoria se non la sua per raffigurarmi il mondo degli anni Cinquanta, gli uomini con il montone e il basco, la trazione anteriore, Étoile des neiges, il delitto del curato di Uruffe, Fausto Coppi e l'orchestra di Claude Luter per avere la certezza della realtà effettiva delle persone e delle cose. La ragazza della foto è un'estranea che mi ha lasciato la sua memoria in eredità.
Tuttavia non posso dire di non avere più niente a che fare con lei, o piuttosto con colei che diventerà l'estate successiva, come testimonia la violenza del turbamento che mi ha invaso leggendo La bella estate di Pavese e Risposte nella polvere di Rosamond Lehmann, guardando film di cui ho avuto bisogno di fare un elenco prima di cominciare a scrivere: Wanda, La ragazza del peccato, Sue Lost in Manhattan, La ragazza con la valigia e Después de Lucia, visto appena la settimana scorsa.
Ogni volta è come se fossi rapita dalla ragazza sullo schermo, come se diventassi lei, non la donna che sono oggi, ma la ragazza dell'estate '58. E lei che mi pervade, mi fa trattenere il respiro, mi dà per un istante l'impressione di non esistere più al di fuori dello schermo.
Quella ragazza là, quella del 1958, capace di manifestarsi a cinquant'anni di distanza e di provocare un tracollo interiore, è dunque ancora nascosta dentro di me, da qualche parte, irriducibile. Se il reale è ciò che agisce, produce degli effetti, secondo la definizione del dizionario, questa ragazza non è me ma è reale in me. Una sorta di presenza reale.
Stando così le cose, devo forse fondere la ragazza del '58 e la donna del 2014 in un «io»? Oppure, cosa che mi parrebbe non più giusta valutazione soggettiva ma più avventurosa, devo dissociare la prima dalla seconda utilizzando un «lei» e un «io», così da spingermi il più lontano possibile nell'esposizione dei fatti e delle azioni? E il più crudelmente possibile, come coloro che ascoltiamo da dietro una porta mentre parlano di noi dicendo «lei» o «lui» e in quel momento ci sentiamo morire.
Anche senza foto, riesco a vederla, Annie Duchesne, quando sbarca a S scendendo dal treno partito da Rouen, nel primo pomeriggio del 14 agosto. I capelli sono raccolti in uno chignon alto dietro la nuca. Porta occhiali da miope che le rimpiccioliscono gli occhi ma senza i quali brancola nella nebbia. Indossa un cappottino blu ricavato da un loden beige di due anni prima, accorciato e ritinto , una pesante gonna dritta di tweed a sua volta ottenuta da un'altra e una maglia alla marinara. Ha una valigia grigia ancora come nuova, presa sei anni prima per un viaggio a Lourdes con suo padre e mai più riutilizzata da allora e una borsa di plastica azzurra e bianca a forma di secchiello comprata la settimana prima al mercato di Yvetot.
La pioggia che ha battuto sul finestrino del treno per tutto il tragitto è cessata. C'è un po' di sole. Ha caldo, nel suo loden, nella pesante gonna invernale. Ciò che vedo è una rappresentante della piccola borghesia di provincia, alta e robusta, dall'aria studiosa, con abiti «della sartina» in tessuti resistenti e pregiati.
Al suo fianco vedo la sagoma più bassa e squadrata di una donna sulla cinquantina che «fa la sua figura», in tailleur, i capelli rossi con la permanente, la schiena dritta in una posa autorevole. Vedo mia madre, il suo misto di ansia, sospetto e malcontento, la sua consueta aria da mamma «con le antenne sempre alzate».
So cosa sta provando la ragazza in questo preciso istante, conosco il suo desiderio, l'unico in lei: che sua madre si tolga di torno, che riprenda il treno in senso contrario. Cova rancore e vergogna all'idea di essere vista assieme a lei che, con il pretesto di darle una mano durante il cambio del treno alla stazione di Rouen, ha rifiutato di farla viaggiare da sola , scortata in colonia come se fosse una bambina mentre tra quindici giorni compirà diciotto anni ed è arrivata fin lì per fare l'educatrice.
La vedo, non la sento. Non esiste nessuna registrazione della mia voce del 1958 e la memoria trascrive in forma muta le parole che siamo stati noi a pronunciare. Impossibile dire se avevo ancora la calata strascicata tipica della Normandia, quell'accento che tuttavia credevo di non avere già più, perlomeno rispetto a tutti i miei famigliari.
Che cosa posso dire di questa ragazza, appena prima che l'autista della colonia fermi la macchina davanti alla stazione, che lei vi si precipiti dopo aver baciato in fretta la madre per prevenirne la manifesta volontà di salirci insieme a lei, lasciandola sconcertata sul marciapiede con lo sconforto dipinto sul volto a cui il viaggio aveva sciupato il trucco? Di tutto questo non le importa nulla, come non le importerà sapere che in seguito la madre ha dovuto passare la notte in un albergo di Caen per mancanza di coincidenze serali per Rouen, sicuramente pensando che in fondo le stava bene, che non doveva far altro che lasciarla andare a S da sola.
Cosa scegliere di dire, dunque, che parole usare per riuscire a coglierla, così come è esistita là, in quel pomeriggio d'agosto sotto il cielo variabile dell'Orne, ancora all'oscuro di ciò che soltanto tre giorni dopo sarà per sempre alle sue spalle, in quel preciso momento senza spessore, svanito da più di cinquant'anni?
Cosa, che possa non essere considerato come una spiegazione — o non soltanto di ciò che accadrà, e che forse non sarebbe accaduto se non avesse messo via gli occhiali, se non avesse sciolto lo chignon lasciando che i capelli le fluttuassero sulle spalle, gesti tuttavia prevedibili lontano dallo sguardo materno?
Spontaneamente mi viene da dire: Tutto in lei è desiderio e orgoglio. E: Sta aspettando di vivere una storia d'amore.
Ho voglia di fermarmi qui, come se non dovesse essere detto altro, come se questo bastasse a conoscere il seguito. E un'illusione romanzesca, una definizione buona per un'eroina di finzione. Bisogna continuare, definire il terreno sociale, famigliare e sessuale — su cui in quel momento sbocciano il suo desiderio e la sua fierezza, le sue aspettative, cercare le ragioni dell'orgoglio e le cause del sogno.
Dire: E la prima volta che si allontana dai genitori. Non si è mai spinta fuori dalla sua tana.
Eccezion fatta per il viaggio in pullman a Lourdes con il padre quando aveva dodici anni e la giornata rituale passata a Lisieux ogni estate durante la quale, dopo il pellegrinaggio del mattino al Carmelo e alla basilica, l'autista deposita i passeggeri sulla spiaggia di Trouville, la sua vita si svolge sin dall'infanzia tra il negozietto dei genitori, alimentarimerceriabar, e il collegio SaintMichel gestito da suore, lungo un tragitto sempre uguale che lei, non fermandosi a dormire allo studentato, percorre due volte al giorno. Le vacanze le passa a Yvetot, a leggere in giardino o in camera sua.
Figlia unica, sorvegliata con apprensione è nata dopo la morte, a sei anni, di una prima bambina, e lei stessa ha rischiato di morire di tetano quando ne aveva cinque , il mondo esterno, senza esserle espressamente vietato, è fonte di paura (per il padre) e di sospetto (per la madre). Per uscire le è necessario che una cugina più grande o una compagna di classe si facciano garanti e l'accompagnino. Non ha mai avuto il permesso di partecipare a un «party». Sono passati tre mesi dalla prima volta che ha ballato, a una festa di carnevale, sotto il tendone installato in place des Beiges mentre la madre, dalla sua sedia, non la perdeva di vista neanche un istante.
L'elenco delle sue ignoranze sociali sarebbe interminabile. Non sa telefonare, non ha mai fatto né la doccia né il bagno. Non ha mai frequentato nessun altro ambiente al di fuori del suo, popolare, di origine contadina, cattolico. A ripensarci adesso mi sembra goffa e impacciata, perfino sboccata, piena di insicurezze di lingua e di modi. La sua vita più intensa è quella che vive nei libri, di cui è ingorda da quando ha imparato a leggere. È grazie a loro e alle riviste femminili che conosce il mondo.
A casa, nel suo territorio, la ragazza della drogheria come la chiamano nel quartiere ha diritto a tutto. Attinge liberamente dai barattoli di caramelle e dalle scatole di biscotti, durante le vacanze resta a letto a leggere fino a mezzogiorno, non apparecchia e non lucida mai le scarpe. Vive e si comporta da regina.
Con l'orgoglio di una regina. Che non le viene tanto dall'essere la prima della classe — una sorta di condizione naturale o dalle dichiarazioni della direttrice, suor Maria dell'Eucaristia, che l'ha proclamata «la gloria del collegio», quanto dal fare matematica, latino, inglese, temi di letteratura, tutte cose di cui nessuno attorno a lei ha la minima cognizione. Dall'essere l'eccezione, riconosciuta come tale da tutti gli altri membri della famiglia, operaia, che nei pranzi di festa si chiedono «da chi l'abbia preso», il «dono» di imparare.
Orgoglio della sua diversità: ascoltare sul giradischi Brassens e The Golden Gate Quartet invece di Gloria Lasso e Yvette Horner leggere I fiori del male invece dei fotoromanzi di Nous Deux tenere un diario, copiare poesie e citazioni di scrittori dubitare dell'esistenza di Dio, anche se non salta una messa e fa sempre la comunione alle feste comandate. Probabilmente è in una zona non definita, indecisa tra credere e non credere, sgravata della leggenda ma ancora attaccata alla preghiera, ai riti della liturgia e dei sacramenti.
Orgoglio di nutrire desideri che percepisce come un diritto conferitole dalla sua diversità: andarsene da Yvetot, sfuggire allo sguardo della madre, della scuola, dell'intero paese e fare quel che vuole: leggere tutta la notte, vestirsi di nero come Juliette Greco, frequentare i bar studenteschi e ballare a La Cahotte, in rue Beauvoisine a Rouen entrare in un mondo sconosciuto, intuito negli accenni ai dischi di Bach, le biblioteche, gli abbonamenti a Realties, il tennis, gli scacchi, il teatro, le stanze da bagno , tutti segni che le hanno reso quel mondo al contempo desiderabile e intimidente, ma che le impediscono di invitare le studentesse altolocate del collegio a casa sua, dove non c'è né soggiorno né sala da pranzo, giusto una minuscola cucina stretta tra il bar e la drogheria, e i gabinetti sono in cortile un mondo in cui immagina si discuta di poesia e letteratura, del senso della vita e della libertà, come ne L'età della ragione, il romanzo di Sartre nel quale ha vissuto per tutto il mese di luglio, diventando Ivich.
Non ha un io determinato, ma diversi «io» che passano da un libro all'altro.
So che vive nella certezza intrepida della sua intelligenza, del potere manifestato dal suo metro e settanta, dal corpo ben piantato in quanto a natiche e cosce. In un'astratta fiducia nel suo futuro, immaginato come la Scalinata rossa di Soutine di cui ha ritagliato una riproduzione dalla rivista illustrata Lectures pour tous.
La vedo arrivare alla colonia come una puledra scappata dal recinto, sola e libera per la prima volta, un po' spaurita. Bramosa di incontrare suoi simili, coloro che immagina siano suoi simili. Che la riconosceranno come una loro simile.
La madre l'ha sempre tenuta alla larga dai ragazzi come dal diavolo. Ne sogna in continuazione da quando ha tredici anni. Non sa chiacchierarci, si domanda come facciano le ragazze che vede impegnate in lunghe conversazioni con loro per le strade di Yvetot. Solo pochi mesi prima ha dato il suo primo bacio a uno studente della scuola di agricoltura, ha portato avanti quel flirt senza parole nemmeno lui parla con mille sotterfugi per eludere la sorveglianza materna: saltare tre quarti di messa, addurre come pretesto un'attesa interminabile dal dentista eccetera. L'ha lasciato subito prima della maturità per paura di un'oscura punizione.
Non ha mai visto né toccato il sesso di un uomo.
(Un ricordo che testimonia l'estensione della sua ignoranza: una compagna di classe le ha fatto notare sghignazzando una citazione di Claudel nell'agenda cattolica fornita dal collegio: «L'unica felicità dell'uomo consiste nel donare tutto ciò di cui è pieno». Non ha capito in cosa consistesse l'oscenità.) Muore dalla voglia di fare l'amore, ma soltanto per amore. Sa a memoria il brano de I miserabili sulla prima notte di Cosette e Marius: «Un angelo è ritto in piedi sulla soglia della prima notte di nozze, sorridente, con un dito sulle labbra. L'anima entra in contemplazione davanti a quel santuario in cui si compie la celebrazione dell'amore».
Come fare per ritrovare l'immaginario dell'atto sessuale che aleggiava in quell'io sulla soglia della colonia?
Come resuscitare quell'incompetenza assoluta e quell'attesa di ciò che allora rappresentava tutto l'ignoto e il meraviglioso dell'esistenza — il grande segreto bisbigliato sin dall'infanzia ma che ancora non era descritto né mostrato da nessuna parte? L'atto misterioso che introduce al banchetto della vita, all'essenziale non morire prima, mio Dio , e sul quale pesano i divieti e la paura delle conseguenze in quegli anni di OginoKnaus, anni tremendi da questo punto di vista in quanto lasciavano intravedere, nella settimana prima del ciclo, la tentazione di otto giorni di «libertà».
La mia memoria fallisce nel tentativo di restituire lo stato psichico creato dal sovrapporsi di desiderio e proibizione, dall'attesa di un'esperienza sacra e dalla paura di «perdere la verginità». La forza inaudita del senso di questa espressione è oramai andata perduta in me e nella maggior parte della popolazione francese.
Non ho ancora attraversato l'arco d'ingresso della colonia. Non avanzo, in questo sforzo per cogliere la ragazza del '58, come se volessi «creare il suo profilo» nella maniera più minuziosa possibile, come non ci fossero mai abbastanza determinazioni psicologiche e sociali, abbastanza tratti nel disegno, con il rischio alla fine di renderlo indecifrabile, quando invece potrei riassumere «la brava studentessa di una scuola religiosa di provincia, nata da una famiglia modesta e che aspira a una bohème intellettuale e borghese». O ancora, adottando il linguaggio delle riviste, «una giovane donna dalla grande autostima», con la variante «una ragazza il cui narcisismo non è stato ostacolato». Non so se la ragazza che sale nell'automobile diretta alla colonia si sarebbe riconosciuta in queste definizioni. Di sicuro non si interpreta né parla di sé in questi termini, ma forse con le parole di Sartre e Camus sulla libertà e la rivolta. In quel momento la so soprattutto invasa dalla paura, perché non si è mai occupata di bambini e, non avendo ancora l'età richiesta diciotto anni compiuti per partecipare allo stage di preparazione, è stata accettata alla colonia senza aver ricevuto alcuna formazione come educatrice.
Nell'incapacità di ritrovare il suo linguaggio, tutti i linguaggi che compongono il suo discorso interiore che sarebbe inutile voler ricostruire come ho invece creduto possibile fare scrivendo Ce qu'ils disent ou rien , posso almeno prelevarne alcuni campioni nelle lettere indirizzate a una ex compagna di classe che ha lasciato il collegio l'anno precedente, lettere che mi ha poi restituito nel 2010. Iniziano tutte con MarieClaude chérie o Darling e finiscono con Byebye o Tchao, come andava di moda tra liceali. In quelle dei mesi precedenti all'arrivo in colonia c'è scritto:
«Non vedo l'ora di andarmene da questo posto [il collegio] in cui si crepa di freddo, di noia, di asfissia» e «da questa città orribile che è Yvetot.»
«Per far strabuzzare gli occhi alle suore mi faccio le trecce, mi metto lo smalto e porto la giacca slacciata.»
«Essere giovani è strepitoso! Non ho nessuna fretta di mettermi in catene sposandomi.»
Alla ragazza del '58 piace tutto ciò che le sembra «emancipato», «moderno», «à la page» e critica «le bacchettone», le ragazze «con i paraocchi» o quelle «alla ricerca di un marito pieno di soldi».
Le piace «da matti» fare i temi di francese, di cui trascrive i titoli all'amica. Rabelais è un enigma? Boileau ha detto: «Amate la ragione» e Musset: «Sragionate!» eccetera.
Il contenuto della corrispondenza ruota esclusivamente attorno alla vita scolastica e alle letture (Sagan, Camus, L'uomo in rivolta etichettato come «difficile»), al futuro e all'esistenza in generale. Il tono è vibrante, esaltato. Il proclama secondo cui «la vita merita di essere vissuta» ricorre più volte. A proposito del ballo di carnevale a cui ha partecipato a Yvetot dice: «In un vortice sfrenato, ho sentito per la prima volta una specie di felicità incredibile e devo averlo pensato ad alta voce perché ho detto “sono felice”».
Sui genitori nemmeno una parola.
Non c'è nessun dubbio sul fatto che queste lettere, per quanto mi sembrino sincere, siano anche impregnate del desiderio di dimostrare a MarieClaude — considerata un modello invidiabile, un tramite verso un mondo evoluto per la sua fantasia, la sua mancanza di rispetto per l'autorità, la lettura di romanzi contemporanei attinti dalla biblioteca del padre ingegnere un'affinità di gusti, di sensazioni e di postura rispetto agli altri e alla vita.
È soprattutto nelle poesie e nelle frasi degli scrittori ricopiate con cura in un'agenda del 1958 dalla copertina rossa — una grande agenda commerciale, omaggio di un fornitore di formaggi, conservata finora di trasloco in trasloco che ho la maggiore probabilità di cogliere i brandelli del mio discorso interiore. È lì dentro che la ragazza di quell'epoca si dice per procura, in quelle parole che disegnano idealmente il suo essere al di sopra della piattezza e della brutalità che, secondo lei, caratterizzano il linguaggio del suo ambiente.
Assieme a una ventina di poesie di Prévert, anche qualcuna di Jules Laforgue, di Musset e dei versi sparsi: Ho ricevuto la vita come uno schiaffo
E come si fischia a una sconosciuta
L'ho seguita senza conoscerla (Pierre Loizeau) Delle frasi di Proust, tutte sul tema della memoria, tratte dalla storia della letteratura francese curata da Paul Crouzet. Altre ancora, delle quali ho dimenticato la provenienza:
L'unica felicità reale è quella di cui ti accorgi mentre la vivi (Alexandre Dumas figlio).
Ogni desiderio mi ha sempre arricchito più della sua sempre falsa realizzazione (André Gide).
Eccola, la ragazza che sta per entrare in colonia.
È reale fuori di me, il suo nome è scritto nei registri del sanatorio di S, se sono stati conservati. Annie Duchesne. Il mio nome da signorina, il cognome che mi sembrava troppo strombazzante, che forse non mi piaceva perché era quello del lato peggiore, secondo mia madre, e preferivo il suo, Duménil, dolce e attutito. Duchesne, questo nome perduto sei anni dopo con leggerezza, forse sollievo, al municipio di Rouen, sancendo in un colpo solo il mio trasferimento nel mondo borghese e la cancellazione di S.
Reale anche il luogo, con il passare degli anni diventato nella mia memoria una sorta di castello, un misto tra quello de Il grande Meaulnes e quello de L'anno scorso a Marienbad, che non sono stata in grado di trovare nell'autunno del 1995 tornando in macchina da SaintMalo, costretta a parcheggiare nel viale principale di S per domandare a una tabaccaia come arrivare al sanatorio e poi, davanti alla sua titubanza, come se non avesse mai sentito quella parola, a precisare «il vecchio istituto medicopedagogico, direi», affinché mi indicasse la strada. Questo luogo, di cui soltanto oggi scopro sbalordita su internet che si tratta di un'abbazia fondata nel Medioevo, demolita, ricostruita, trasformata nel corso dei secoli. Aperto al pubblico solo durante le giornate del patrimonio culturale.
Nei dépliant che lo rappresentano attualmente, nessuna traccia della sua passata funzione di casa di convalescenza, che durante l'estate si trasformava in una grande «colonia sanitaria» in grado di accogliere due gruppi successivi di centinaia di bambini cagionevoli o «caratteriali», sorvegliati da una trentina di educatori, due professori di ginnastica, un medico e alcune infermiere. Al contrario, sulla cartolina spedita a fine agosto 1958 a Odile l'altra amica intima della scuola, intima in un'altra maniera perché figlia di contadini, e con la ragazza della drogheria la connivenza sociale è talmente profonda che non ha bisogno di essere esplicitata, tra di loro è sufficiente utilizzare, ridendo, qualche parola in patois — non c'è nessun riferimento alla rilevanza storica del luogo. Nella veduta aerea della cartolina, che Odile ha fotocopiato per me qualche anno fa, vedo una struttura imponente di edifici antichi, d'aspetto austero, in una pietra leggermente brunita, composta da tre ali ineguali per altezza e lunghezza, con la forma di una T dalla stanghetta verticale leggermente slittata sulla destra. L'estremità dell'ala più corta ricorda una cappella. Tra l'altra ala e l'edificio trasversale si estende un ampio campo sportivo. Poco distante, il monumentale arco d'ingresso è affiancato da due casette. Il complesso sembra risalire a epoche differenti, con una dominante settecentesca.
A sinistra dell'arco, piccoli fabbricati sul tipo delle costruzioni del dopoguerra. A destra si stende un parco di cui non si vede la fine, mentre un muro di cinta circonda tutta la parte della tenuta visibile sulla foto. Sul retro: Sanatorio di S [...] Orne.
Mentre mi accingo a farvi entrare Annie Duchesne in quel 14 agosto 1958, sono preda di un accesso di torpore che spesso presagisce una rinuncia alla scrittura davanti a difficoltà che non riesco a definire con chiarezza. Non derivano da un'insufficienza di ricordi: piuttosto devo resistere per non lasciare che le immagini — una stanza, un vestito, il dentifricio Émail Diamant: la memoria è una maniacale attrezzista di scena si incatenino l'una con l'altra e per non fare di me l'affascinata spettatrice di un film privo di senso. Piuttosto, non sono forse in balia del problema di mettere a fuoco e comprendere il comportamento di questa ragazza, Annie D, la sua felicità e il suo dolore, per poi collocarli in relazione alle norme sociali e alle credenze di mezzo secolo fa, a una normalità evidente per tutti a eccezione di una piccola frangia più «evoluta» di cui né lei né gli altri della colonia facevano parte?
Gli altri.
Ho cercato i loro nomi e cognomi sul sito delle Pagine Bianche. Prima quelli dei ragazzi. Per i cognomi molto diffusi, la molteplicità di occorrenze con lo stesso nome equivaleva a nessuna occorrenza. Neanche un indizio per sapere quale dei vari Jacques R fosse quello presente alla colonia nell'estate 1958. La loro identità era dissolta nella massa. Il domicilio di qualcuno, Bassa Normandia, mi ha persuaso, forse a torto, di avere a che fare con coloro che ricordavo ci abitassero già nel 1958. Il che comportava che non fossero mai migrati fuori dal territorio della loro giovinezza. Questa scoperta mi ha turbata. Era come se essendosi ancorati in un posto fossero rimasti gli stessi, come se la loro identità geografica fosse garante della permanenza del loro essere.
Ho provato con i cognomi delle ragazze. Nessun risultato mi è parso affidabile, probabilmente dovevano averlo tutte cambiato sposandosi come avevo fatto io, senza approfittare dell'affabile offerta delle Pagine Bianche: «Inserite il vostro nome da signorina per essere rintracciate più facilmente dai vostri vecchi amici».
Ho ampliato la mia ricerca con Google. Sul sito Copains d'avant ho identificato con certezza Didier D, ex studente di veterinaria al centro universitario di MaisonsAlfort e, meno sicura, Guy A, originario del Nord, che compariva in vari siti sportivi di Lille e dintorni.
Sono tornata alle Pagine Bianche, ho digitato altri nomi, affascinata davanti allo schermo come sull'orlo di un limbo luccicante dal quale far riemergere una per una creature inabissate sin dall'estate 1958.
Erano davvero loro, quelli di cui France Télécom segnalava le coordinate con un cerchio azzurro su una mappa? Loro, sotto la macchia scura di un tetto che compariva ingrandendo al massimo una foto satellitare, circondati come un bersaglio da quella piccola circonferenza azzurra?
Mi sono gingillata con l'idea di chiamarli, anche quelli che non ero certa di aver identificato, con la scusa di un'inchiesta sulle colonie estive degli anni Cinquanta e Sessanta. Ho pensato di spacciarmi per una giornalista, fare domande. Per caso lei era a S nell'estate del 1958? Si ricorda di altri educatori? Di H, il capo educatore? E di quell'altra educatrice, anche se a dire il vero era passata presto alla segreteria medica, che si chiamava Annie Duchesne? Una ragazza abbastanza alta, castana, con i capelli lunghi e gli occhiali? Che cosa saprebbe dirmi di lei? Mi avrebbero certo domandato perché mi interessavo proprio a quella ragazza. Oppure mi avrebbero detto che avevo sbagliato numero. O avrebbero riattaccato.
In seguito mi sono chiesta perché volevo farlo, cosa stavo cercando. Non tanto essere certa che non avessero alcun ricordo di Annie D, e ancor meno ipotesi terrificante che ne avessero. In fondo volevo soltanto una cosa, sentire le loro voci, anche se era assai improbabile che potessi riconoscerle. Ottenere una prova fisica, sensibile, della loro esistenza. Come se avessi bisogno che fossero ancora vivi per continuare a scrivere. Bisogno di scrivere su qualcosa di vivente, con il rischio di metterlo a repentaglio, e non nella tranquillità conferita dalla morte delle persone, restituite all'immaterialità delle creature di finzione. Fare della scrittura un'impresa insostenibile. Espiare il potere di scrivere non la facilità, nessuno ne ha meno di me tramite la paura immaginaria delle conseguenze.
