Sergio Givone
Il senso di Givone per l’infinito
Prefazione
Che cosa sia il romanticismo, ancora non sappiamo dire con precisione, tanto è vago il concetto (più una temperie culturale e un sentire diffuso che non un concetto) e tanto è sfuggente il movimento che ne è seguito (movimento centrifugo e privo di un suo fuoco centrale). Ma se osserviamo il celebre Viandante sul mare di nebbia (1818) di Caspar David Friedrich[1], dipinto a olio su tela che si trova presso la Kunsthalle di Amburgo, non abbiamo dubbi: ecco, questo è romanticismo!
Non stupisce quindi che il dipinto sia diventato in breve tempo agli occhi dei contemporanei, e poi anche nostri, un emblema, un simbolo, una vera e propria icona. Non solo per ciò che rappresenta. Ma per ciò che lascia intuire. In esso sembra compiersi l’esito di un processo secolare, ma anche annunciarsi un nuovo inizio se non addirittura una rivoluzione.
Il Viandante volge le spalle allo spettatore. Come se lo avesse già oltrepassato. Non che proceda e avanzi dove noi che ci interroghiamo su di lui non possiamo più raggiungerlo. Per la verità egli ha arrestato il suo cammino e se ne sta lì, assorto. Ma guarda oltre. Oltre la linea dell’orizzonte. Di quella profondità cerca il principio. Ne studia i presupposti. Probabilmente si chiede come figurarsi quel vortice che disorienta e quel fondo senza fondo in cui tutto s’inabissa. Insomma, il suo problema è l’infinito.
Se ha osato fare un passo del genere, verso l’infinito, è perché il Viandante sa qualcosa che anche noi sappiamo, ma che lui ha il merito di prendere sul serio (ingenuamente? o anche troppo consapevolmente?) al punto da recarsi sul luogo di una improbabile epifania: nella convinzione che l’infinito si mostri. Sa che l’infinito è impensabile, e tuttavia può essere pensato – questo dicono i paradossi dell’infinito. Sa che l’infinito è irrappresentabile, ma non per questo si sottrae alla rappresentazione – per esempio si concede alla prospettiva, sia la prospettiva lineare sia la prospettiva rovesciata. Sa che la fisica lo aborre, però non ne può fare a meno – dalla fisica dei presocratici alla fisica del tempo e della quarta dimensione. Sa che la metafisica ne diffida, e nondimeno se ne serve come di un prezioso alleato – come nel caso del sublime, che riapre a ciò che sembrava perduto per sempre, e cioè allo spirito, alla libertà.
Ciò che il Viandante non sa, né potrebbe sapere, è che con lui l’infinito fa irruzione sulla scena del mondo per non lasciarla più. Se prima di lui l’infinito era un’incognita, una x indecifrabile, tutt’al più un misterioso invito a penetrare l’ignoto, ora invece è la stella polare della ricerca. Questo non significa che lo sguardo da lui gettato sul mare di nebbia appartenga al passato. Al contrario, quello sguardo ci appartiene. Vero è che noi non vediamo il volto del Viandante, girato com’è dall’altra parte, e possiamo solo fare delle supposizioni. Ma questo non è un buon motivo per affrettarci altrove. Semmai una ragione in più per indugiare pazientemente sul luogo in cui qualcuno si è fatto delle domande che sono ancora le nostre.
[1] Nato il 5 settembre 1774 a Greifswald, in Pomerania, regione allora tedesca e oggi polacca, Caspar David Friedrich si formò nell’Accademia della sua città natale e poi in quella di Copenaghen, per trasferirsi nel 1798 a Dresda. Fin da subito prese il paesaggio a tema centrale della sua pittura; ma a differenza di quanto accadeva con i paesaggisti settecenteschi, che gli furono maestri, investì il paesaggio delle inquietudini religiose che il romanticismo alle porte avrebbe intercettato e ne fece il teatro di un’avventura dello spirito anziché l’opera bella della natura. «Se in un paesaggio non saprai vedere qualcosa che giace nel profondo della tua anima, non vedrai nulla», lascerà scritto. Il fatto è che la natura, per Friedrich, altro non è che una via verso lo spirito, così come la morte non è che una via verso la vita vera, che è al di là di essa. Sempre più i quadri di Friedrich appariranno intrisi di un simbolismo luttuoso e cimiteriale. Ciò ha certamente a che fare con il suo temperamento malinconico e con le frequenti crisi psichiche che lo affliggeranno; ma anche di più con quello che è l’autentico sentire dell’artista, in tutto e per tutto rispondente ai dettami e all’ispirazione di forme di religiosità tipicamente romantiche. Il viandante sul mare di nebbia, forse il dipinto più noto di Friedrich, fu ultimato in un anno di relativa serenità per lui, il 1818, quando con il matrimonio sembrava aver trovato un punto di equilibrio nella sua tormentata esistenza. In esso si trovano tuttavia i temi principali che contrassegnano la produzione successiva e che vedranno accentuarsi prospettive di desolazione e di sconforto insieme con il bisogno vivo di trascendenza e di liberazione. Friedrich del resto fu sempre accompagnato da un senso tragico di solitudine non solo esistenziale ma addirittura cosmica. Morì in una condizione di penoso abbandono il 7 maggio 1840. Questo non significa però che sia stato un incompreso. Ebbe in vita ampi riconoscimenti; ammirarono la sua arte non solo alcuni dei maggiori pittori del suo tempo, quali ad esempio Philipp Otto Runge e Johan Christian Claussen Dahl, ma anche Goethe, e a essa si ispirarono alcuni dei più grandi pittori contemporanei, fra cui Edvard Munch, Mark Rothko e Anselm Kiefer.
Èquella di un Wanderer, un viandante, nel senso più propriamente romantico del termine, la figura che campeggia nel dipinto di Caspar David Friedrich intitolato per l’appunto Viandante sul mare di nebbia[1]. Sembrerebbe viaggiare per diporto, costui, ma non è così. Il suo è un viaggio d’altro tipo: viaggio esplorativo, anzi, viaggio della conoscenza, forse addirittura viaggio iniziatico. Comunque alla ricerca di qualcosa come la soluzione di un enigma, la rivelazione di un segreto, o simili. Di ciò si tratta, senza alcun dubbio.
Chiediamoci allora, fin da subito: che ci fa lì, su una nuda e buia roccia, quel giovane uomo in nero che noi vediamo di spalle e che ha intorno a sé e davanti a sé altre rocce e sullo sfondo montagne emergenti dalla nebbia come da un mare il cui orizzonte si fonde con il cielo? Sta contemplando il paesaggio e al tempo stesso osserva il panorama come chi indaga o si interroga. Intanto, egli guarda; che cosa, esattamente non sappiamo, anche se possiamo intanto dire che egli osserva un punto in particolare, ma anche tutto quel che lo circonda. Il suo è un guardare che ci affascina e ci inquieta, tanto da indurci a sospettare che non solo l’oggetto della visione sia tutto da scoprire, ma addirittura che uno sguardo come quello venga gettato per la prima volta.
Strano. Il volto dell’uomo ci è nascosto. A maggior ragione gli occhi. Eppure noi sappiamo o crediamo di sapere che cosa gli stia passando per la testa. E ciò proprio in virtù del suo atteggiamento non privo di ambiguità, se non contraddittorio. Sì, l’uomo sta contemplando un paesaggio: che infatti gli sta lì di fronte. Eppure non sta affatto contemplando un paesaggio. O comunque non è questa la cosa che lo occupa principalmente. Perché ci sia contemplazione estetica, ci deve essere consapevolezza ma anche abbandono: solo così è possibile una magia grazie alla quale come sosteneva Novalis, e come poi anche dirà Nietzsche, ci è dato di sognare sapendo di sognare. Qui invece è quasi fisicamente percepibile la volontà di non cedere all’abbandono, cui l’uomo indulge solo quel tanto che non impedisce la riflessione e anzi la richiede. Se di contemplazione si tratta, certo è tutta volta oltre sé stessa e cioè nella direzione del ragionamento e del pensiero.
L’uomo sta ritto e sicuro sulla roccia. Poggia i piedi su di essa senza vacillare. È vero, si aiuta con un bastone, ma come chi è perfettamente padrone di sé e della situazione in cui si trova. La dice lunga, quel bastone: piantato sulla roccia non tanto per impedire che colui che lo impugna cada ma per significare che un punto fisso c’è, un asse, una misura. Quasi fosse uno strumento di conoscenza se non addirittura di potere (nel senso del potere che dà la conoscenza come capacità di dominare la realtà)[2]. Certo è che l’uomo non si sta rilassando, tanto meno va dietro a fantasticherie e insegue giochi dell’immaginazione, benché sia evidente che lo spettacolo esercita su di lui una forte attrazione. È concentrato e sembra intento a riflettere, osservare, pensare. Indubbiamente si sta facendo delle domande. E non sono domande peregrine.
Diremo allora che il suo atteggiamento non è tanto quello dell’esteta, del sognatore, dello Schwärmer (che contempla il paesaggio), bensì quello del filosofo e dello scienziato (che osserva la natura)? Non esattamente. Che l’uomo stia osservando la natura è un fatto innegabile, ma anche un fatto che aiuta ben poco a capire ciò che il quadro mostra: infatti c’è osservazione e osservazione (come c’è contemplazione e contemplazione). E poi cosa significa osservare la natura? Un problema immenso, tanto più che qui la natura sembra tutta protesa a negare sé stessa, a sconfinare nell’indistinto e nell’amorfo, a perdersi e a sciogliersi e a inabissarsi in un caos non si sa se dell’origine o della fine.
Bisogna poi considerare che paesaggio e natura sono concetti che hanno senso unicamente rispetto alla loro evoluzione storica. Prendiamo il concetto di paesaggio e chiediamoci come se lo figurasse in quel primo scorcio del XIX secolo il Wanderer, il Viandante del dipinto di Friedrich. La risposta è abbastanza scontata. Paesaggio per lui non può essere che imitazione della natura: questo dicono in quegli anni i teorici dell’arte dei giardini, questo fanno architetti e giardinieri del tempo. Dunque, è un prodotto artificiale, un manufatto, che si trova bensì in natura, ma solo dopo che vi è stato collocato a opera di qualcuno che prima lo ha costruito nella sua mente. In quanto immagine mentale, il paesaggio è creazione, dove creare significa fare come fa la natura e anzi, secondo Goethe, prolungare artisticamente l’impulso creatore, il nisus formativus della natura.
Benché stia in rapporto con la natura, il paesaggio non è natura: al contrario, è artificio. E che lo sia, non è un dato di fatto che coincide con l’idea che ne abbiamo, perché il paesaggio è apparso così ai nostri occhi, o meglio agli occhi del nostro Viandante, solo al culmine di una vicenda secolare alquanto controversa. Il paesaggio non è con noi da sempre; non ci accompagna fin dalle origini, ma si presenta a un certo punto della storia. Non prima dell’epoca moderna, sostiene Joachim Ritter in un suo libro famoso, Paesaggio. Uomo e natura nell’età moderna[3], e precisamente fra medioevo e rinascimento. In ogni caso l’esperienza del paesaggio è attestata in pittura quando ancora la parola manca. Ma non appena la parola sarà trovata (paysage, landscape, Landschaft, ecc.), essa servirà a indicare forme molto diverse dell’esperienza estetica della natura.
Un conto è per esempio (volendo considerare dipinti che hanno rappresentato una sorta di canone nell’evoluzione storica dell’idea di paesaggio) quello che vediamo nella miniatura di Jan van Eick tratta da un libro d’ore purtroppo perduto, ma di cui ci resta una testimonianza fotografica, Viaggio di San Giuliano e Santa Marta, dove i due santi appaiono in balìa delle onde ma in un certo qual modo protetti dal mondo abitato che fa da cornice. E un conto quel che sembra volerci dire la Tempesta del Giorgione, dove una zingara che allatta un bambino e un soldato stanno tra bosco e case, senza che l’enigma di questo stare sia sciolto in alcun modo. Un altro conto è quel che si lascia intuire nel Viandante sul mare di nebbia. Nel primo caso la natura appare minacciosa, ma l’uomo sembra in grado di poter vincere la sua potenza negativa piegandola a sé e umanizzandola. Nel secondo caso la natura si dispiega come un teatro in cui l’enigmaticità della scena è destinata a rimanere ciò che è, puro mistero. E nel terzo?
Se in van Eick e in Giorgione il paesaggio si costituisce in quanto tale attraverso la dialettica che oppone, lega e intreccia natura e artificio, mondo naturale e mondo artificiale costruito dall’uomo, al punto che il mondo risulta alla fine essere uno solo, ed è quello in cui ci si confronta con la natura, contrastandola, sottomettendola, esorcizzandone le forze nascoste, invece in Friedrich il mondo sembra essere ricaduto nella natura, e infatti tutto è natura né, apparentemente, c’è traccia di artificio, di costruzione, di intervento umano. Là, in van Eick e Giorgione, natura e artificio restano in tensione: in modo diverso, ma senza che venga meno un solo istante la polarità dei due che sono uno, cioè sono mondo. Qui invece, in Friedrich, la tensione è venuta meno perché è venuta meno la polarità: non si può neanche dire che ci sia mondo, e infatti il Viandante appare affacciato sull’oltremondo o qualcosa del genere. Van Eick e Giorgione raccontano pur sempre episodi di una saga che è la saga della modernità: l’emancipazione dalla natura, il riconoscimento della potenza dell’arte e di tutte le tecniche che la dispiegano, l’inquietudine di un esistere che si è fatto infinitamente problematico, e così via… Ma qual è il contenuto del racconto di Friedrich? Com’è che in lui la natura torna a occupare l’intero campo visivo, mentre arte, artificio, tecnica, e simili, sono sparite, cancellate, tutt’al più inghiottite dal mare di nebbia?[4]
Eppure la vista che si para davanti al Viandante è nondimeno un paesaggio: dunque, un’invenzione, una scoperta, in un certo senso una trovata. Costui non lo avrebbe incontrato in natura, come in effetti gli accade, né potrebbe farne esperienza, se non avesse portato con sé, come bagaglio culturale, ciò che lo ha reso capace di sperimentarlo, e cioè l’idea: l’idea di paesaggio. Ossia l’idea a partire dalla quale uno spettacolo naturale nel quale ci s’imbatte come per caso e che sorprende per la sua maestosità e trascendenza, quasi scaturisse dal seno stesso della natura, tanto che nessuno sospetterebbe d’esserne il dominus, il padrone, il regista, si rivela per ciò che è, ossia artificio, messinscena, costruzione della mente – in una parola spettacolo, bensì naturale, ma pur sempre spettacolo, dove l’accento cade sul sostantivo e non sull’aggettivo.
A segnalare l’artificialità della scena e il suo carattere di costruzione umana troppo umana sono elementi che non si trovano in natura ma che appartengono in tutto e per tutto all’arte, anzi, all’immaginazione, in ogni caso a un punto di vista soggettivo: tali sono per esempio la luce, il silenzio, l’orizzonte, insomma, proprio ciò che è alla base della composizione pittorica. Ma in che senso la luce, il silenzio, l’orizzonte sono cose dell’arte più che della natura e quindi sono cose non solo artistiche ma prima ancora artificiali? Nel senso che la luce è cosa dell’occhio prima ancora che dello spettro elettromagnetico, il silenzio è cosa dell’anima prima ancora che della fisica acustica e l’orizzonte è cosa della metafisica prima ancora che della geometria euclidea.
Cominciamo dal silenzio. Un fenomeno, questo, che non esiste in natura, la quale al contrario è molto rumorosa, spaventosamente rumorosa – fortuna che noi di questo formidabile e immane rumore non ascoltiamo che una parte infinitesima, altrimenti ne saremmo travolti, schiacciati, annichiliti. Se a volte, assai raramente, ci pare di ascoltare il silenzio, e di coglierlo in natura, è solo perché abbiamo isolato un suono o una voce fra i moltissimi altri e avendolo identificato per esclusione ci sembra di percepire ciò che non percepiamo affatto. Ma questo, come ci spiega Platone con la sua teoria musicale di origine pitagorica, avviene in forza di un passaggio da una dimensione a un’altra: da quella in cui la musica è per l’orecchio a quella in cui la musica è per l’occhio e quindi per la mente.