Sempre che, riflettendoci, non si trattasse del desiderio perverso di assicurarmi della loro esistenza per poi comprometterli nel corso della mia impresa di svelamento, per essere il loro Giorno del giudizio.
E entrata. Come spesso accade, tutto ciò che nelle settimane precedenti aveva immaginato di quel posto sparisce davanti alla visione della monumentale scalinata di pietra, delle colonne del lungo refettorio, degli immensi dormitori con il soffitto di un'altezza vertiginosa, dello stretto corridoio, buio, su in cima, dove una dopo l'altra sono schierate le porte delle stanze destinate agli educatori. Nella sua, l'ultima in fondo, l'educatrice con cui la deve condividere Jeannie, una folta chioma bruna di capelli ricci, occhialoni dalla montatura nera ha già preso il letto vicino alla finestra e occupato metà dell'armadio con le proprie cose. La sicurezza non priva d'esuberanza che riconoscevo in lei sul marciapiede davanti alla stazione l'ha già abbandonata. Man mano che entra in contatto con gli altri che arrivano alla spicciolata ha l'impressione che tutti si comportino come se fossero perfettamente a loro agio, determinati, già abituati a ogni cosa.
Per lei tutto è nuovo.
La prima notte rimane sveglia, infastidita dal respiro della sua compagna di stanza, che invece si è addormentata subito. Non le è mai capitato di dormire con qualcuno che non conoscesse. Le pare che lo spazio della stanza appartenga più alla sua coinquilina che a lei.
Gli altri vengono dai licei e dalle Scuole normali di magistero. Molti di loro hanno già preso servizio. Alcuni lavorano come educatori nella casa di convalescenza anche durante l'anno. Lei è l'unica a venire da un istituto religioso. Se è certo che detesta il collegio SaintMichel, è anche vero però che non ha nessuna esperienza di un mondo laico nel quale, ad esempio, il 15 agosto è un giorno come un altro, quello dell'arrivo dei bambini alla colonia, ed è la prima volta che non andrà alla messa dell'Assunzione. Durante il primo pasto comune le hanno domandato, e tu dove fai la muffa? Dopo un attimo di perplessità — non capisce al volo l'espressione risponde al liceo Jeanned'Arc di Rouen. Siccome poi le hanno chiesto se conosceva questa o quella ragazza, è stata costretta ad ammettere di essersi appena iscritta per l'anno successivo, di essere andata dalle suore fino ad allora.
La promiscuità la sconcerta. Non è preparata a relazioni di semplice cameratismo tra ragazzi e ragazze impegnati nello stesso lavoro. È una situazione nuova. In fondo, per parlare ai ragazzi, conosce soltanto le modalità di quella giostra popolare, al contempo prudente e incoraggiante, costituita di provocazioni e sfottò lungo le strade dove i maschi tampinano le ragazze. Alla riunione che precede l'arrivo dei bambini, passando in rassegna con lo sguardo la quindicina di ragazzi presenti, non ne ha trovato nessuno che corrisponda al suo sogno di una storia d'amore.
Due immagini dei primi giorni:
All'ora di pranzo, davanti alle porte del refettorio, un centinaio di bambini radunati sul prato assolato, sotto la guida del direttore, elegante nel suo completo dai colori autunnali, canta dapprima piano, poi sempre più forte fino a formare un brontolio che mette i brividi, e infine di nuovo a voce più bassa per farsi un appena udibile mormorio, Papà! Mamma! Questo bimbo ha un occhio solo! Papà! Mamma! Questo bimbo ha un dente solo! Ah! Santo cielo, che problema, un bimbo con un occhio solo! Ah! Santo cielo, che problema, un bimbo con un dente solo.
Sull'erba del parco dodici adolescenti in uniforme, maglione e pantaloncini azzurri, ballano a braccetto, tra loro, al centro, un'educatrice bionda con la coda di cavallo, che li guida con trasporto, un passo a destra uno a sinistra, cantando Ho le scarpe /pien di buchi / son Zazù / son Zazù.
Nella persistenza di queste immagini leggo il fascino che, sulla ragazza del '58, esercita quel mondo rigorosamente organizzato, cadenzato dal suono acuto del fischietto, ritmato da marcette in un'atmosfera di allegria e libertà. Una società in cui tutti, dal direttore alle infermiere, sono di buonumore, dove gli adulti le sembrano per la prima volta sopportabili. Una sorta di mondo chiuso ideale in cui ogni bisogno è soddisfatto con un'abbondanza, una generosità in termini di cibo, giochi e attività, di cui, dal suo collegio di Yvetot, semplicemente non avrebbe mai sospettato l'esistenza.
Leggo il suo desiderio di ambientarsi, ma anche un costante timore di non esserne capace, di non poter mai raggiungere il modello dell'educatrice bionda lei non conosce nessun canto in cui non compaia Dio. (Il sollievo nell'apprendere, il secondo giorno, che non sarà responsabile di un gruppo preciso di bambini, ma farà l'«educatrice volante», ossia la supplente degli altri educatori nei loro giorni liberi.)
È arrivata alla colonia da tre giorni. È sera, sabato. Nel dormitorio i bambini sono tutti a letto. La vedo come in seguito l'ho vista decine di volte, mentre scende per le scale con la sua compagna di stanza, in jeans, un pullover alla marinara senza maniche, sandali bianchi a listini. Si è tolta gli occhiali e ha sciolto lo chignon, i capelli lunghi le ondeggiano sulla schiena. E in fibrillazione, sta andando al suo primo party.
Non so più se ci fosse già della musica quando sono arrivate alla cantina, situata forse sotto l'infermeria o qualche altra struttura, comunque fuori dall'edificio principale. Né se lui fosse già lì, tra quelli che armeggiavano attorno al giradischi. Quel che è certo è che è stato il primo a invitarla a ballare. Un rock. Balla male, e ne è mortificata (possibile anche che se ne scusi con lui). Piroetta maldestra, guidata dalla mano di lui, i sandali fanno ciac ciac sul suolo di cemento. È turbata perché mentre la fa girare non le toglie gli occhi di dosso. Non è mai stata fissata da uno sguardo così intenso. Lui è H, il capo educatore. E alto, biondo, massiccio, un po' di pancetta. Non si chiede se le piaccia, se lo trovi bello. Sembra di poco più grande degli altri educatori, ma per lei non è un ragazzo, è un uomo fatto e finito, più in virtù del ruolo che dell'età. Come il suo omologo femminile, la capo educatrice L, per lei fa parte di coloro che comandano. Quel giorno, intimidita, aveva pranzato al suo stesso tavolo, imbarazzata perché non sapeva come mangiare la pesca servita come dessert. Nemmeno per un secondo ha immaginato di potergli interessare, è stupefatta.
Guidandola nella danza, indietreggia verso il muro continuando a fissarla. La luce si spegne. La tira a sé con violenza, schiaccia la bocca sulla sua. Nell'oscurità qualcuno protesta, la luce si riaccende. Lei capisce che è stato lui a premere l'interruttore. Non riesce ad alzare gli occhi per guardarlo, in una deliziosa forma di panico. Non sa capacitarsi di ciò che le sta accadendo. Lui bisbiglia, usciamo? Lei dice sì, non possono amoreggiare davanti agli altri. Sono fuori, costeggiano abbracciati le mura dell'edificio. Fa freddo. Vicino al refettorio, davanti al parco buio, la spinge contro il muro, si struscia contro di lei, che ne sente il sesso sulla pancia attraverso i jeans. Va troppo in fretta, non è pronta per tutta quella rapidità, quella foga, non prova alcuna sensazione. E soggiogata dal desiderio di H nei suoi confronti, un desiderio maschile senza remore, selvaggio, niente a che vedere con quello del suo flirt primaverile, lento e prudente. Non chiede dove sono diretti. Qual è stato il momento in cui ha capito che la stava portando in una camera, l'ha forse avvisata?
Sono nella stanza di lei, al buio. Non lo vede, non vede i suoi gesti. Qui è ancora convinta che continueranno a baciarsi e accarezzarsi attraverso i vestiti. Le dice «Spogliati». Da quando l'ha invitata a ballare ha fatto tutto ciò che le ha chiesto. Tra quel che le succede e quel che fa non c'è differenza. Si sdraia sul letto angusto accanto a lui, nuda. Non ha il tempo di abituarsi a quella nudità integrale, quel corpo maschile nudo, subito sente l'enormità e la rigidità del membro che le spinge tra le cosce. Lui insiste, forzando. Lei sente dolore. Dice di essere vergine, come per difendersi o per giustificarsi. Grida. Lui la rimprovera: «Preferirei sentirti godere, invece di strillare!».
Vorrebbe essere altrove, ma non se ne va. Ha freddo. Potrebbe alzarsi, accendere la luce, dirgli di rivestirsi e andarsene. O essere lei a rivestirsi, piantarlo lì e tornarsene alla festa. Avrebbe potuto. Io so che non ci ha neanche pensato. E come se fosse stato troppo tardi per tornare indietro, come se le cose dovessero ormai seguire il loro corso. Come se non avesse il diritto di abbandonare quell'uomo nello stato che lei provoca in lui. Di abbandonarlo con quel furioso desiderio di lei. Non può immaginare che non l'abbia scelta — eletta tra tutte le altre.
Il seguito si svolge come in un film a luci rosse in cui l'attrice è fuori tempo, senza sapere cosa fare perché non ha idea di cosa stia per accadere. E lui l'unico padrone della situazione, costantemente in anticipo di una mossa. La spinge giù, verso il basso ventre, la bocca sul cazzo. Subito dopo riceve la deflagrazione di un fiotto di sperma che le schizza fin nelle narici. Non sono passati più di cinque minuti da quando sono entrati in camera.
Non riesco a trovare nella memoria nessun tipo di sentimento, men che meno un pensiero. La ragazza sul letto assiste a ciò che le accade e che soltanto un'ora prima non avrebbe mai pensato di vivere, tutto qui.
Lui riaccende la luce, le domanda quale delle saponette appoggiate a sinistra e a destra del lavandino sia la sua, ci si strofina il sesso, lo strofina anche a lei. Si risiede sul letto. Lei gli offre del cioccolato al latte con le nocciole che ha portato dalla drogheria, lui ride, quando ti arriva lo stipendio compra piuttosto del whisky! E un liquore chic che i suoi genitori non vendono, e in ogni caso l'alcol le fa schifo.
La sua compagna di stanza potrebbe tornare dalla festa da un momento all'altro. Si rivestono. Lo segue nella camera che lui, in virtù del suo ruolo alla colonia, occupa da solo. Si è privata di qualsiasi volontà personale, affidandosi a quella di H, alla sua esperienza di uomo. (La ragazza di S non conoscerà mai i pensieri del capo educatore. Sono per me un enigma ancora oggi.) Ignoro quale sia il momento in cui lei, più che rassegnarsi, acconsente a perdere la verginità. Vuole perderla. Collabora. Non mi ricordo quante volte ha provato a penetrarla e, poiché non ci riusciva, lei gliel'ha preso in bocca. A un certo punto lui ha ammesso, quasi per scusarla: «Lo so, è largo».
Ripete che vorrebbe farla godere. Ma lei non può, le strapazza il sesso con troppa foga. Forse ci riuscirebbe se usasse la bocca anche lui. Non glielo chiede, una ragazza non può domandare una cosa simile, sarebbe una vergogna. Fa soltanto ciò di cui è lui ad avere voglia.
Non è a lui che si sottomette, ma a una legge indiscutibile, universale, quella di una ferocia maschile che un giorno o l'altro avrebbe comunque dovuto subire. Che si tratti di una legge brutale e abietta, così è.
Le dice parole mai ascoltate, che la fanno passare dal mondo delle adolescenti che ridacchiano sotto i baffi per oscenità appena sussurrate a quello degli uomini, parole che comportano la sua entrata nella sfera puramente sessuale:
Questo pomeriggio mi sono masturbato. Un bel gruppo di lesbicone, nella scuola tua, eh?
Lui ha voglia di parlare e parlano tranquillamente, abbracciati, davanti alla finestra circondata da una carta da parati per bambini. E originario del Massiccio del Giura, professore di ginnastica in una scuola di avviamento professionale di Rouen, è fidanzato. Ha ventidue anni. Fanno conoscenza. Lei dice di avere i fianchi larghi. Lui risponde: «Hai i fianchi da donna». È contenta. E diventata una relazione normale. Probabilmente hanno dormito un po'.
Si è fatto giorno, lei torna in camera sua. A partire dall'istante in cui l'ha lasciato le è piombata addosso tutta l'incredulità di ciò che è appena accaduto. Non è ancora uscita dallo stupore, ma è anche in preda all'ebbrezza di un avvenimento che per diventare reale ha bisogno di essere enunciato, formulato. Che spinge a raccontare tutto. Alla sua compagna di stanza, già lavata e vestita, pronta a scendere per la colazione, dice: Sono andata a letto con il capo educatore.
Non so più se le viene già da pensare di aver appena vissuto «una notte d'amore», la sua prima.
È la prima volta che rievoco quella notte tra il 16 e il 17 agosto 1958 provando una profonda soddisfazione. Mi sembra di non potermi avvicinare alla realtà più di così. Una realtà che non era né l'orrore né la vergogna. Solo l'obbedienza a ciò che accade, l'assenza di significato di ciò che accade. Non posso spingermi oltre in questa sorta di migrazione volontaria in quello che era il mio essere a neanche diciott'anni, nella sua ignoranza di ciò che succederà poi, di quella domenica che sta per cominciare.
È l'ora di pranzo, nel baccano del refettorio è seduta a capotavola con il compito di tenere a bada una decina di bambini rumorosi. Non può mandar giù nulla delle verdure viscide e nerastre che ha nel piatto (melanzane, non le ha mai mangiate in vita sua). Mi sembra come se stia trattenendo il fiato dalla sera prima, quando è arrivata alla cantina. Lo vede comparire tra le colonne del refettorio, ispezionare, compiere evoluzioni tra i tavoli. Si ferma all'altro capo del suo, di fronte a lei tra le due file parallele di bambini, la fissa senza una parola. Lei vede quello sguardo si è rimessa gli occhiali che la sovrasta, la copre, che vuole obbligarla a ricordarsi di ciò che ha fatto quella notte. Abbassa gli occhi, non può sopportare quello sguardo sporgente, è una bambina colpevole in mezzo ad altri bimbi. (Molto dopo mi rimprovererò per non aver sostenuto quello sguardo carico della memoria della notte, della complicità che cercava sponda in lei e che la ragazza di quella mattina è incapace di interpretare.) Non riesco a tracciare la sequenza temporale se non saltando da un'immagine all'altra, da una scena all'altra, scene che raramente devono essere durate più di un minuto, forse solo pochi secondi, ma che nella memoria si dilatano a dismisura, come se si aggiungesse qualcosa a ogni passaggio. E, come quando si gioca a Un due tre stella e la persona rivolta contro il muro, nel girarsi, vede solo giocatori immobili nella loro avanzata, lo scorrere della vita tra un'immagine e l'altra mi è ormai invisibile da molto tempo.
La vedo il pomeriggio, mentre legge le prime pagine dell'edizione tascabile de La condizione umana. Ogni volta che legge una frase dimentica la precedente. Dopo l'uccisione dell'uomo addormentato sotto la zanzariera perde il filo della storia e non capisce più niente. Non si è mai trovata in una simile incapacità di leggere.
La vedo la domenica sera, nella camera di lui, quando i bambini sono già a letto e gli educatori sono liberi, tranne quelli che devono sorvegliare i dormitori immersi nella luce bluastra delle lampade da notte. È lui che le ha dato appuntamento incrociandola nel pomeriggio, oppure ci è andata di sua iniziativa? In ogni caso, per lei è inimmaginabile che, dopo la notte precedente, non passino assieme anche questa. Lui se ne sta sdraiato — lei gli è seduta accanto, sul bordo del letto e giocherella con il foulard a fiori che si è infilata nella scollatura del cardigan azzurro indossato sulla pelle nuda. Lei fa il primo errore. Con la stessa innocenza con cui gli aveva offerto del cioccolato, la stessa ignoranza in fatto di uomini, senza rendersi conto della ferita che sta per infliggere all'amor proprio di quel ragazzo, ferita che nella mia memoria è cresciuta nel corso degli anni sembrandomi via via più inaudita, gli dice: «Dopo il Barbuto, sei tu il migliore della colonia», paragonandolo a un educatore con la barba bionda e il fisico da giocatore di rugby.
Crede di avergli fatto un complimento e non coglie affatto l'ironia della sua replica:
«Grazie tante!». Infatti aggiunge:
«Ma guarda che è vero!»
Gli dice questa cosa non per ferirlo, ma come una verità scollegata da loro due, esterna, che in nessun modo può significare una sua preferenza per il Barbuto.
Nel vederlo rabbuiarsi capisce di aver fatto una gaffe, ma subito, dentro di sé, la minimizza: vive quegli attimi nell'autismo del desiderio di un'altra notte con H. E sicura che l'avrà, per ciò che c'è stato tra loro, ciò che hanno fatto e anche ciò che devono ancora fare. Lui è il suo amante. Lei aspetta un segno. Il fatto che questo segno non arrivi forse la sconcerta.
Nella scena successiva lui se n'è andato dalla stanza. Lei resta in piedi ad aspettare, credendo che tornerà.
Non è lui a entrare in camera, è un bretone dai capelli ricci e scuri, Claude L. Le fa capire che non serve a niente che se ne resti lì in attesa, H non tornerà. Credo che a quel punto gli domandi se è andato dall'educatrice bionda, Catherine P. Il bretone non risponde. Forse ride.
(A partire da qui non riesco più a penetrare il pensiero della ragazza di S, posso solo descriverne i gesti, le azioni, riportare le parole che le dicono gli altri, più di rado quelle che pronuncia lei.) La vedo nella luce fredda della stanza di
H, stordita, incredula, forse in lacrime, che fugge a rintanarsi nell'angolo tra la parete e l'uscio perché qualcuno ha appena bussato.
Dietro la porta spalancata, attaccata al muro, sente ridere Monique C e la ascolta dire al ricciolino - che dunque, capisce con orrore, deve averle appena rivelato la sua presenza con un gesto muto «E adesso che vuole questa? Sarà mica sbronza?».
Esce dal suo nascondiglio, si mostra. E lì, davanti a loro due, a un metro di distanza, senza scarpe, con Monique C che la squadra divertita da capo a piedi. Non so più che cosa implori - parole poi sepolte sotto la vergogna, forse che le dicano se H è davvero con la bionda —, né quale sprezzante rifiuto le oppongano per indurla a rivolgere a Monique C questa supplica: «Ma allora non siamo amiche, noi due?». E perché Monique ribatta con violenza, una specie di repulsione: «Ma chi ti conosce?».
Mi passo e ripasso la scena nella testa, l'orrore non si è attenuato, quello di essere stata così miserabile, una cagna che va a mendicare una carezza e riceve un calcio.
Ma questa visione reiterata non attenua l'opacità di un presente scomparso da mezzo secolo, lascia intatta e incomprensibile quell'avversione di un'altra ragazza nei miei confronti.
Resta una sola certezza: Annie D, la ragazzina viziata dai genitori, la studentessa brillante, in questo preciso momento è, nello sguardo di Monique C, di Claude L, di tutti coloro che avrebbe voluto come propri pari, un oggetto di scherno e disprezzo.
Non è più nella camera di H. In che momento di questa stessa domenica sera, smarrita, sconvolta, ha incrociato per caso
— oppure volontariamente raggiunto — il piccolo drappello di educatori, maschi e femmine, radunati dal desiderio vespertino di festeggiare e far baccano, in preda, forse, a una qualche tentazione di nonnismo in quest'inizio di colonia? Resta il fatto che la vedo nel corridoio, a lamentarsi perché le son finiti negli occhi i capelli zuppi, infradiciati da una secchiata d'acqua probabilmente accompagnata dalle grida di caccia che, in quel gruppo, sarebbero poi diventate rituali. Tra le risate qualcuno le dice:
«Così assomigli a Juliette Gréco!». Attraverso i capelli bagnati vede che c'è anche lui, H, massiccio, immobile sulla porta di camera sua, che osserva la scena sorridente con l'indulgenza di un adulto davanti alle ragazzate di qualche studente. (Oggi mi sarebbe facile supporre che, già al corrente di tutto, il gruppo avesse progettato di portarmi fino in camera sua, così, per gioco.) Commette la seconda goffaggine della serata. Si stacca dal gruppo, grida il suo nome, lo chiama in aiuto ridendo, ripetendogli quello che hanno detto di lei, che assomiglia a Juliette Greco. Per lei è naturale cercare rifugio in lui, a causa della notte prima, della loro nudità. Fa per gettarsi tra le sue braccia. Lui le tiene lungo il corpo, continua a sorridere senza dire niente, si gira e rientra in camera. (Probabilmente si stava convincendo che quella ragazza fosse una cretina, che non valesse la pena accollarsela, un'invasata che si crede Juliette Gréco.) In questa domenica grigia del novembre 2014, guardo la ragazza che è stata me mentre guarda lui - l'uomo con cui è stata nuda per la prima volta, che l'ha avuta a sua disposizione per la notte - voltarle le spalle davanti a tutti. Non la attraversa nessun pensiero. E tutta nella memoria dei loro due corpi, dei loro gesti, di ciò che è stato fatto - che l'abbia voluto o meno.
È nello sgomento della perdita, nell'inammissibilità dell'abbandono.
E smarrita, una ragazza di pezza. Nulla ha importanza per lei, si lascia trasportare dal gruppetto sovreccitato con la docilità di chi non sente più niente. Eccoli nel piccolo edificio nuovo a sinistra dell'abbazia, uno stanzone dai muri verdastri con un'unica lampadina che penzola dal soffitto.
Non ha addosso gli occhiali. Gli altri insistono nel sostenere che sia la camera delle due segretarie del direttore, partite per il weekend, ma lei è sorpresa del fatto che si comportino come se fossero a casa propria. Mettono dischi di Robert La- moureux e Fernand Raynaud, tirano fuori bicchieri e bottiglie di vino bianco. Non si rende conto che in realtà si stanno divertendo alle sue spalle, che, come scoprirà soltanto l'indomani, le stanno facendo uno scherzo. In realtà la stanza è quella dei due educatori incaricati delle attività sportive dei bambini, Guy A e Jacques R, che la sta stringendo in un abbraccio sul letto dove sono seduti assieme agli altri.
Avevano forse già cominciato - come le dirà qualche giorno più tardi Claudine D, l'educatrice con una voglia color vinaccia sulla guancia - a «prenderla per il culo», tutti di certo già al corrente della sua notte con il capo educatore e spettatori della scena nel corridoio che l'aveva proclamata indegna di lui?
Li sente ridere, raccontare barzellette sporche
— assente e insensibile. (Ora, nello scrivere di questo momento, vi si sovrappone l'ultima scena del film di Barbara Loden, dove in un locale si vede Wanda, tra due festaioli, muta, accettare una sigaretta che le viene offerta, girare la testa a destra, a sinistra.
Non è più là. Prima ha detto «non valgo niente». La macchina da presa le inquadra il volto immobile che a poco a poco si dissolve.} Il seguito di Wanda è stato girato quindici anni prima in una camera dell'Orne, a S.
Qualcuno ha spento la lampadina, sono sdraiati a coppie sui letti e per terra. Il giradischi continua a suonare. È stesa su un materasso appoggiato sul pavimento con Jacques R, sono nudi dalla vita in giù nello stesso sacco a pelo. Non smette di baciarla e a lei non piacciono le sue labbra mollicce.
Spinge in avanti il sesso, più sottile di quello di H, lei dice di no, che è vergine.
La bagna tra le cosce. Mi sembra che lei pianga, mentre nel buio sente gli altri ragazzi scambiarsi informazioni su come procedano le loro manovre con le ragazze, a suon di battutine, e Dalida canta Nel mio cuore la gioia ci sarà lalalalayéyéyéyé / Parto verso la felicità.
Lui riprova a penetrarla. Si dà da fare senza essere brutale, nell'ostinazione del desiderio.
Lei ha paura che ci riesca. Non le viene in mente di andarsene. Non è il bene, non è il male, ma qualcosa tra lo sconforto e la consolazione procurata da un corpo sostitutivo, dallo stesso desiderio maschile in un altro corpo. Il proprio, lei lo sta soltanto prestando, strenuamente decisa, però, a difenderne l'entrata. E probabile sia già animata dalla volontà di «darsi» - così si diceva — soltanto a H, l'uomo che la notte prima l'aveva supplicata di farlo e che poco fa l'ha respinta.
La seguo, questa ragazza, immagine per immagine, dalla sera in cui è scesa alla cantina con la sua compagna di stanza e H l'ha invitata a ballare, ma mi è impossibile cogliere tutti i singoli slittamenti, la logica, che l'hanno portata dov'è, nello stato in cui è.
Posso soltanto dire che, quando all'alba di lunedì 18 agosto torna in camera sua, dove ancora una volta la sua compagna è già in piedi, ciò che è successo nel sacco a pelo con Jacques R è per lei completamente privo di significato, come se non fosse mai accaduto. (Dopo essersi spaventata alla vista del sangue quando si è sfilata i jeans per cambiarsi, per poi rendersi conto con sollievo che le era soltanto venuto il ciclo, in anticipo di otto giorni.) La vedo, Annie D, all'apice del desiderio, nell'assoluta negazione di tutto ciò che non è il suo desiderio di H, nella convinzione che prima o poi la vorrà anche lui, continuando a crederci pure dopo che, quella sera stessa, quando è andata in camera sua, lui le ha opposto un rifiuto netto, offeso, la cui indignazione è motivata dal fatto che «è andata con R», e persino dopo aver saputo che Catherine, l'educatrice bionda - fidanzata con un coscritto d'Algeria, come comprovato dalla pietra azzurra del suo anello e dal timbro del Fronte militare sulle lettere che tutti i giorni le vengono posate di fianco al piatto -, l'ha sostituita nel letto del capo educatore.
Vuole che lui compia i gesti, tutti quei gesti che stanno a significare che la desidera.
Vuole che tragga da lei il suo piacere, che si sfinisca di piacere su di lei. Per se stessa, invece, di piacere non se ne aspetta.
Non rinuncia a lui, attende soltanto che la voglia una sera, per capriccio, perché si è stancato della bionda, per pietà, poco importa. Il suo bisogno di lui, di lasciarlo padrone del suo corpo, la rende estranea a ogni senso di dignità.
Per quegli occhi un po' assonnati, le labbra spesse, la corporatura, trova che assomigli a Marlon Brando. Non importa che alcune educatrici dicano a bassa voce che è grande, grosso e scemo. Tra sé e sé lei lo chiama l'Arcangelo.
Durante un'ora di pausa entra nella cattedrale di S prestando attenzione a non farsi scorgere da uno di quegli educatori che non perderebbero l'occasione di prendersi gioco di lei, a cominciare da quel maestro delle elementari originario del Sud della Francia che quando la incontra si mette a cantare una parodia oscena dell'Ave Maria di Lourdes lanciandole occhiate allusive. Il Dio che prega è solo il feticcio di H, il vero Dio che le ha voltato le spalle, indifferente alla sua disperazione, alla sua miseria. Che le ha preferito la bionda. Signore, di' soltanto una parola e io sarò salvata.
Scrivendo, mi accorgo che finora non mi era mai venuto in mente che la bionda potesse aver deciso di prendere un posto che io avevo occupato quasi per caso e che, fidanzata o meno, non poteva certo lasciare a quella goffa spilungona con gli occhiali spessi che è quanto deve aver pensato di me sin dal primo giorno, quando in infermeria ci eravamo sottoposte una dopo l'altra alla radiografia di rito. Ed è quanto devono aver pensato anche gli altri, che non ho mai sentito criticare il suo doppio gioco, acconsentendo inconsapevolmente all'avventura estiva tra il capo educatore ben piazzato e la maestra carina la cui bellezza scultorea, svelata un giorno in costume da bagno, susciterà poi i fischi di ammirazione dei ragazzi e i soliti giochi di parole su «pinup», con il dito alzato a suggerire un'erezione. Probabilmente ero anch'io dello stesso avviso. La trovavo più bella, più tutto. Nel 2003 ho riassunto lapidaria: «Lei è, io non sono».
Più vado avanti e più scompare quella sorta di semplicità precedente del racconto sedimentato nella mia memoria. Scavare fino in fondo in quel 1958 significa accettare la polverizzazione delle interpretazioni accumulate nel corso degli anni. Non appianare nulla. Non costruisco un personaggio di finzione. Decostruisco la ragazza che sono stata.
Un sospetto: quello di aver voluto, oscuramente, dispiegare questo momento della mia vita per testare i limiti della scrittura, spingere aH'estremo la colluttazione con il reale (arrivo a pensare che da questo punto di vista i miei libri precedenti siano solo delle approssimazioni). Forse anche mettere in gioco la figura di scrittrice che mi viene rimandata dall'esterno, farne scempio, accanirmi a denunciare un'impostura, quasi a dire «non sono quel tipo di donna, sono diversa», riecheggiando di conseguenza il «non sono quel tipo di donna, sono riversa» sghignazzato al mio passaggio dagli educatori.
Il seguito, la questione della scrittura del seguito, quando H non vuole più saperne di lei e lei non vuole più saperne di Jacques R.
Come entrare, adesso, nella deriva incantata di quella ragazza, in quella sensazione di stare vivendo il momento più esaltante della sua vita che la rende insensibile a tutte le prese in giro, ai commenti sarcastici, a quelli offensivi.
Con che tono tragico, lirico, romantico, magari persino umoristico, non sarebbe poi così difficile — riferire ciò che ha vissuto a S con una tranquillità e una hybris che gli altri, nessuno escluso, hanno interpretato come la stupidità pura di una che la dava facile.
Dovrei forse scrivere che, dieci anni prima della rivoluzione di Maggio, ero di un ardimento eccezionale, un'avanguardista della libertà sessuale, un'incarnazione della Bardot di E Dio creò la donna — che non avevo visto , e dunque assumere un tono giubilante, quello che anima la lettera che ho sotto gli occhi, spedita a MarieClaude a fine agosto '58: «Quanto a me, tutto va per il meglio nel migliore dei mondi [...] sono stata a letto per tutta la notte con [...] il capo educatore. Ti traumatizzo, con questa rivelazione? Il giorno dopo sono andata a letto anche con uno degli educatori di ginnastica. Ecco, sono cinica e amorale. E il peggio è che non ho nessun rimorso. In fondo è talmente semplice che dopo due minuti non ci penso già più». In questa ipotesi, osservo la ragazza di S con lo sguardo di oggi, un tempo in cui, al di fuori dell'incesto e dello stupro, nulla di ciò che riguarda la sfera sessuale è da reputarsi condannabile, in cui su internet posso leggere frasi come «Vanessa ha deciso di passare le prossime vacanze in un hotel per scambisti». O altrimenti dovrei adottare il punto di vista della società francese del 1958, per la quale tutto il valore di una ragazza era riposto nella sua «condotta morale», e quindi affermare che quella ragazza è stata penosamente incosciente e candida, ingenua, addossando su di lei tutta la responsabilità? O ancora, dovrei continuamente passare da un punto di vista all'altro, da quello del 1958 a quello del 2014? Sogno una frase capace di contenerli entrambi, senza frizioni, grazie al semplice meccanismo di una nuova sintassi.
Si fa baldoria ogni sera. Lei c'è ovunque si improvvisi un party, nelle stanze in cui si ascoltano dischi con la luce spenta, nelle sfide lanciate per scommessa piazzare la Citroen 2cv del direttore nel refettorio , nei giri notturni per le strade deserte di S dopo aver scavalcato il muro di cinta. Non vuole perdersi nulla del presente, della promessa che la sera porta con sé. La vedo: appollaiata su uno sgabello del bar Chez Graindorge a bere gin, a dispetto di quel suo disgusto per l'alcol, che le viene dagli ubriaconi del bar dei genitori in equilibrio sul muro dell'abbazia con la paura di cadere perché è un po' sbronza in comitiva, a braccetto tra due ragazzi, urlando in coro una canzone goliardica, il De profundis morpionibus, in preda all'esaltazione e a quel senso di superiorità dati dall'andarsene a spasso per le strade mentre la gente dorme al cinema, con la testa posata su una spalla — di chi? davanti a un film dei Paesi dell'Est, I dannati di Varsavia, ridotto a una nebbia confusa perché non ha gli occhiali e non vede né le immagini né i sottotitoli soprattutto, precipitarsi giù per le scale saltando i gradini quattro a quattro, una Gauloise tra le dita, per raggiungere il gruppo la cui composizione varia a seconda dei turni di sorveglianza nei dormitori, della formazione di coppie che hanno preferito la solitudine di una stanza smaniosa di immergersi nell'euforia collettiva.
Più ancora che sulla realtà della sua felicità, è sulla coscienza della realtà della sua felicità che non ho nessun dubbio, proprio quella consapevolezza che la citazione riportata sull'agenda rossa decretava come necessaria: L'unica felicità reale è quella di cui ti accorgi mentre la vivi. (Alexandre Dumas figlio).
In lei non c'è più nulla di Yvetot, del collegio e delle suore, del bardrogheria. A metà settembre i suoi genitori verranno a trovarla assieme a uno zio e una zia. Vedendoli sbarcare gesticolanti e chiassosi dalla Renault 4cv davanti all'arco d'ingresso tutto ciò che proverà sarà lo stupore di averli dimenticati tanto radicalmente nel giro di un mese. Con un vago sentimento di pietà, li troverà invecchiati.
E abbagliata dalla sua libertà, dall'estensione della sua libertà. Guadagna i primi soldi, compra ciò che ha voglia di comprare, dolci, dentifricio Email Diamant rouge. Quella vita è tutto ciò che vuole. Ballare, ridere, far baccano, cantare canzonacce goliardiche, flirtare.
Vive fino in fondo la leggerezza di essere svincolata dallo sguardo di sua madre.
(Un'immagine meno gloriosa, tuttavia, contraddice la costanza di questa felicità. Quella di una ragazza un po' titubante, di sera, sola, nel corridoio che conduce alle toilette vicine al refettorio a colonne, mentre si domanda, nella propria coscienza che sente come rimpicciolita in una pozzanghera fluttuante al di sopra di un corpo che le sfugge ma con l'intensità che dà il vino bianco, che cosa è diventata.) Da quando ha conosciuto H sente il bisogno di un corpo maschile contro il suo, di mani, un sesso eretto. L'erezione consolatrice.
È fiera di essere un oggetto di cupidigia, e la quantità di flirt le appare come una dimostrazione del proprio potere seduttivo. L'orgoglio della collezione. (Testimoniato da questo preciso ricordo: dopo aver baciato in un campo uno studente di chimica in vacanza a S, vantarmi con lui del numero di ragazzi che ho avuto alla colonia.) Nessuna lungaggine civettuola, nessun temporeggiare rimandando a un altro momento il desiderio che ha del loro desiderio. Vanno dritti al punto, si credono autorizzati a farlo dalla reputazione che la precede. Mentre la baciano le alzano la gonna o le abbassano la cerniera dei jeans. Tre minuti, tra le cosce, sempre. Lei dice che non vuole, che è vergine. Nessun orgasmo, mai.
Passa dall'uno all'altro, non si affeziona a nessuno, nemmeno a Pierre D, che per più notti ha raggiunto nello stanzino munito di una finestrella da cui sorveglia il grande dormitorio dei bambini e dal quale si è sentita dire per la prima volta «ti amo», rispondendogli:
«No, è solo desiderio.»
«Invece è vero, Annie, te l'assicuro.»
«No.»
Sensazione, ora, di glorificare questo io del 1958, che non posso dire sia morto poiché di nuovo mi ha invaso l'8 febbraio 1999 quando ho rivisto La ragazza delpeccato con Brigitte Bardot, film di cui ho subito scritto sul diario: «Sbalordimento, mi accorgo che nel '58 mi comportavo con gli uomini proprio come Bardot, le stesse gaffe, la spontaneità nel dire all'uno che avevo amoreggiato con l'altro. Senza nessuna regola. Di tutte le immagini di me, questa è la più rimossa». Di rivendicare questo io impavido che invece in seguito ho temuto, ossessionata, potesse prendere il sopravvento, dettare la direzione della mia esistenza fino a condurmi a un qualche tipo di rovina che non avrei saputo definire.
Ma ciò che ritrovo nell'immergermi in quell'estate è un desiderio immenso, non formulabile, al cui confronto risultano insignificanti la buona disposizione delle ragazze che con consapevolezza fanno tutto, fellatio eccetera, i rituali codificati delle pratiche sadomaso, la sessualità senza complessi di tutti coloro che ignorano la disperazione della pelle.
I loro nomi e cognomi otto, contando H e Jacques R compaiono uno sotto l'altro nelle ultime pagine di un'agendina, quella del 1963 che ho utilizzato per scrivere L'événement. Oggi ignoro le ragioni di quell'elenco stilato più di quattro anni dopo la colonia.
Quasi certamente li avevo già scritti anche nell'agenda del 1958, che mia madre ha bruciato alla fine degli anni Sessanta assieme al mio diario, certa così di contribuire alla mia salvezza sociale distruggendo le tracce della dissolutezza di sua figlia, ormai diventata prof di lettere, «sposata bene» e madre di due bambini sua figlia, il suo orgoglio, la sua rabbia, la sua opera. La verità è sopravvissuta alle fiamme.
Tranello storico della scrittura di sé: questo elenco, che a lungo ha materializzato la mia «licenziosità» parola di per sé già connotata storicamente —, nel 2015 mi pare, se non corto, perlomeno tutt'altro che scandaloso. Per rendere tangibile oggi l'ignominia gettata sulla ragazza di S devo confrontarlo con un altro elenco, quello degli sberleffi triviali, delle sguaiataggini, degli insulti travestiti da battute spiritose con i quali il gruppo degli educatori l'ha trasformata in oggetto di scherno e disprezzo. Quegli educatoridall'egemonia verbale indiscussa e perfino ammirata dalle educatrici che valutavano il potenziale erotico di tutte le ragazze, suddividendole in «baciapile» e «baciapalle». Enumerare quindi gli sberleffi che le venivano bellamente rivolti per divertire gli astanti di entrambi i sessi, soprattutto il primo, sempre pronto a rincarare la dose mentre il secondo sorrideva senza mai disapprovare: Non sei quel tipo di donna, sei riversa
Leggi troppi romanzi
Dove li hai trovati quegli occhiali da sole
(che io trovo carini), da un rigattiere?
Hai il culo a bacinella
Ecco in marcia il corpo medico (questo perché, essendo presto emersa in maniera evidente la mia incompetenza didattica, ormai sostituisco di fatto la segretaria dell'infermeria che è partita per le vacanze).
I doppi sensi accompagnati dal gesto di toccarsi i testicoli: Ho un grosso affare da proporti Sull'attenti!
Le canzoni parodiate al suo passaggio: Come prima /più di prima / io verrò ecc.
Senza dimenticare il loro proverbio preferito: L'uomo propone, la donna dispone. Quanto a lei, dispone a casaccio.
Scrivere finalmente la parola, quella che autorizza le oscenità, la scomposta negazione delle sue capacità intellettuali, la maturità a te? Ah ah, io non t'avrei dato neanche la terza media, la parola insultante, appena appena attenuata, ingentilita, dall'espressione di cui in quell'estate 1958 si faceva un uso intensivo: Puttana della domenica.
E stata scritta, senza attenuazioni, sullo specchio del lavandino di camera mia, a grandi lettere rosse con il mio dentifricio: Viva le puttane. (Formulazione che aveva scatenato la rabbia della mia giudiziosa compagna di stanza aveva avuto un solo flirt e suscitato il mio commento ironico: cos'è, ti dà fastidio il plurale?)
La ragazza del '58 non si offende, mi pare anzi che sia divertita da quelle che interpreta come aggressive spiritosaggini, ormai abituali. Forse vi legge un'ulteriore prova della fallacia del loro giudizio. C'è un errore. Lei non è la ragazza che dicono.
A che cosa attribuire, oggi, quella certezza? Alla sua verginità, conservata con determinazione? Al suo brillante percorso scolastico? Al fatto che legge Sartre? Più di ogni altra cosa: al suo pazzo amore per H, l'Arcangelo, come continua a chiamarlo anche davanti a Claudine D che, battendosi il dito sulla tempia, la tratta da sciroccata —,a quella specie di incorporazione di lui in lei che la mantiene al di sopra della vergogna.
Non è la vergogna, ne sono certa, ad aver fissato quel ricordo, le parole scritte con il dentifricio rosso, ma la falsità dell'insulto, del loro giudizio, dell'accostamento tra puttana e lei. Non vedo nulla, in quel periodo, che si possa definire vergogna.
Nemmeno quando, all'ora di pranzo, scorge cinque o sei educatori che si spintonano ridendo davanti alla bacheca vicino al refettorio. Si avvicina e scopre, spiegazzata e affissa tra gli annunci con una puntina, esposta alla vista di tutti, la lettera di confidenze che il giorno prima aveva scritto a Odile, la sua amica del cuore, per poi accartocciarla e buttarla via prima di cominciarne un'altra. Gli altri la circondano, scoppiano a ridere, citano le parole della lettera, allora è così, ti senti morire quando H ti posa una mano sulla spalla? Lei si infuria, grida che sono tutti degli stronzi, che non hanno il diritto, chiede chi ha osato fare una cosa del genere. Dicono che è stato il cuoco, ha trovato la lettera nel cestino. Lei la strappa dalla bacheca, esige di vederlo, e lui non si fa pregare, esce allegro dalla cucina, compiaciuto di aver avuto quell'iniziativa che sta facendo piegare tutti dalle risate.
Lo rivedo, V, quarantenne paffuto, biondo, con la giacca a scacchi bianchi e azzurri, un
uomo gentile e simpatico come sua moglie la cuoca. Tutto contento, l'aria soddisfatta. Ho avuto voglia di prenderlo a schiaffi? E inschiaffeggiabile, gli altri sono tutti con lui, formano un muro di risate che la accerchia. Lui sinceramente non vede cosa ci sia di male. E lei, si rende conto di quanto sia inutile continuare a ripetere, con rabbia, «non potete, non avete il diritto»? Di avere torto, tutti i torti, quello di aver scritto una lettera sentimentale, di averla lasciata in giro? Di quanto non ci si debba formalizzare quando si tratta di lei, puttana della domenica, innamorata come una cretina di un tipo che passa le notti con una bionda assai più sensuale? Di non poter lottare contro l'immagine che ormai si sono fatti di lei, perché è quella a dettare legge, ad autorizzare il gesto del cuoco e l'ilarità generale? Non ricordo che abbia tracciato questo legame tra ciò che pensano di lei e ciò che le fanno. Forse a questo punto è soltanto ossessionata dalla tutt'altro che remota possibilità che H abbia letto la lettera e rida di lei quanto e più degli altri.
Oggi paragono l'episodio della lettera alla notte con H: la stessa impossibilità di convincere, di far valere il mio punto di vista. Rivivendola ancora nella mente, mi accorgo che quella scena si spersonalizza. Al centro non ci sono più io, e nemmeno Annie D. Quanto accaduto nel corridoio della colonia si tramuta in una situazione che affonda in un tempo immemorabile e percorre la terra. Ogni giorno e dappertutto nel mondo ci sono uomini che accerchiano una donna, pronti a scagliare la pietra.
La scena della ragazza del '58 in mezzo al cerchio. Oggi che la spoglio del carattere infamante che l'ha ammantata a partire dalle lezioni di filosofia dell'ottobre successivo e che me l'ha fatta raccontare per la prima volta soltanto l'estate scorsa a un'amica scrittrice, so che la ragazza del '58 non si vergogna di quello che ha scritto nella sua lettera. Ciò che vive è lo stupore, l'incomprensione del fatto che l'ignominia ricada su di lei e non sul cuoco. L'incredulità che
tutti applaudano a quel gesto disgustoso, che nessuno prenda le sue difese. Il limite che hanno appena oltrepassato mostra che non la tengono nella stessa considerazione delle altre educatrici, che quando si tratta di lei si permettono qualsiasi cosa. Non è pari alle altre. Non vale quanto loro. Ma chi ti conosce?, ha detto Monique C. La spensieratezza — la leggerezza — del suo posto all'interno del gruppo è compromessa.
Non il suo bisogno di farne parte.
Credo che non l'abbia neanche sfiorata l'idea di rassegnarsi a ciò cui l'avrebbero dovuta costringere la dignità e un po' di cura di sé, non unirsi più al gruppo e andarsene a letto presto seguendo l'esempio di qualche altra educatrice. Non può privarsi di qualcosa che, da quando è arrivata alla colonia, è un'assoluta e continua scoperta, l'incanto di vivere tra coetanei in un luogo tagliato fuori dal mondo sotto il controllo distante e benevolente di una manciata di adulti. Questa esaltazione di appartenere a una comunità cementata dagli scherzi notturni, dai giochi di parole e dalle canzoni oscene, da una fraternità di sberleffi e volgarità. Quest'euforia dell'intera esistenza, come se la nostra giovinezza facesse leva su quella degli altri l'ebbrezza comunitaria.
Una felicità raddoppiata nei miei ricordi dalla presenza di centinaia di bambini i cui giochi e le cui risate e grida si fondevano in un unico strepito che saturava lo spazio sin dal mattino, che tuonava nell'immenso refettorio all'ora dei pasti e si spegneva sotto gli alti soffitti dei dormitori immersi nella luce azzurrognola delle lampade da notte.
Poiché la felicità del gruppo è più forte dell'umiliazione, la ragazza del '58 vuole continuare a essere una di loro. La vedo che aspira ad assomigliare agli altri fino al mimetismo, che ne copia i modi di dire, i tic linguistici, «dacci un taglio o te lo do io», «sei una pressa», «è primaveeera!», «non fare il minorato», anche se a lungo andare fatica a sopportarli. Che infila in ogni frase lo strascinato euh là caratteristico della Bassa Normandia. All'interno del gruppo, i ragazzi e le ragazze che frequentano o hanno frequentato la Scuola normale di magistero costituiscono una gioiosa tribù anticlericale, saldata dalla certezza di appartenere a un'élite, un compatto blocco fiero e solidale che lei invidia. Li ascolta parlare delle conoscenze che hanno in comune, della Norma, come chiamano la loro scuola. Lei non racconta nulla del collegio, sapendosi in partenza screditata per via delle sue suore «una banda di represse» , delle preghiere obbligatorie, di quell'educazione cattolica che loro ridicolizzano tra gli sghignazzi.
Reversibilità dell'umiliazione. Poiché è corsa voce che un educatore arrivato di recente, André R, si sarebbe vantato di «essersi fatto» una quattordicenne della colonia precedente, il gruppo ha deciso di dargli una lezione. (Ma non era forse considerato soprattutto un «microdotato», secondo i criteri del gruppo?) La ragazza del '58 la reputa un'idea eccellente. Per prima cosa bisogna farlo bere, e se ne incarica lei. La vedo mentre balla con lui e gli passa la bottiglia di bianco di cui lei assaggia appena un sorso. E vedo lui, dopo, in piedi su una sedia, a torso nudo, gli occhi bendati, mentre il Barbuto gli disegna con della vernice rosso fuoco un enorme fallo sulla schiena da cui escono gocce di sperma. Sento qualcuno dire «Adesso sì che c'hai un pisellone», le risate. Lui li lascia fare. Come tirarsi fuori dal gioco, quando si è soli? Questa volta lei è tra chi accerchia, tra i giocatori.
In quella sorta di quadro che ogni mattina mi si ripresenta davanti quando mi accingo a scrivere un castello percorso dall'alto al basso, prati affollati di bambini indistinti, tutti vestiti d'azzurro ci sono: Loro, il gruppo degli educatori, coro osceno dominato dai ragazzi, dalle loro voci, risate e canzoni.
Lui, H, distante, allo stesso tempo tra «loro» e sopra di loro, l'Angelo del quadro.
Lei, Annie D, al centro della scena, con loro.
Nel quadro non c'è un io, ci sono solo altri, impressi su di lei, Annie D, come su una lastra sensibile. E non c'è neanche il resto del mondo di quell'estate 1958, il mondo fuori da quello spazio chiuso, delimitato dalle mura del castello.
Del confuso rumore degli eventi che giungeva fino alla colonia dalla televisione sistemata nella sala da pranzo, oggi non mi resta nulla se non il referendum annunciato da de Gaulle che aveva causato molte agitazioni tra gli insegnanti comunisti partigiani del No e suscitato svariati dibattiti ai quali Annie D, più che partecipare, doveva aver soltanto assistito. E per concretizzare la realtà della «questione» d'Algeria ho solo la visione della lettera inviata per posta aerea che, ogni giorno a pranzo, il cuoco appoggiava di fianco al piatto della bionda.
Non mi pare che qualcuno, tra i ragazzi, abbia mai fatto riferimento alla minaccia che incombeva su tutti loro, quella di partire per il djebel, forse perché pensavano che «la ribellione» sarebbe stata «domata» prima che li chiamassero alle armi.
Leggo su internet l'elenco degli attentati (contro Jacques Soustelle, l'ex governatore generale in Algeria, una passante uccisa, tre feriti), dei sabotaggi delle ferrovie, dei mitragliamenti contro i bar e i commissariati, degli incendi appiccati a fabbriche (la Simca a Poissy, la Pechiney a Grenoble) e raffinerie (NotreDamedeGravenchonMarseille) che hanno avuto luogo quasi ogni giorno da fine agosto (quindici attentati soltanto il 25) a fine settembre 1958. Della maggior parte veniva data notizia sui giornali (Le Monde, Le Figaro, L'Humanité, Combat), ma a quanto pare non in televisione. Tutte azioni perpetrate dal Fronte di liberazione nazionale per portare il conflitto all'interno delle città. In reazione, il 27 agosto: «Michel Debré impone il coprifuoco per i nordafricani». Il 28 agosto: «Retata negli ambienti musulmani di Parigi: 3.000 uomini radunati al velodromo per essere interrogati».
Nella mia memoria questi fatti non fanno scattare nessuna scintilla. Quello che oggi sarebbe considerato un clima di guerra non ha quindi turbato la ragazza di S, che peraltro sono certa fosse favorevole al «mantenimento dell'ordine» in un'Algeria che doveva restare francese come prometteva de Gaulle. Doveva sentirsi assuefatta al conflitto, dopo tre anni di scontri, oppure avere soltanto un'idea molto vaga di quelle morti lontane, venate di romanticismo, e da sempre appannaggio degli uomini.
È forse a causa di questa sordità nei confronti dei fatti esterni alla colonia che sussulto e mi blocco ogni volta che, leggendo un libro o un giornale, compare quella data, il 1958. Ridivento contemporanea di eventi vissuti da persone sconosciute, mi riallaccio a un mondo comune, ed è come se la realtà degli altri attestasse la realtà della ragazza del '58.