Bisogna che tutto il frastuono mondano sia messo a tacere perché un organo che non ha a che fare con i cinque sensi, ma è un organo interiore, spirituale, colga nel cuore stesso del silenzio una musica sublime – musica che non è del mondo, ma è del cielo, musica che è come un’eco nell’anima della originaria perfezione stellare, musica delle sfere celesti, per l’appunto. Secondo Platone si tratterebbe non tanto di un fenomeno acustico quanto di un fenomeno teoretico e quindi speculativo, visivo: theorein è il vedere della mente, la visione dell’anima, e infatti che cosa se non la mente, l’anima, lo spirito colgono nel movimento dei pianeti e dell’universo tutt’intero la perfezione capace di riflettersi in forma musicale, sia pur d’una musica fatta per l’occhio e non per altro? E si tratterebbe anzitutto di un fenomeno, ossia di qualcosa che sprigiona da un’illuminazione interiore e la cui sostanza è luce e solo luce. Ritornando anche lui a suo modo a Platone, come molti intellettuali della sua epoca, Goethe arriverà a sostenere contro Newton che non è la luce a derivare dai colori, ma sono i colori a derivare dalla luce, perché la luce è fenomeno primario, è pura scaturigine, da cui tutto quel che vediamo si sprigiona e si configura come allontanamento dalla fonte e come suo oscuramento e inquinamento[5]. Addirittura dirà – e mal gliene incolse, a giudicare dalle critiche anche sprezzanti che gli saranno rivolte – che non è l’occhio in funzione del sole, ma è il sole in funzione dell’occhio, nel senso che il sole non sarebbe possibile se non in forza dell’occhio che idealmente lo precede e lo fa essere.
Permeato com’è di platonismo goethiano, il dipinto di Friedrich tende a risolvere la materia pittorica in pura luminosità – processo, questo, che di lì a poco Turner porterà a compimento. Anche le masse che, buie e grevi e non prive d’un sentore di morte, si oppongono e comunque resistono a questo esito, non sono che effetto di negazione e cioè luminosità tolta, luminosità oscurata. Ciò vale specialmente per le rocce e la figura in primo piano, interamente abbuiate, e cariche d’un loro simbolismo luttuoso, in quanto in esse si spegne l’onda luminosa della vita. Ma: si spegne o si riaccende? Finisce o ricomincia? Senza contare che qui non importano tanto la fine e l’inizio quanto l’orizzonte che abbraccia l’una e l’altro. E allora: quale orizzonte?
Consideriamo dunque il dipinto non per quel che potrebbe significare, simbolicamente o metaforicamente, ma per quello che è, anzi, per quello che appare: una grande onda di luce trascolorante da un massimo a un minimo, cioè dalla luminosità aurorale del cielo alla luminosità spenta, ma di cui resta una traccia appena percepibile e come sfumata, delle rocce e della figura in primo piano. Dov’è la fonte di tanta luce? È dall’altra parte, quella opposta: opposta sia rispetto alla figura che contempla lo spettacolo naturale o paesaggio sia rispetto a noi che contempliamo il dipinto. La fonte di luce è il sole che ancora non è sorto e che quindi non si vede ma di cui cogliamo, di riflesso in riflesso, il roseo albeggiare. Attenzione però: le cromie che manifestano il sorgere del sole non sono in natura, ma nella retina. A produrle è l’occhio. Ossia l’occhio che cerca non tanto il sole (lo trovasse, lo perderebbe immediatamente, e perderebbe sé stesso, perché ne sarebbe accecato) ma il punto a partire dal quale quella manifestazione di luce, quel fenomeno, si dispiegano in forma di onda progressiva e piena di tutti i colori del mondo. Questo punto è al di là di ogni orizzonte possibile, anche dell’ultimo. Nondimeno questo punto è nell’occhio. Potremmo identificarlo con il punto cieco dell’occhio: solo impropriamente, però. Infatti è molto di più del punto cieco (punto fisico). È il punto che fa di ogni sguardo un puro trascendere (punto metafisico).
Perciò l’orizzonte che si viene delineando fino ad abbracciare tutto il visibile (visibile a noi che vediamo ciò che vede la figura di spalle ma anche ciò che essa non vede in quanto dietro di lei) evoca un al di là e questo al di là è trascendenza, irriducibile trascendenza. Lo sguardo che pone questo orizzonte come ultimo è lo stesso sguardo che lo destituisce della sua ultimità, lo oltrepassa nella direzione dell’invisibile, lo sfonda creando varchi senza nome, aprendo sconfinati abissi, affacciandosi sulle soglie del nulla. Se ci chiediamo dunque che cosa ci faccia lì il nostro uomo, il Viandante, all’alba (all’alba, non al tramonto!) dopo essersi inoltrato in quella plaga deserta, e rispondiamo che sta contemplando il paesaggio, diciamo certamente il vero, ma un vero di cui siamo i primi a dubitare. Sì, sta contemplando il paesaggio. Egli sembra stare di fronte alla nuda natura. Ma alla nuda natura ci è arrivato grazie all’idea di natura e cioè grazie alla natura colta nella mente e non nella realtà. E cos’è il paesaggio se non imitazione della natura qual essa è idealmente, non realmente? Non è forse il paesaggio immagine della natura edenica, paradisiaca? Non avevano insegnato per decenni architetti, giardinieri, paesaggisti a cogliere nel paesaggio la natura ideale? Tuttavia il paesaggio si limita a far da ponte. Il paesaggio è come il teatro: una finzione che mette lo spettatore di fronte alla vita, alla realtà e gli serve per fare i conti con quelle e non per restare prigioniero di un gioco illusionistico (così fosse, lo spettatore apparirebbe ridicolo, o quanto meno infantile, come chi si trastulla con sogni e fantasie).
Ed eccolo, il Viandante. Non ha l’aria di essere uno che si è fatto una passeggiata e ora si gode il bel panorama. Anche se il suo volto ci è nascosto, la postura è di chi osserva attentamente, di più, indaga, di più, si interroga su qualcosa di estremamente importante – e a noi par di sapere che cosa sia questo qualcosa. Nel suo atteggiamento c’è ben poco della giocosità dell’esteta, molto della serietà dello scienziato. Eppure anche questo gli fa torto. È troppo poco e di lui non dice l’essenziale. Costui ha più del signore o dell’uomo agiato in viaggio che dell’intellettuale impegnato in una sua ricerca. Ma signore di che cosa? Che cosa signoreggia, che cosa padroneggia costui? Padroneggia l’oggetto della sua visione. E anche il soggetto, cioè lui stesso, perché è in lui stesso, è nel suo occhio il principio che la rende possibile. Se osserva e indaga i fenomeni (i fenomeni luminosi, ripetiamo), come in effetti accade, non sono questi che propriamente gli interessano, bensì il loro significato, il loro presupposto, la loro origine. E questa origine egli l’ha scoperta in sé stesso: nella sua mente, nella sua anima. Tanto basta perché lo spettacolo naturale sia per lui ben più che uno spettacolo naturale, ma il respiro stesso dello spirito – quello spirito che è in lui e muove da lui.
Il Viandante abita il mondo, ma soprattutto lo attraversa, e guarda a una meta ultima, fosse pure il nulla, questa meta ultima. Gode dello spettacolo e delle meraviglie che il paesaggio sembra offrirgli a ogni passo, ma non per questo si è messo in cammino. No, non è un esteta. La stessa natura, cui guarda con attenzione sia dal punto di vista dell’arte sia dal punto di vista della scienza, lo interessa più per quello che essa non è che per quello che essa è. Lo interessa in quanto non è spirito, non è alcunché di definitivo, non è che apparenza – dove però questo non essere è la cosa sostanziale, perché lega spirito e natura, mostrando come nella natura lo spirito agisca e si manifesti. E quindi, se non è un esteta, non è neppure uno scienziato.
Chi è dunque il Viandante? Forse un metafisico. Ma neppure questo si può dire di lui, legato com’è alla fisicità dell’essere, in una parola alla fisica. È nella fisica e nelle sue leggi, è nel mondo che lui cerca un varco in direzione dell’oltre-mondo o del non-mondo, interrogandosi studiosamente sul come e sul perché, osservando, scrutando. Di lui si dovrebbe dire che abita il mondo in quanto straniero. Sappiamo di lui non chi è ma chi non è. Che è poi ciò che lui vuol sapere della natura, perché vuol sapere che cosa la natura non è.
Era tutto la natura. Era to on, l’essente, la totalità di ciò che è. Era to ti en einai, l’essere che è sempre, l’essere che dura, continua, persiste, e questa persistenza è sostanza, ousia: essere che non può non essere, essere che porta con sé il principio del proprio essere, infatti l’essere può soltanto essere e non può non essere. Neanche gli dei possono nulla ai danni dell’essere. Certamente non possono fare che l’essere non sia o cessi di essere. L’essere è. E questo è tutto. Gli dei abitano l’essere. Lo abitano come chi è casa propria. Infatti lo abitano «divinamente» – qualcuno, come il grande filologo Wilamowitz Möllendorf, arriverà di lì a poco a sostenere che theos viene da theios, il sostantivo dall’aggettivo, e non viceversa, perché prima viene il divino modo di essere, poi gli dei! C’è distruzione e creazione, nell’essere. Nel teatro dell’essere. Che però resta eternamente identico a sé, resta sé stesso.
L’essere, di per sé, non conosce né creazione né distruzione, così come non conosce creazione né distruzione la natura. La natura, dice Aristotele, non ha bisogno di essere salvata, perché è già da sempre in salvo. È già da sempre in salvo perché si salva da sé. Natura, physis (da phyomai, generare), è generatrice, e lo è anzitutto di sé stessa, è auto generatrice – tutto ciò che avviene in natura, creazione e distruzione, nascita e morte, è in funzione del proprio essere. Quell’essere che è l’essere! Come l’essere ha in sé il principio che lo fa essere, ed è il principio d’identità e di non contraddizione (è contraddittorio che l’essere non sia), così la natura ha in sé il principio che la genera, che la fa essere generatrice.
Di questo divino abitare già da sempre in salvo ci parla il mito, l’arte, la pittura, la scultura. Un esempio, fra i molti che si potrebbero fare: gli eroti vendemmianti del Vaso blu di Pompei[6]. Niente come la vendemmia esprime creazione e distruzione e addirittura, come nel dionisiaco, risurrezione; ma la vendemmia è un atto eterno, gioioso, divino, come rivela la condotta degli eroti, che lo compiono abitando la natura come solo queste divinità fanciullesche e perfettamente innocenti sanno abitarla. Gli eroti non sono personaggi di una scena campestre, tantomeno si muovono stando in rapporto, quale che sia, con la natura: essi sono natura, nient’altro che natura, e la natura è tutto.
Un altro esempio, su cui dovremo tornare: Il tuffatore di Paestum[7]. Un corpo si libra nel vuoto. Ha lasciato l’alto trampolino fatto di blocchi di pietra su cui si era arrampicato per lanciarsi in mare. Dove sta per immergersi. Intorno a lui tutto è natura, benché solo pochi tratti essenziali lo segnalino: due alberi, il litorale, il cielo, il mare. Ma anche qui si deve dire: la natura è tutto. Infatti questo corpo in realtà è un’anima. Che sta per morire. Muore immergendosi nella natura. E tornando a essere quella che era. Uno-tutto. Non c’è traccia di sofferenza né di angoscia nell’uomo che si tuffa. Sul profilo del volto potremmo leggere un sorriso.
Una linea marcata e perentoria attraversa il dipinto, a separare terra e cielo, ma anche il mondo sopra le acque e il mondo sotto le acque, il mondo dei vivi e il mondo dei morti. Questa linea vistosa e invadente, in un dipinto che per altro verso potremmo definire di delicato realismo figurativo, ha una prepotente valenza simbolica. Essa separa due mondi, ma in realtà li unisce. Questi due mondi infatti sono uno solo. È la linea dell’infinito, attraversata la quale (con la morte) non resta che la beata eternità dell’essere. O della natura. Un tuffo, ed ecco la beatitudine.
Niente di tutto ciò agli occhi del Viandante. Giunto agli estremi confini del mondo, egli guarda oltre. Oltre che cosa? Oltre il mondo. Infatti se ne sta lì, proteso sull’al di là del mondo. Affacciato sull’infinito. Dunque, l’infinito non è più una linea di separazione che al tempo stesso unisce: riunificando, nell’unità del cosmo, il mondo di qua e il mondo di là. Ai suoi occhi, l’unità del cosmo è perduta per sempre, né può essere riconquistata con un gesto di adesione all’uno-tutto. Qualunque cosa egli rimugini, non pensa certo a tuffarsi nel mare di nebbia. Eppure anche lui, come il tuffatore, vuole attraversare una linea che non può essere se non la linea dell’ultimo orizzonte e quindi dell’infinito. L’infinito? Quale infinito?
[1] Der Wanderer über dem Nebelmeer, 1818, si trova presso la Kunsthalle di Amburgo.
[2] Secondo alcune testimonianze, nella figura in questione Friedrich avrebbe voluto ricordare un suo amico militare da poco scomparso, colonnello del genio.
[3] J. Ritter, Paesaggio. Uomo e natura nell’età moderna, Milano, Guerini e Associati, 2001. Cfr. anche R. Milani, L’arte del paesaggio, Bologna, Il Mulino, 2001 e P. D’Angelo, Estetica e paesaggio, Bologna, Il Mulino, 2009.
[4] Che la natura in epoca romantica sia ancora una volta «reinventata», è la tesi di Andrea Wulf (L’invenzione della natura, Roma, Luiss University Press, 2017). Protagonista di questa svolta storica il celebre naturalista ed esploratore Alexander von Humboldt, il quale unì nella figura del Wanderer lo scienziato e l’esteta.
[5] Il saggio goethiano Zur Farbenlehre apparve a Tübingen nel 1810. Cfr. la trad. it. a cura di C. Troncon, La teoria dei colori, Milano, Il Saggiatore, 2008.
[6] Al tema è stata dedicata una mostra, Mito e natura. Dalla Grecia a Pompei, Palazzo Reale di Milano, 2015-2016, dove il vaso è stato esposto.
[7] Il dipinto è conservato nel Museo di Paestum.
Sì, l’infinito. Se ci chiediamo: che cosa va cercando quell’uomo? Una risposta, improbabile fin che si vuole, ma tutt’altro che campata in aria, potrebbe essere: è l’infinito quel che cerca. Per niente affaticato, in una tenuta impeccabile, appoggiato al suo bastone, ma non abbrancato a esso, visto che il luogo è impervio, ma lui sta saldamente ritto sulle sue gambe, il Viandante scruta l’orizzonte: pur non scorgendo i suoi occhi, tuttavia possiamo ben dire che il suo sguardo si estende ai confini del mondo e anche al di là. La postura sembra quella di uno che osserva o contempla il paesaggio, ma né l’una cosa né l’altra la giustificano del tutto: c’è qualcosa di più e di diverso, in lui. Il suo non è un osservare (scientificamente) o un contemplare (esteticamente), bensì uno scrutare, e dunque un cercar di vedere ciò che né l’osservazione della realtà empirica né la contemplazione della realtà ideale gli mostrerebbero. Noi non vediamo il viso del Viandante; però indoviniamo che il suo sguardo è rivolto a un punto che buca l’orizzonte dentro cui quel punto è collocato. Il momento ha una sua solennità, ed è davvero momento cruciale, benché non ci sia dato sapere se l’uomo abbia o non abbia trovato ciò che cerca.