L'11 settembre 2001, a Venezia, in Campo Santo Stefano, lungo il Rio dei Mendicanti, alle Fondamenta Nuove tragitto ricostruito soltanto a posteriori — devo certamente aver pensato all'11 settembre 1958, a quell'anniversario quella consacrazione della mia follia che il crollo delle torri di Manhattan non sarebbe riuscito a relegare in secondo piano, essendo ormai i due avvenimenti appaiati l'uno all'altro nonostante i quarantatré anni che li separano. La notte in cui H, senza accorgersene, senza saperlo mai, è diventato il mio primo amante.
Di quella serata e di quella notte tra file il 12 settembre mi rendo conto che, eccezion fatta per le circostanze che mi devono essere parse miracolose, come il segno di una predestinazione , mi rimangono soltanto alcune immagini completamente prive di qualunque pensiero, come se il desiderio, realizzandosi, avesse occultato tutto il resto. Incapacità, quindi, di ricostruire il momento in cui apprendo che H stava organizzando una festicciola con fonduta al formaggio per celebrare la sua ultima sera alla colonia, e che la bionda, in vacanza a Caen, non avrebbe partecipato.
Nella prima immagine vedo la ragazza che, nell'eccitazione generale, si aggira come gli altri attorno al pentolino posato su un fornelletto elettrico. La immagino in preda a una speranza folle, forse prega che sia finalmente arrivata la sua ora. Nel momento in cui, durante un ballo a luci spente scandito dall'obbligo di cambiare le coppie a ogni colpo di scopa, si ritrova tra le braccia di H che subito le solleva il vestito e senza preamboli le infila una mano nelle mutandine, in quel preciso momento, ciò che la invade è la felicità assoluta. L'inaudita devastazione di un gesto atteso dalla prima notte da tre settimane. Non si sente svilita in alcun modo. Non c'è spazio per nient'altro che il desiderio bruto, semplice chimicamente puro , forsennato quanto quello dello stupro: quello di essere sverginata e posseduta da lui, H. Che infatti le dice domanda o ordine? di raggiungerlo in camera sua. Tutto va nella direzione del suo desiderio, anche il calendario OginoKnaus, che deve aver di certo calcolato. Tutto è voluto con cognizione di causa. Una notte scelta contro la notte subita tre settimane prima.
Nella seconda immagine la vedo nuda sul letto, le gambe aperte, che trattiene le urla sotto le sue spinte. Forse le passa per la testa l'indovinello sulla tredicesima fatica di Ercole. Non ci sono state carezze preliminari nozione sconosciuta —, lui spinge invano. Forse ancora una volta dice qualcosa come «eh, è largo», dopo la fellatio che lei gli ha fatto di propria iniziativa.
Lo vedo sdraiato mentre lei lo contempla, steso, disteso dalpiacere, parole scritte poi sul mio diario e che, rilette dieci anni dopo, ricordo di aver bollato come cattiva letteratura. Il fatto che lei non abbia provato piacere non lo preoccupa, ha detto che spesso le donne iniziano a godere solo dopo la prima gravidanza. Lei deve aver fatto un'allusione alla bionda, perché lui indica la foto di una ragazza mora, carina e sorridente, incorniciata sul comodino: «Ne amo solo una, ed è lei. La mia fidanzata». Dice anche che è ancora vergine, e che lui si è sempre innamorato delle ragazze che ha deflorato. Lei capisce di non essere una vergine di cui si possa innamorare, oppure che tutto sommato è contento di non essere riuscito a farle perdere la verginità. Per lei è uguale, non è umiliata. Le dice di tornarsene in camera perché ha bisogno di dormire, partirà presto. Promette di passare a salutarla alle sei del mattino. La notte tra l'11 e il 12 settembre è durata circa un'ora e mezza.
Non ha voglia di mettersi a letto. Dovrà essere sveglia quando H passerà all'alba. È sola in camera, la sua compagna è di turno al dormitorio dei bambini. Scopre tracce di sangue nelle mutandine. Felicità indicibile. Decide che il suo imene è lacerato, che l'ha deflorata anche senza penetrarla. Il prezioso sangue, la prova, il marchio che bisogna conservare nell'armadio sotto i vestiti. Dopo quella notte breve ne inizia un'altra, la dolce notte dell'immaginario. Questa volta H è, realmente, il suo amante. Il suo amante da sempre. Gioia, pace, il dono di sé è compiuto. Passeranno i cieli e la terra, ma questa notte non passerà. E la sua notte pascaliana (chi non l'ha avuta?). Soltanto il linguaggio della mistica è all'altezza di ciò che sente la ragazza di S. È in alcuni libri diventati ormai illeggibili, alcuni romanzetti rosa degli anni Cinquanta, non in Colette o Françoise Sagan, che ci si può avvicinare alla portata immensa, smisurata della perdita della verginità. Dell'irreversibilità dell'evento.
All'alba, poiché lui non arriva, va a bussare alla sua porta. Dall'altra parte, il silenzio. Pensa che stia ancora dormendo. Torna più volte. (Ho dimenticato quante.) Infine ha provato anche ad aprire. La porta era chiusa con il chiavistello. Ha guardato attraverso il buco della serratura. Lui era lì, di schiena, in pigiama, si stiracchiava. Non ha aperto.
Anche se, come credo, l'ha sfiorata il sospetto che lui le avesse promesso di passare a salutarla solo per sbarazzarsi di lei, nessuno dei segni oggettivi della realtà — la fidanzata, la promessa non mantenuta, l'assenza di appuntamenti a Rouen — controbilancia il romanzo che si è scritta da sola in una notte, sul modello de Il lago di Lamartine, de Le notti di Musset, del lieto fine de Gli orgogliosi in cui Gérard Philipe e Michèle Morgan si corrono incontro sulla spiaggia, di tutte le canzoni — questo esperanto dell'amore di cui posso stilare la playlist con sicurezza:
Un giorno arriverai / ci rincontreremo (Mouloudji)
Aspetterò giorno e notte / aspetterò sempre / il tuo ritorno (Lucienne Delyle)
Se tu m'ami / me ne frego del mondo (Edith Piaf)
La mia storia è la storia di un amore (Dalida)
Era ieri, quel mattino / Era ieri ed è già lontano (Henri Salvador).
In questo preciso istante, per le strade, negli open space, in metropolitana, nelle aule magne, milioni di romanzi sono scritti nelle teste delle persone, capitolo dopo capitolo, cancellati, ripresi, e tutti muoiono, perché realizzati o perché non lo sono.
Quando in metropolitana o su un vagone della rer mi capita di ascoltare le prime note della canzone Mon histoire c'est l'histoire d'un amour, talvolta cantata in spagnolo, mi sento immediatamente svuotata di me stessa. Fino a oggi e c'entra qualcosa Proust ho pensato che per quei tre minuti tornassi davvero a essere la ragazza di S. Ma non è lei a risorgere, bensì la realtà del suo sogno, la realtà potente di quel sogno che le parole cantate da Dalida e Dario Moreno estendevano all'universo intero prima di venire sommerso, rimosso, dalla vergogna di averlo sognato.
Ho digitato il suo cognome sulle Pagine Bianche del dipartimento del Doubs. E comparso un risultato, ma con un altro nome. Dopo un minuto di incertezza ho seguito il consiglio del sito e ho cercato in un dipartimento vicino. Questa volta ho trovato la stringa precisa, con l'indirizzo di un paese o una cittadina, probabilmente piccola, che non conoscevo. Un numero di telefono. Rimango incredula davanti allo schermo, a fissare le lettere di quel nome e cognome che negli ultimi cinquantanni non ho mai riletto da nessuna parte. Mi basterebbe comporre quel numero per ascoltare la voce che non sento dal settembre 1958. La voce reale. La semplicità del gesto mi è parsa spaventosa. Immaginarmi a compierlo mi ha riempito di una sorta di angoscia. Quella che mi è capitato di provare dopo la morte di mia madre, per mesi, al pensiero che alzando la cornetta avrei potuto sentire la sua voce. Come varcare un confine proibito. Come se il solo fatto di ascoltarlo parlare potesse sopprimere all'istante gli ultimi cinquant'anni e farmi tornare a essere la ragazza del '58. Mi trovavo sospesa tra la paura e il desiderio, come in un'esperienza spiritica.
Poi ho pensato che probabilmente non avrei riconosciuto la sua voce, come d'altronde non ero stata in grado di identificare quella del mio ex marito quando l'avevo risentita in un video a quindici anni di distanza dall'ultima volta. Oppure che non mi avrebbe suscitato nulla. Il potere che attribuivo a quella voce di trasfigurare il mio essere di oggi in quello del '58 era necessariamente un'illusione pressoché mistica, quella di credere di raggiungere senza sforzo, in un miracoloso cortocircuito temporale, la ragazza di S. In fondo, se avessi chiamato H sarei incappata più in una delusione che in un pericolo.
Dopo la notte dell' 11 settembre continua a unirsi al gruppo, ma nulla più la tocca. Gli altri non sanno niente del suo sogno. Poco importa che H non le abbia dato appuntamento a Rouen, è sicura che in ottobre lo rivedrà, semplicemente camminando per la strada all'uscita del liceo Jeanne d'Arc di cui frequenterà l'indirizzo filosofico. L'unica indicazione in suo possesso è la scuola media professionale maschile sull'altra sponda del fiume, dove lui è professore di educazione fisica.
Poche immagini delle ultime due settimane alla colonia. Probabilmente a causa della povertà del mio sogno fisso, che non ha permesso alla realtà di sedimentarsi nella memoria. Un pomeriggio di un giorno libero, è seduta su una pietra. Davanti a lei, subito sotto, un lago attorniato da rocce rosse, una cava abbandonata, riempita d'acqua, in un bosco vicino a S. E arrivata in autostop fino alla strada, poi ha fatto una lunga passeggiata su un sentiero sassoso che l'ha condotta a questa apertura improvvisa, quasi un canyon. Alcuni adolescenti hanno appoggiato per terra le biciclette e adesso giocano nell'acqua. Probabilmente lei non risponde al loro saluto perché qualcuno se ne esce dicendole «Non può fare la sdegnosa chi è bruttina e inoperosa». Ci resta male, più che per gli sberleffi del gruppo.
Mangia sempre di più, approfittando senza remore dell'abbondanza di cibo a disposizione e provando un piacere che le diventa indispensabile: non si trattiene nemmeno dal sottrarre di nascosto, direttamente dall'insalatiera, fettine di pomodoro destinate ai bambini dell'infermeria. Tutta la libertà che sognava a Yvetot si concretizza in rapide scappatelle alla pasticceria di S per comprarsi pan di Spagna e bignè al caffè.
Un'estate, un autunno e un inverno sono trascorsi da quando ho riposizionato la ragazza che è stata me, Annie D, sul marciapiede davanti alla stazione di S, nell'Orne. Per tutto questo tempo mi sono rinchiusa nello spazio della colonia, vietandomi di sforare i limiti cronologici di quell'estate 1958, sforzandomi di situarmici continuamente in una sorta di immersione senza futuro. Di conseguenza ho progredito con grande lentezza, dilatando in una quarantina di settimane, per l'esattezza 273 giorni, le sei passate alla colonia, così da scrutarle da vicino e farle esistere realmente tramite la scrittura. Per far sentire la durata immensa di un'estate di gioventù nelle due ore impiegate a leggere un centinaio di pagine.
Spesso sono attraversata dal pensiero che alla fine del libro potrei morire. Non so cosa significhi, la paura della pubblicazione o un senso di adempimento. Non invidio chi scrive senza pensare che, dopo, potrebbe morire.
Prima di lasciare S, fermarmi sull'ultima immagine, con i bambini già a bordo dei pullman diretti alla stazione, la colonia ripiombata all'improwiso nel silenzio del primo giorno, e lei per le strade del centro di S, raggiunto a piedi per rivedere tutto. E sola, vicino all'antico lavatoio, lo sguardo fisso sulla lunga facciata del sanatorio illuminata dal sole delle cinque, dall'altro lato del fiume. Guarda il luogo in cui è sicura di essere stata più felice da quando è nata. Dove ha scoperto le feste, la libertà, i corpi maschili. Vorrebbe non doverlo lasciare. Ma sono tutti partiti o si stanno accingendo a farlo, con la fretta di tornarsene a casa. (Ero forse l'unica a desiderare che quella vita durasse per sempre.) Non è detto che in quell'istante la speranza di ritrovare H a Rouen compensi il baratro di vivere lontano da loro, i compagni dell'estate, per un anno intero.
Ma questa ragazza che divora piangendo un dolce alla crema sulla riva dell'Orne, so che è fiera di quel che ha vissuto e reputa trascurabili le prepotenze e gli insulti subiti. Vive l'orgoglio dell'esperienza, del conseguimento di un sapere nuovo di cui non può valutare, immaginare, ciò che produrrà in lei nei mesi a venire. Il futuro di un'esperienza acquisita è imprevedibile.
Non ha incontrato i suoi simili, è lei a non essere più la stessa.
Questa volta 28 aprile 2015 lascio la colonia per davvero. Prima di esserci rientrata e rimasta per mesi tramite la scrittura, non ne ero mai partita. Non mi ero alzata dal letto su cui mi sono distesa, nuda, fremente, subito ammutolita dal sesso di un uomo al quale già l'indomani ho giurato un amore ostinato e irragionevole. Al punto da scrivere, nel 2001: «Tra la camera di S e la camera della donna che abortisce in rue Cardinet non c'è soluzione di continuità. Passo dall'una all'altra e ciò che c'è tra le due è cancellato».
Mi sembra di aver disincagliato la ragazza del '58, di aver spezzato l'incantesimo che la teneva prigioniera da più di cinquant'anni in quel vecchio e maestoso edificio costeggiato dal fiume Orne, pieno di bambini che cantavano Siamo la banda, la banda dell'estate.
Posso dire: è me, sono lei.
Impossibile interrompere qui. Non posso fermarmi finché non avrò raggiunto un certo punto del passato che, in questo momento, è il futuro della mia narrazione. Finché non sarò arrivata alla fine dei due anni successivi alla colonia. Qui, davanti al mio foglio, quegli anni non appartengono al mio passato, ma, profondamente, se non realmente, al mio futuro.
È una foto quadrata di cinque o sei centimetri, dai bordi dentellati, in bianco e nero. Partendo da destra si vedono, allineati contro un tramezzo ad assi verticali, un letto dalla struttura in metallo e, subito accanto, un tavolino rettangolare di legno con un cassetto. Alla sinistra del tavolo, una porta chiusa la cui parte superiore, di vetro trasparente, permette di vedere l'interno della stanza dal corridoio.
Sopra il tavolo, al centro esatto della foto, un vestito estivo, senza maniche, che pende lungo la parete. E appeso per le spalline a due pomelli bianchi smaltati che fungono da appendiabiti. Il motivo è sgargiante, fiori o arabeschi, e le numerose pieghe dalla vita in giù fanno intuire una grande ampiezza della gonna. La luce cade sul vestito che con l'orlo inferiore tocca il ripiano del tavolo, sul quale si distinguono due libri o quaderni aperti, qualche foglio, un astuccio. Una luce talmente abbagliante da imbiancare la porta e far emergere, sopra la maniglia, scure tracce di sporco e il segno lasciato dalla rimozione di ciò che sembra essere stato un chiavistello. Alla testa del letto che entra nell'inquadratura solo per metà nell'ombra, l'ammasso chiaro di un indumento appallottolato, pigiama o camicia da notte, e in alto, attaccata al tramezzo con una puntina o un po' di colla, un'immaginetta indistinta, sicuramente di carattere sacro.
Quel vestito vuoto, sopra il quale i due pomelli fanno pensare agli enormi occhi bianchi di un cieco, ha qualcosa di strano una sorta di creatura senza testa su una parete un po' lurida. Allo stesso tempo l'ambiente spoglio gli conferisce anche una certa aria lussuosa. (Per un attimo, sensazione di essere sul punto di indossarlo sopra la sottogonna a cerchi che dava l'ampia rigidità di una crinolina a tutti gli abiti, come quello sollevato da Beimondo a una passante in Fino all'ultimo respiro — per poi infilarmi le décolleté color pistacchio coordinate al vestito, comprate da Eram.) Nessuna profondità, nella foto, impressione di piattezza di un quadro senza volumi. L'angustia del locale e l'assenza di grandangolo non hanno permesso di inquadrare più di una parete, l'unica illuminata dal sole. Sul retro, una scritta blu a pennarello: ministanza di Ernemont, poco prima di andarmene, giugno 1959.
Ho scattato questa foto dopo aver passato la prova scritta di filosofia. Da poco ero entrata in possesso di una macchina fotografica una Brownie Flash Kodak in bachelite —, ricevuta da uno di quei grossisti che riempivano di ogni sorta di omaggi i miei genitori quando compravano un prodotto in grande quantità per il negozio. Mi ricordo di aver spinto il tavolino dal posto in cui stava di solito, sotto la finestra, per avvicinarlo al letto e farlo comparire nella foto.
Non so che senso avesse per me quel gesto, fotografare la stanza. Nei quarantanni successivi non l'ho più fatto, non ci ho nemmeno mai pensato. Forse volevo conservare la traccia di un'infelicità e di una metamorfosi che, oggi, mi sembrano simboleggiate dai due oggetti al centro dell'immagine: il vestito, quello che avevo indossato più spesso alla colonia l'estate precedente, e il tavolo, su cui avevo passato tante ore a studiare filosofia.
Oggi guardo la foto con una lente d'ingrandimento, per scoprirvi dettagli ulteriori. Fisso le pieghe della gonna appesa, l'interruttore della luce in metallo un modello fuori produzione da tanto tempo da cui parte un cavo nero che risale lungo lo stipite della porta, interruttore che deve averne sostituito un altro di cui, poco sopra, si vede ancora il segno. Non cerco di ricordarmi, cerco di esserci, senza propaggini, senza sforare, solo in quel preciso istante, essere in quello stanzino di uno studentato femminile con la macchina fotografica in mano. Essere nell'immanenza pura di questo istante in cui sono una ragazza di quasi diciannove anni nell'atto di fotografare il luogo che, come lei sa bene, sta per abbandonare per sempre. Fissare lo sguardo sulla luce bianca spalmata sulla porta scatena in me un flusso di sensazioni auditive. La campana che suonava ogni ora. Il secco batter di mani della sorvegliante del dormitorio una ragazza povera a cui le suore avevano affidato quel compito per svegliarci alle sei e mezza, seguito dall'Ave Maria ripreso e bofonchiato dalle voci addormentate che uscivano da tutti gli stanzini tranne che dal mio. Lo scricchiolare del parquet sotto i piedi di una ragazza che torna dalle lezioni, passa davanti alla mia ministanza, la sua porta sbattuta che fa tremare le pareti, una canzone che canticchia mentre riordina le sue cose.
Tu conserva la gioia e l'affanno. Chissà le navi se torneranno. Amor che se ne va mai più ritornerà.
E là che io ci sono davvero, nello stesso senso di desolazione, di attesa, o piuttosto di qualcosa d'indicibile, come
se esserci sprofondata un'altra volta sopprimesse il linguaggio.
Questa stanza è il reale che resiste, per restituirne l'esistenza non ho altri mezzi che sfinirla di parole.
Mi domando se, restando a fissare questa foto per un tempo interminabile, piuttosto che ridiventare la ragazza del 1959 non ho invece voluto captare quella speciale sensazione di un presente anteriore un presente diverso da quello realmente vissuto, in cui ora sono seduta alla scrivania davanti alla finestra , di una conquista fragile, forse inutile, ma che mi pare un'estensione dei poteri del pensiero e della capacità di aver presa sulla propria vita.
Nel momento in cui scrivo qualcuno che non posso chiamare io riempie la camera di Ernemont, qualcuno ridotto a uno sguardo, un udito, con una forma corporea imprecisa.
Il paradosso è che non vorrei mai tornare a essere colei che ero in quella stanza una cosa terribile anche solo a immaginarsi tra l'estate '59 e l'autunno '60, nel pieno compiersi del disastro.
Eppure, la ragazza che arriva con la madre nel tardo pomeriggio del 30 settembre 1958 in quello stanzino dello studentato femminile del convento di Ernemont, nella via omonima, a Rouen, è confusamente impregnata di aspettative, impaziente di proseguire sotto un'altra forma la vita che ha vissuto alla colonia. Dopo la partenza della madre, che attingendo ai soldi guadagnati a S le ha appena comprato la coperta e il copriletto richiesti alle pensionanti, bussa allo stanzino accanto, e alla moretta riccia che apre la porta e la guarda sorpresa e imbarazzata dice pimpante: «Ciao! Io sono Annie, e tu?». Resterà il loro unico scambio di battute dal momento che la vicina è apprendista acconciatrice sono la maggior parte e allo studentato una «ragazzaparrucchiera» e una liceale o un'universitaria si incrociano senza parlarsi, al refettorio mangiano a tavoli separati.
Ha più che mai bisogno degli altri, di immergersi nello stato euforico che prova quando racconta le sue vacanze.
Le prime sere fa gli indovinelli della colonia, il colmo per il pugile e per la suora, intona canzoni licenziose, Maman questce quun pucelage e Le musée du pére Platon, senza dare peso alla ritrosia delle ragazze attorno a lei, che crede la invidino o la ammirino almeno fino a quando una di loro dichiara con tono pacato che nessuna delle sue amiche si esprime così. (Lei, MarieAnnick, figlia di industriali, che era andata a scuola dai domenicani e ogni settimana faceva lezione di scherma e deve avermi disprezzata ancor più di quanto io l'abbia detestata.) Scrive una lettera affettuosa e nostalgica a Jeannie, la sua compagna di stanza alla colonia, un'altra a Claudine, la ragazza con la voglia color vinaccia che abita a Rouen, per rivederla. Né l una né l'altra le rispondono. Non so se, in quel momento, mi sia passato per la testa il sospetto che potessero considerarmi una puttanella senza cervello.
Al liceo Jeanne d'Arc, che a pensarci dal collegio SaintMichel di Yvetot aveva idealizzato, non conosce nessuna delle sue ventisei nuove compagne di classe e nessun professore sa niente di lei. Annie Duchesne, qui, non è circonfusa dall'aura di nessun passato di eccellenza scolastica. In un ambiente intessuto di complicità di cui non fa parte, si scopre anonima e invisibile. All'invadente sorveglianza delle suore si sostituisce l'indifferenza dei professori, piuttosto giovani, eleganti, la cui lampante competenza la impressiona e preoccupa in egual misura perché teme di non riuscire a stare al passo con le lezioni.
Le lezioni di inglese la gettano nel panico di essere interrogata, non capirebbe nemmeno le domande. Il piacere che si aspettava di provare facendo finalmente educazione fisica e nuoto lascia presto il posto alla delusione. In palestra si annoia e le sessioni in piscina sono concepite per chi sa già nuotare. Presto si farà esonerare dal medico.
Diversamente da quanto aveva creduto, non c'è traccia di ragazze spigliate, irriverenti, attese da folle di ragazzi all'uscita del liceo in rue SaintPatrice. Prova a individuare le più disinvolte, non osa andare a parlarci.
In collegio, pur avendo ben chiare le differenze sociali, la ragazza della drogheria poteva andare fiera di risultati che non venivano raggiunti dalle ragazzine ricche, il cui rendimento scolastico era spesso inversamente proporzionale alla rendita dei genitori. Al liceo, sotto l'uniformità dei grembiuli beige o rosa a seconda delle settimane, intuisce disparità che non identifica con chiarezza.
È intimidita dall'atmosfera di impalpabile superiorità in cui si sente immersa, una superiorità che, pur accettandola come naturale, metterà presto in relazione con il mestiere svolto dai genitori (un prefetto, alcuni medici e farmacisti, una sovrintendente alla Scuola normale, professori, maestri) e con i quartieri bene di Rouen in cui abitano le altre ragazze. Una superiorità che si rivela in tutta la sua evidenza nella sorridente commiserazione suscitata dal modo di parlare dell'unica ragazza della classe di famiglia operaia Colette P, borsista, figlia di muratore alla quale, un giorno, un'altera studentessa fa notare con un'alzata di spalle che «cadérsi per terra» non si dice e non vuol dire niente. Prova vergogna per Colette, vergogna per se stessa, che a sua volta diceva cadérsi per terra.
E spettatrice delle altre, della loro leggerezza e della naturale facilità con cui dichiarano «come dice Bergson» o «l'anno prossimo mi iscrivo a Sciences Po» o «faccio l'hypokhàgne» (non sa cosa sia né l'una né l'altra). Straniera, come il romanzo di Camus che legge in ottobre. Pesante e unticcia tra ragazze dalle camicette rosa, l'innocenza beneducata e la sessualità decorosa.
La prima tesina di filosofia la getta in uno stato di prostrazione senza nome: Possiamo distinguere un modo oggettivo e un modo soggettivo della conoscenza?
Lei, che ha sempre svolto i temi di francese con grande agio, è presa dal panico per un compito che le pare terrificante. Si angoscia perché non riesce a farsi venire delle idee e svilupparle, si chiede se sia davvero portata per gli studi, o se non dovrebbe forse iscriversi a giurisprudenza, dove, come ha sentito dire, «è solo una questione di memoria». (In questo periodo della vita presto fede a tutto ciò che sento dire al di fuori dell'ambito famigliare.) Per affrontare l'argomento della tesina dovrebbe distogliersi dai ricordi della colonia e delle feste, dalla notte dell' 11 settembre. Cancellare le impronte che un corpo maschile ha lasciato sul suo. Non sapere più che cosa sia il sesso di un uomo. Riuscirà a svolgere il suo compito a costo di uno sforzo che, ancora oggi, mi pare spaventoso, oltretutto senza ottenere più della sufficienza. Vive un indicibile sentimento di mancanza.