Dietro di lui ci siamo noi e noi sappiamo che per essere giunto in quella plaga deserta e remota (magari sono solo le Alpi del suo paese, ma è come se fosse un’ultima Thule) ha dovuto compiere un lungo cammino. Nulla in lui denota fatica, stanchezza. Consapevolezza sì, invece. Consapevolezza del suo essere, del suo esistere, del suo ex-sistere. Questo termine deve essere inteso alla lettera e in una accezione che è già in tutto e per tutto «esistenziale», nonostante l’anacronismo: si tratta infatti di insistere su qualcosa, trovando lì il proprio sostegno, ma al tempo stesso di spiccare un salto, magari solo con l’immaginazione, però immenso, oltre i confini del mondo.
Per assumere tale atteggiamento, il Viandante deve sapere, e certamente sa, che ci sono o ci sono stati altri modi di essere, anzi di esistere, cioè di stare nell’essere: altre forme di vita, altri archetipi. Gli dei, ad esempio, stavano divinamente nell’essere, e cioè nella natura, in quanto parti ed elementi di essa, in quanto vivente natura, immortale natura – infatti l’essere altro non è che la natura divina di tutto ciò che è, è lo splendore dell’essere. Così come a loro volta gli uomini stavano nella natura mitologicamente, perché è grazie al mito che gli uomini trovano il loro posto nella natura, scoprendo di essere meno che natura (gli uomini non sono dei) ma anche più che natura (la natura è frutto della loro immaginazione). Ma poi altri modi di essere e altre forme di esistenza si sono affacciate sulla scena del mondo.
Ciò è accaduto quando gli uomini hanno scoperto quello stare che non rinvia ad altro da sé, ma dà ragione di sé, puramente e semplicemente, per quello che è: uno stare, un abitare non più commisurato al mito ma al logos, e capace di aprire le porte alla potenza nemica del mito, potenza formidabile, efficacissima, cioè la tecnica, potenza del disincantamento. Se degli dei si dovrà dire allora che non sono più natura, ma al di là di essa, dell’uomo si dovrà dire che non è più nella natura, ma è di fronte a essa. Nondimeno l’uomo continua a essere natura, continua a essere nella natura. E questo spiega perché da un certo momento in poi lo stare dell’uomo nella natura sia potuto apparire tanto enigmatico e misterioso.
Il Viandante viene da lontano, come viene da lontano il suo sapere; egli potrebbe anche aver fatto solo pochi passi per raggiungere un sito che ora gli appare come terra straniera e al tempo stesso come sua nuova patria, ma certamente ha memoria del suo cammino, che è poi il cammino di tutti. Non sarebbe lì, se la sua storia non fosse anche la storia di tutti gli altri. Lì, in quella stazione finale, è arrivato con la dotazione antropologica di chi ha attraversato le diverse forme di esistenza che appartengono all’uomo e alla sua storia. All’inizio impugnava una clava. Ora impugna un bastone. Quanto diversi quella clava e quel bastone! Eppure sono la stessa cosa: strumenti di dominio, di affermazione, di appropriazione. Del resto, non è forse vero che la conoscenza sta alla violenza come la politica alla guerra? In fondo la violenza è pur sempre un tentativo, per quanto sregolato e funesto, di mettere ordine nel mondo, e quindi di orientarsi nel mondo. Così quel bastone e quella clava. Il Viandante impugna il suo bastone ben altrimenti che una clava, in modo molto signorile e garbato, ma basta un gesto, il gesto di poggiarne la punta sulla roccia come per saggiarne la durezza, ed ecco il suo sguardo, che pure non vediamo, ergersi a dominare tutto ciò che lo circonda.
Strano dominio, però, esercitato com’è su una realtà quanto mai sfuggente e impalpabile, e soprattutto poco reale, realtà al limite della realtà, che sembra continuamente trascolorare e trasformarsi in puro fenomeno luminoso. Ha forse la pretesa, quel signore, di impadronirsi di ciò che più di ogni altra cosa sfugge alla cattura, la luce? Come può pensare di orientarsi in un mondo dove tutto è incerto, confuso, sviante? È vero che lui sta al di sopra del mare di nebbia e può assistere al suo mutevole comporsi e ricomporsi, ma come può sperare che la luminosità cangiante delle irradiazioni aprano un varco mostrandogli ciò che cerca, se ciò che cerca è l’infinito? Nascondendogli la vista di quanto sta sotto di lui e dietro di lui, il mare di nebbia ne fa uno straniero e lo sbalza fuori dal mondo. E c’è di più. La meta del Viandante, o quantomeno il punto verso cui egli scruta, non è nel mondo. È fuori dal mondo.
Verrebbe da chiamarlo, il Viandante, un turista dello spirito. Per la verità questa definizione gli fa un po’ torto, così come gli farebbe torto definirlo, come pure si sarebbe tentati di fare, esteta, o dandy, o flâneur, ma coglie in lui un suo tratto essenziale[1]. Per portarsi ai confini del mondo ha compiuto un tour, e non importa se grand tour o petit tour – in fondo anche il dandy e a maggior ragione il flâneur «sconfinavano» restando a casa loro, nella propria città, che per il solo fatto di essere abitata e percorsa da tali personaggi cessava di essere città e diventava, se non altro ai loro occhi, metropoli. Ed ecco – sorpresa – il quotidiano farsi meraviglioso, il vicino caricarsi di lontananze fascinose, il paesaggio noto e familiare cambiare di segno e diventare il luogo stesso di uno spaesamento senza fine. Quasi che l’orizzonte del mondo conosciuto si allargasse smisuratamente, per ondate successive, fino a cancellare ogni orizzonte, e a mostrare come dall’al di là spazi, regioni, dimensioni ultramondane. Accade a questo antesignano del turista di oggi il contrario di ciò che accade, oggi, più o meno a ogni turista, e cioè di scoprire in ciò che gli è più prossimo quanto è più lontano e altro rispetto a lui, come facendo esperienza e quasi precipitando dentro una vertiginosa profondità di campo, là dove oggi il turista va in capo al mondo ma nei lidi più esotici e nei siti più sperduti finisce col ritrovarsi immancabilmente come a casa sua.
Il Viandante è un turista dello spirito in quanto a trascinarlo in quel finisterre non è certo la volontà di prendere possesso e insediarsi in un estremo lembo di terra ai confini del mondo, ma qualcosa che non è di questo mondo: una calamita, una fascinazione, un oggetto di desiderio che lo chiama prepotentemente fuori del mondo e fa di lui uno straniero in questo mondo. Un bene, un male? La domanda, al momento resta senza risposta. Anche se etica ed estetica, tenute a distanza, si presentano e chiedono la parola.
La cosa in questione (la calamita, la fascinazione…) – aveva sentenziato Hegel nella Fenomenologia dello spirito, 1807[2] – è una brutta cosa, anzi, una cosa malsana. Essa esprime un «anelito» tipicamente moderno ad abbandonare la realtà, ossia ciò che è concreto, alla portata dell’uomo, suo compito, suo dovere, passando con un balzo nella dimensione in cui tutto è «vastità e indeterminatezza». Oggi, sempre secondo Hegel, si considera questa cosa, cioè questo passaggio, come una sorta di elevazione spirituale, addirittura come una sublime esperienza mistica, mentre di sublime c’è soltanto che l’esperienza viene fatta evaporare in un illusionismo del tutto privo di contenuto. Insomma, è roba da anime belle, perché sono le anime belle a compiacersi della propria vuotezza, della propria incapacità di confrontarsi con la realtà, e a trasformare il loro sentimentalismo estetizzante in alta e nobile eticità. Hanno ragione i greci, concludeva Hegel, a spedire nel Tartaro coloro che non sanno fare altro che sognare i Campi Elisi.
Nel 1796, ultima settimana di luglio, Hegel, allora precettore a Berna, aveva compiuto con alcuni amici un’escursione sulle Alpi bernesi. Il proposito era di giungere alla soglia delle «nevi eterne», i ghiacciai. Ma via via che il gruppetto saliva verso le cime dei monti e lasciava alle sue spalle terreni coltivati, malghe strappate alle pietraie, armenti, greggi, e infine gli ultimi abeti, arbusti, licheni, insomma tutto ciò che è vita, nel giovane filosofo cresceva l’irritazione per non dire il dispetto. Lascerà scritto nel diario, da cui sarà tratto, pubblicato postumo, il Viaggio sulle Alpi bernesi: «La vista di questi massi eternamente morti a me non ha offerto altro che la monotona rappresentazione, alla lunga noiosa, del: è così»[3]. Nessuna meraviglia, nessuna sollecitazione intellettuale, nessun soprassalto di pensiero.
Solo sulla via del ritorno Hegel si sentì riconfortare e come ridestare da quel torpore di morte, alla vista dei segni che annunciavano la presenza dell’uomo e la sua laboriosità. Il fatto è che lo spirito è vita e quindi è movimento, attività, creazione: non si trova dove non c’è vita. E la vita è forma: non c’è vita dove non c’è forma, e dove lo stesso informe non è in via di trasformazione, ma è statico, bloccato. Di esso si può dire soltanto che è com’è, e basta. Assoluta indefinitezza. Essere vuoto e privo di qualsiasi determinazione. A suo modo infinito, ma infinito com’è infinito il cattivo infinito, che si contrappone all’infinito vivente, la vita. Perciò secondo Hegel la cosa che affascina e attrae le anime belle, ossia coloro che inseguono sogni e chimere e li fanno valere come un paradigma negativo del reale, è brutta e malsana. Peggio: è mortifera. Niente potrebbe meglio rappresentarla che la monotonia di un orizzonte da cui la vita è dileguata.
Anche per Leopardi, come per Hegel, l’infinito si presenta a noi non tanto per ciò che è, ma per ciò che non è: non finito, indefinito, indeterminato. Dice Leopardi: è solo una specie di infinità quella che ci è dato di concepire, poiché noi non concepiamo l’infinito se non per approssimazione, ossia togliendo i confini, non vedendoli, cancellandoli, e in questo modo l’infinito viene confuso con l’indefinito. Ciò vale, prosegue Leopardi, sia per la facoltà di conoscere sia per la facoltà di amare, ma specialmente per la facoltà di immaginare, che è poi la sola in grado di rappresentarci alla mente un simulacro d’infinito. Questo simulacro per l’appunto non è che una specie di infinità: tant’è vero che l’anima, messa a fronte di essa, «sente espressamente una certa angustia, una certa difficoltà, un certo desiderio insufficiente, una impotenza decisa di abbracciar tutta la misura di quella sua immaginazione, o concezione o idea»[4].
Senonché Leopardi, a differenza di Hegel, vede in questa cosa un che di «dilettevole». Secondo lui è precisamente l’equivoco in cui cadiamo a darci piacere. Prendiamo l’indefinito per l’infinito. Incapaci di concepire questo, ci soffermiamo su quello, e ne siamo sedotti. «La qual cosa ci diletta». Vera e propria fascinazione nichilistica, questa. L’«orrido nulla», come lo chiama Leopardi, il «solido nulla»[5], agisce come un farmaco, nel doppio senso del termine. Il nulla è un peso che grava sulla coscienza, ma la coscienza è in grado di rimuoverlo, allontanarlo da sé, respingerlo laggiù in fondo, provando un certo sollievo. È un veleno che potrebbe uccidere, ma preso a piccole dosi aiuta a sopravvivere. Come chi dicesse: tutto è nulla, il nulla è il fondamento di tutto, addirittura il nulla è il senso della vita (che è di non averne alcuno), ma intanto io sono qui, so il destino che mi aspetta, perché la realtà è quella che, dura, impietosa, e tuttavia questo sapere grazie al nulla sfuma nel non sapere, nell’illusione, nei «dolci inganni». Il nulla è il solo tratto veramente determinato e ineludibile; ma proprio in quanto tale, toglie tutti gli altri, e ci restituisce la realtà in forma addolcita, edulcorata, perfino seducente.
Per Leopardi come per Hegel l’infinito tende a scivolare nell’indefinito e nell’indeterminato, fino a confondersi con quelli. Ma qui incontriamo una differenza anche più importante. Un conto infatti è identificare l’infinito (come fa Hegel) con ciò che è, un conto è identificare l’infinito (come fa Leopardi) con ciò che non è. Per Hegel l’infinito, il vero infinito (non il falso o cattivo infinito) è la realtà. E siccome è la realtà, è più che essere, è più che semplice astrazione, è più che statico e inerte essere che è sempre identico a sé: è la realtà nella sua pienezza, è l’assoluto, è il tutto. Invece per Leopardi l’infinito è il nulla. Vero è che il nulla secondo Leopardi è la sola realtà, quanto meno la sola realtà non illusoria. Ma il nulla non è. Il nulla non ha nulla a che fare con l’essere.
E proprio perché il nulla non ha nulla a che fare con l’essere, il nulla è semplicemente inconcepibile e incomprensibile. Come si può comprendere ciò che non ha confini? Come si può concepire ciò che non è? Su questo punto Leopardi non avrebbe da obiettare alcunché a Hegel, per il quale il pensiero pensa ciò che è e non ciò che non è. La differenza è un’altra. Ed è che per Leopardi il pensiero non può pensare la realtà (la vera e sola realtà è il nulla, ed è, come lui la chiama, l’infinità) e di conseguenza si rifugia nell’illusione. Al contrario per Hegel il pensiero non può e non deve pensare altro che la realtà (il vero infinito, l’assoluto), e se non lo fa, è perché non vuole farlo, condannandosi al non pensiero e all’irrealtà. Se per Leopardi l’illusione è pur sempre qualcosa, è ciò che ci trattiene in quel poco di essere di cui siamo capaci e quindi ha una sua positività, una sua dolcezza, per Hegel ogni vagheggiamento irrealistico e sognante precipita nel baratro.
Ma se queste sono le prospettive di chi si porta sulla soglia estrema, come dobbiamo figurarci lo sguardo gettato da chi quelle prospettive ha saputo mettere in fila e considerare una dopo l’altra? Il Viandante di Friedrich sembrerebbe aver compiuto tale operazione. Di fronte a lui e intorno a lui un mare di nebbia. Ma anche altro. Profili di montagne, laggiù. E oltre le montagne, il cielo. Sia il cielo che l’alba indora e screzia di un tenue rosa, sia il cielo non raggiunto dai raggi del sole e che s’innalza sprofondando nell’azzurro, nel grigio e – ma questo possiamo solo immaginarlo – nel nero. Tutto ciò è in funzione d’un ampliamento progressivo dello sguardo. Verso dove? Fino ai confini del mondo, ma anche oltre, tanto da penetrare e addirittura comprendere questo stesso oltre. Insomma, il Viandante ha a che fare non solo con l’indeterminato e con l’indefinito ma anche con l’infinito, l’infinito essendo l’indeterminato-indefinito, però compreso a partire dal suo principio, ossia a partire da ciò che ci permette di afferrarne l’indeterminatezza, l’indefinitezza, la vaghezza, e così via.
Tanto basta per dire che quell’uomo, di cui vediamo unicamente il nero profilo, la nuca, le terga, ma di cui cogliamo anche il raccoglimento interiore e al tempo stesso la sua consapevole esposizione a tutta quella vastità fuori di lui, non è uno su cui grava il triste destino dei sognatori e degli utopisti e neppure uno afflitto da una qualche forma di pessimismo cosmico. Non è né un’anima bella né un’anima persa. Ad aspettarlo non c’è l’inferno tutt’altro che immaginario di coloro che vi precipitano credendolo un paradiso, così come non c’è il paradiso fin troppo scopertamente fasullo di coloro che se lo fingono e lo vagheggiano per dimenticare almeno un po’ l’inferno della vita. Il Viandante non sta sognando, tantomeno è sedotto dal suo stesso sognare. Semmai il Viandante è in atteggiamento pensoso. E che cosa pensa se non l’infinito?
Già, perché l’infinito non è cosa dell’anima sognante. L’infinito è cosa del pensiero. Lo è secondo una triplice modalità. Infatti c’è un infinito negativo e c’è un infinito positivo. C’è un infinito potenziale e un infinito attuale. C’è un infinito spaziale e c’è un infinito temporale. Sa il Viandante tutto ciò?
Se fosse uno storico della filosofia – lo saprebbe. Saprebbe ad esempio, come ricorda Zellini nella sua Breve storia dell’infinito, che i greci avevano capito che un conto è l’infinito positivo (l’universo, il tutto) e un conto è l’infinito negativo (il limite, il confine dell’universo), giungendo a negare qualsiasi realtà all’infinito negativo, in base alla ragionevole obiezione che il tutto non può essere tutto e al tempo stesso qualchecos’altro e tantomeno può essere un tutto che comprende anche ciò che lo trascende[6]. In questo senso Anassimandro identificava l’infinito con l’illimitato, mentre del limite diceva la sola cosa che si può dire, ossia che non è.
Questo significa che l’infinito, il tutto, è quello che è (un tutto in sé compiuto, perfetto) e quindi ciò che esiste attualmente, realmente, è solo ciò che è e non anche ciò che potrebbe essere o essere altro dall’essere attuale. Insomma, in atto c’è pur sempre qualcosa come una sfera che tutto abbraccia ma è una realtà finita, una realtà con un confine, una circonferenza, non una realtà potenzialmente infinita: l’infinito non esiste attualmente, ma solo in potenza, per dirla con Aristotele. Sarà Plotino a trasgredire questo interdetto aristotelico e a pensare che l’infinito, ossia ciò che non è, diciamo pure il nulla, sia il fondamento stesso della realtà: che è sempre altra da sé, è infinitamente altra da sé, ma al tempo stesso è, realtà infinita. Su questa base, secoli dopo, l’antiaristotelico Giordano Bruno penserà l’infinità dei mondi e quindi penserà che l’infinito non solo è attuale, ma lo è sia rispetto allo spazio sia rispetto al tempo.
Verosimilmente il nostro uomo, il Viandante, non è uno storico della filosofia, e queste cose non le sa per filo e per segno. Tuttavia…
[1] Su queste diverse figure cfr. L’uomo romantico, a cura di F. Furet, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 197-223.
[2] Cfr. la trad. it. a cura di G. Garelli, La fenomenologia dello spirito, Torino, Einaudi, 2008, in particolare VI, C, c («L’animo coscienzioso, l’anima bella, il male e il suo perdono»).
[3] G.W.F. Hegel, Diario di viaggio sulle Alpi bernesi, a cura di R. Bodei, Como-Pavia, Ibis, pp. 12 ss.
[4] G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, a cura di G. Pacella, 3 voll., Milano, Garzanti, 1991, 4177-8.
[5] Ibidem, 85. Vedi anche 1341-2 e 1461-4.
[6] P. Zellini, Breve storia dell’infinito, Milano, Adelphi, 1980.
La contraddizione che salta agli occhi di chiunque – e quindi anche del Viandante – affronti il problema dell’infinito, è quella tra una totalità chiusa, onnicomprensiva, e una totalità aperta, progressivamente aumentabile. L’infinito è l’una cosa e l’altra. Ma l’una cosa e l’altra insieme non stanno. Del resto, che infinito sarebbe un infinito che lascia fuori di sé qualcosa che non gli appartiene e che lo limita, rendendolo di fatto finito? E a sua volta che infinito è un infinito che non è mai veramente tale ma che è sempre di là da essere? Sembra dunque che il pensiero, non appena rifletta sull’infinito, sia destinato a infilarsi in un vicolo cieco. Ma siamo sicuri che la contraddizione stia lì ad avvertirci che la strada è sbarrata e per quella via non si va da nessuna parte? E se al contrario nascondesse un paradosso che invece di chiudere il discorso, lo riapre, mostrando prospettive tutte da esplorare?
È quanto Kant aveva sospettato, ponendosi di fronte alla natura in modo alquanto simile a quello in cui si porrà di lì a poco il Viandante – infatti fin da subito il dipinto di Friedrich sarà interpretato come una sorta di illustrazione del «sublime» kantiano, anche se, come vedremo, solo fino a un certo punto. Secondo Kant[1] a colpire chi si ponga di fronte alla natura e alle sue manifestazioni è l’eccesso, la sproporzione. Davvero smisurata appare la natura, sia che la si consideri in rapporto alla sua grandezza, alla sua vastità, sia che la si consideri rispetto alla sua potenza, alla sua forza. Smisurata significa illimitata, sconfinata, senza fine: tale è la vastità della natura che si rivela a noi, sgomentandoci, quando contempliamo la volta celeste e ci chiediamo quante siano le stelle lassù, e tale è la potenza della natura che ci incute terrore quando per esempio osserviamo il mare in tempesta. Ma prima che sulla vastità e sulla potenza della natura, l’accento cade sulla smisuratezza e dunque sul fatto che la natura appare come alcunché d’infinito. Infinito negativo, prima che positivo, nel senso che non è un tutto attuale che lo sguardo possa abbracciare, ma un tutto che non è mai, un tutto che oltrepassa continuamente sé stesso, un tutto che oscura lo sguardo.
Soffermiamoci però sulla grandezza smisurata e sulla forza altrettanto smisurata della natura, cercando di immaginare le reazioni dello spettatore al loro cospetto. Queste reazioni sono ambivalenti e contrastanti, sia nel caso della grandezza sia nel caso della forza. Esse, grandezza e forza, sono talmente al di fuori della sua portata, che lo spettatore ne riceve una profonda umiliazione. Troppo grande la volta celeste, troppo vasti i confini dell’universo, perché lo spettatore non provi un senso di nullità, così come troppo forte è la potenza del mare perché lo stesso spettatore non ricada in un senso di impotenza. L’infinito sta al finito come l’essere sta al non essere. Ma se l’uomo non è in grado di afferrare l’infinito, e tantomeno di contrapporsi a esso, tuttavia ne ha l’idea, e ciò basta a riscattare la sua finitezza e a collocare lui, una nullità, al di sopra dell’essere, se non altro per il fatto di poter concepire l’idea dell’essere e dell’infinito.
Ed ecco il sentimento del sublime, che per l’appunto ci fa sentire tutta la nostra pochezza, anzi, la nostra nullità di fronte alla natura (sia che la consideriamo rispetto alla sua smisurata illimitatezza sia rispetto alla sua smisurata potenza), e quindi ci deprime e ci umilia ma al tempo stesso ci commuove e ci esalta attraverso l’idea della nostra superiorità nei confronti di essa. Che la natura possa fare di noi quello che vuole è un fatto, e se noi siamo in sua balìa significa che siamo ben poca cosa. Ma un fatto è anche che la natura operi inconsapevolmente, mentre noi siamo consapevoli del nostro assoggettamento alla natura non meno che della nostra capacità di contemplare l’infinità della natura come da un più alto punto di vista: avendone l’idea. «La natura, scrive Kant, è sublime in quei suoi fenomeni, la cui intuizione include l’idea della sua infinità»[2]. Non che la natura sia sublime di per sé stessa; la natura appare sublime a noi che vediamo dentro i suoi fenomeni (questo significa, letteralmente, intuire) ciò che non c’è, ma che si mostra nel momento in cui li si guarda dal punto di vista, che è nostro, e soltanto nostro, della sua infinità. Questa apparenza è percezione, esaltazione, commozione. È sentimento.
Il sublime, dunque, è un sentimento; ma un sentimento perfettamente razionale, in quanto è generato dalla ragione e opera in funzione della ragione. È la ragione a suscitare in noi il sentimento del sublime. Lo fa prospettandoci l’idea dell’infinità della natura. Ma quest’idea è cosa nostra, non della natura. Contemplando l’infinità della natura noi ritroviamo noi stessi. Magari a costo di perderci in quella vastità e in quella immensità senza confini. Perciò il sentimento in questione è non soltanto perfettamente razionale, ma è anche maledettamente paradossale. In quanto sentimento, si muove nella dimensione del sensibile. E in quanto suscitato dalla ragione ci trasporta nella dimensione del soprasensibile, infatti evoca «quel soprasensibile che sta a fondamento della natura e al tempo stesso della nostra facoltà di pensare»[3]. Niente come il sentimento del sublime ci avverte del fatto che il mondo, il nostro mondo, è doppio, ambiguo, enigmatico: il sensibile e il soprasensibile si coappartengono. Questo non vuol dire che ci sia un mondo di qua e un mondo di là. Il mondo è uno solo, ed è questo. Ma questo mondo è natura e spirito. E la natura, che resta natura, tuttavia è abitata dall’infinito, ossia dallo spirito.
Più di un interprete, come per esempio Lucien Goldmann, ha osservato come qui Kant riprenda la concezione pascaliana della miseria e della grandezza dell’uomo, uno «stelo pensante» che un soffio della natura annichilisce, ma che si sa esposto al nulla, e che questo sapere innalza al di sopra di qualsiasi altra realtà naturale – tanto da non poter essere definito altrimenti che un essere indefinibile, un enigma, ma anche una creatura che pur non essendo né angelo né bestia tuttavia ha dell’una e dell’altra. Ed effettivamente è insistendo su questa umana troppo umana contraddizione che Kant ricava il sublime dall’idea dell’infinità della natura. Incominciamo allora col dire che l’idea dell’infinità della natura è un’idea della ragione, sia che consideriamo questa infinità una grandezza (smisurata) sia che la consideriamo una potenza (altrettanto smisurata). L’idea non è oggetto di sapere positivo. È vuota di contenuto. Non mi permette cioè di cogliere alcunché dentro l’infinità. Certamente non l’infinità stessa, bensì soltanto il fatto che essa non è finita. Insomma, l’idea è idea di un certo non essere e non di un certo essere. È idea che la natura non è ciò che sembrerebbe, e cioè qualcosa di immenso ma pur sempre finito. No, la natura è abitata dall’infinito.
Ma anche più importante è che quest’idea – idea della ragione – ci parla di noi ben più di quanto ci parli della natura, anche se ci parla di noi mentre ci parla della natura. Dicendoci infatti che la grandezza della natura è smisurata, illimitata, infinita, lascia risuonare in noi la negazione intrinseca a tale dis-misura, a tale il-limitatezza, a tale in-finità, e la lascia risuonare in quanto è da noi che essa proviene, è in noi il principio di essa. Ciò comporta umiliazione ed esaltazione: a umiliarci è il sentimento della nostra insignificanza di fronte a tale grandezza, a esaltarci è il sentimento della nostra capacità di comprendere l’incomprensibile. E questo doppio sentimento, perfettamente equivoco, è il sentimento del sublime – sublime matematico, dirà Kant, sublime che ha a che fare con l’intelligenza delle cose, sublime che è proprio della ragion pura. Ma quel che vale per la grandezza della natura, vale anche per la sua potenza. La quale è altrettanto smisurata, illimitata, infinita.
Qui, a differenza che là, entra in gioco la ragion pratica, cioè la ragione che svela noi a noi stessi in tutta la nostra debolezza di esseri naturali e in tutta la nostra dignità di esseri morali: ed è il sentimento dell’umiliante debolezza di chi si percepisce inerme di fronte allo strapotere della natura, ma anche il sentimento, non disgiunto ma congiunto, della esaltante dignità di chi si sa invincibile sul piano morale benché vincibilissimo sul piano fisico. Anche questo è il sentimento del sublime – sublime dinamico, lo chiama Kant, sublime che riguarda l’agire e che perciò è proprio della ragion pratica.
C’è dunque un sublime matematico (da intendersi alla lettera, come sublime che ha a che fare con la mathesis, con la conoscenza, e precisamente con la conoscenza di ciò che è quantità e calcolo) e c’è un sublime dinamico (anche qui, alla lettera, come sublime che evoca la dynamis, la potenza, la forza della natura come metafora della forza morale). Sia il sublime matematico sia il sublime dinamico sono ricavati per via negativa: il primo dal fatto che non ci è dato di conoscere positivamente l’infinità della natura, il secondo dal fatto che tale infinità non può nulla contro la legge della coscienza. Entrambi implicano, in chi ne fa esperienza, un atteggiamento contraddittorio, profondamente scisso, quasi da disturbo bipolare, come diremmo noi oggi. Donde la domanda se questi tratti siano riconoscibili nel nostro Viandante, che non a caso è stato spesso interpretato come l’immagine stessa del sublime.
C’è di che dubitarne. Nulla in lui rivela la tensione fra emozioni contrastanti da cui nasce il sublime. Egli sta di fronte a qualcosa che può essere identificato con l’infinito – indipendentemente dalla definizione che si vorrà dare di questo concetto. Ma lo spettacolo naturale che gli si para dinanzi non sembra inquietarlo più di tanto. Semmai lo attrae, lo cattura: ma come chi ne trae materia di indagine, non come chi ne è scosso e turbato. Nel Viandante non c’è traccia di quella umiliazione e di quella esaltazione che sono i presupposti del sublime. Ciò non esclude il sublime dal suo orizzonte. È possibile, anzi è probabile, che questa esperienza egli l’abbia fatta. Ma è un’esperienza ormai superata e comunque quella che sta ora facendo non è più esperienza emozionale perché è esperienza mentale. Al sentire è subentrato il capire. E se questo atto del pensiero può bensì comprendere quelle reazioni emotive che lo spettacolo della natura suscita nel soggetto, tuttavia il soggetto è come sbalzato al di là di sé, là fuori, perché è là fuori la cosa da pensare, l’infinito.
Il Viandante conosce il segreto del sublime. Sa che l’infinità della natura non gli si mostra se non nello specchio dell’idea di infinito e dunque a partire da lui, dall’io, che possiede quell’idea. Se il soggetto non tirasse fuori quell’idea dalle profondità della sua anima; se il soggetto non riconoscesse nell’idea di infinito qualcosa che gli appartiene e che è tutt’uno con la sostanza più intima del suo essere, nessun infinito apparirebbe, nessuna infinità della natura gli si svelerebbe, nessuna infinità reale e nessun infinito ideale potrebbero mai diventare oggetto del pensiero. Al contrario, costui sarebbe in balìa delle sue visioni e delle sue emozioni, e del tutto incapace di dominarle, cioè di pensarle, di ancorarle all’idea. Sottratto al ragionamento e semplicemente vissuto o meglio patito, il sublime palesa quel suo carattere di latente schizofrenia che non può non esplodere. Ed ecco il soggetto, da una parte, schiacciato e umiliato, dall’altra inebriato ed esaltato, ma in entrambi i casi ricondotto alla condizione di visionario che ignora che cosa gli stia accadendo.
Che le cose stiano così, sembrano dimostrarlo due dipinti di Friedrich dello stesso periodo, Monaco in riva al mare (1810) e Donna al tramonto del sole (1818). Entrambi questi dipinti prendono a tema il sublime. Ne trattano però come di un fenomeno che riguarda principalmente la sensibilità e quindi espressivo di quella profonda lacerazione e di quella irriducibile scissione che il sentimento del sublime attesta. Al punto da distinguere il momento dell’umiliazione e il momento dell’esaltazione quasi fossero autonomi e indipendenti, mettendoli in scena separatamente.
All’umiliazione (della volontà e anche dell’intelletto) è dedicato il Monaco in riva al mare. Vi si intravede, appena riconoscibile nel nero su nero, una figura che muove dalla spiaggia verso la linea dell’orizzonte che possiamo immaginare, ma che non vediamo, in quanto è come cancellata dalla macchia buia del mare. Ma è come se non solo quella, bensì ogni altra linea fosse tolta: la linea che traccia il confine fra spiaggia e mare, la linea che segna il limite fra mare e cielo, e così pure, almeno in parte, la linea che definisce il profilo del monaco, il quale infatti, tutto nero, è sul punto di essere inghiottito dal nero del mare. Viene da chiedersi: da dove questa incontenibile opera di cancellazione e di annichilimento? Evidentemente dalla immensità del reale, che trascende qualsiasi punto di vista particolare, qualsiasi stato di coscienza che metta capo ad atteggiamenti tra il trasognato e il tramortito, sempre a rischio di deliquio. Il monaco si muove su quella estrema striscia di terra di fronte al mare e al cielo come se stesse per scomparire dal mondo, o quanto meno entrare da una zona d’ombra da cui non c’è ritorno. Cosa potrebbe mai fare, nella sua nullità? Certo non lo sa.