Di questa mancanza misuro l'estensione, la violenza, nel ricordo dello sconvolgimento provato un pomeriggio al cinema Omnia durante la proiezione de Gli amanti di Louis Malle. «Sembrava la stesse aspettando»: a partire da questa frase e dalle prime note di Brahms, non c'è più Jeanne Moreau, nel letto, c'è lei, assieme ad H. Ogni immagine la devasta di desiderio e di dolore. Si sente sprofondata in una caverna e non riesce a raggiungersi, riunirsi con il proprio corpo nello schermo, perdersi in quella storia che getta su quella tra lei e H una luce di cui non posso dire, ora, nel momento in cui ne scrivo, se, dopo aver attraversato tutti questi anni, si sia definitivamente spenta. A diffondere quella stessa luce sul suo amore sono anche le poesie che legge, prendendo in prestito dalla biblioteca dei cappuccini tutto ciò che può della collana Poètes d'aujourd'hui, copiando lunghi passaggi di Apollinaire {Poesie a Loù), Éluard, Tristan Derème, Philippe Soupault eccetera. (Rileggendo quei versi nell'agenda rossa mi accorgo di saperli a memoria: So io, amore mio, se mi ami ancora. E gemono le trombe della sera.)
Talvolta alzo la testa dal foglio, esco da questo sguardo rivolto verso l’interno che mi rende indifferente a tutto ciò che mi circonda. Mi vedo come potrebbe osservarmi qualcuno da fuori, dalla stradina a strapiombo che costeggia la cortina di abeti: seduta a un tavolino spinto sotto la finestra alla luce di una grossa lampada. Immagine convenzionale, che piace (spesso mi è stato chiesto di mettermi in questa posa per i giornali o la televisione). Mi domando cosa possa significare che una donna si metta a ripercorrere scene risalenti a più di cinquantanni prima alle quali la sua memoria non può aggiungere nulla di nuovo. Quale convinzione la sostiene, se non quella che la memoria sia una forma di conoscenza? E quale desiderio c’è, oltre a quello di capire, in questo accanirsi a cercare, tra le migliaia di nomi, verbi e aggettivi, quelli che diano la certezza - l’illusione - di aver raggiunto il più alto grado possibile di realtà? Se non la speranza che tra questa ragazza, Annie D, e qualunque altra ci sia almeno una goccia di somiglianza?
Se pure accetto di mettere in dubbio l’affidabilità della memoria, anche la più implacabile, per raggiungere la realtà del passato, resta comunque questo fatto: è dagli effetti sul mio corpo che colgo la realtà di quanto è stato vissuto a S.
A partire da ottobre il mio sangue ha smesso di colare.
Malgrado la sua scarsa competenza in materia di riproduzione, la ragazza del ’58 ne capisce quanto basta per sapere di non poter essere incinta - dopo la partenza di H le è già venuto il ciclo —, ma non riesce a trovare un’altra spiegazione.
E un sabato di fine ottobre, la vedo sdraiata sul letto dei genitori, vicino al caminetto inutilizzato con sopra un grande quadro di santa Teresa di Lisieux. Il medico di famiglia, il dottor B, le tasta e ausculta il ventre sul quale la madre, ai piedi del letto, tiene inchiodati gli occhi. Tutti gli attori sono muti, concentrati. Un silenzio di morte precede il verdetto. Questa scena, recitata per decenni all'interno di camere da letto e studi medici, ha la potenza di un quadro inalterabile, come L'Angelus di Millet al quale mi si sovrappone forse a causa del capo chino del dottor B e di mia madre. Non so a cosa stia pensando la ragazza, forse supplica la santa del quadro. Il dottor B solleva la testa, d'un tratto diventa loquace, come se ci tenesse a convincere la madre dell'innocenza della figlia, spiega che l'amenorrea, si chiama così, cara signora, è piuttosto frequente, ci sono mogli di prigionieri che non hanno avuto il ciclo per tutta la durata della guerra! Atmosfera quasi gioiosa di sollievo generale. Tutti i pensieri formulati ma mai espressi svaniscono. La tragedia non ha avuto luogo. Il sabato successivo, quando tornerà a casa dal liceo di Rouen, verrà una suora dell'istituto ospedaliero della Compassion a farle una puntura.
Per due anni nessuna terapia porrà rimedio alla secchezza delle mie ovaie, né le compresse di Equanil prescritte da un neurologo, né le gocce di iodio consigliate da un ginecologo, con mia madre che mi trascinava esasperata da uno specialista all'altro: Non vorrai mica restare così! Sospettava qualcosa che trapelava da questo ricatto imponderabile: Se non ti torna il ciclo non vai al ballo della scuola d'agricoltura!
Non credo che mi credesse innocente. In un modo o nell'altro, l'assenza del ciclo era ai suoi occhi il segno di una colpa sconosciuta collegata alla colonia, e la punizione si era abbattuta sulla figlia proprio laddove aveva peccato. Non ne parlavamo a nessuno, né lei né io, come si trattasse di una tara inconfessabile.
Esclusa dalla comunità delle ragazze, quelle del sangue che fluiva regolarmente ogni mese — e la cui interruzione era percepita come inimmaginabile se non per un qualche «incidente», o per la menopausa, lontana, prossima alla morte , privata di quella visita mensile più o meno benvenuta, annunciata tra amiche con un «sono arrivati gli ospiti» oppure «ho il marchese», ero uscita dal tempo, senza età.
Nell'ottobre 1958 Billie Holiday canta al festival jazz di Monterey e il 12 novembre è a Parigi, all'Olympia, per un concerto organizzato da Frank Ténot e Daniel Filipacchi. Resta a Parigi, al Mars Club, fino alla fine del mese. E in uno stato pietoso, devastata dall'alcol e dalla droga.
Il 20 luglio 1958 Violette Leduc incontra René Gallet, carpentiere trentacinquenne. Ne La chasse à l'amour scrive: «A cinquantanni era il mio primo orgasmo, quello che irresistibilmente mi inseriva tra gli uomini e le donne che godono l'uno dell'altro». In settembre porta René a Honfleur e a Etretat. Il 21 ottobre scrive a Simone de Beauvoir: «Da René Gallet neanche una parola, non è venuto, ciò che mi è stato dato mi è stato subito ripreso. Voglio morire». Piomba in un dolore sempre più cupo. Ancora a Simone de Beauvoir, in dicembre: «E lui che bramo, e bramo l'impossibile» e «abbandonerò la letteratura». La relazione si sfalda, fino alla rottura definitiva nella primavera del 1959.
Leggere queste cose mi lascia sconcertata. Come se la ragazza di diciott'anni, che nell'autunno '58 risaliva il boulevard de l'Yser tra gli schiamazzi della sagra di SaintRomain, fosse meno sola e disperata quasi salva perché queste donne di cui all'epoca ignorava persino il nome erano in quello stesso momento immerse nel dolore dell'abbandono. Strana dolcezza della consolazione retrospettiva di un immaginario che viene a dare conforto alla memoria, a infrangere la singolarità e la solitudine di ciò che si è vissuto grazie alla somiglianza, più o meno attendibile, con ciò che è stato vissuto da altri nello stesso momento.
Anche se per cinquantanni mi sono vista spesso attraversare la Senna sul pont Corneille, vagare per la rive gauche in una Sotteville in ricostruzione, cercare la scuola media professionale maschile forse quella che ora Google indica con il nome di istituto tecnico MarcelSembat in cui H insegnava educazione fisica e che dovevo aver reperito nella mappa di Rouen stampata sul calendario delle Poste che tenevo sulla scrivania come sottomano si tratta di un tragitto immaginario. La ragazza del '58 non ha mai attraversato la Senna. Non volevo aver l'aria di essere ostentatamente alla ricerca di H, né determinare un incontro in cui avrei rischiato di confrontarmi a brutto muso con la verità sospettata, rifiutata , ossia che lui, di me, se ne fregava. Volevo imbattermi in lui per caso, lungo il mio solito itinerario dalla rue SaintPatrice alla place Beauvoisine, oppure il giovedì, giorno di permesso, sulla rue du GrosHorloge. Finché non lo incontravo potevo continuare a custodire il mio sogno.
Poiché mi era parso di trovare una somiglianza tra una sorvegliante del liceo, una bruna dai capelli ondulati, e la fotografia sul comodino di H, avevo enigmaticamente confidato a R, la ragazza piccola e in carne che avevo scelto come compagna di banco, «quella bidella là è la mia rivale».
Certe notti, nel bagno sul pianerottolo all'esterno del dormitorio, arrampicata sulla tavoletta, attraverso il lucernario del tetto che dava sulla Senna guardavo le luci di Rouen che si stendevano fino alla rive gauche. Ascoltavo il rumore ampio della città, il muggito di una sirena portuaria. Il mio primo amante era laggiù, dove cominciava l'oscurità. Non mi pare che soffrissi. Il mio sogno aveva mutato forma. Era diventato un orizzonte, quello dell'estate successiva durante la quale, ne ero certa, avrei ritrovato H alla colonia.
Ho digitato su Google il nome e il cognome di H. La combinazione dei due è comparsa
tra le prime occorrenze assieme a una serie di sei fotografie. Quattro mostravano uomini giovani, tra i venti e i trentanni — dunque da eliminare. Le altre due erano foto di gruppo. Ho cliccato su quella a colori per ingrandirla. Era tratta da un giornale di provincia, accompagnata da un titolone: E e H celebrano le nozze d'oro. Era proprio lui, la regione e la località non lasciavano dubbi. La foto mostrava un fitto gruppo di invitati disposti in quattro file molto strette probabilmente per far entrare tutti nell'inquadratura sull'erba di un prato, con della vegetazione sullo sfondo. I volti erano ripresi da lontano, un po' fuori fuoco. Tra i presenti, tutti gli uomini della mia generazione avevano i capelli bianchi. In mezzo al gruppo, l'ho individuato in quello dalla statura più imponente, le spalle cadenti, la pancia, un'aria da patriarca, al fianco di una donna più bassa forse con gli occhiali, era difficile a dirsi. Portava una camicia casual dal colletto sbottonato. Fissandolo ho ritrovato la forma pesante del volto, il naso importante che me l'aveva fatto paragonare a Marlon Brando. Adesso, sulla foto, c'era il Brando di Ultimo tango a Parigi. Li ho contati, erano una quarantina, di tutte le età, con bambini seduti per terra o tenuti in braccio. Sulle prime non ci ho pensato, ma sembrava una colonia estiva. L'articolo riferiva che la coppia si era sposata negli anni Sessanta, aveva avuto dei figli, numerosi nipoti e anche dei bisnipoti. La vita di un uomo.
Niente di più reale, in sé, di questa foto recente, scattata poco più di un anno fa, eppure a lasciarmi stupefatta è l'irrealtà di ciò che vedo. L'irrealtà del presente, di questo quadretto famigliare campestre, al cospetto della realtà del passato, l'estate '58a S, che da mesi sto facendo passare dallo stato di immagini e sensazioni a quello di parole.
Come siamo presenti, noi, nell'esistenza degli altri, nella loro memoria, nel loro modo di essere, persino nei loro gesti? Incredibile sproporzione tra l'influenza sulla mia vita delle due notti passate con quest'uomo e il nulla della mia presenza nella sua.
Non lo invidio, sono io che scrivo.
Oggi, dopo essere tornata a guardare questa foto su Google, provo un vago malessere, quasi un senso di scoraggiamento. L'immagine, all'improvviso, di un clan. Un clan numeroso e stabile, generato da un seme che ha creato una stirpe, in una traiettoria sociale riuscita, senza sorprese. La forza del numero. Penso «io sono sola e loro sono tutti» come il personaggio delle Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij. Sembra quasi che facciano scudo attorno a lui, il Padrino, contro un proposito di cui non sanno nulla, coalizzati contro la memoria di un tempo in cui non c'erano, o che hanno dimenticato, ma io no. Impressione che mi accusino di perseverare nella stessa follia di cinquant'anni fa, ma sotto un'altra forma. Quella che consiste nel raggiungere ogni giorno, al tavolo su cui scrivo, quella ragazza che è stata me, nel fondermi in lei sono io a essere il suo fantasma, ad abitare il suo essere scomparso.
La guardo, questa ragazza, in una foto in bianco e nero sul retro della quale c'è scritto «Ballo della scuola regionale di agricoltura di Yvetot, 61258». Domina per altezza e corporatura la coppia alla sua destra, un ragazzo e una ragazza. I tre posano davanti a una pianta da appartamento, forse una palma. Il vestito bianco, le cui pieghe sul corpino senza maniche le mettono in evidenza il seno, si svasa all'altezza della vita, lasciando scoperti i polpacci e le braccia bene in carne. Sorride con la bocca chiusa per non far vedere i denti leggermente storti. La faccia sembra larga, con lo sguardo senza profondità dei miopi. Porta il rossétto, i capelli sono tagliati corti con una leggera permanente e un tirabaci sulla fronte, unico dettaglio che permette di identificare in questa ragazza quella della fotografia della maturità, di sei mesi precedente. E stata Odile, la ragazza della coppia, a fornirmi un duplicato della foto, quattro anni fa. L'esemplare in mio possesso l'avevo distrutto già da tempo, non so più quando, poiché di quella ragazza dall'aspetto robusto, alla quale si darebbero venticinque o trent'anni e sul cui volto mi sembra di scorgere le tracce del godimento di S, non sopportavo di dover ammettere «sono io» o anche solo «ero io». O forse perché quell'immagine mi ricordava che il peggio doveva ancora arrivare.
Stanotte ho sognato un grosso pullman stracolmo di scrittori. Si è fermato in una via, era quella della drogheria dei miei genitori. Sono scesa perché ero «a casa». Avevo la chiave. Per un istante ho temuto che non girasse nella toppa. Sapevo che dentro non c'era più nessuno. Le imposte di legno della vetrina e della porta d'ingresso erano chiuse. Con mio grande sollievo la serratura è scattata. Sono entrata. Era tutto come nel mio ricordo, nella penombra delle domeniche pomeriggio, la luce filtrava soltanto dalla vetrina che dava sul retro, oscurata in estate da un tendaggio di tela variopinta. Al risveglio ho pensato che solo l'essere, o l'io, presente in quel sogno sarebbe stato in grado di scrivere il seguito, e che scrivere il seguito significherà muoversi all'interno di quella sfida al buonsenso, di quella impossibilità.
A che scopo scrivere, d'altronde, se non per disseppellire cose, magari anche una soltanto, irriducibile a ogni sorta di spiegazione psicologica, sociologica o quant'altro , una cosa che sia il risultato del racconto stesso e non di un'idea precostituita o di una dimostrazione, una cosa che provenga dal dispiegamento delle increspature della narrazione, che possa aiutare a comprendere a sopportare — ciò che accade e ciò che facciamo.
Impossibile datazione dell'evolversi di un sogno. La mia sola certezza è che nel gennaio '59, al ritorno a scuola dopo le vacanze, il sogno della ragazza di Ernemont ha già preso un'altra forma. (Forse si è dovuto adattare alla sensazione, sempre più netta, che con H mi ero comportata come una cretina, che non ero degna di lui.) Quella che H avrebbe trovato alla colonia l'estate successiva sarebbe stata una ragazza diversa sotto ogni punto di vista, bella e brillante, che l'avrebbe lasciato di sasso facendolo innamorare al primo sguardo, cancellando il ricordo di colei che, nelle settimane trascorse tra la prima e l'ultima notte passata assieme, era saltata da un ragazzo all'altro. Ma lei, in questo sogno, dalla sua posizione di superiorità, l'avrebbe tenuto a distanza, non si sarebbe abbandonata subito al desiderio. La ragazza rifiutata dell'estate precedente sarebbe diventata — per un arco di tempo variabile, non ben precisato intoccabile. (Riscontro qui il primo manifestarsi di un'aspirazione all'inaccessibilità che nella mia vita amorosa è sempre giunta troppo tardi.) Per piacergli, per farmi amare, bisognava diventare qualcuno di radicalmente diverso, essere quasi irriconoscibile. Da passivo, il sogno si era fatto attivo.
Era un vero e proprio programma di perfezione, di cui avevo elencato i singoli punti nel mio diario ormai scomparso. Se oggi riesco a riscriverli con facilità è perché sono stati tutti messi in pratica. Riguardavano: mutamenti corporei: dimagrire, diventare bionda come la bionda di S progressi intellettuali: studiare con metodo filosofia e le altre materie, evitando di perdere tempo con le chiacchiere serali negli stanzini l'acquisizione di conoscenze destinate a colmare il mio ritardo sociale e la mia ignoranza imparare a nuotare, a ballare o a esprimere un sicuro anticipo rispetto alle mie coetanee: imparare a guidare e prendere la patente.
Di questa lista performativa faceva parte anche un progetto di capitale importanza: partecipare a un tirocinio Ceméa durante le vacanze di Pasqua per diventare un'educatrice impareggiabile.
Questa annunciata trasformazione di tutto il mio essere, fisico, intellettuale e sociale, aveva il merito lo scopo di farmi dimenticare il vuoto che mi separava dall'estate in cui, ne ero certa, l'avrei rivisto.
Nel ripercorrere i mesi di quella che non è più la ragazza di S ma di Ernemont, mi sono assunta la responsabilità dello storico di fronte a un personaggio del passato, con il rischio di incagliarmi nel groviglio di fattori che influenzavano in ogni istante il suo comportamento, obbligata a fare i conti con l'ordine cronologico di questi fattori — e di conseguenza con l'ordine del mio racconto. In fondo ci sono solo due tipi di letteratura, quella che rappresenta e quella che cerca, e l'una non vale più dell'altra se non per colui che sceglie di dedicarsi all'una piuttosto che all'altra.
Una lettera del 23 gennaio 1959 avvalora la certezza del ruolo cruciale delle lezioni di filosofia impartite da madame Berthier Jeanne, ma il nome dei professori è un tabù che non arriva alle labbra , quella donnina dalle orecchie a sventola, gli occhi neri e vivaci da scoiattolo e l'imprevedibile vociona autoritaria, nei cui confronti la ragazza di Ernemont prova un sentimento di ammirazione venato da una certa animosità:
«E assurdo quanto la filosofia possa renderci ragionevoli. A furia di pensare, ripetere, scrivere che gli altri non ci devono servire da strumenti ma da fine, che siamo esseri razionali e, pertanto, l'incoscienza e il fatalismo sono degradanti, quella donna mi ha tolto il gusto di flirtare.»
Una simile lucidità mi colpisce: Cartesio, Kant e l'imperativo categorico, tutta la filosofia condanna la condotta della ragazza di S. Non concedendo il minimo spazio all'imperativo di «godere, invece di strillare», allo sperma in bocca, alle puttane della domenica, al ciclo che non arriva, l'intera filosofia la fa vergognare e, nella stessa lettera, ripudiare definitivamente la ragazza della colonia:
«A volte mi sembra che a vivere a S sia stata un'altra ragazza [...], non io.»
E una vergogna diversa rispetto a quella di essere figlia di droghieri. E la vergogna dell'orgoglio di essere stata un oggetto del desiderio. Di aver considerato la sua vita alla colonia come una conquista della libertà. Vergogna di Anniecordimaiale, di Ma chi ti conosce?., della scena della bacheca. Vergogna delle risate e del disprezzo degli altri. E una vergogna di ragazza.
Una vergogna storica, precedente allo slogan «il corpo è mio» di dieci anni dopo. Dieci anni, un tempo breve rispetto alla Storia, immenso per una vita agli inizi, migliaia di giorni e di ore in cui il significato delle cose vissute resta immutato, vergognoso. E nulla può far sì che quanto è stato vissuto in un mondo, quello prima del 1968 un mondo che l'ha condannato con le sue regole , possa radicalmente cambiare di senso in un altro mondo. Esso resta un evento sessuale singolare, la cui vergogna è insolubile nella doxa del nuovo secolo.
Questa ragazza dell'inverno 1959 la vedo vivere in un'orgogliosa affermazione della volontà, determinata a perseguire con accanimento obiettivi che la fanno sprofondare a poco a poco nella disperazione. Una sorta di volontà infelice.
La applico innanzitutto sul mio corpo, in maniera radicale. A partire da gennaio, al rientro dalle vacanze, quando sono allo studentato mi nutro soltanto con una tazza di caffellatte per colazione, la striminzita fettina di carne che viene servita ogni giorno per pranzo — tranne il venerdì: pesce bollito e un po' di zuppa, la sera, con una mela o della composta di frutta. Ho sostituito la voluttuosa e sempre troppo fugace soddisfazione degli ultimi mesi di rimpinzarmi di pane imburrato e patatine fritte con quella della privazione volontaria, un sacrificio per il quale non posso prendere esempio da nessuno attorno a me e il cui segno tangibile e manifesto sono le tavolette di cioccolato fornite a mezzogiorno dalla suora del refettorio per la merenda che io, senza nemmeno toccarle, accantono in un cassetto del comò con l'intenzione, mi dico, di regalarle ai bambini della colonia l'estate a venire. Rifiuto tutto ciò che, secondo il bugiardino delle pillole dietetiche NéoAntigrès comprate dal farmacista del boulevard de l'Yser, fa ingrassare. Ogni pasto in refettorio diventa una specie d'avventura dalla quale esco sazia a stento o più affamata di prima, in ogni caso vittoriosa, dopo aver rifilato alla vicina la mia porzione di formaggini della Vache qui rit. Vivo la fierezza di essere una campionessa del digiuno, in una lotta contro il grasso di cui la bilancia della farmacia e le gonne larghe in vita mi dimostrano il successo.
Non avevo sconfitto la fame. La estenuavo solamente lavorando. Penso soltanto al cibo. Sono entrata in una modalità per la quale la mia esistenza procede in funzione di cosa potrò o non potrò mangiare la volta prossima a seconda del tasso calorico di ciò che ho nel piatto in quel momento. In un romanzo, la descrizione di un pranzo o una cena mi fa interrompere la lettura bruscamente come una scena sessuale. La sera, al dormitorio, sentire il rumore della carta spiegazzata del sacchetto da cui la piccola V, rientrata da scuola, estrae una pasta, immaginarla mentre la mastica, mi impedisce di concentrarmi. La odiavo. Quando avrei avuto anch'io il diritto a uno spuntino? Me lo chiedevo come se quella decisione non dipendesse da me, ma dal mio doppio ideale, la ragazza che dovevo diventare a ogni costo per sedurre H.
La disfatta della volontà ha avuto luogo il pomeriggio di una domenica di marzo, nella drogheria dei miei genitori con le imposte chiuse, mentre loro erano fuori per la consueta gita in 4cv nelle campagne del circondario.
Evidenza, oggi, del fatto che non poteva accadere che là, in drogheria, il luogo dell'abbondanza gratuita offerta da sempre ai miei occhi fino alla partenza per la colonia e che mi faceva sembrare strane, se non tristi, le case degli altri, dove una singola credenza poteva contenere tutto il cibo a disposizione. Il regno della mia infanzia ricca di zucchero, durante la quale ogni dispiacere, ogni sberla ricevuta da mia madre, conduceva alla consolazione di una scatola di biscotti o un vasetto di dolciumi. Non so cosa pensi la ragazza che d'un tratto perde il controllo sul suo desiderio e si getta immagino sul banco dei formaggi, sulle madeleine vendute al dettaglio, sulle caramelle. Forse niente. E la prima scena di avidità in cui la coscienza assiste, impotente, alla frenesia delle mani che afferrano e portano alle labbra, della bocca che mastica a malapena, ingoia al piacere del corpo diventato un baratro senza fondo. Con la nausea, arriva la fine: la disperazione d'aver ceduto e la risoluzione di restare a dieta una settimana intera in modo da eliminare ogni minimo residuo di quell'enorme quantità di cibo ingurgitata in mezz'ora alleggerirmi del peso della colpa.
Quel giorno, la ragazza nella drogheria non sa di essere entrata nell'infernale circolo vizioso dell'astinenza draconiana seguita dalla ricaduta negli attacchi di ingordigia, improvvisi quanto irrefrenabili. Il primo boccone dell'alimento desiderato e proibito spazza via ogni proposito, bisogna toccare il fondo della desolazione, mangiare il più possibile fino a sera per riprendere il digiuno di buon mattino, caffè nero e nient'altro.
Non sa che diventerà preda della passione più triste che ci sia, quella del cibo, oggetto di un desiderio incessante e rimosso che non può realizzarsi altrimenti che nell'eccesso e nella vergogna. Non sa di essersi cacciata in un continuo avvicendamento di purezza e sozzura. Una lotta in cui la prospettiva della vittoria si allontana sempre più nel corso dei mesi, quando tornerò normale, quando la smetterò di essere così.
Non immaginavo che potesse esserci un nome per il mio comportamento tranne quello che avevo letto un giorno nel dizionario medico Larousse: Picacismo — appetito depravato. Perversione. Non conoscevo il mio male, lo credevo di natura morale. Non penso di aver tracciato un collegamento con H.
Vent'anni dopo, sfogliando per caso in biblioteca un volume sui disturbi alimentari, turbata, l'avrei preso in prestito e avrei dato un nome a ciò che è stato lo sfondo della mia esistenza per mesi a quell'oscenità, quel piacere inconfessabile che produce grassi ed escrementi da evacuare, sangue prosciugato — a quella forma mostruosa, disperata, del voler vivere a qualunque prezzo, anche a costo del disgusto di sé e del senso di colpa: la bulimia. Difficile dire oggi se questa conoscenza mi sarebbe stata di qualche aiuto, se avrei potuto essere curata o accettare di esserlo e come. Cosa avrebbe fatto la medicina contro un sogno?