Invece all’esaltazione (dell’intelletto e anche della volontà) è dedicato Donna al tramonto del sole. La figura di spalle al centro della scena è colta nel momento in cui il sole sparisce dietro le montagne. Il sole irraggia la sua luce corrusca sull’intera volta celeste, ma è come se, tramontando, traesse a sé tutte le ombre della terra, sulla quale infatti si stende un grande manto oscuro. Fra terra e cielo sta la donna, con le braccia discoste dal corpo e sollevate come ad accogliere in sé l’evento tanto profano quanto sacro che sta compiendosi. È un gesto rituale e religioso, il suo. Comunque il gesto di chi dice sì al mistero, lo accoglie in sé, lo santifica. La donna sa, ammesso che sapere e non sapere qui si incontrino, questo mistero; non solo non se ne lascia intimorire, e tantomeno atterrire, ma se ne appropria e vi si riconosce.
Soffermiamoci sui gesti compiuti rispettivamente dal monaco e dalla donna. Il monaco si espone, indifeso e inerme, al grande buio che scende su di lui. Si consegna all’oscurità. Forse la cerca, la vuole. Forse no. Certamente la subisce. Come qualcosa di ineluttabile. In questo senso va verso di essa, abbandonandosi a essa, più che decidendosi per essa. Su quella spiaggia il monaco sembra vagare senza una meta precisa, a meno che la meta sia non averne più nessuna e l’approdo coincida con la sparizione. Talmente minuscola la figurina nera sull’ultimo lembo di terra ancora illuminata che s’intravede appena. Così come s’indovina, in quella, il desiderio di scomparire, sparire dalla vista. Per vedere finalmente ciò che altrimenti è impossibile vedere o per non vedere più? In fondo, per quell’animula vagula blandula, l’una cosa e l’altra sono la stessa.
A sua volta la donna, già raggiunta dall’ombra che è alle sue spalle e che scivola verso l’orizzonte dove il sole sta tramontando, fronteggia la luminosità residua e in progressiva diminuzione. Più precisamente, la chiama a sé. La accoglie. Se ne lascia invadere. C’è qualcosa di religioso nell’atteggiamento della donna, non a caso atteggiamento di preghiera. Ma anche qualcosa di regale. Come se introiettando la luce, facendo la comunione con la luce, la donna potesse signoreggiarla al punto da impedire che la luce, presto, sia spenta. La sua figura grandeggia sulla scena interamente dominata dal contrasto fra la luce e le tenebre incombenti ma tutt’altro che vittoriose.
Sia per il monaco sia per la donna, nonostante il loro stare in scena appaia antitetico – il monaco è prostrato dalla trascendenza, la donna invece si fa, essa stessa, estatica trascendenza – il sublime è un sentimento irriflesso, una passione. Né l’uno né l’altra pensano il sublime. Tantomeno trattano il sublime come un’occasione per uscire da sé stessi e dalla propria soggettività. Semmai lo subiscono, lo patiscono. Di entrambi si deve dire che per loro il sublime non è ancora il sublime kantiano. Cioè non è ancora un’esperienza in grado di sciogliere la contraddizione che è nel cuore della realtà: contraddizione fra mondo della natura e mondo dello spirito, fra necessità e libertà, fra finito e infinito. Perché ciò avvenga, bisogna che la contraddizione diventi paradosso: quello per cui l’uomo trova l’infinito, e quindi la libertà spirituale, proprio là dove tutto sembra attestare che la libertà non esiste, lo spirito è una chimera e l’infinito una mera finzione mentale.
E il Viandante? Se per il monaco e per la donna il sublime non è ancora il sublime kantiano, ma è un sentimento irriflesso, non ancora portato sul piano della riflessione, invece per il Viandante il sublime è qualcosa che è già oltre il sublime kantiano. Il Viandante conosce il sublime kantiano, lo ha sperimentato, ne ha tratto le dovute conseguenze. Che cosa, se non il sublime, gli ha permesso di scoprire nella natura l’infinito? Nella natura, appunto, e non solo nello spirito, o per meglio dire nella ragione, nell’idea che la ragione ne ha. Perciò ha fatto il passo che ha fatto. Si è portato sui luoghi del sublime kantiano: dove la natura si dispiega allo sguardo in tutta la sua grandezza e in tutta la sua potenza, in una parola, in tutta la sua maestosità. Ma per trovare lì, non nella mente, ma nella natura, e come cosa della natura, il punto, il principio, il fondamento reale dell’infinito. Se questo punto c’è, e non può non esserci; se questo punto esiste realmente, e non può non esistere realmente, allora l’infinito è non solo un’idea della ragione, ma una realtà, anzi, la realtà stessa!
[1] I. Kant, Critica del Giudizio, trad. it. di A. Gargiulo rivista da V. Verra, Roma-Bari, Laterza, 1963, I, sez. I, libro II.
[2] Ibidem, p. 104.
[3] Ibidem, p. 105.
Proviamo quindi a immaginare che cosa abbia spinto il Viandante in quella plaga desertica e forse anche quali pensieri attraversino la sua mente. Sono solo ipotesi e congetture, naturalmente, che il dipinto adombra, e che tuttavia possono essere avanzate nella convinzione che l’opera abbia da dirci cose che vanno al di là di quelle che l’autore avrebbe voluto dirci o pensava di doverci dire.
Ai confini del mondo, né più né meno: ma per affacciarsi sul nulla o su ciò che più gli somiglia (nebbia, rocce, cielo). Tale appare il proposito che guida il Viandante, tale la meta del suo cammino. Che è bensì Finis terrae, ma non nel senso di ultimo confine, semmai di confine sconfinato, confine sempre penultimo. Finisterre da questo punto di vista può essere ovunque. Lì, dove il Viandante si è recato, è certamente Finisterre, come potrebbe benissimo esserlo altrove. In ogni caso il viaggio del nostro uomo non deve essere stato né particolarmente lungo né particolarmente faticoso, almeno a giudicare dal suo portamento fermo e composto. Come di chi ha trovato un eccellente punto panoramico, un’altura magnifica. E da lì getta uno sguardo su ciò che gli sta di fronte. Anzi, su qualcosa che non vediamo ma che possiamo figurarci.
A guidare e ad attrarre il Viandante non può che essere stata una certa immagine di mondo. Più precisamente, una certa idea di paesaggio. Ossia l’idea che il paesaggio possa essere rivelatore di segreti nascosti – sia che questi segreti appartengano alla natura, e la natura li renda manifesti attraverso una sua rappresentazione in grado di suscitare emozioni profonde, sia che gli stessi segreti appartengano all’anima o allo spirito, e l’anima venga in chiaro di sé specchiandosi nello specchio della natura. A rendere possibile tutto ciò è il legame che il paesaggio ha con il bello e con il sublime ed è quindi ciò che fa del paesaggio un oggetto di contemplazione, insomma uno spettacolo. Non a caso la vista di cui gode il Viandante ha tratti di una spettacolarità immediata e innegabile.
Che il paesaggio sia spettacolare, sia cioè legato al bello e al sublime, e di conseguenza rivelatore di segreti (quali che siano questi segreti), è cosa tutt’altro che scontata. È una conquista culturale. Soprattutto, è l’esito di un processo che mette capo a teorie estetiche di ascendenza kantiana per cui l’arte è compimento e perfezionamento della natura e la natura è fondamento e sostanza dell’arte. Non c’è arte senza natura, l’arte non essendo altro che natura divenuta cosciente di sé e del suo poiein. Così come non c’è natura senz’arte, poiché l’operari della natura è eminentemente artistico, essenzialmente artistico, tant’è vero che l’arte è un fare che fa come fa la natura. Senza la natura non ci sarebbe l’arte. Ma senza l’arte la natura resterebbe muta per noi, anzi, incomprensibile, addirittura invisibile.
Armato di questa certezza, il Viandante si reca dunque ai confini del mondo o in ogni caso in un luogo dove scorgerli, questi confini, e gettare uno sguardo su quanto essi mostrano di sconfinato, di infinito. Sa che tutto, in natura, può essere oggetto di contemplazione, tutto può farsi paesaggio: anche l’infinito. Perché ciò avvenga, è necessario applicare alla natura non solo la categoria del bello ma anche la categoria del sublime. Bisogna cioè guardare alla natura da entrambi i punti di vista. Alla luce del bello è il finito a farsi paesaggio, mentre alla luce del sublime a farsi paesaggio è l’infinito stesso. Ed ecco il paradosso: quel che altrimenti non sarebbe altro che caos informe, e quindi si sottrarrebbe inesorabilmente non solo alla conoscenza ma anche alla sensibilità, attraverso il sublime si compone in una figura meravigliosa e seducente – abyssus abyssum vocat – che chiama presso di sé, trattiene sulla soglia dell’infinito, trasforma l’infinito in paesaggio. Se il bello è luce armoniosa, luce che illumina dolcemente il buio della selva oscura, e quindi fa di ogni sito naturale un giardino, così come fa di ogni giardino l’epitome della natura tutt’intera e della sua armonia, invece il sublime è luce corrusca, luce che lotta con le tenebre, ed è proiezione all’esterno di un dissidio interiore mai completamente ricomposto, ma in grado di restituire al soggetto la sua libertà, la sua signoria sulla natura, al punto che la natura gli appare come dall’al di là della natura, come da una trascendenza, e questa trascendenza gli appare a sua volta come oggetto di contemplazione, come paesaggio, appunto come paesaggio sublime, qual è ad esempio il mare di nebbia, il profilo delle montagne, l’ultimo orizzonte e così via.
Il Viandante conosce a fondo il sublime. Tutto ci dice che ne ha fatto esperienza. Senza però soccombere a essa: cosa possibile solo a patto di mantenersi all’interno del suo ambito, cioè l’ambito estetico, e non trasformarla surrettiziamente in qualchecos’altro, per esempio in esperienza mistica. Infatti là dove il sublime si fa esperienza mistica, o la surroga, come accade inevitabilmente quando i suoi due momenti, quello dell’umiliazione del soggetto e quello della sua esaltazione, vengono assolutizzati in modo unilaterale, a prodursi è un’aporia, un risultato doppiamente fallimentare: da una parte è il dissolvimento nichilistico dell’io (come accade al monaco prostrato di fronte all’oscurità che avanza) e dall’altra è il suo potenziamento dionisiaco (come accade alla donna inebriata dal sole che tramonta). Per il Viandante invece il sublime è e resta esperienza estetica. Il che gli ha permesso di non farsene né tramortire né ubriacare, ma di metterne a frutto gli insegnamenti: l’ultima parola non appartiene al nulla ma neppure all’uno-tutto, poiché l’intuizione dell’uno-tutto, che poi vuol dire intuizione dell’infinità della natura, intuizione del concetto di infinito, è precisamente quella che gli fa vedere nel nulla non il nulla ma una funzione di senso, un rinvio ad altro, una verità di là da venire.
Fatta questa esperienza, il Viandante l’ha superata, è andato oltre, ha compiuto un passo in più: fino a dove si trova ora. Il sublime permette all’io di prendere coscienza della propria capacità d’infinito. Capacità, questa, che consiste non già nel conoscere positivamente l’infinito, ma nel possederne l’idea, pur non conoscendolo. Perché ciò avvenga, è necessario che l’io ritorni in sé stesso. Fra sé e sé, scoprirà che questo «sé» altro non è che l’oggetto posto dal soggetto, è quanto il soggetto vede nello specchio della sua stessa interiorità. E che cosa vede, in sé stesso, se non il campo sconfinato e illimitato di tutte le esperienze possibili? L’anima non ha limiti, non ha confini, aveva detto Eraclito l’oscuro… Proprio perché l’anima non ha confini, non ha limiti, il conoscibile si dà a partire dall’in-conoscibile: che non può essere conosciuto in quanto tale, ma che è la condizione e il presupposto della conoscenza. In altre parole: proprio perché la ragione (il logos, secondo Eraclito), possiede l’idea dell’inconoscibile o del puramente conoscibile, cioè del noumeno, all’intelletto è dato di conoscere secondo verità e alla volontà di agire secondo libertà. Per Kant grazie al noumeno, che sottraendosi alla conoscenza ne apre lo spazio, l’uomo viene in chiaro di sé stesso. Ed è come rimesso sul suo trono. Era una creatura insignificante, cosa della natura fra le cose della natura, e per giunta presa dentro gli ingranaggi del «grande meccanismo universale». Si ritrova «conoscitor del mondo» e padrone di sé stesso, responsabile del suo destino. Tutto ciò in forza di quell’«in sé» che in realtà è un «in me».
Sarà Fichte a risolvere il sublime kantiano nella compiuta autoaffermazione dell’io. Fichte mette in bocca all’io le parole con cui Dio definisce sé stesso o meglio: definisce sé come indefinibile. Ego sum qui sum. Io son chi sono: questo è ciò che l’io dice di sé. L’io è identità. Ma se l’io è identità di sé con sé, da una parte l’io esclude da sé tutto ciò che non è io, dall’altra pone fuori di sé sé stesso come altro da sé e cioè come non-io. La formula è nota: l’io pone sé stesso, ma ponendo sé stesso si pone come oggetto, non come soggetto, e dunque si pone come altro da sé. E così l’altro da sé si configura agli occhi dell’io come il proprio sé infinito, come il campo sconfinato e illimitato delle esperienze possibili, come infinità reale e naturale. Il che comporta un ribaltamento di prospettiva e un vero e proprio rovesciamento dello sguardo: dal dentro al fuori. Quello che era un massimo di interiorizzazione diventa un massimo di esteriorizzazione. Il mondo da scoprire è lì. Il mondo vero, l’infinito sempre rinascente dal punto più segreto dell’anima (o della ragione) e sempre in estensione oltre il suo stesso orizzonte non è «dentro» ma «fuori». Lì va cercato.
Abbia o non abbia letto Kant e Fichte, il Viandante ha percorso il tratto di strada che va idealmente da Königsberg a Jena e porta nel cuore della Frühromantik. Prima, però, ha dovuto compiere il suo viaggio interiormente. Non avrebbe potuto fare neppure un passo, non avesse avuto la sua bussola, la sua stella polare; ma questa, bussola o stella polare che fosse, e cioè l’idea di infinito, era lì, nella sua mente, e lì lui l’ha scoperta, come cosa sua, come la cosa più sua, come cosa che gli apparteneva da sempre. Certo di farne buon uso, è uscito e si è diretto là fuori, nel mondo. Si è messo in cammino. E ha incontrato il sublime.
Con il sublime il Viandante ha fatto i conti. Non si è lasciato prostrare dalla visione di un’immensità schiacciante, in cui prendere atto della propria insignificanza e perdersi. Né si è fatto tentare dall’ipotesi che la realtà possa essere signoreggiata dal pensiero fino al solipsismo. Semmai ha deciso di uscire: uscire da casa sua, uscire da sé stesso, e portarsi là fuori, nel mondo, che è pur sempre qualcosa di più di quanto l’io immagini e fantastichi, tant’è vero che lo stesso infinito può essere pensato come idea, ma come idea vuota, e non appena l’io cercasse di appropriarsi dei contenuti dell’idea si troverebbe costretto ad ammettere la propria impotenza. Il senso di questa decisione è uno solo: bisogna uscire, è necessario uscire, non si può restar prigionieri di sé! E più che una decisione, è un fatto: sprofondando in sé stesso, l’io si è reso conto di essere un fondo senza fondo, cioè di essere infinito. Ma allora l’infinito è ben al di là dell’idea che l’io ne ha: e ciò implica il passaggio dall’interiorità all’esteriorità, dall’io al mondo, dall’io che pone il mondo come non io al non io che si impone al mondo come «non» dell’io, come suo limite, come sua trascendenza.
Avendo fatto i conti con il sublime, il Viandante se ne è liberato. In fondo il sublime è un’esperienza tutta interiore; chiama in causa la soggettività nelle sue forme più alte, ossia l’intelligenza dell’ordine delle cose e la forza morale capace di metterlo in discussione, ma nulla mi dice di ciò che trascende il soggetto, nulla mi dice della realtà, del mondo, della natura. È vero: la natura è metafora dell’infinito, perché dobbiamo alla natura di poterci figurare l’infinito e farcene un’idea. Ma l’idea di infinito non dice nulla della natura. Nello specchio di quest’idea noi non vediamo la natura, ma vediamo noi stessi, la nostra intelligenza, la nostra forza morale, così stupefacenti, se si pensa che non siamo altro che esseri naturali. Tuttavia vediamo talmente bene in noi stessi; siamo così profondamente edotti su di noi, da vedere noi come dall’al di là di noi, ed è proprio questo al di là a chiamare a sé colui che ha fatto l’esperienza del sublime e l’ha fatta fino in fondo.
Il sublime non basta più. Tenuto rigorosamente entro i limiti dell’io, per impedire possibili esiti catastrofici, quali sarebbero lo smarrimento metafisico, da una parte, e l’ebbrezza estatica, dall’altra, il sublime finisce con l’apparire unilaterale, mera espressione di una soggettività monadica, chiusa in sé stessa, incapace di attingere il proprio oggetto e cioè l’infinito: che resta figura della mente e non diventa cosa della realtà. Il sublime deve essere superato. Dall’infinito negativo bisogna passare all’infinito positivo. Dall’infinito ideale all’infinito reale. Occorre uscir fuori. Fuori della propria interiorità. Andare nel mondo. Inoltrarsi in esso, fino ai suoi estremi confini. Ed è precisamente ciò che il Viandante fa o tenta di fare. Egli sembra voler toccare con mano l’orizzonte che si apre davanti a lui: non ci stupiremmo più di tanto, se lo vedessimo alzare il braccio e puntare con il suo bastone da passeggio un punto laggiù in fondo. Come chi ha individuato (o crede o spera di aver individuato) un punto, il punto. E quale? Evidentemente quello in cui la realtà tutt’intera sembra convergere, inabissandosi. Ma anche quello da cui la realtà tutt’intera sembra scaturire, manifestandosi. La realtà. Non un’idea della mente. E tantomeno ipotesi fittizie. No, niente di tutto ciò. In questione è la realtà dell’infinito.
Emulo del Viandante, spirito sodale, e affine per molti aspetti cominciando da quello che ne potrebbe definire lo stato sociale, la cultura, il tratto aristocratico, e così via, ma al tempo stesso assai diverso da lui, anche Giacomo Leopardi ha lasciato il paterno ostello e si è recato, come sappiamo, sul colle dell’infinito. «Sempre caro mi fu quest’ermo colle…»[1]. Esso dista solo pochi passi da casa. Nondimeno è come proiettato sugli estremi confini del mondo. Precisamente sull’«ultimo orizzonte». Il poeta non avrebbe di certo trovato l’infinito su quel colle, se l’infinito non gli fosse stato già presente, se l’infinito non fosse già stato in lui. Trovato dove? Nella biblioteca paterna. A suggerirgli quell’idea seducente e sconcertante, e soprattutto nuova, nel senso di moderna, visto che gli antichi la pensavano diversamente, era stata la lettura di Copernico, al quale avrebbe dedicato un celebre dialogo delle sue Operette morali, in cui si prospetta la possibilità che, tolto il centro dell’universo, ne segua un’infinita molteplicità di prospettive, anzi, un’infinita pluralità di mondi, così com’era stata la lettura di Galileo, che ai suoi occhi appare grandissimo sia come scienziato sia come filosofo, avendo restituito al mondo la sua verità e alla natura la sua infinità.
Dal poggio in cui si trova il poeta lascia vagare lo sguardo non solo su tutto quanto gli si offre, ma ben oltre: fin là dove possono giungere non tanto gli occhi quanto la mente. Si tratta di qualcosa di oggettivo, qualcosa che è realtà fisica, è natura; ma questo qualcosa nondimeno è finzione mentale, perché non ci sono occhi, non c’è sguardo che possano raggiungerlo, infatti a poterlo catturare è solo l’idea. Nell’idea l’infinito si mostra. Come realtà, perché è dell’infinito reale che si sta parlando, ma al tempo stesso come finzione. «Io nel pensiero mi fingo», dice Leopardi. Che cosa? «Interminati spazi» e «sovrumani silenzi» e «profondissima quiete». In forza di questa finzione, di questa ipotesi, l’infinito si mostra. E si mostra oggettivamente là fuori, nella natura. Si mostra come cosa della natura, perché si mostra nello spazio e nel tempo. Più esattamente, si mostra là dove lo spazio, che tutto delimita, appare a sua volta illimitato, spazio al di là dello spazio («interminati spazi», dice Leopardi, al plurale, come al plurale sono i mondi). E si mostra là dove il tempo, che segna l’inizio e la fine di tutto, appare a sua volta senza fine e senza inizio («sovrumani silenzi» non possono non avvolgere ciò che è «eterno» e precede lo strepito dell’accadere). Dopo Copernico, dirà Nietzsche, l’uomo scivola verso una x. Secondo Leopardi questa x ha un nome e il nome è infinito.
Rotolare, scivolare… Leopardi preferisce «naufragare». E di esso dice: «m’è dolce». Non che questo significhi eludere quanto possa esserci di pauroso e di angosciante nello smarrimento e nella perdita di sé. Al contrario. Figurarsi l’infinito è come rappresentarsi l’irrappresentabile, affacciarsi sul vuoto, contemplare il nulla. È compiere un movimento azzardato e di troppo «ove per poco il cor non si spaura». Salvo riconoscere che quel gesto asseconda il movimento stesso della vita: oltre la vita, verso il non più e il non essere. E come pensare questo distacco se non accompagnato da una sconosciuta dolcezza? Questi sentimenti antitetici, timore e consenso, non sono il preludio di un’esperienza più intensa, più impegnativa, estrema, com’è quella in cui l’uomo mette in gioco il senso della sua vita (il sublime, con quanto di eccitante e di deprimente esso comporti). Semmai la prefigurano, ma per escluderla. Qui sul sublime prevale un sentimento di piacere che è sollievo e remissione di ogni sofferenza. Prevale il gusto dell’abbandono, la tentazione seducente del lasciarsi andare. Tanto più che a far da magnete è la sola cosa reale. Il nulla. L’infinito.
«Il silenzio eterno di questi spazi infiniti mi sgomenta», aveva scritto Pascal in una delle sue Pensées[2]. Sono gli stessi spazi infiniti di cui parla Leopardi? È lo stesso silenzio? Sì e no. Sì, perché altro non sono, quegli spazi e quel silenzio, che una cifra dell’infinito (la x verso cui l’uomo rotola secondo Nietzsche a seguito della rivoluzione copernicana)[3]. No, perché una differenza essenziale separa Pascal e Leopardi. Che l’infinito sia né più né meno che il nulla (da intendersi come nulla fisico, cioè come negazione di ogni realtà finita, ma anche come nulla metafisico, cioè come negazione che la vita abbia uno scopo o un senso) per Pascal è una possibilità, per Leopardi invece una certezza.
Per Pascal è possibile che l’infinito altro non sia che il nulla e il non senso, ma è possibile anche che l’infinito sia Dio, vale a dire la pienezza di senso, il senso ultimo di tutte le cose: tra queste due possibilità l’uomo è chiamato a decidersi, a scegliere in assenza di prove, a scommettere per l’una o per l’altra (donde l’angoscia, lo sgomento). Invece per Leopardi l’infinito è il nulla e nient’altro che il nulla, perché solo il nulla può essere al di là dello spazio e al di là del tempo, solo il nulla può smascherare come illusione ciò che è nello spazio e nel tempo – ne consegue che abbandonarsi al movimento della vita verso la morte è rilassante e benefico, in una parola piacevole.
E il Viandante? Difficilmente, se la cercassimo, troveremmo in lui traccia dello sgomento di chi di fronte all’infinito si chiede se infinito sia il senso o il non senso del tutto. Ma neanche del piacere che prova chi si abbandona alle acque di quel mare che è il mare dell’essere, o meglio del non essere, dove ogni cosa perde i suoi contorni e si dissolve. Vero è che si tratta di un «mare di nebbia» e cioè dell’infinito. Ma nell’infinito il Viandante non cerca l’essere o il non essere e tantomeno il nulla. Semmai cerca il punto a partire dal quale l’infinito possa diventare oggetto di rappresentazione.
[1] «Sempre caro mi fu quest’ermo colle / E questa siepe, che da tanta parte / Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. / Ma sedendo e mirando, interminati / Spazi di là da quella, e sovrumani / Silenzi, e profondissima quiete / Io nel pensier mi fingo; ove per poco / Il cor non si spaura. E come il vento / Odo stormir tra queste fronde, io quello / Infinito silenzio a questa voce / Vo comparando: e mi sovvien l’eterno, / E le morte stagioni, e la presente / E viva, e il suon di lei. Così tra questa / Immensità s’annega il pensier mio: / E il naufragar m’è dolce in questo mare».
[2] È la 91 dell’ed. Brunschvicg. Cfr. la trad. it. a cura di A. Bausola, Milano, Rusconi, 1997.
[3] «Seit Kopernikus rollt der Mensch aus dem Zentrum ins x», ha scritto Nietzsche in un appunto del Nachlass (p. 882, III dell’ed. Schlechta).
Da un promontorio o da una rupe protesa su uno sconfinato oceano (un «mare di nebbia») il Viandante osserva qualcosa che non ha limiti spaziali ma neppure temporali, a giudicare da quella specie di estasi contemplativa in cui è assorto: questo qualcosa è l’infinito. Ed è qualcosa che è lì, qualcosa che si offre allo sguardo. Non solo dunque, una mera ipotesi, una funzione matematica, un segno inapplicabile a qualsiasi realtà data ma semmai soltanto all’irrealtà; non solo l’idea di un tutto che è un tutto ma anche altro, l’idea di un contenuto che è più grande del suo contenitore, l’idea di un orizzonte che abbraccia ogni cosa e che nondimeno può a sua volta essere abbracciato… Non solo questo, ma qualcosa che è più di questo. Qualcosa, appunto; qualcosa che sta tra il niente e un ente, un ente determinato, se è vero che l’infinito pretende di essere, anzi, di esserci: cioè di essere lì. Il Viandante lo fronteggia. E se lo fronteggia, non si vede perché non tentar di rappresentare quel che in un modo o nell’altro gli sta di fronte.
Ma come si fa a rappresentare l’irrappresentabile? Come si fa a dare una forma all’informe, al caotico, al senza profilo? Come trasformare in un’immagine ciò che sfugge alla presa e sempre dilegua? La negazione stessa del mondo come universo in sé concluso e compiuto non può diventare a sua volta mondo. O sì, invece? Il Viandante sembra farsi una domanda del genere. E sembra anche aver trovato una risposta o quantomeno confidare nella possibilità di trovarla. In ogni caso il suo atteggiamento non è certamente quello di chi ha abbandonato ogni speranza di soluzione del problema – come rappresentare l’irrappresentabile, come riappropriarsi del caos e dell’assoluto disordine quasi fosse un mondo, il proprio mondo. Egli osserva, scruta, cerca. Nessun abbandono, da parte sua, all’informe. Tantomeno all’inconoscibile e all’inafferrabile. Chi assume questo atteggiamento è un sognatore, uno Schwärmer, uno che ama le fantasticherie e i giochi dell’immaginazione. Se alla sua mente si presenta un’infinità di mondi possibili, mondi puramente vagheggiati e finti, ciò accade nel momento in cui il mondo reale s’inabissa: s’inabissa in quanto il confine si è fatto sconfinato, il finito è scivolato nell’infinito.
Il Viandante non la pensa così. Tutt’altro il suo orientamento: che è quello di chi si appresta a riconfigurare ciò che gli appare senza figura alcuna. Il suo proposito è di riappropriarsi del mondo che si è inabissato o che sta inabissandosi. A lui non interessa la presunta infinità dei mondi possibili. Non che sia un hegeliano, come abbiamo visto. Però è d’accordo con Hegel nel ritenere o almeno sospettare che questa infinità non sia altro che il frutto avvelenato del cattivo infinito, cioè dell’infinito come invenzione della mente o come funzione dell’irrealtà. Distrae quindi lo sguardo da quel teatro illusionistico che è l’infinito puramente ideale e lo fissa su altro. Ossia sull’infinito reale. Di più: nell’infinito reale, nell’infinito che gli si dispiega dinanzi, cerca il punto a partire dal quale l’infinito è effettivamente quel che è: infinito. Cerca l’infinito nel cuore dell’infinito. Insomma, cerca il punto di fuga in cui tutti i raggi che si dipartono dal suo sguardo, cioè dall’arco visivo incentrato su di lui, e lì, nel centro dell’essere che può essere dappertutto, ma è, certamente è, e non è finzione, ma è realtà, trovare il fondamento stesso dell’infinito.
Solo così è possibile procedere alla riconfigurazione del mondo. Trovato il punto in cui i raggi convergono è trovata la possibilità di dipanare il groviglio di punti, linee e superfici nel quale siamo immersi. Questa convergenza è ad infinitum: quindi si deve dire di essa che non è mai ed è sempre. È sempre poiché sempre i raggi convergono nel punto di fuga. Ma non è mai poiché il movimento del convergere non si acquieta mai. L’infinito (questa cosa paradossale che l’infinito è) è precisamente la perfetta convertibilità del «mai» e del «sempre», grazie alla quale l’infinito cessa di essere ipotesi mentale e diventa oggetto di esperienza. E non erano forse sperimentatori dell’infinito quei matematici e artisti che all’alba del rinascimento vollero «provare» e dare dimostrazione dell’infinito? Come definire altrimenti un Luca Pacioli, un Brunelleschi, un Paolo Uccello? E Masaccio, con le sue cordicelle fissate alla parete laterale di Santa Maria Novella dove i frati gli avevano concesso di fare i suoi esperimenti prospettici?
Si coglie qui tutta la differenza che c’è fra due concezioni dell’infinito apparentemente simili, ma che tali non sono. Un conto infatti è concepire l’infinito come limite negativo e un conto come positivo illimite; un conto è evidenziare il trattino che fa dell’infinito un non-finito e un conto è cancellarlo, così come un conto è apparentare l’infinito al non essere e al nulla e un conto all’essere e al tutto. Torniamo a Leopardi. Di fronte all’infinito, Leopardi soccombe. E non trova altra via che abbandonarsi a esso senza opporre resistenza alcuna. Ma c’è di più. C’è che «il naufragar m’è dolce in questo mare». Perché? Il fatto è che l’incommensurabilità fra l’infinito, da una parte, e la propria finitezza, la propria impotenza, la propria nullità nascondono una più profonda equivalenza. Nell’infinito ci si specchia, perché nell’infinito la nullità che è nostra e di tutte le cose riflettendosi viene alla luce. L’infinito è lo specchio del nulla. L’infinito è il nulla. E se a mostrarsi è una «immensità» che fa pensare a una pluralità o infinità di mondi, ciò che vediamo o meglio fingiamo di vedere non ha alcuna consistenza. Non può essere afferrato. Tantomeno riconfigurato. È vaghezza, fantasticheria. Perciò piace. È «dolce»[1].
L’idea della infinità del mondo e anzi dei mondi resta legata all’infinito come limite negativo della conoscenza. Anche Giordano Bruno, che l’ha formulata su base copernicana, concepisce l’infinito a partire dal non essere piuttosto che dall’essere. L’infinito si mostra a noi che siamo delle piccolezze insignificanti o delle nullità nel momento in cui riconosciamo che non c’è limite che non sia provvisorio e non possa essere eliminato. «Non sono fini, termini, margini, muraglia che ne defrodino e suttragano la infinita copie de le cose», scrive il Nolano in De l’infinito, universo e mondi. Contro Aristotele, erede su questo punto fondamentale di Platone e di Parmenide, per i quali l’essere, che non può non essere, è positività assoluta, e quindi le forme dell’essere sono sostanziali ed eterne, Giordano Bruno sostiene che la sostanza è una sola ed è l’infinito, è il «rinovarsi» e «restituirsi» di ogni cosa. Infinitamente. Senza alcuna misura data una volta per tutte. E senza una ragione ultima. Per l’appunto «senza che sia ultimo profondo». Tolto il quale – dirà Leopardi – non resta che contemplare l’abisso del nulla. Ossia l’abisso del tutto, secondo Giordano Bruno, ma il tutto come materia infinita, come annullamento di ogni particolarità e finitezza, insomma come «universo infinito»[2].