In questo inverno 1959, la vedo, quella ragazza, alla scuola di danza Tarlé, in rue de la République, di sera contenta di essere dispensata dalla cena, disgustata dalle mani dei compagni di ballo, dai loro volti troppo vicini, il loro umorismo di freddure e indovinelli.
La vedo alla brasserie Paul, vicino alla cattedrale, che beve un brodino con una salsa salata, il Viandox, reputandolo poco calorico, assieme a R, l'unica compagna di classe con cui parla, una ragazza spassosa dal faccino rotondo e gli occhi azzurri e trasparenti che le arriva appena alla spalla.
La vedo sul marciapiede nel tardo pomeriggio, fa quasi buio, non lontano dai grandi magazzini Nouvelles Galeries, che guarda allontanarsi lentamente il berretto di lana azzurra di R dietro il vetro del pullman che la riporta a Déville, nella periferia di Rouen. In quel momento so che sta invidiando la sua amica perché non deve rientrare in un convitto attraversato dagli spifferi e dai rumori dei corpi che si tolgono le scarpe, si lavano i denti, tossiscono e russano non deve restare sveglia per ore alla luce giallastra della lampada del corridoio che suddivide il suo stanzino in una zona d'ombra e una zona chiara la cui linea di demarcazione taglia in due la coperta del letto la invidia perché torna in una casa, dai suoi.
Anche se in dicembre scriveva a Marie Claude «L'anno prossimo spero mi prendano a giurisprudenza o di poter fare l'anno propedeutico. Mia madre mi ha lasciato intendere che forse potrei andare a stare alla cittadella universitaria, cosa che preferirei di gran lunga rispetto ai pensionati delle suore. Te ne accorgi da te, forse ho ambizioni eccessive e può ancora andare tutto a monte, sono progetti che a volte mi sembrano utopici. Ma ho paura di trovarmi a rimpiangere di non aver studiato abbastanza», in febbraio decide invece di iscriversi all'esame per entrare alla Scuola normale di magistero di Rouen, dove se fosse ammessa il suo percorso di studi si concluderebbe con un anno di formazione professionale dopo la maturità.
Ho sotto gli occhi le pagelle trimestrali di Annie Duchesne, classe a indirizzo filosofico II, 195859. Testimoniano di un rendimento buono e costante in tutte le materie tranne che in inglese. In filosofia è quinta su venticinque. La media dei voti è alta ma non altissima. Tutti i giudizi parlano di una «studentessa seria e intelligente». Qualcosa di grigio, senza lampi né guizzi particolari, conforme al mio ricordo di una ragazza che a lezione non interveniva mai. Sono risultati che ieri come oggi permettevano di prendere in considerazione senza alcun problema un percorso di studi di lunga durata. Al punto che il desiderio di unirsi al gruppo dei normalisti ammirato a S, di assomigliare alla bionda, non mi sembra abbastanza per spiegare la rinuncia alle aspirazioni che aveva nutrito fino a poco tempo prima.
In questi mesi di liceo mi pare di ravvisare come le ambizioni scolastiche di Annie D si spengano lentamente a seguito di una prona interiorizzazione della sua classe sociale di appartenenza (che crede insospettata dalle compagne, le quali ignorano e non hanno modo di scoprire il bardrogheria dei suoi a Yvetot, ma che pure devono aver intuito le sue origini da numerosi altri segnali). Al liceo, circondata da autentiche «secchione» che osano porre domande ai professori, il suo statuto d'eccezione, di miracolata, ha perso ogni forza e valore. Si è conclusa l'epoca in cui era un'eroina della scuola. La sicurezza delle altre ragazze — che, indifferenti all'esito dell'esame di maturità, vissuto come un mero pro forma, già preannunciano che faranno il biennio di preparazione per entrare nelle Grandes Ecoles umanistiche oppure si iscriveranno a farmacia o a qualche altra facoltà selettiva e prestigiosa, come se avessero il posto prenotato la demoralizza. Un lungo percorso di studi le pare un tunnel interminabile, estenuante, privo di guadagni, triste, qualcosa che ai suoi costerà caro e a lei non permetterà di rendersi indipendente dal punto di vista economico. Continuare a studiare non rappresenta più la felicità sperata, come se ciò che ha sentito dire per tutta l'infanzia sul «rompimento di zucca» che è lo stare sui libri, sulla stravaganza di essere quella «portata» in mezzo a persone che, dicevano, sono andate «alla scuola delle sette domeniche», finisca per avere la meglio su di lei. Adesso ha voglia del percorso e del futuro che la società e il Ministero dell'educazione nazionale del 1959 hanno preparato per i figli dotati dei contadini, degli operai e degli osti. La ragazza è ricaduta dalla parte del padre, il quale al contrario della madre, delusa esulta quando viene a sapere che la figlia non vuole più «continuare», che ha deciso di entrare alla Scuola normale (nessun bisogno di aggiungere «di magistero», né l'uno né l'altra conoscono l'esistenza della più prestigiosa Scuola normale superiore, e d'altronde anche oggi chi la conosce, al di fuori appunto degli insegnanti e delle classi sociali elevate?).
Sospetto anche che si faccia questa domanda: chi ha voglia di starsene a scaldare i banchi come una scolaretta quando oramai si ha per quanto rimossa, negata — l'esperienza sessuale di una donna?
Nella visione incantata che in questo momento ha del futuro, si vede in una scuola di campagna, circondata da pile di libri, una 2cv o una 4cv parcheggiata davanti al suo bell'alloggio di servizio. Ai suoi alunni insegnerà poesie,
Amo il dolce e lento ciuco / che risale dal sambuco di Francis Jammes, I jinn di Victor Hugo. Nella sua rappresentazione del mestiere di maestra di scuola, i bambini sono presenti nella forma sfocata e gioiosa di quelli di S, la banda, la banda dell'estate, di cui si dev'essere occupata per non più di una settimana in tutto.
Come se il linguaggio, arrivato tardi nell'evoluzione umana, non si imprimesse nella memoria facilmente quanto le immagini, di tutte le migliaia di parole scambiate nel corso del tirocinio formativo degli educatori in un castello a HautotsurSeine, durante le vacanze di Pasqua, resta solamente la frase sogghignata da un maestro di scuola dalla pelle butterata e dagli occhiali fumé nella cucina in cui eravamo assieme di corvée come lavapiatti: Sembri una puttana avvizzita. Frase che in seguito ho messo sul conto di un eccesso di fondotinta e di fard sulla mia pelle chiara e alla quale non ho saputo controbattere con niente di meglio che: E tu sembri un vecchio pappone, disorientata, e senz'altro impaurita, dall'inatteso rispuntare della puttana della domenica. La ragazza della colonia era dunque visibile in trasparenza sotto quella che credevo essere una tirocinante rispettabile e distaccata?
Ho dovuto pensare con orrore che fosse pronta a rimanifestarsi quando, finito lo stage, sfiancata dalle avances di un ragazzo del mio tavolo, gli ho permesso di baciarmi e di accarezzarmi il seno in un cinema quasi vuoto in cui veniva proiettato un film di serie B con dei mostri. Tutto in me si ridesta in maniera indipendente dalla mia volontà. Atterrita consapevolezza della potenza del desiderio suscitato dalla mano e dalla bocca di quel ragazzo alto e gracile che mi accompagna fino alla porta del pensionato e che sono sicura di non voler più rivedere. Nel 2000 ho ricevuto una sua lettera tramite il mio editore, scriveva di non aver mai dimenticato «la bella ragazza» — definizione che mi ha stupefatto di HautotsurSeine. Era sposato, con figli, gestiva un garage a Rouen. Non ricordo come avesse riconosciuto Annie Duchesne, la ragazza del tirocinio, in quella che aveva appena scritto e pubblicato Lévénement.
Un giorno d'aprile, a pranzo in refettorio, vedendo che vicino al mio piatto era stata posata una lettera con la carta intestata del sanatorio di S — lettera di risposta alla mia domanda di assunzione per l'estate successiva forse avevo già intuito il rifiuto che conteneva, di cui ho dimenticato i termini, e che ha confermato con brutalità la mia certezza: alla colonia, Annie Duchesne era considerata indesiderabile. Mi sembra che ciò da cui sono stata invasa in quel momento non sia stato tanto il dispiacere di non rincontrare H, la fine definitiva del mio sogno, ma la gravità della mia abiezione passata, che quel rifiuto della mia domanda rigetto inusuale, molti educatori prestavano servizio per due o tre anni di fila rendeva addirittura abbagliante: non si voleva più, a ogni costo e in nessun modo, sentir parlare di quella ragazza. La vecchia ragazza, quella di prima. Ma, a S, la nuova non la conoscevano ancora. Tra le mura della colonia la vergogna era incancellabile.
Non poter stabilire l'anteriorità di un ricordo rispetto a un altro impedisce di stabilire un rapporto di causaeffetto tra i due: non so se ho ricevuto questa lettera prima o dopo aver letto, in quello stesso aprile 1959, Il secondo sesso di Simone de Beauvoir, avuto in prestito da MarieClaude alla quale l'avevo chiesto a fine marzo.
Non utilizzo, in questo frangente, il termine rivelazione, che invece mi è venuto in mente molti anni dopo nel rivedere la ragazza di Ernemont sulla strada per il liceo, completamente abitata da quel libro, gli occhi spalancati su un mondo spogliato delle apparenze che fino a pochi giorni prima ancora lo ammantavano, un mondo in cui, allora, tutto, dalle automobili sul boulevard de l'Yser agli studenti in giacca e cravatta incrociati nel tragitto verso la Scuola superiore di commercio, era manifestazione del potere maschile e dell'alienazione femminile. Mi interessa, piuttosto, mettere questa stessa ragazza, con la sua memoria dell'estate precedente, davanti a quelle mille pagine di una dimostrazione impeccabile, un'interpretazione dei rapporti tra uomini e donne che la riguarda, lei, ragazza, al massimo grado. Pagine scritte da una donna, una filosofa che conosce solo di nome, che la costringono a un dialogo al quale non può, non vuole sottrarsi perché non ha mai avuto luogo in precedenza.
La immagino:
sbigottita dal quadro della situazione delle donne, epopea infelice che prosegue implacabile dalla Preistoria a oggi turbata dalla visione apocalittica delle donne sottomesse agli imperativi della specie, gravate d'immanenza mentre gli uomini sguazzano nella trascendenza incoraggiata nella propria repulsione nei confronti della maternità, nella paura del parto nutrita sin da quando, a nove anni, ha letto in Via col vento le pagine sul travaglio di Melania attonita per la molteplicità dei miti che circondano le donne e forse umiliata dalla povertà dei propri riguardo agli uomini, in ogni caso indignata al ricordo dell'accusa che le è stata mossa alla colonia: sei una mantide religiosa stupita dall'insistenza dell'autrice sul tema del disgusto e della vergogna del rido la «sporcizia» laddove in quel periodo ciò che le procura vergogna è proprio l'assenza di sangue, la sua biancheria immacolata.
Non so se riconosce la sua prima notte con H nel modo in cui Simone de Beauvoir descrive la perdita della verginità. Se condivide la frase: «La prima penetrazione è sempre uno stupro». Il fatto che ancora oggi mi sia impossibile utilizzare il termine stupro a proposito di H significa forse che la risposta è negativa. E cosa ne è della vergogna di essere stata innamorata pazza di un uomo, di averlo atteso dietro una porta che non ha aperto, d'essere stata trattata da sciroccata e da puttana della domenica?. Leggere Il secondo sesso me ne ha ripulito o, al contrario, mi ci ha fatto sprofondare? Opto per l'indecisione: aver ricevuto le chiavi per capire la vergogna non dà il potere di cancellarla.
Nell'aprile 1959, in ogni caso, ciò che conta è il futuro. Con certezza so che la studentessa di filosofia ha fatto sua l'esortazione di Simone de Beauvoir: «Noi pensiamo che [la donna] sia chiamata a scegliere tra affermare la sua trascendenza e alienarsi in oggetto». Ha ricevuto la risposta alla sua domanda che è più o meno quella delle ragazze dell'epoca: come bisogna comportarsi? Da soggetto libero.
La ragazza che parte da Ernemont dopo aver fotografato la sua ministanza non sa né nuotare né ballare — ha abbandonato i corsi quasi subito ed è appena stata bocciata all'esame della patente, ma non si preoccupa troppo di aver fallito in quei punti del suo programma. Ha passato la maturità con un buon voto e la so più che mai determinata a «realizzarsi» in un progetto d'altruismo che coniuga le prescrizioni esistenzialiste e il modello ideale della colonia: l'educazione dei bambini. A perseverare, quindi, nella scelta che crede di compiere in assoluta libertà.
Accingendomi a entrare in quest'altra estate, secca e torrida anche al di là del fatto che per la prima volta, su decisione del generale de Gaulle, si torna a scuola già à metà settembre, ho bisogno di raffigurarmi quella che, durante le vacanze, non sarà più Annie D ma soltanto KalaNag e poi Kali, i nomitotem con cui verrà chiamata da tutti nelle altre colonie, piccole e medie, quasi solo femminili, decorosissime — mica come quel casino di S, pensa ormai. Di vederla per come si era preparata ad apparire fino a poco tempo prima agli occhi di H e per come è apparsa agli altri:
«la vamp» per Catherine R, la direttrice della colonia di ClinchampssurOrne, vicino a Caen, cui sono risultata subito antipatica e che un giorno, prendendo da parte nelle cucine l'unica altra educatrice eravamo, in tutto, noi due e un educatore , ha imbastito un processo a mio carico che io ho ascoltato di nascosto dalle scale, processo di cui oggi non riesco a ricordare nulla, non una parola, se non che lì per lì avrei voluto morire la ragazza «singolare» per Lynx, il direttore della colonia di Ymare, vicino a Rouen, che per il mio compleanno mi regalerà, con una risata d'intesa, un romanzo di Jules Romains intitolato appunto Une femme singulière e che in seguito sentirò dire a sua moglie, Fourmi, con un'altra risata, «da quando faccio le colonie estive non mi è mai capitata un'educatrice come Kali!».
O forse, piuttosto, è quella che il 29 luglio '59 scrive, in una lettera dalla busta gialla e il timbro della Colonia Ufovai Federazione delle opere laiche: «A Caen ho visto Senza di te è notte con Èva Bartók. Allucinante, questa passione per la morfina. Viene da pensare, senza scandalizzarsi, che possa accadere pure a noi».
Anche se per andare in giro con il mio gruppetto di ragazzine devo aver indossato quasi sempre le scarpe da tennis con un paio di jeans o di pantaloncini, vedo questa ragazza in un vestito verde scuro dai grandi fiori color pistacchio lo indosso nell'unica fotografia di quell'estate '59, seduta su una spiaggia quasi deserta con iltessuto della gonna che mi si apre a corolla attorno alla vita, quasi una bambolina adagiata su un letto di ciottoli e inerpicata su un paio di scarpe, anch'esse pistacchio, comprate da Eram, che mi fanno raggiungere il metro e ottanta e provocano le canzonature dei ragazzi che incrocio: «Com'è il tempo, lassù?». E diverso il tempo, sì, quando si è alte e lo sguardo passa sopra le teste, si abbassa sui capelli degli altri e arriva fino in fondo alla strada. Se i ragazzi si permettono di insultarla da spilungona, è anche vero che rispetto a quando è più bassa osano meno allungarle le mani sul sedere. Con la gonna a campana e i capelli biondi decolorati che le coprono le orecchie, tenuti insieme in uno chignon alto alla maniera di Mylène Demongeot, vive una femminilità ostentata e intoccabile, fondendo nel suo corpo e nel suo atteggiamento la storia con H e le prescrizioni de Il secondo sesso.
Che si faccia chiamare KalaNag o Kali, non vuol essere né vamp né singolare, al contrario desidera conformarsi al modello della buona educatrice definito durante il tirocinio, somigliare alle altre, partecipare all'atmosfera «di sano e schietto cameratismo». Ma perché aver scelto come totem quello di Kali, dea sovversiva, quando tutte le altre educatrici si sono piegate alla regola di attingere a nomi di fiori, Gelsomina, Pratolina eccetera, se non per accondiscendere al desiderio di distinguersi? Mi sfugge la portata dell'abbaglio che prende su se stessa: ha forse creduto di riuscire a depistare gli altri? A dissimulare il suo vizio, l'ossessione per il cibo, rifiutato a tavola ma spiato con avidità nei piatti altrui e infine divorato all'ora della merenda, sul prato, con i bambini tutti contenti di rifilarle le fette di pane burro e marmellata di cotogne che non hanno nessuna voglia di mangiare. A non lasciar trasparire lo sforzo che le richiede dare l'impressione di interessarsi ai giochi che organizza a fatica, il supplizio da voler scappare via, ma dove? di dover inventare un balletto sul tema de Lo schiaccianoci per le sue dodici bambine in vista della festa dei genitori, lavoratori del porto di Rouen che per l'occasione hanno fornito chili di banane di cui si è rimpinzata. A reprimere la sensazione di essere, con il suo comportamento, sempre sghemba, precaria, un pesce fuor d'acqua.
Violette, ricciolina gentile e graziosa, che mi ha domandato a bruciapelo che cos'è una madre indegna, Claudette, nervosa e permalosissima, che ogni sera per il bacio della buonanotte mi stringeva forte, Maryse, che diceva sempre alle altre di andare a fanculo e quando poi veniva rimproverata scoppiava a ridere mostrando i denti e le gengive, la brunetta giudiziosa con il caschetto che aveva letto Il piccolo principe eccetera. Nella memoria precisa dei volti delle ragazzine tra i dieci e i dodici anni di cui ero responsabile a Ymare, ciò che leggo è la mia incapacità di provare un qualunque tipo di sentimento nei loro confronti. Una glaciazione interiore che mi faceva guardare gli esseri umani a distanza.
Questa KaliKalaNag dell'estate '59 è priva di sentimenti. Respinge le manifestazioni d'affetto delle bambine come qualcosa di animalesco e come strappi alla regola che le impone di non fare favoritismi. È indifferente al pericolo, attraversa da sola un bosco per visitare una cappella durante un giorno di permesso facendo l'autostop. Per un soffio non viene morsa da una vipera acquattata a un millimetro dalle sue scarpe da tennis non l'ha vista perché non mette gli occhiali e scrive: «Non sapevo nemmeno se mi aveva davvero morso, le bambine mi dicevano di tornare alla colonia, io tergiversavo. Pensa che sapermi in pericolo di morte non mi ha neanche sconvolta più di tanto».
Il suo pensiero non ha più un oggetto, il mistero e il sapore del mondo le sembrano scomparsi. Ormai il reale le risuona dentro soltanto sotto forma di emozioni dolorose, sproporzionate quasi scoppia a piangere quando crede di aver perso una lettera della madre non ancora aperta.
In fondo vorrebbe essere rimasta un'adolescente, come dimostra un'altra lettera sulle quattordicenni della colonia:
«Le invidio, sinceramente. Non sanno di stare vivendo il loro periodo migliore. E stupido non poter sapere in quale momento si è più felici.»
Nel progressivo aggiornamento di quella verità dominante su se stessi che la narrazione di sé ricerca per assicurare una continuità dell'esistenza, c'è sempre un elemento mancante: l'incomprensione di ciò che si vive nel momento in cui lo si vive, quell'opacità del presente che invece dovrebbe bucare ogni frase, ogni asserzione. La ragazza che le bambine chiamano Kali, che si scapicolla assieme a loro su strade di campagna cantando la colooonia caaasafioriiita, non sa, non può nominare, «ciò che non va»: Lei e il cibo.
Un pomeriggio, sola in dormitorio, ha rubato dolciumi dall'armadietto di una bambina. Le accuse lanciate dalla vittima del furto all'indirizzo delle altre ragazzine del gruppo non hanno portato a nulla. Ovviamente l'educatrice Kali è al di sopra di ogni sospetto. Immagine di un gesto compiuto da un'altra, una ragazza soggiogata da una pulsione irrefrenabile, eppure è l'io di oggi che ancora vede l'armadietto di legno sopra il letto, si ricorda del silenzio nel dormitorio. Attorno a questa immagine è caduto ogni pensiero. Non so quanti dolci ho rubato, so solo che li ho mangiati tutti subito.
Inizio settembre, fa gli esami per entrare alla Scuola normale di magistero di Rouen. Nonostante abbia l'impressione di essere andata molto bene all'orale con la sua relazione sull'amicizia, è sicura che sarà bocciata per via della prova di disegno e del tema sulle centrali mareomotrici. Quando apprende i risultati non riesce a credere di essere arrivata seconda su un totale di una sessantina di candidati con venti posti a disposizione. Le sembra un indiscutibile segno del destino.
Immagine di quel pomeriggio di settembre: seduta sul letto di camera sua, a Yvetot, davanti al comò sormontato da uno specchio, con i Valzer di Strauss disco regalato da alcuni amici dei miei genitori, per me niente più che una musichetta che però in quell'istante si accorda perfettamente al trionfo del mio essere. Vivo il momento puro del successo, di cui godo con una violenza esaltata dalla musica viennese e dalla vista del mio riflesso, come se lo specchio rappresentasse il futuro e il mondo in cui sono attesa. E un momento cieco, a cui poi avrei pensato come a quello dell'errore assoluto, dell'entrata nell'errore.
Quella domenica sera, dopo aver sistemato nei cassetti asciugamani e lenzuola, richiesti obbligatoriamente dalla Scuola e contrassegnati dalle sue iniziali, prima di addormentarsi in un letto che le sembra troppo corto, nel suo stanzino dalle pareti rosa aperte in alto e in basso una specie di delicata casa di bambola , pensa forse, finalmente, di essere dove sognava di andare quando era alla colonia, di essere diventata una studentessamaestra, come la bionda?
Alla memoria scomposta in frammenti che conservo della Scuola normale — l'arco d'ingresso, il dormitorio, la mensa, il cortile, la palestra eccetera, i luoghi che frequentavo, insomma alcuni siti internet aggiungono una visione d'insieme panoramica e architettonica davvero impressionante. Costruita nel 1886, si estendeva su un terreno di 19.000 metri quadri che dominava Rouen fino alla collina di Santa Caterina. C'erano giardini, un roseto, un campo sportivo, unanfiteatro, una sala per la musica e la danza. Lungo la facciata monumentale dell'edificio principale, che cingeva per tre lati il cortile della ricreazione, correva una pensilina di vetro. Chiusa nel 1990, degradata, infestata dal merulio, nel 2014 l'amministrazione dipartimentale l'ha ceduta per quattro milioni di euro alle assicurazioni Matmut che hanno in progetto di farne un ampio complesso con un hotel a quattro stelle, un palazzetto per i congressi, un parco eccetera. In una fotografia si vedono le finestre murate del pianterreno, quelle rotte ai piani superiori, erbacce.
Non mi suscita nessuna tristezza.
Prima che questa costruzione diventi per me una prigione dorata, un guscio mortifero l'andarmene con la mia valigia, in un assolato sabato pomeriggio del febbraio 1960, mi farà scendere per la rue du Champ des Oiseaux fino alla stazione in uno stato di felicità pura —, mi è facile credere che la studentessamaestra Annie Duchesne sia rimasta affascinata dalla magnificenza del luogo, dalla ricchezza delle rifiniture, dalla perfezione, insomma, di un'organizzazione che le ricordava quella della colonia in una scala superiore. Nessun dubbio che abbia esposto in dettaglio ai suoi genitori — soprattutto a uso e consumo del padre, per gratificarne la certezza di saperla al sicuro in un paese della cuccagna l'abbondanza e la varietà del cibo, i biscottini al burro offerti alle dieci, il riscaldamento centralizzato in dormitorio, tutti i «vantaggi» di una presa in carico totale e gratuita, dalla vaccinazione bcg alla risuolatura delle scarpe passando persino per la progressiva accumulazione di un «gruzzoletto» da ricevere poi tutto assieme una volta conclusi gli studi. (È il ricordo di questa autarchia morbida e ben pianificata che mi farà comprendere la natura del sistema sovietico e, in seguito, la nostalgia che ne hanno i russi.)
Può persino darsi che, vivendo in convitto per la prima volta a diciannove anni, sulle prime si sia trovata anche bene nella sorvegliata clausura di quell'universo esclusivamente femminile — con le uniche eccezioni del professore di storia e di Nicolas, il tuttofare dalla faccia da rospo , almeno finché lo scorgere ogni mattina da sotto il tramezzo i piedi nudi della sua vicina intenta a lavarsi non ha cominciato ad apparirle come il concentrato di tutta la tristezza e la noia, mista a repulsione, di una omogeneità sessuale a perdita d'occhio, dall'alba al tramonto. O finché, scoperchiando il cestino del bagno, è rimasta incantata a guardare con affascinato disgusto gli assorbenti rossi gettati da ragazze sconosciute lei è più di un anno che non vede niente.
Anche R ha superato l'esame di ammissione, potendo però, come le poche altre studentesse residenti nella zona di Rouen, frequentare i corsi senza vivere nello studentato. Nel ritrovarla avevo provato quel senso di rassicurazione e dolcezza che dà, in un nuovo ambiente, la presenza di una vecchia compagna di scuola, e la comune memoria della classe precedente ci aveva rese complici, sin dai primissimi giorni, nel criticare le altre ragazze e la scuola tutta.
Nella lettera a MarieClaude di lunedì 21 settembre, dopo un passaggio pieno di trasporto «siamo andate tutte assieme a vedere Hiroshima mon amour e abbiamo ripetuto in coro Tu non hai visto niente a Hiroshima» c'è un giudizio sulla Scuola che già rivela un'assenza di entusiasmo, se non vero e proprio disincanto: «E passabile. I corsi sono vari, psicologia, pedagogia, disegno, canto, economia domestica, e l'ambiente è buono. Dicono che non ci si ammazzi di lavoro. Tanto meglio».