Non che questo abisso non possa essere riconquistato, quanto meno esplorato o comunque considerato un luogo se non ospitale però abitabile. Certo, l’abisso è l’abisso, e l’uomo vi si trova gettato senza perché; addirittura questa percezione di sé come straniero al mondo non ha senso, poiché nel mondo, in ogni mondo, non c’è più né alto né basso, né grande né piccolo, né centro né periferia, ma tutto è alto e basso, grande e piccolo, centro e periferia, tutto è coincidenza di opposti. Tuttavia è pur sempre possibile riconoscersi tutt’uno con l’uno-tutto, tutt’uno con la sostanza infinita e cioè con la materia di cui siamo fatti. A questo attendono gli «eroici furori». Ossia i sensi che ci permettono di inebriarci d’infinito.
Ciò comporta la possibilità di riappropriarci dell’infinità dei mondi. Ma non di riappropriarci del mondo, questo nostro mondo finito. Se ci innalziamo all’altezza di quell’idea che è come un delirio, nondimeno il mondo è ormai perduto, non ha più alcuna solidità, non è che uno dei mondi che sorgono e s’inabissano come pulviscoli di polvere attraversati da un raggio di luce. È (come accadrà in Leopardi) il trionfo di una fantasmagoria nichilistica o, per dirla con Michele Ciliberto, «teatrale». Proprio Ciliberto ha notato nel suo Giordano Bruno che «il furioso» è un rivoluzionario, perché è «un eversore degli equilibri naturali». È un distruttore dell’idea di mondo, non un costruttore. E nel vortice da cui i mondi emergono e in cui si inabissano, anche le anime, sia dei bruti sia degli uomini, sono destinate a «annichilarsi»[3]. Non immemore di questo grande nichilista ante litteram, anche Nietzsche convertirà il nichilismo negativo in nichilismo positivo, ma restando all’interno del nichilismo.
È questo lo sfondo a partire dal quale si sviluppano idea e tecnica della prospettiva: prospettiva lineare in Europa occidentale e prospettiva rovesciata in Russia[4]. Entrambe con uno scopo preciso. Ossia la cattura dell’infinito, la conquista dell’infinito. E non solo la conquista dell’infinito ideale, ma dell’infinito reale. È dell’infinito reale che si tratta, sia quando parliamo dello sguardo che al tempo stesso abbraccia e trascende ogni cosa, lo sguardo di Dio (come nella prospettiva rovesciata), sia quando parliamo del punto di fuga in cui converge ogni sguardo umano (come nella prospettiva lineare). Nel primo caso l’invisibile è tratto fuori dalle sue profondità e si mostra nel visibile, ma come illuminato da una luce di trascendenza. Nel secondo caso il visibile fugge via e si dissolve nell’invisibile, ma per essere restituito allo sguardo dell’uomo. Se nel primo caso l’infinito ha il volto di Dio, mentre nel secondo è una figura del nulla, tuttavia in entrambi incontriamo l’infinito reale. Questo è ciò che hanno in comune, nonostante il loro carattere antitetico, la prospettiva lineare e la prospettiva rovesciata.
Che l’infinito sia non solo un’ipotesi e una finzione ma alcunché di reale, vero e proprio ens realissimum, è un’idea che si affaccia con il pensiero di Niccolò Cusano negli stessi anni in cui matematici e pittori s’interrogano sulla prospettiva. Tale è l’infinito per Cusano nonostante la contraddizione e addirittura in forza della contraddizione che è nel cuore dell’essere e di ogni ente. L’universo per Cusano è bensì una sfera, ma una sfera il cui centro può essere dappertutto. E se il centro può essere dappertutto, ogni punto dell’universo è insieme centro e periferia, è in alto ed è in basso, addirittura è uno ed è molti, non è niente ed è tutto. È la coincidenza degli opposti. Quella coincidenza che è Dio. Posto l’infinito, risalire verso il principio abissale di tutte le cose o discendere verso l’abisso in cui tutte le cose finiscono è lo stesso.
Ma è lo stesso anche guardare dall’infinito, come se lo sguardo sul mondo fosse lo stesso sguardo di Dio, o puntare lo sguardo sull’infinito, insomma, su ciò che infinitamente sfugge allo sguardo. Lo sapevano i pittori ossessionati dalla prospettiva. I quali cercavano nel punto di fuga il punto a partire dal quale il mondo tornasse a risplendere in tutta la sua profondità e in tutta la sua bellezza. Come se qualche luce sull’al di qua non potesse venire che dall’al di là. Oltre la parete laterale su cui Masaccio aveva individuato i punti prospettici c’era il cimitero. Lì era il punto di fuga. A partire da lì il punto di fuga aveva reso possibile mettere in prospettiva e ricomporre il caos, l’orrore, l’abisso: vedi la Trinità di Masaccio in Santa Maria Novella, dove il Padre lascia morire il Figlio e se la scena non viene inghiottita da tenebre eterne è solo perché lo Spirito ne rende testimonianza attraverso un breve palpito di luce nel buio. Ed è, questa, una riconfigurazione. Una vera e propria ricomposizione del mondo. «Oh che dolce cosa è questa prospettiva!», amava dire Paolo Uccello secondo Vasari[5]. Questa esclamazione deve essere intesa nella sua risonanza più alta e più evocativa.
Certo un conto è vedere nell’infinito il volto di Dio e un conto la cifra del nulla. L’infinito appare come il volto stesso di Dio nello sguardo che Dio getta sul mondo, abbracciandolo e trascendendolo. A sua volta l’infinito appare come la cifra (o una delle cifre) del nulla quando lo sguardo dell’uomo è rivolto al punto di fuga o punto in cui tutto svanisce (per l’appunto detto anche vanishing point). La pittura di icone ha tenuto fermo lo sguardo di Dio e perciò è rimasta pittura religiosa, diversamente dalla pittura rinascimentale, irreligiosa pittura, avendo fatto suo l’altro sguardo. Ma questa irreligiosità ha un valore puramente estrinseco e sfiora soltanto il nucleo della questione. Che, per quanto riguarda la pittura rinascimentale e la tradizione che ne deriva, non è il suo transitare dal sacro al profano (anche se di fatto questo avviene), ma il suo mantenersi nell’ambito di una metafisica o se si preferisce di una ontologia dell’infinito. Dove l’infinito non è illusione fantasmatica. Al contrario, è la realtà stessa del mondo. È ciò che abita il mondo e gli conferisce senso, una possibilità di senso.
Erede di quella tradizione, tanto che qualcuno ha potuto vedere nel mare di nebbia una citazione dalla leonardesca Vergine delle rocce, il Viandante è giunto ai confini del mondo, dove non c’è confine che non sia scavalcato da un altro confine. Ma che l’infinito non sia se non l’al di là dell’al di là, all’infinito, lo lascia indifferente. A lui non interessa che cosa l’infinito non è ma potrebbe essere. A lui interessa che cosa l’infinito è, realmente. Fosse pure soltanto un punto. Ma un punto generatore di mondo in quanto generatore di spazio e di tempo. È sempre al di là di sé, questo punto, e come sprofondato in sé stesso: ecco il tempo infinito. E tuttavia è, realmente, è lì, posso indicarlo, in qualunque posizione io mi metta posso tracciare linee prospettiche: ecco lo spazio infinito. Come potrebbe non essere reale questo generatore di mondo? Era un mare di nebbia, il mondo, e in quel mare stava scivolando. Ed è ancora un mare di nebbia, il mondo. Ma è il mondo. È il mondo che si mostra per quello che è: in tutta la sua vastità e in tutta la sua profondità. Possiamo ora vedere in quel mare l’oceano dell’essere, l’oceano delle forme. In ogni caso il mondo appare tutt’altro che deserto e arido, ma abitato dall’infinito.
Certo l’infinito ha una doppia valenza, in quanto può stare nel segno di ciò che «non è mai» ma anche nel segno di ciò che «è già da sempre». Nel primo caso l’infinito è anzitutto infinito vuoto, infinito vuoto di simboli e allegorie. La rappresentazione del mondo abitato dall’infinito è quella di un luogo in cui uomini e dei sono assenti o si sono dileguati. Tutto è natura. Nient’altro che natura. Il Viandante se ne sta sulla sua roccia in totale solitudine. Nella natura. Senza che alcun cenno o segno lo richiami ad altro. Solo un punto ha catturato la sua attenzione e questo punto è come nel cuore del nulla. Invece nel secondo caso l’infinito è tutto pieno, letteralmente tutto pieno di presenze o tracce divine. Non che nella natura abbia fatto irruzione la trascendenza. La natura è tutto, tutto è natura. Eppure, come nella Croce in montagna (1807), Friedrich colloca al vertice di un dipinto perfettamente naturalistico, in corrispondenza del punto di fuga, una croce. Non si era mai vista una cosa del genere. Infatti lo stupore fu grande. Evidentemente non fu subito chiaro che anche quella era una rappresentazione del mondo abitato dall’infinito.
In conclusione: la conquista dell’infinito in pittura comporta per l’occhio un difficile se non impossibile esercizio. Fissando il punto di fuga e, dentro il punto di fuga, il proprio punto cieco, bisogna che la pupilla si dilati tanto da abbracciare luce e buio, visibile e invisibile, terra e cielo. Ed ecco ancora una volta compiersi il miracolo. Quale? In Russia un detto popolare afferma: «L’icona è ogniqualvolta il cielo torna a incontrare la terra». È questo il miracolo? È questo che torna ad accadere in pittura? Insomma, dovremo dire che Il Viandante sul mare di nebbia è un’icona? No, rispetto alla tecnica pittorica non lo è – infatti qui la prospettiva lineare è in antitesi con la prospettiva rovesciata. Sì invece – lo è – rispetto a ciò che in essa accade, aprendo un nuovo capitolo della storia dell’arte occidentale.
[1] Secondo Leopardi «Solamente quello che non esiste, la negazione dell’essere, il niente, può essere senza limiti, e l’infinito viene in sostanza a essere lo stesso che il nulla» (Zibaldone, cit., 4178). Perciò l’infinito non è qualcosa di reale, ma una fantasticheria, una chimera.
[2] G. Bruno, De l’infinito, universo e mondi, in Dialoghi italiani, I, Firenze, Sansoni, 1985, pp. 367 ss.
[3] M. Ciliberto, G. Bruno. Il teatro della vita, Milano, Mondadori, 2007, p. 2007. Ciliberto ricorda come Bruno amasse citare il Salmo In nihilum deveniens, tanquam aqua decurrens (Bruno, De l’infinito, universo e mondi, cit., p. 281).
[4] Nella prospettiva lineare, introdotta in Occidente dai pittori del Rinascimento fiorentino, il movimento è dallo sguardo del pittore o dello spettatore verso il punto di fuga che è l’infinito; invece nella prospettiva rovesciata, che è propria della pittura d’icone, il movimento procede dallo sguardo di Dio (l’infinito stesso) e va verso la realtà abbracciata da quello sguardo. Donde l’idea che la prospettiva lineare abbia carattere antropocentrico mentre quella rovesciata sia sostanzialmente teocentrica e anche l’idea, su cui ha insistito fra gli altri P. Florenskij, che la prima riduca Dio a immagine dell’uomo e la seconda invece lo ponga a fondamento dell’essere. In ogni caso sia per la prospettiva lineare sia per la prospettiva rovesciata la cosa essenziale è l’infinito. Che poi l’infinito possa essere identificato con Dio o con il nulla è un’altra questione.
[5] G. Vasari, Le vite dei più eccellenti pittori scultori e architetti, Roma, E.I.C., 1963, p. 202.
Giunto nella stazione finale del suo cammino, il Viandante sembra riconoscere che non c’è nessuna stazione finale, perché il mondo è infinito. E non solo virtualmente infinito, ma attualmente infinito. Realmente infinito. Irreale, provvisorio, fittizio è il confine. Il confine è lì per essere oltrepassato. Magari solo con lo sguardo. La cui potenza è sorprendente, poiché abbraccia un orizzonte il cui centro è come sprofondato in sé stesso. Ciò grazie alla prospettiva.
La prospettiva riduce il mondo a immagine bidimensionale sopra una superficie, tanto che il mondo si risolve tutto in una proiezione sull’interfaccia fra l’occhio e la realtà. Ma i punti di fuga in cui convergono i raggi che si dipartono dall’occhio non sono a disposizione dell’occhio, perché l’occhio può soltanto assecondarne il movimento: sono là fuori, nella realtà, nel mondo. Sono infiniti. L’infinità (del mondo, anzi, dei mondi) che ne deriva è al tempo stesso cosa dell’occhio e cosa della realtà. L’infinito è nel cuore del mondo. Tanto che possiamo parlare di infinito realmente e non solo in modo metaforico o figurale. Accade così che la prospettiva, questa macchina che ricompone la realtà a misura dell’occhio, restituisca all’occhio la capacità di vedere ciò che dovrebbe essere invisibile, ossia l’infinito. Questo vale sia per la prospettiva lineare sia per la prospettiva rovesciata. Vale per quest’ultima, in quanto basata sul presupposto di uno sguardo assoluto che è al tempo stesso di Dio e dell’uomo. Ma vale anche per la prima, in quanto per essa la proiezione dello sguardo sull’infinito è resa possibile dalla realtà dell’infinito, che altrimenti renderebbe vana e del tutto fasulla la proiezione stessa.
Come ricorda Zellini nella già citata Breve storia dell’infinito, fu Georg Cantor, il matematico che sul finire del secolo XIX fece sua la convinzione lungamente coltivata a partire dal medioevo, ma mai dimostrata, che «l’infinito possa esistere come totalità attuale», a premettere a una sua pubblicazione il motto latino: «Neque enim leges intellectui aut rebus damus ad arbitrium nostrum, sed tamquam scribes fideles ab ipsius naturae voce latas et prolatas excipimus et describimus», che è poi una variante del detto spinoziano per cui «ordo et natura rerum idem est ac ordo et natura idearum»[1], a significare in fondo la parmenidea trasparenza dell’essere al pensiero e anzi la loro identità. Applicata all’idea di infinito e all’immagine di mondo a essa relativa, questa osservazione porta direttamente a ciò che dovette mostrarsi al Viandante una volta raggiunta la sua postazione e quasi costretto a sostare dalla magnificenza e dalla misteriosità di quanto gli si offriva come spettacolo (ma anche come problema). Noi non sappiamo quale fosse la sua reazione. Non la vediamo dipinta sul suo volto, che è girato dall’altra parte. Ma possiamo immaginarla.
Affacciato su un mare di nebbia, il Viandante è come assorto in contemplazione. Non si sta abbandonando a qualcosa che lo fa sognare, tipo visioni di paradiso. E neppure oppone resistenza a impulsi autodistruttivi, suicidi, anche solo in termini di smemoramento e perdita d’identità. Dopo tutto, è arrivato dove voleva arrivare. Che cosa lo trattiene lì? Che cosa lo affascina, che cosa contempla, che cosa guarda? Un mare di nebbia. Ossia il visibile più prossimo all’invisibile che esista. Un mare di nebbia non è una notte senza luna. È pieno di luce, questo mare. Ma luce colta un istante prima del suo spegnimento o un istante dopo la sua accensione. Più che di luce si dovrebbe forse parlare di luminescenza. Ossia di luce allo stato puro, luce che vive di vita propria e non della vita delle forme in cui si riflette e riverbera. Che cos’ha di attraente e di seducente tutto ciò?