La studentessa arrivata seconda all'esame di ammissione non eccelle in nessuna delle materie pedagogiche. Non si interessa né si appassiona a niente se non alle lezioni di letteratura del Novecento e di storia contemporanea — per le quali non è previsto alcun voto e soprattutto a quelle di apprendistato culinario. Consistono nella preparazione di un pranzo intero in una cucina speciale, superbamente equipaggiata, dove lei attinge di nascosto alle dispense sgraffignando uvetta e frutta candita. Come le altre studentessemaestre, si lancia nel lavoro a maglia, compra i ferri e della lana mohair azzurro cielo allora molto in voga — per confezionarsi un cardigan abbandonato dopo una decina di centimetri di maglia informe.
Come cogliere lo stato psicologico, la visione della vita, la sua vita, di colei che vedo seduta scomposta in terza fila,'consumata dall'ossessione per il cibo, tra R e Michèle L oppure in palestra, in tuta e scarpe da tennis, durante la sua prima lezione di ginnastica ai bambini della vicina «scuola elementare per tirocinanti» avendo in testa un unico desiderio, quello che finisca presto , quando per lei è ancora impossibile dirsi che ha sbagliato futuro?
Che rifiuta la percezione spaventosa, inconfessabile, di essere inadatta a insegnare alle elementari, che si sente molto lontana, molto al di sotto della perfezione educativa di cui la Scuola normale coltiva il desiderio, come se la maestra dovesse farsi carico della formazione morale della società intera? Come misurare la sua disperazione? Se non con questo ricordo preciso: aver desiderato di essere la ragazza del refettorio che spinge il carrello e distribuisce i piatti su ogni tavolata.
Che cosa resta del desiderio e della sofferenza dell'anno precedente? Il respiro trattenuto nel vedere i corpi avvinghiati di Emmanuelle Riva e del giapponese. Il violento turbamento e il principio di nausea nel leggere il romanzo di Christiane Rochefort Il riposo del guerriero, come fosse lei la sottomessa protagonista.
Filtrato da quelle mura, il mondo esterno ha perso il potere di coinvolgerla. Non riescono a toccarla né gli avvenimenti d'Algeria ai quali tuttavia s'interessa dal suo anno di filosofia, oramai convintamente indipendentista né le morti di Gérard Philipe e di Camus. Gridate in dormitorio da ragazze fiere delle loro voci, le canzoni Milord, La valse à mille temps e Salade de fruits (jolie jolie jolie) le danno sui nervi.
Nella cornice spaziotemporale che mi sono fissata quei cinque mesi alla Scuola normale di Rouen affiorano, sempre più numerose, le ombre delle altre studentesse, come se aver posto deliberatamente dei limiti tanto ristretti provocasse il massiccio smaltimento di un deposito della memoria ormai chiuso da decenni. Tornano i nomi e i volti di quelle di cui allora forse mi domandàvo perché si trovassero lì, se fossero felici di essere in quel posto e di diventare maestre.
Come mi hanno percepita le altre ragazze della classe di formazione professionale, cosa sapevano di me che io ignoravo sapessero, Annette C, che veniva da La Vaupalière, un paesino, Michèle L di Gravenchon, Annie F della rue des Arsins, vicino a un negozio Manufrance, a Rouen? Perché, oggi, scrivendo, mi interessa questa verità degli altri — che pure è poca cosa rispetto a ciò che dagli altri continua a essere ignorato, a ciò che poi, una volta scoperto, li fa sobbalzare dalla sorpresa, chi l'avrebbe mai detto, immaginato eccetera? Semplicemente perché era parte integrante del mio rapporto con il mondo nel momento in cui eravamo assieme, formavamo un gruppo, il corpo delle future maestre che l'hanno mai sospettato? io non riuscivo a sentire come mio.
«D'accordo, è stata una mia scelta, ma dire che l'abbia scelto davvero è un altro paio di maniche. Mi pare che, semmai, siano gli eventi a guidarci, non credi?» Lettera del dicembre 1959.
L'anno scorso, cominciando a scrivere, non avrei immaginato che mi sarei dilungata sul mio periodo alla Scuola normale. Mi rendo conto di aver avuto bisogno di riattivare la ragazza che si è impegnata per dieci anni, avevo firmato e smarrita n un mestiere non adatto a lei, di esporre insomma una questione a cui la letteratura dà spazio raramente: come ce la caviamo, tutti noi, con la situazione che ci si presenta all'inizio della vita, dapprima l'obbligo di fare qualcosa per vivere, poi il momento della scelta e, infine, la sensazione di essere, o di non essere, là dove dovremmo essere?
È inverno. La tirocinante che esce dalla scuola elementare Marie Houdemare vorrebbe essere morta. O, che poi è lo stesso, non essere più la ragazza a cui la maestramodello, una zitella avanti con gli anni, ha appena dichiarato senza mezzi termini, in presenza dell'altra stagista, gli occhi neri piantati nei suoi che subito si sono appannati per le lacrime: lei non ha la vocazione, lei non è fatta per essere maestra. Che tra le studentesse della Scuola la reputazione di questa donna sia quella di una carogna, che tutte abbiano paura di svolgere il tirocinio con lei, nella sua classe preparatoria, non attenua affatto l'orrore di ciò che è immediatamente percepito come la verità. Una verità che è trapelata mio malgrado, nonostante i miei sforzi per preparare le lezioni di lettura e scrittura, inventare un racconto di Natale corredato da disegni di renne e casette nella neve. Che farsene, di questa verità, del fatto che, nel cammino che ho deciso di intraprendere, sono un'incapace, completamente inadeguata?
Vedo questa ragazza che va a rifugiarsi in una cappella vicina, nella chiesa di SaintGodard, prima di risalire verso la Scuola e raggiungere le altre ragazze, felici, loro, di avere finalmente a che fare con i bambini, elettrizzate dalla possibilità di andarsene liberamente a spasso per le strade di Rouen.
L'ispezione in aula, uno degli ultimi giorni di tirocinio con l'ispettore, la direttrice della scuola elementare e la maestramodello seduti fianco a fianco sotto la finestra a confabulare tra loro mentre io faccio lezione di lettura e tengo in mano i cartoncini con scritte in grande le parole nuove da imparare , non mi salverà. La bambina più brava della classe, che interrogo alla fine, confonde il verbo avere e il verbo essere, risponde che «il pastore si ha intabarrato». Sul suo faccino deluso, pronto a piangere per l'errore commesso, leggo con dolore la conferma della mia nullità.
Poco importa che, per anni, il pensiero di quella donna glaciale, dagli occhi distanti, le labbra sottili sui denti curati, elegante, mi ha fatto venir voglia di prenderla a pedate. Devo ammettere che è stata lei, tramite il suo verdetto lì per lì atroce, che mi ha, se non salvata, perlomeno fatto risparmiare molto tempo. E tra quelle persone non sempre amabilissime che penso abbiano cambiato, loro malgrado, il corso della mia vita.
R, dal canto suo, ammalatasi al momento opportuno dopo il fiasco di una lezione di grammatica, non ha potuto finire il tirocinio che stava svolgendo in una scuola di periferia. Forse sono state proprio le nostre rispettive delusioni, i fallimenti nel confrontarci con la realtà del mestiere, ad avvicinarci dopo le vacanze di fine anno,
nel gennaio 1960. E a indurci a fondere pensieri e pulsioni, a raggiungere quella complicità esclusiva di cui stabilisco ora il momento fondativo: quando, come api, ci siamo gettate sui dolciumi della cooperativa conservati nell'aula di lezione vicino alla nostra per rimpinzarci di caramelle Carambar, di leccalecca Chupeta, di biscotti al cioccolato bn, per poi andarcene assieme senza pagare, per tacito accordo. Un gesto subito ripetuto — ma senza imprudenze, considerate le urla della responsabile della cooperativa alla scoperta del ladrocinio con un piacere infantile, senza la chiara consapevolezza di stare calpestando quella stessa morale che avremmo dovuto insegnare, o forse sì.
Sono portata a credere che ci siano state necessarie parecchie ore per «fomentarci» a vicenda, nelle aule vuote di cui andavamo in cerca per parlare tra noi, lontano dalle altre, ma forse l'idea si è invece manifestata d'un tratto, dapprima come semplice ipotesi e poi come reale progetto comune: lasciare la Scuola normale, andare a lavorare come ragazze alla pari in Inghilterra, tornare e iscriverci a lettere in ottobre. Chi l'ha proposta per prima? Scommetto su R. Annie D, che vedo disperata, bulimica, invischiata nel torpore del convitto, non avrebbe mai potuto nemmeno concepire di liberarsi dalla trappola in cui si era impelagata, prendere l'iniziativa di avviare la complicata procedura per rompere l'impegno preso e costringere i suoi a rimborsare le spese dei mesi trascorsi alla Scuola (tutte cose che in fin dei conti si sono rivelate di una facilità sorprendente, insospettabile dal fondo del mio scoramento, tanto sul fronte della direttrice che su quello famigliare).
Che i miei genitori ignorassero entrambi cosa significava il termine «propedeutico» relativo all'anno accademico a cui mi sarei iscritta non impediva a mia madre di essere raggiante di fierezza e ambizione, sempre pronta a sacrificarsi per vedere sua figlia «più su». Mio padre era deluso come se avessi rigettato con sdegno il suo ideale di futuro. (Per tutta la vita ha conservato nel portafoglio il ritaglio di ParisNormandie in cui era menzionato il mio successo all'esame di ammissione alla Scuola normale. Niente potrà mai privarlo di quel momento di gioia, la sua più grande rivincita sul mondo, la sua affermazione di piccolo contadino strappato da scuola a dodici anni per lavorare in fattoria.) Misura del limite, tuttavia, delle mie ambizioni dopo aver lasciato la Scuola:
«Mi piacerebbe diventare professoressa, ma forse è troppo e non ce la farò. Mi andrebbe anche bene diventare bibliotecaria, un mio vecchio sogno.» Lettera del 29 febbraio 1960.
Fine marzo 1960. La vedo in piedi nel corridoio del treno in sosta alla stazione di Boulogne sur Mer. Chignon biondo, occhiali dalla montatura dorata con il bordino su periore nero. Poiché in valigia non aveva abbastanza spazio per gli abiti invernali e ritornerà in autunno, indossa il suo solito impermeabile celeste, troppo leggero per la stagione. Entro pochi minuti il treno partirà per la stazione marittima con i passeggeri diretti a Folkestone. Dal finestrino chiuso guarda la madre immobile sulla banchina sorpresa e abbattuta perché è stata costretta a scendere e si è vista vietata la possibilità di accompagnarla più in là, fin nello spazio doganale, e poi al battello che trova il coraggio di sorriderle. La ragazza sente le lacrime salirle agli occhi. Probabilmente la scena che fa da pendant a questa, davanti alla stazione di S, un anno e mezzo prima, non le viene in mente. Sono io che, oggi, scrivendo, riavvicino le due immagini e constato, con il ricordo di quelle lacrime, la differenza tra le due ragazze, quella in procinto di entrare in colonia, conquistatrice, scalpitante, che non vedeva l'ora di allontanarsi dalla famiglia, dal paesino, e questa, oramai senza più né orgoglio né avidità, che cerca di far bella figura e di dominare la tristezza della partenza e della separazione che non desidera nulla dall'ignoto che l'aspetta. Questa ragazza, che non è mai stata a Parigi, probabilmente sta già pensando con apprensione al suo arrivo solitario a Londra e alla famiglia di estranei con cui dovrà vivere per sei mesi, un'eternità. Niente a che vedere con i suoi sogni di bambina e di adolescente. Parte perché ha sbagliato futuro, emigrante per manifesto fallimento. Impossibile «stare a girarsi i pollici» a Yvetot, in un'inoperosità che imbarazzerebbe i suoi, esposta alle domande dei clienti, alle loro curiosità maligne. Deve partire, è ineluttabile, prescritto dai buoni risultati ottenuti alle elementari. Non è bene che abbia la voglia, il desiderio, di starsene nella cucina con la tavola ricoperta da una cerata, di rimanere a Yvetot. Deve, come dice sua madre, «andare avanti». È la Sarah di quella canzone di Aznavour che la turba segretamente, non si vive per i propri genitori. In quel momento deve slacciarsi dal suo unico legame con il mondo. La prospettiva di essere raggiunta a Londra da R dopo due settimane non le è di alcun conforto.
Le prime lettere a MarieClaude, le cui buste recano sul retro la scritta «Miss A. Duchesne Heathfield, 21 Kenver Avenue London N12 England», vibrano di un entusiasmo scomparso dai tempi della colonia. Soddisfazione di abitare presso «persone chic», i Portner, che «fra tre settimane daranno un garden party», di non doversi occupare, perché sono già grandi, dei loro due figli, Brian, dodici anni, e Jonathan, otto. Descrive la casa e dice che è «molto bella, moquette rossa, specchi dappertutto, sembra un po' americana», accenna alla loro religione, ebraica, e all'«usanza di cenare il venerdì sera con delle candele accese sul tavolo». Elenca i posti che ha visitato, la National Gallery «con Manet, Monet, Renoir, La ninfa alla fonte», la St Paul's Cathedral, il museo di Madame Tussauds «con la Camera degli orrori», la Torre di Londra, i Docks, Buckingham Palace, Marble Arch, Piccadilly Circus. Dopo aver scritto «amo la mia vita, amo essere cosmopolita, vorrei visitare il mondo intero, amare tutto», aggiunge con vanità e mettendo in atto un'inconsapevole rivincita sull'amica socialmente più evoluta, lei, che fino a poco prima non si era mai spinta fuori dalla sua tana: «E dire che a Yvetot avremmo creduto che tu avessi davanti un destino vagabondo e io una vita tranquilla, no? E proprio vero che gli eventi ci trasformano!».
Posso pensare che quando scrive «gli eventi» intenda la colonia, H e il periodo trascorso alla Scuola normale. Una cosa è sicura, questa ragazza che scrive con gusto frasi come «L'Inghilterra è il Paese della quiete, delle cose prestabilite. L'erba è verdissima, le persone amano i colori chiari, le torte rosa, le canzoni dolci come quelle di Perry Como» non è più fuori dal mondo. Anche se non si è liberata del suo appetito depravato, se non ha ripreso a perdere sangue, sta comunque uscendo dalla sua glaciazione.
Anni prima di essere edotta su ciò che è di «buon gusto», il dominante, e che, retrospettivamente, gli interni laccati, dorati, sprovvisti di mobili antichi, biblioteche e libri, a eccezione della Selezione dal Reader's Digest, mi risultassero tipici dei nuovi ricchi, la ragazza del 1960 si è dovuta sentire tuffata in un universo lussuoso. Un salotto dalla pesante tappezzeria con due divani di velluto uno di fronte all'altro, un grosso televisore, tavolini bassi, un mobile bar. Una cucina equipaggiata di elettrodomestici visti solo in qualche vetrina, forno elettrico, frigorifero, lavatrice, tostapane, mixer ha forse pensato a quel film di Tati, Mio zio, che era andata a vedere l'anno prima e non l'aveva fatta ridere? , una stanza da bagno scintillante, un gabinetto rosa, e nell'ingresso un telefono avorio poggiato su un tavolino scolpito. Sprofondare in una vasca per la prima volta nella vita le restituisce il piacere perduto del presente. E muoversi, respirare, mangiare e dormire in quell'ambiente, acquisire dimestichezza con oggetti nuovi, la fa sottomettersi senza protestare a tutto ciò che le è insopportabile del suo lavoro il quale, ben lontano dal limitarsi al semplice «aiuto domestico alla padrona di casa» previsto nell'annuncio delle «Relazioni internazionali», la struttura che gestisce le ragazze alla pari, consiste in: ogni mattina: lavare i piatti, il pavimento della cucina e quello del soggiorno, lustrare con l'Ajax la stanza da bagno e i servizi, passare l'aspirapolvere in tutti gli ambienti (tranne le scale, da spazzare con uno scopino e una paletta) ogni settimana: passare la cera sul pavimento dell'ingresso, lucidare gli oggetti di rame, stirare.
Anche questa memoria è implacabile.
Questa immersione in un ambiente sociale più elevato, insomma, mi ha fatto accettare di essere ciò che mio padre, al mio ritorno in Francia, avrebbe detto che ero stata: «Praticamente sei andata in Inghilterra per fare la domestica!». Riflessione che, benché accompagnata da una risata, mi mortificherà profondamente, come una verità umiliante, anche se di fatto presso i Portner mettevo in pratica proprio le astuzie dettate spontaneamente da una condizione di servilità rifare i letti senza far prendere aria a lenzuola e coperte, pulire il tavolo di cristallo sputandoci sopra in modo da liberarmi il prima possibile, già in tarda mattinata, delle incombenze di casa.
La determinazione a «appropriarmi dell'inglese» che esprimo nella prima lettera in cui dichiaro anche di leggere il Daily Express, di aver cominciato Chocolates for Breakfast della «nuova Sagan», l'americana Pamela Moore, e di essere andata a vedere The League of Gentlemen — si è rapidamente sgranata. Il colpo di grazia è stato inferto, più ancora che dalla difficoltà di seguire lezioni regolari in periferia una sola sera a settimana , dalla possibilità di prendere in prestito romanzi francesi contemporanei in una biblioteca di Finchley. Le lettere esprimono il «rimorso di tuffarmi nella prosa francese» e presentano un elenco di libri letti in cui compaiono pubblicazioni più o meno recenti:
La modificazione Butor
L'ultimo dei giusti André SchwarzBart, un libro formidabile
Les mauvais coups Roger Vailland, mi ha entusiasmato
Au pied du mur Bernard Privat, mi è piaciuto
Le amicizie particolari Roger Peyrefitte, piuttosto noioso
Invito a pranzo Claude Mauriac
Les enfants de New York Jean Blot
Avere a che fare sempre e dovunque con una lingua straniera deve aver aumentato la mia incapacità di resistere al piacere di immergermi nella mia lingua. I buoni propositi iniziali che, a giudicare dall'inorridito sbigottimento provato all'idea di «pensare in inglese» come pretendeva di fare una ragazza del corso, non dovevano basarsi su un desiderio troppo profondo — vengono meno definitivamente all'arrivo in Inghilterra di R, stabilitasi in una famiglia ad appena un miglio da casa Portner.
Non ho mai finito il libro di Pamela Moore che, da quanto leggo su Wikipedia, si è suicidata nel 1964.
R è l'unica delle mie «amiche di gioventù» altrimenti detto: precedenti alla sistemazione sociale determinata dal matrimonio e dal lavoro di cui, me ne rendo conto solo ora, non ho mai posseduto nessuna fotografia a parte quella della classe di filosofia II dell'ottobre 1958 in cui compariamo a due file di distanza. Lei è seduta in prima fila, le mani posate una sull'altra, di piatto sul grembiule. L'espressione sul viso — che oggi, sotto i capelli corti di un biondo tendente al castano, trovo stranamente freddo e lunare — non è un sorriso, bensì la smorfia che le ho visto spesso, la sua preferita, con il naso arricciato, un misto di irrisione e sufficienza. Seduta sembra più alta di quanto non fosse in realtà un metro e cinquantotto e guardando bene si vede che le gambe tese e ravvicinate toccano per terra soltanto con la punta delle scarpe, basse e coi lacci.
Nel mio ricordo vedo un'altra persona, decisa, dai gesti sbrigativi, il cui volto passava da un'ingenuità sorridente destinata a chi voleva sedurre — adulti di entrambi i sessi alla durezza. La cui voce dal bel timbro un po' grave perdeva gli usuali toni perentori e si faceva di rado, è vero dolce e carezzevole non appena si trattava di piacere a qualcuno.
Che dire di R prima che io cominci a vedere in lei la Xavière del romanzo di Beauvoir, L'invitata, e che faccia sempre più fatica a sopportare la sua aggressività prima che, invitata a casa mia, per parlare con mio padre faccia ricorso al «come la sta, signore?» con cui coloro che si pensano superiori credono di mettersi allo stesso livello degli inferiori prima di capire che non mi avrebbe mai invitata dai suoi genitori per non farmi vergognare dei miei prima che, nell'estate 1961, in un certo senso io la ripudi, con una lettera scritta a quattro mani assieme a G, una nuova amica incontrata all'università e che non la riveda più, tranne una volta nel 1971, al parco termale di SaintHonorélesBains, vicino alla vasca centrale dove, benché mi voltasse le spalle e fosse in compagnia di un uomo e di una bambina piccola, l'ho subito riconosciuta dai polpacci sviluppati come quelli di un ciclista e, quando si è girata, abbiamo incrociato lo sguardo per poi distoglierlo senza una parola?
Che dire di lei, ma anche: perché questo bisogno di parlarne?
Molto probabilmente perché .non posso resuscitare la ragazza che è stata me in Inghilterra e che da tempo chiamo «la ragazza di Londra» per via della canzone di Pierre Mac Orlan cantata da Germaine Montero, Un topo è venuto nella mia stanza eccetera se non in quel vagabondo tiro a due che abbiamo formato assieme per sei mesi, senza la compagnia di nessun altro, in un Paese straniero.
Forse posso citare ciò che ho scritto a MarieClaude:
«R [...] è una ragazza strepitosa, senza pregiudizi, divertente, è pazzesco quanto sia sempre ottimista, non si fa mai problemi!»
Nelle parole di questa lettera di metà maggio, sei settimane dopo il suo arrivo, leggo uno stupore pieno d'ammirazione davanti a un modo di comportarsi nel mondo, un agio, una leggerezza che io non possiedo, di cui ero e sono ancora agli antipodi. Leggerezza che oggi attribuisco alla sua costantemente confermata certezza di essere «adorata» dai genitori, preferita alla sorella maggiore, sposata e casalinga, madre di due bambini, al cui paragone doveva far la figura di un genietto. E anche al suo ambiente sociale, che, senza conoscerlo, alcuni dettagli mi facevano collocare al di sopra del mio: padre «impiegato d'ufficio» come disegnatore industriale, madre casalinga, vacanze in Costa Azzurra, dischi di musica classica. E forse questo suo sguardo spensierato sull'avvenire di bambina vezzeggiata con alle spalle una famiglia piccoloborghese che l'aveva indotta a seguirmi alla Scuola normale e, in seguito, le aveva permesso di lasciarla come se niente fosse.
Passiamo assieme tutto il nostro tempo libero. In assenza delle nostre «brave signore» è così che chiamiamo le madri di famiglia che ci hanno assunte ci precipitiamo sugli apparecchi telefonici, il cui uso privato, a domicilio, rappresentava per entrambe una grande scoperta. Ci vedo, una alta e una bassa, coppia mal assortita, l'articolo il, nella zona di Tally Ho Corner, cuore commerciale di Finchley, vagare da un milk bar a un supermercato Woolworths, per poi spingerci lungo strade trafficate che siamo tra le uniche a percorrere a piedi fino a Barnet, Highgate, Hendon, Golders Green, convinte così di perdere, macinando chilometri, i chili messi su con tutto quello che mangiamo, biscotti shortbread, lemon curd, trifle, Smarties e Milky Way, barrette di Caramac e Dairy Milk, mousse gelato servita tra due cialde per quattro pence da un distributore automatico. La novità di quei sapori dolci ci eccita, abbiamo voglia di tutto. Trascino R nella mia avidità. La ragazza di Londra ha trovato nell'amica una buona compagna per alternare bulimia e digiuni.
Parliamo per ore, davanti a una tazza di tè o di brodo Bovril l'equivalente inglese del Viandox nella coffee house di Tally Ho gestita da una donna lugubre con gli occhiali che passa tutto il tempo a lavare le stoviglie. Le esperienze comuni, il liceo e la Scuola normale, alimentano le conversazioni. Confortate da quella complicità troviamo sempre nuovo materiale da criticare, comparare e denigrare nello stile di vita e nelle abitudini degli inglesi. Esprimiamo le nostre osservazioni ad alta voce, sicure che nessuno ci capisca quando diamo del coglione all'uno o dell'imbecille all'altra. Siamo senza terra, in un'inebriata bolla francese all'interno di una società le cui regole ridicole o meno che siano non ci riguardano.
E solo per R che sono Annie, il resto del tempo la pronuncia inglese dei Portner trasforma il mio nome in any, l'indefinito che significa qualche, qualunque.
Godendo con piacere della rottura con il passato recente la Scuola normale odiata con tutte le nostre forze , tutt'altro che preoccupate per il futuro nebuloso che comincerà soltanto con le prime lezioni universitarie di ottobre, ci vedo in una libertà vuota. In seguito penserò a quei mesi in Inghilterra come alla «domenica della vita», quella che per Hegel «livella tutto e allontana ciò che è cattivo». Una domenica inglese del 1960, vuota e sfaccendata.
Nel nostro orizzonte non c'erano né flirt né amori. È una questione di cui R sembra non preoccuparsi, nonostante il desiderio e la soddisfazione che prova nell'attirare lo sguardo di uomini ai quali risponde con un'aria di confusa ingenuità. La sua esperienza, a quanto pare, si limita a qualche bacio sulla spiaggia l'estate precedente. La ragazza di Londra si sente vecchia e già donna rispetto all'amica, per lei ancora poco più che una
bambina. È forse questa presunta innocenza — non riuscivo nemmeno a immaginarla masturbarsi che le impedisce di confidarle «ho avuto un amante». E — come più o meno pensavo — «non sono più vergine». Non credo che la presenza di quella zona proibita nella nostra complicità mi abbia pesato. Al contrario, mi sembra che assecondasse la mia volontà di dimenticare H e la colonia, la vergogna, dopo la filosofia e Beauvoir, di essere stata un «oggetto sessuale». Ci istigavamo a vicenda nello scagliarci contro l'amore e la passione, alienazioni pure, ridicole illusioni. Lettera a MarieClaude: «Senza maschi ci divertiamo un mondo».
L'inizio di questo mio testo mi sembra lontanissimo. C'è una corrispondenza tra vita e scrittura: mi sento lontana dal racconto della prima notte con H quanto dovevo sentirmi, a Finchley, lontana dalla sua realtà. A pensarci, si tratta di due intervalli di tempo non troppo diversi: sono passati tredici mesi da quando ho terminato di scrivere della notte dell'agosto 1958 e quando ero a Finchley quella stessa notte aveva avuto luogo una ventina di mesi prima. Entrambi i periodi sono sia vissuti che immaginari.
Essere certa che fossimo mosse da un identico desiderio, ma non riuscire a ricordare le circostanze il luogo esatto, il giorno, l'oggetto della cupidigia di quando abbiamo replicato il gesto della Scuola normale. Probabilmente è stato in quel supermercato dove ci si serviva da soli direttamente dagli scaffali, una modalità quasi inesistente in Francia che ci estasiava. Agire, in questa occasione, all'interno di un negozio vero e proprio, correndo il rischio di essere scoperte, deve aver scatenato in noi un piacere di natura nuova e sconosciuta, accresciuto come in seguito è sempre successo dalla voluttuosa rievocazione del nostro exploit, sedute in un bar o in un parco, tirando fuori il bottino ed esaminandolo, piegate in due dalle risate.
All'inizio ci limitavamo a caramelle e cioccolatini, e a farne le spese era soprattutto un'anziana coppia di tobacconists, i Rabbit, il cui espositore di barrette di cioccolato e di tubetti di Smarties era all'altezza della mia borsa azzurra e bianca, quella della colonia, dentro la quale li facevo sparire. Presto però abbiamo allargato il campo d'azione alle cianfrusaglie dei reparti di Wool worths, un rossetto, una lima per le unghie, un astuccio da cucito. Anche se la paga da ragazza alla pari — una sterlina e mezzo alla settimana — non permetteva grandi lussi — durante il soggiorno londinese potrò comunque comprare un paio di vestiti per me, qualche regalino per i miei e, alla partenza, uno sciccosissimo portaoggetti di Wedgwood per la famiglia Portner a spingerci ad agire non è né il bisogno né la voglia di possedere, è il gioco.
L'avventura.
Comincia all'entrata del negozio, con un sopralluogo per esaminare il territorio. Poi bisogna comportarsi come se niente fosse e, nel frattempo, tenere gli occhi aperti. Tutta la concentrazione, l'arguzia, la capacità di analisi del comportamento altrui è indirizzata a un unico scopo, avvicinarsi all'oggetto desiderato, afferrarlo, posarlo,
allontanarsene, tornare, in una coreografia improvvisata ogni istante. Il taccheggio è una questione di corpo, corpo che si fa radar, lastra sensibile dell'ambiente circostante. Il momento dell'atto, della mano che fa scomparire l'oggetto in tasca o nella borsa, è quello di un'ipercoscienza di sé del pericolo di essere se stessi in quell'istante che perdura fino all'uscita dal negozio, studiatamente svagata, con quell'oggetto che brucia addosso. Una volta fuori e a una distanza di sicurezza di una cinquantina di metri, nulla paga l'euforia di avere, ancora una volta, sfidato la paura, compiuto un'ardua impresa di cui si possiede la prova, il trofeo, nella borsa o addosso, come nel caso di quello che resterà il nostro bottino migliore in assoluto, due bikini di Selfridges infilati sopra le mutandine e il reggiseno, e indossati ancora in metropolitana, tornando a casa, ridendo come matte.
Per riferirci all'audacia del passaggio all'azione diciamo «avere la mano calda» — e averla è motivo di fierezza, di sfida tra noi due.
Quando ruba i dolci nel negozietto dei Rabbit, Annie Duchesne li vede, i suoi genitori, dietro la coppia di piccoli commercianti senza diffidenza che infinocchia allegramente in compagnia di R? E toccata da qualcosa che somigli al senso di colpa? Non credo, anche se oggi il volto spento e severo della signora tende a confondersi con quello di mia madre poco prima che morisse. Fa esperienza di quell'amnesia morale che sottrae a ogni giudizio le cose che si fanno assieme a qualcun altro. Noi, che non avremmo rubato un penny a nessuno, che se avessimo trovato per terra un portafoglio pieno di banconote l'avremmo portato alla polizia, non pensavamo di essere due delinquenti soltanto due ragazze più intrepide e con meno preconcetti delle altre.
Nel gruppetto di poesie che ho scritto un anno dopo ho ritrovato quella che ho adesso sotto gli occhi, che inizia così:
È stato a Tottenham Court Road
Nello specchio imperioso
Il mio volto trasudava la paura
La tea house sfilacciata nella sera
E stato in un altro mondo Grigio e freddo come l'eternità
Mi ricordo di averla fatta leggere ad alcune compagne di università, è probabile che fossi fiera di aver trasfigurato, con una cascata di metafore, un episodio reale inconfessabile in una sostanza misteriosa, immateriale. Ma è forse grazie a questa poesia se l'immagine che me l'ha fatta scrivere ha attraversato immobile il tempo: quella di una ragazza seduta, sola, in una tea house, con degli specchi attorno in cui vede il suo riflesso.
Poco prima, all'uscita da un grande magazzino di Oxford Street, una mano ha afferrato un braccio. Non era il mio. Una donna piccolina dai capelli neri, con un tailleur azzurro, di una bruttezza sconcertante un nasone enorme piantato in mezzo alla faccia , ha obbligato R a seguirla all'interno del negozio, proibendomi categoricamente di accompagnarla. Una detective. Al reparto accessori del pianterreno, dove avevamo deciso di passare all'azione, io non avevo potuto rubare nulla, stranamente a disagio, impacciata, e non riuscendo a stare al passo di R, che intanto raccoglieva il suo bottino senza problemi, avevo continuato a ripetere «non so che c'è, oggi ho la mano fredda».
In quella tea house di Tottenham dove probabilmente ho detto a R che l'avrei aspettata, la ragazza che vedo seduta da sola a un tavolino, nella sua giacca in finto camoscio marrone, con gli occhi fissi sull'entrata (dove alla fine comparirà la signora della famiglia da cui lavora R, avvertita dalla polizia), prova forse qualcos'altro oltre allo stupore — non era, dunque, il gioco che pensavamo? — e al sollievo di essere stata risparmiata dalla sorte in maniera incomprensibile, grazie a una specie di miracolo (che oggi mi pare dovuto semplicemente a una mia particolare permeabilità alla presenza e allo sguardo altrui)? Impossibile, comunque, non immaginarla attraversata dalla certezza che la sua vita si è trasformata in un fiasco totale, anche se ignoro se a quell'altezza ne identifichi già l'origine nella colonia, come avrei poi fatto in seguito.
R è riuscita ad affrontare la situazione, ha negato tutto con sfacciataggine nonostante le abbiano trovato in tasca un paio di guanti e altre carabattole. La sua famiglia inglese ha versato una cauzione di venti sterline e le ha risparmiato una notte di prigione. Una settimana dopo è comparsa davanti a un tribunale e io ho testimoniato la sua innocenza giurando sulla Bibbia dovevo aver fatto qualche progresso in inglese con la stessa concentrata determinazione di quando sostenevo un esame. I Portner mi hanno trovata marvellous. L'avvocato di R ha terminato la sua arringa implorando il tribunale di guardare in faccia l'accusata non è l'immagine stessa dell'innocenza? e nell'indicare il suo viso paffuto sotto i capelli che allora portava tagliati alla Jean Seberg (avevamo appena visto Buongiorno tristezza) ha instillato la certezza che il volto ributtante e cattivo della detective attestasse la falsità delle sue accuse.
R è stata riconosciuta non colpevole. Le nostre scorribande, dall'esito tutto sommato glorioso, erano durate due mesi e mezzo.
Il richiamo all'ordine di una società che vedevamo priva di qualunque consistenza giuridica, ridotta ai nostri occhi ai suoi elementi visibili, ha bucato la bolla ludica nella quale stavamo vivendo. Facendo comparire R davanti alla giustizia, obbligandomi a prestare giuramento, l'Inghilterra si occupava di noi e ci restituiva alla coscienza delle nostre azioni. La vittoria sulla legge, dal canto suo, ci ha reso più facile dimenticare il tutto. R, paragonando l'accaduto a quanto di peggio potesse capitare nel 1960 a una ragazza, ha concluso: sempre meglio che restare incinta. Mi pare che abbiamo smesso di parlarne quasi subito. Un vergognoso segreto in comune.
L'ultima immagine reale che ho di R è quella di una giovane donna con un vestitino giallo leggero e un cardigan azzurro che si allontana senza allegria insieme al marito e alla figlia verso il parcheggio del parco termale di SaintHonorélesBains e sale su una Citroen ds, un mattino di fine agosto del 1971.
Non so cosa sia diventata. È tutto il tempo trascorso da allora e questo mio non sapere che ne sia stato di lei ad aver avuto su di me l'effetto di un'autorizzazione a riferire fatti che l'hanno vista coinvolta. Come se colei che è scomparsa dalla mia vita da oltre mezzo secolo non avesse più alcuna esistenza, da nessuna parte o io gliene negassi qualunque altra al di fuori di quella che ha avuto con me. Da quando ho cominciato a scrivere di lei, uno stratagemma inconsapevole mi ha permesso di lasciare in sospeso la questione del mio diritto di metterla allo scoperto. Ho in qualche modo arginato i miei scrupoli per poter arrivare fino a questo punto, quello in cui so che mi è impossibile cancellare — sacrificare tutto ciò che ne ho già scritto. Lo stesso vale anche per quanto ho scritto di me. La differenza rispetto a un racconto di finzione è tutta qui. Non si può adattare la realtà, non ci si può accordare con il questo è accaduto, depositato negli archivi di un tribunale di Londra in cui compaiono i nostri nomi, il suo da accusata, il mio da testimone.
Quale flusso di pensieri, di ricordi, quale realtà soggettiva posso attribuire a colei che compare nell'unica foto che ho di me come ragazza alla pari in Inghilterra, scattata da R vicino alla piscina scoperta di Finchley, una foto 5x5 in bianco e nero, tagliata storta, dove mi si vede da lontano, seduta sulle piastrelle a bordo vasca davanti a uno sfondo di alberi e campi? Forse soltanto quelli che, oggi, mi appaiono come il preludio di ciò che sarei diventata in seguito o credo di essere diventata.
Chignon biondo, alto e vaporoso alla Brigitte Bardot, bikini quello azzurro di Self ridges , occhiali da sole, posa studiata con il braccio d'appoggio teso, l'altro morbidamente allungato sulle gambe piegate — che mette in risalto la vita sottile e il seno, chiaramente gonfiato dall'imbottitura del reggipetto «amplificante». La ragazza che vedo ha l'aspetto di una pinup. Annie D è riuscita a diventare, in versione più alta, la bionda della colonia, la bionda di H. Ma è una pinup fredda, bulimica e senza ciclo, che rifiuta altezzosa le profferte maschili.
«In piscina ho parlato con tre ragazzi, uno svizzero, un austriaco, un tedesco. Mi sono divertita, non dico di no, è stato persino interessante, ma le loro allusioni mi hanno fatto irrigidire e i nostri rapporti si sono fermati lì.» Lettera del 18 agosto 1960.
Tutta la memoria della colonia è murata. Un passato da «poco di buono» che la presenza di R, «signorina a modo», ha fatto rimuovere. Essendomi vietata ogni confidenza con lei su questo argomento, consolido il mio oblio. Al suo fianco mi costruisco pian piano una rispettabilità. Poco conta che la puttana della domenica abbia o meno perso la sua verginità biologica: è ridiventata anche lei «una signorina a modo». Chi, adesso, si ricorda della ragazza della colonia? Davvero nessuno.
Quando è sdraiata sull'asciugamano con gli occhi chiusi, la ragazza della foto si sente, come scriverò in una lettera, «a mille chilometri di distanza dalla vecchia me». Credo sia attraversata dalle immagini della sua infanzia. Perché è a Londra che, un pomeriggio, il rombo di un velivolo di passaggio l'ha riportata con una certa dolcezza ai bombardamenti della guerra, alle concitate foghe in strada degli allarmi antiaerei. Vede i genitori da lontano, vecchi, un po' ridicoli e gentili nel loro negozietto, in una sorta di amore separato. È come se la realtà stesse prendendo le distanze da lei.
Ho iniziato a fare di me stessa un essere letterario, qualcuno che vive le cose come se un giorno dovessero essere scritte.
Una domenica pomeriggio di fine agosto o inizio settembre 1960, sono seduta, sola, su una panchina dei giardini accanto alla stazione di Woodside Park. C'è il sole, bambini che giocano. Ho portato il necessario per scrivere. Comincio un romanzo. Scrivo una paginetta o due, magari anche meno. Forse soltanto questa scena: una ragazza è sdraiata accanto a un uomo, si alza dal letto e se ne va via, in strada.
Di questo inizio scomparso mi rimane il ricordo nitido della prima frase: In riva al mare danzavano lentamente dei cavalli.
In televisione, dai Portner, avevo visto una scena che mi aveva molto turbata. Si vedevano al ralenti due cavalli ammaestrati che si impennavano ed eseguivano evoluzioni su una spiaggia. Con quell'immagine volevo suggerire la sensazione di dilatazione temporale e di invischiamento dell'atto sessuale. Se faccio riferimento al brevissimo romanzo che poi ho effettivamente scritto due anni dopo riprendendo quell'incipit, è per raccontare non tanto la realtà della mia storia con H, bensì un modo di non essere al mondo — di non sapersi comportare nel mondo. Qualche cosa di immenso, sfocato, che forse spiega perché all'epoca non sono più andata avanti nel romanzo, rimandandone la realizzazione alla mia futura vita di studentessa di lettere (o di filosofia, esitavo a causa di Beauvoir).
R non ha mai saputo nulla della mia intenzione di scrivere. Ero convinta che avrebbe cercato di dimostrarmi quanto fosse assurda quella mia ambizione.
Mi chiedo se questa immagine, quella ai giardini di Woodside Park, la ragazza sulla panchina, non mi abbia attratta come un magnete sin da quando ho cominciato a scrivere questo libro, come se tutto ciò che è accaduto dopo la notte alla colonia sfociasse, un cedimento dopo l'altro, in quel gesto inaugurale. Questo sarebbe quindi il racconto di una perigliosa traversata fino al porto della scrittura. E, in fin dei conti, la dimostrazione esemplare che quello che conta non è ciò che succede, è ciò che si fa di quel che succede. Tutto ciò attiene al campo dei convincimenti rassicuranti, destinati a incistarsi via via più in profondità con l'avanzare degli anni ma la cui verità, in fondo, è impossibile da stabilire.
Nel gennaio 1989 ho passato un weekend a Londra per un convegno al Barbican Centre in compagnia di numerosi altri scrittori. La domenica mattina, priva di impegni, ho preso la Northern line fino a East Finchley, poi sono salita sull'autobus e ho chiesto al conducente quale fosse la fermata di Granville Road, la più vicina alla casa dei Portner. Prima di scendere ho intravisto la Swimming Pool. Ho imboccato Kenver Avenue. La casa dei Portner mi è sembrata piuttosto piccola e ordinaria. A Tally Ho Corner era rimasto solo il Woolworths. Il tobacconist dei Rabbit non c'era più, così come il cinema in cui avevo avuto voglia di entrare attirata dalla locandina di Suddenly, Last Summer con Elizabeth Taylor (film che avrei visto dieci anni dopo) e dove si potevano comprare grossi sacchetti di popcorn
senza bisogno di pagare il biglietto. Non ricordo di aver rivisto i giardini. Ho ripreso la metro a Woodside Park. Nel tragitto del ritorno ho scritto sul diario:
«Gli altri partecipanti al convegno si sono tutti precipitati nei musei, io a North Finchley, nella mia vita passata. Non sono culturale, per me conta solo una cosa, cogliere la vita, il tempo, comprendere e godere».
E questa la più grande verità di questo racconto?
È autunno, inizio ottobre 1960. Tra qualche giorno prenderò la nave per Dieppe con R, lascerò l'Inghilterra, tornerò a Yvetot e mi iscriverò all'università di Rouen.
Ultima lettera dall'Inghilterra: «Dopo un anno passato a girarmi i pollici dovrò rimettermi al lavoro, e già so che mi sembrerà dura. Ad ogni modo è sempre meglio avere qualcosa da fare perché almeno si ha l'impressione di
essere utili, di creare, anche se si tratta soltanto di tesine universitarie che alla società non serviranno a un bel niente!».
Farò la spola tra la drogheria e l'università, una mezz'ora d'espresso o di corriera. Non essendoci uno studentato per le ragazze mi rifiuto di accettare la tristezza di un convitto gestito dalle suore. La vergogna che mi fanno provare i miei genitori con mio padre che dice «ho andato», mia madre che gli sbraita addosso eccetera è meno forte della sensazione di rifugio che provo stando da loro, nel negozietto il rifugio d'infanzia. In compenso verserò in famiglia l'intera borsa di studio ho diritto alla cifra massima, R alla minima — che lo Stato mi ha concesso.
Nell'aula magna, il primo giorno d'università, sono elettrizzata, voglio subito correre alla biblioteca comunale per prendere in prestito i testi elencati nella lista di tre pagine che il professor Alexandre Micha, direttore del dipartimento di lettere, ci ha dettato a lezione. Vivo in uno stato di effervescenza intellettuale, di espansività felice in attesa di nuovi pari. Davanti alla bacheca dove sono segnati gli orari dei corsi ho attaccato bottone con una ragazza minuta e carina, G, di cui mi accorgerò presto diventate subito amiche che mangia soltanto yogurt e caramelle. Ho preso la tessera dell'Unef, il Sindacato nazionale studentesco. Il mondo e la politica mi riguardano.
Mi sono abbonata a Les Lettres françaises dirette da Aragon e la domenica mattina vado alla biblioteca di Yvetot per prendere in prestito le «novità letterarie», RobbeGrillet, Philippe Sollers. Al primo esame di letteratura ho avuto il voto più alto del mio gruppo di lavoro. Seguo i corsi con un senso di pienezza e di orgoglio.
Age tendre et tète de bois, Les enfants du Pirée, Verte campagne, tutte le canzoni di questo autunno accompagnano la mia felicità.
Procedo verso il libro che scriverò come due anni prima procedevo verso l'amore.
Non ho più l'ossessione del cibo, il mio appetito è tornato quello di prima della colonia. A fine ottobre ho rivisto il sangue. Mi accorgo ora di aver scritto un racconto compreso tra due confini temporali legati a questi due elementi, il cibo e il sangue, i confini del corpo.
Direi che non mi domandavo più se ero vergine o meno. Nella mia testa lo ero ridiventata.
(Nel 1995, camminando tra i vicoli di Seul dove ragazze in vetrina aspettavano i clienti riscaldate da una stufetta, il mio accompagnatore dell'ambasciata mi ha spiegato che venivano dalla campagna, dove dopo qualche anno sarebbero tornate a sposarsi e a dimenticare tutto ciò che nessuno aveva mai saputo.)
Lettera a MarieClaude del dicembre 1961:
«Mi isolo da tutto, trovando in camera mia il riposo pascaliano. I momenti migliori sono quelli in cui, verso le cinque, osservo da dietro una finestra il calar del sole. All'esterno il freddo pietrifica ogni cosa e solo adesso mi rendo conto di aver appena lavorato per quattro ore di fila. Mi trovo bene anche nella buia biblioteca comunale. [...] Penso a questa frase di Nietzsche che trovo così bella: Abbiamo l'Arte per non morire di Verità.»
La prima estate dopo la fine della guerra d'Algeria, l'estate '62, sono partita per le vacanze con M, un'amica dell'università che si era comprata una 2cv grazie al suo stipendio di maestra. Eravamo dirette in Spagna. Avevo tracciato io l'itinerario da Yvetot fino alla frontiera spagnola, facendo in modo che attraversassimo l'Orne per passare dalle parti di S. Siamo arrivate a quell'altezza in tarda mattinata e ho chiesto a M il favore di tornare a vedere il sanatorio dove quattro anni prima avevo fatto l'educatrice. Non avevamo fretta e lei mi ha accontentata senza problemi. Le ho dato indicazioni facilmente, anche se quella strada ombreggiata mi risultava meno familiare di quanto avrei creduto. Abbiamo parcheggiato davanti all'arco d'ingresso e ho osservato il luogo dalla macchina. La portineria sulla destra, l'aiuola fiorita che dicevano essere potata a forma di pullover senza maniche, la facciata grigia dell'edificio. In giro non c'era nessuno, né bambini né educatori. Non so perché non sono uscita dalla 2cv, probabilmente per il timore di essere riconosciuta. Era inizio luglio, una giornata mite, senza sole. Avevo un tailleur blu marino troppo pesante per quel clima, oltrepassata la Loira non lo indosserò più e un maglioncino rosa confetto. Ero vestita, quindi, esattamente come «la bionda» il giorno in cui mi era apparsa la prima volta, nell'infermeria dove ci eravamo trovate io e lei, da sole, a fare una radiografia al torace e a urinare in un contenitore.
Non so cosa ho provato in quel momento preciso del 1962, nella 2cv di cui devo aver aperto il finestrino per potermi riempire gli occhi del luogo da cui me nero andata quattro anni prima. Per saperlo dovrei conoscere la memoria che, in quell'istante, avevo delle settimane vissute a S, e dovrei ritrovare in che forma instabile, nebulosa, mi era presente allora quella vita, la mia vita, di appena ventidue anni. E possibile che non abbia provato niente, se non il normale stupore nell'accorgermi che il posto davanti ai miei occhi non coincideva con l'immagine che ne conservavo. Tornando alla colonia non cercavo di provare qualcosa, ero ancora troppo giovane per avere questo tipo di desiderio e non avevo letto tutta la Ricerca del tempo perduto. Ero tornata per dimostrare quanto ero diversa dalla ragazza del '58 e per affermare la mia nuova identità quella di una brillante e rispettabile studentessa di lettere, consacratasi alla letteratura e al superamento di tutti i concorsi per diventare professoressa —, per avere una misura dello scarto esistente tra chi ero stata e chi ero. In fondo non ero tornata perché quei luoghi mi «dicessero qualcosa» ma per poter essere io a dire ai muri grigi di quella struttura seicentesca, alla finestrella della mia stanza in alto sulla facciata, giusto sotto il tetto, che non avevo più niente a che fare con la ragazza del '58.
Credo anche di essere tornata a S, a rivedere la colonia, perché speravo di trovarvi la forza per scrivere il romanzo che volevo iniziare. Una specie di premessa necessaria, benefica alla scrittura, di gesto propiziatorio — il primo di una serie che in seguito mi farà ritornare in diversi luoghi — o di preghiera, come se quel posto avesse il misterioso potere di intercedere tra la realtà passata e la scrittura. In fondo la deviazione per S assomigliava al bacio che dopo una fila di pellegrini e con gran disgusto di M avrei poi posato sul piede della Madonna nera di Montserrat esprimendo il desiderio di scrivere un romanzo.
L'ho scritto l'autunno successivo, un testo molto breve. Era intitolato L'arbre, per via di una frase di Mérimée letta nel suo epistolario: «Bisogna abituarsi a vivere come un albero». In seguito, dopo il rifiuto da parte delle Éditions du Seuil, l'ho chiamato Du soleil à cinq heures e l'ho spedito a un altro editore, Buchet/Chastel, che l'ha rifiutato a sua volta.
Durante l'estate 1963, quella dei miei ventitré anni, nella camera dal soffitto in legno di Chez Jacques, un piccolo hotelristorante di SaintHilaireduTouvet, la prova della mia verginità biologica è stata inconfutabile. Sapevo solo il suo nome, Philippe. Nella prima lettera che mi ha inviato ho letto il suo cognome, Ernaux, e sono rimasta turbata dalla corrispondenza delle prime tre lettere con quelle di Ernemont, a testimonianza, secondo quanto ricordavo del corso di linguistica, di una comune origine germanica. Vi ho visto una sorta di segno misterioso.
Sono andata avanti nella scrittura di questo testo senza voltarmi.
Ho come l'impressione che tutto si sarebbe potuto scrivere in un altro modo, ad esempio come una relazione di fatti puri e semplici. Oppure a partire dai dettagli: la saponetta della prima notte, le parole scritte con il dentifricio rosso, la porta chiusa della seconda notte, il jukebox che suonava Apache nella coffee house di Tally Ho Corner, il nome di Paul Anka inciso sul legno di un banco del liceo, il 45 giri di Only You comprato assieme a R dopo che l'avevamo ascoltato in un'apposita cabina sul retro di un negozio di dischi e che mettevo su il sabato sera, nella mia stanza di Yvetot con le luci spente, ballando da sola quel lento nel buio.
E la mancanza di senso di ciò che si vive nel momento in cui lo si vive che moltiplica le possibilità di scrittura.
Il ricordo di ciò che ho scritto già si cancella. Non so cosa sia questo testo. Persino quello che inseguivo scrivendo il libro si è dissolto.
Tra le mie carte ho ritrovato questo appunto, una sorta di dichiarazione d'intenti: Esplorare il baratro tra la sconcertante realtà di ciò che accade nel momento in cui accade e la strana irrealtà che, anni dopo, ammanta ciò che è accaduto.
FINE