Una risposta potrebbe essere: questa è un’autentica luce di trascendenza. Lo è nel senso che essa fa luce sull’invisibile più che sul visibile. Illuminando il visibile lo oscura, lo rende opaco, evanescente; anzi, lo riconduce al grado zero della visibilità e della riconoscibilità, pur senza cancellarlo. Lo trasforma appunto in un mare di nebbia. Ma quanto rivelatore, questo mare! Proprio perché non è se non in funzione dell’invisibile, il visibile è carico di una potente valenza simbolica. Esso è quello che è: infatti è visibile, come lo è la luminescenza del mare di nebbia. Ma è anche infinitamente altro da sé: infatti la sua essenza è pura invisibilità. Ponendosi come grado zero della visibilità, evocando il punto di fuga (o punto-nulla, Null-Punkt) della prospettiva lineare, il mare di nebbia è l’analogo del fondo oro della prospettiva rovesciata, in quanto espressione dello sguardo totale o sguardo di Dio sul mondo (ovvero dell’Assoluto). Sia il punto di fuga sia lo sguardo totale presuppongono l’infinito. Vero è che un conto è l’infinito sprofondato in sé stesso della prospettiva lineare e un conto l’infinito presente a sé stesso della prospettiva rovesciata. Nel primo caso l’infinito assomiglia fin troppo chiaramente al Nulla. Nel secondo caso invece al Tutto, all’Assoluto. Salvo che una cosa è convertibile nell’altra nel senso che all’infinito si può giungere sia a partire dal Tutto sia a partire dal Nulla.
Che cosa dedurne se non che l’infinito ha fatto irruzione nel mondo, non importa se muovendo dal Tutto verso il Nulla o viceversa? E che il mondo è abitato dall’infinito, sia rispetto allo spazio sia rispetto al tempo? Rispetto allo spazio, dato che ogni confine è tolto, ma anche rispetto al tempo, se si considera che lo sconfinamento è un processo all’infinito. Il Viandante è giunto là dove voleva. Ma questo non è che un momento di un viaggio senza fine. Potremmo addirittura seguirlo nel suo peregrinare, in quel mundus imaginalis che il mondo è tornato a essere dopo la riconquista del principio di trascendenza. Che cosa significa infatti trascendenza se non che il mondo è infinitamente altro da sé? E che tutte le cose appartengono all’infinito e dell’infinito sono simbolo ed epifania? Infinito reale.
Ne ha fatta di strada, il Viandante. Dall’infinito all’infinito, potremmo dire. Infatti l’infinito è alla fine: è l’infinito spazio-temporale che fa da orizzonte degli orizzonti. Ma è anche all’inizio. Infatti all’inizio era l’infinito come non-finito, come illimite, come apeiron. C’è infinito e infinito, dunque. Se c’è l’infinito che sta alla fine, l’infinito del Viandante e di lì a poco, tra gli altri, di Cantor, c’è anche l’infinito che sta all’inizio, l’infinito di Anassimandro. Due cose diverse. Chiediamoci allora in che cosa consista la differenza. Risposta: l’infinito che sta alla fine è l’infinito reale, mentre l’infinito che sta all’inizio è l’infinito ideale; l’infinito che sta alla fine è l’infinito positivo, mentre l’infinito che sta all’inizio è l’infinito negativo; l’infinito che sta alla fine è fondato sul principio di trascendenza mentre l’infinito che sta all’inizio è fondato sul principio d’immanenza.
L’infinito dell’inizio, l’apeiron, nulla ha a che fare con la realtà, perché è una mera funzione linguistica. Lo ha osservato Carlo Rovelli in un libro, Che cos’è la scienza, 2014, dedicato a quella che lui chiama «la rivoluzione di Anassimandro»[2]. Rovelli rinvia al celebre, e sommamente enigmatico, frammento di Anassimandro, dove si legge che «principio degli esseri è l’infinito… da dove infatti gli esseri hanno l’origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo», e lo fa attraverso il commento che ne dà Simplicio, secondo il quale Anassimandro dice che «il principio /apeiron/ non è né l’acqua né un altro dei cosiddetti elementi, ma un’altra natura infinita, dalla quale provengono tutti i cieli e i mondi che in essi esistono… ritenne giusto non porre nessuno di questi / elementi / come principio, ma qualcosa d’altro». Scrive Rovelli: «L’intuizione centrale, qui, è che per spiegare la complessità del mondo sia opportuno postulare, immaginare, l’esistenza di qualcosa d’altro, che non è nessuna delle sostanze del mondo diretto della nostra esperienza, ma possa fungere da elemento unificante di spiegazione per tutte queste»[3].
Questo qualcosa d’altro assolutamente indefinito o apeiron che chiamiamo infinito, ma potremmo anche chiamare altrimenti, dice Rovelli, non ha una sua vita autonoma: e se decidiamo di chiamarlo infinito, non si tratta certo dell’infinito reale, positivo, bensì dell’infinito ideale, negativo. Anche per questo concetto di infinito negativo, come per il concetto di infinito positivo, fa da chiave il fatto che esso non è se non funzione relativa ad altro. Con una differenza sostanziale, però. Mentre l’infinito negativo non è se non in funzione del finito, cioè di questo o di quell’essere, e anche della totalità delle cose che sono, le quali sussistono di per sé stesse, e non hanno fuori di sé la loro ragione, essendo questa ragione una non-ragione, posto invece l’infinito positivo allora è il finito che non è se non in funzione dell’infinito. Infatti ogni cosa apparirà, nello spazio, capace di aprirsi a profondità sconfinate, e nel tempo, capace di sfiorare l’eterno. Nel caso dell’infinito reale e positivo abbiamo a che fare con un principio di radicale trascendenza. A sua volta nel caso dell’infinito ideale e negativo ci dobbiamo confrontare con un principio di radicale immanenza.
A-peiron, dunque, da a (alfa privativo) e peiron (ciò che ha limite): il non avente limite, l’illimitato. Niente come il trattino, posto per essere tolto, o meglio, posto per negazione, ci dice o ci fa vedere che cosa sia l’apeiron. Forse è questa la ragione per cui l’anonimo pittore della Tomba del tuffatore di Paestum ha voluto rimarcare con un impressionante tratto nero la linea di separazione fra terra e cielo. Sulla linea è posto il trampolino di pietra da cui un uomo nudo si tuffa in mare. E sulla linea si trovano anche gli alberi le cui radici affondano nella terra e i cui rami si innalzano verso il cielo, come se la linea non esistesse veramente o esistesse non per separare ma per unificare.
A essere unificato però è qualcosa che non è cosa. Qualcosa che esiste solo negativamente. L’in-finito. Il «non» del finito. Dell’infinito si può dire soltanto che non è né questo né quello (non è questo tuffatore, non è quell’albero). A loro volta di questo e di quello si deve dire che non sono l’infinito. Semmai stanno nell’infinito, precisamente al modo di quel trattino unificante-separante. Transitano dall’infinito all’infinito. C’è dunque uno spazio e un tempo: lo spazio e il tempo della rappresentazione, che vede un uomo tuffarsi nel mare come attraversando la linea fra essere e non essere, vita e morte. Ma anche del tempo e dello spazio si può parlare soltanto per negazione. Il tempo è un istante intemporale: è un’unità di misura, non una quantità smisurata. Lo spazio è una superficie piatta e uniforme: come la luce gettata su di esso.
Nessuna prospettiva, in questo dipinto. Non c’è perché non ci può essere. Come potrebbe, del resto, se esso ignora la realtà dell’infinito, e l’infinito che conosce è irreale, fittizio, in-finito in quanto non-finito? Lo spazio, qui, è quello che è oggettivamente, non quello che si apre sconfinato allo sguardo di qualcuno, e non importa che questo qualcuno sia un mortale o un dio. Unidimensionale è lo spazio, pura superficie illuminata, a significare che il mondo è tutt’uno, perché l’essere è uno, ed è tutt’uno anche con il non essere. A sua volta il tempo è come liberato da sé stesso. Cioè liberato da passato e futuro restituito alla pura misura, all’istante eterno.
Passato e futuro non sono altro che il debito che ogni ente deve pagare all’essere per quel poco o tanto che gli è dato di vivere: per l’appunto «secondo la misura del tempo». Il saldo del debito avviene saltando fuori dal tempo e tuffandosi nel mare dell’essere. Grazie all’infinito. Che non è qualcosa. Semmai è l’arché, è il principio che rende possibile la riunificazione con l’uno-tutto: là dove, pagato il nostro debito con la vita, con l’esistenza, potremo dire di essere e basta, essere l’essere e nient’altro. Non si dimentichi che il dipinto del tuffatore è arte funeraria. Si trova in una tomba. A far da corona altri dipinti che mostrano banchettanti nell’atto di celebrare convivialmente il congedo dalla vita.
Non stupisce quindi che ci sia stato chi, come Giovanni Semerano[4] ha potuto riportare l’apeiron di Anassimandro alla sua radice semitica e vedere in esso non già un’astrazione concettuale bensì qualcosa di molto concreto: la terra di cui siamo impastati e fatti, la polvere a cui torneremo. Certo è che l’infinito anassimandreo, di cui la Tomba del tuffatore offre una magnifica illustrazione, e l’infinito a cui per secoli lavorerà la prospettiva, sia la prospettiva lineare sia la prospettiva rovesciata, stanno agli antipodi. Potremmo dire che sono l’inizio e la fine della storia dell’infinito in pittura. O forse non proprio la fine. Ma piuttosto un nuovo inizio.
Tale è l’infinito fronteggiato dal Viandante. Anch’esso un mare. Non però un mare dove potrebbe venire in mente a qualcuno (e certamente non a lui, il Viandante) di tuffarsi. Anche perché l’infinito che gli si spalanca dinanzi non è l’in-finito, ma è l’infinito. Non è l’infinito negativo e in funzione d’altro, magari in funzione del pagamento di un debito con la vita. È l’infinito che apre un nuovo spazio e un nuovo tempo, dove perfino quello che era sembrato l’orizzonte estremo, inoltrepassabile, e l’inferno e il paradiso, e tutte le cose ultime, vengono prese dentro un vortice. Il Viandante ne ha il presentimento – e forse un brivido lo attraversa fino alla radice dei capelli, dai quali balugina una strana luce dorata, quasi un’aureola.
[1] P. Zellini, Breve storia dell’infinito, Milano, Adelphi, 1980, p. 211.
[2] C. Rovelli, Che cos’è la scienza. La rivoluzione di Anassimandro, Milano, Mondadori, 2014.
[3] Ibidem, p. 74.
[4] G. Semerano, L’infinito: un equivoco millenario, Milano, Bruno Mondadori, 2001.
«Se quelle mele di Cézanne potessero staccarsi dalla tela e cader fuori, il mondo esploderebbe» ha scritto Ernst Bloch, il teorico del pensiero utopico[1]. Gli incerti e fragili confini del mondo, che la nostra mente ipotizza solo perché le riesce difficile se non impossibile pensare l’infinito, non sono in grado di reggere l’onda d’urto proveniente da un punto qualsiasi in cui l’infinito si sia manifestato: e le mele di Cézanne sono uno di quei punti. Ma si può anche rovesciare l’assunto. E sostenere che, nel momento in cui il mondo non ha più confini, come accade quando l’ultimo di essi si rivela penultimo, non c’è punto del mondo che non sia preso dentro il vortice dell’infinito e che non sia a sua volta tutt’uno con l’infinito: tutte le mele di questa terra sono come le mele di Cézanne e attendono il loro Cézanne. E non soltanto Cézanne. Da dove il «bianco su bianco» o il «nero su nero» di Malevič, ossia l’idea che uno sfondo assoluto non voglia altro che l’assoluto, l’infinito? E da dove il «cubismo» di Braque e di Picasso, ossia l’idea che la realtà possa essere colta contemporaneamente in un solo istante da tutti i lati come certificando l’infinito in atto? La sola differenza è che Cézanne è erede della tradizione che risale alla prospettiva lineare, mentre Malevič, ma anche Braque e Picasso, a quella che mette capo alla prospettiva rovesciata. In entrambi i casi in questione è l’infinito.
Nel Viandante sul mare di nebbia Caspar Friedrich fa i conti con l’infinito: e non solo perché la realtà gli è apparsa come infinita, ma perché è persuaso che l’infinito sia reale e non fittizio. L’uomo che vediamo di spalle sta ben saldo sulla sua roccia, ma è come proteso oltre sé stesso. Cioè oltre la finitezza che lui rappresenta. Se il suo sguardo è fisso su un punto che è là fuori, ovunque sia questo punto, non può trattarsi che dell’infinito. L’infinito è ciò di cui il Viandante va in cerca. Ciò che sembra aver trovato; ma che gli si dà sfuggendogli, come cosa inafferrabile e persa in una sua profondità abissale. E se il Viandante in quella profondità si specchiasse? Se l’infinito in cui sprofonda lo sguardo gli restituisse il proprio volto come in uno specchio? Probabilmente non si riconoscerebbe più. Ma potrebbe anche accadere il contrario. Ossia che l’immagine di lui balenante laggiù in fondo gli rivelasse una verità solo sospettata ma incontrovertibile. Una verità come: io sono nell’infinito… io sono l’infinito… senza l’infinito che è in me e fuori di me non sarei qui a specchiarmi in me stesso… Eritis sicut dii gli direbbe una voce che forse è la sua o forse non lo è, ma che viene da quella profondità su cui ha osato affacciarsi. La stessa in cui già si annunciano e premono figure ancora innominate ma che presto troveranno i loro nomi: e sarà il kommende Gott, il dio a venire di Hölderlin e di Schelling, l’Übermensch di Nietzsche, già prefigurati dal Faust goethiano.
Il Viandante possiede ed è posseduto dall’infinito, ma il movimento è comunque dal finito all’infinito, con l’infinito che, appena avvicinato, investe il finito con tutta la sua smisurata potenza, lo elettrizza, lo fa esplodere. Quasi un contatto di forze che stanno fra la materia e l’anti-materia, o se si preferisce fra la materia e lo spirito. Ne risulta lo scioglimento progressivo del finito nell’infinito. Una costante, questa, della pittura di Friedrich. Ma è anche il gesto fondatore, volendo fare altri esempi, della pittura di Turner e di Monet. Pure qui lo spazio pittorico che si apre come per la prima volta e rende possibili quelle sperimentazioni ancora figurative, ma per poco, appare esattamente come lo spazio immenso e trascolorante che aspetta il Wanderer al varco: spazio abitato dall’infinito e come irradiante da dentro l’infinito. In uno spazio del genere ogni immagine, sia che rifletta la realtà sia invece che emerga dalla sua dissoluzione, sorgerà come dal nulla ma con un potenziale espressivo inaudito. Come la pittura successiva dimostrerà, l’immagine – ogni immagine – porta l’infinito dentro di sé. L’immagine torna a essere icona. E benché completamente desacralizzata, si riappropria a suo modo del sacro. Ancora una volta prospettiva lineare e prospettiva rovesciata svelano una complicità nascosta.
Tuttavia la rappresentazione dell’infinito che la prospettiva offre (sia la prospettiva lineare sia quella rovesciata) è pur sempre una rappresentazione finita dell’infinito, ossia una rappresentazione tridimensionale. Ma l’infinito comporta una quarta dimensione. E come può la pittura introdurre questa quarta dimensione, assolutamente non rappresentabile? Eppure ci sarà chi solleverà il problema e di questo problema farà il fulcro della sua pittura: Giorgio de Chirico. Come ha scritto Jole de Sanna in un saggio apparso sui «Quaderni della Fondazione de Chirico», 2004: «L’infinito di de Chirico afferra la coscienza e il suo rovescio aderendo alla logica matematica contemporanea e gioca con la matematica dell’infinito e con la teoria degli insiemi di Cantor»[2]. Proprio come per Cantor, da lui citato, anche per de Chirico l’infinito è un tutto infinito: dunque, è qualcosa di assolutamente paradossale, poiché è una totalità reale che contiene anche ciò da cui la realtà è contenuta e che eccede la realtà stessa. Non è una realtà puramente pensata e di fatto irreale; non è un apeiron pensabile soltanto in negativo, come voleva la logica antica, e non è neppure una x indeterminata e indeterminabile e cioè una funzione ma non una cosa, come voleva la logica rinascimentale e barocca e poi Nietzsche, perché in tutto e per tutto è «un intero matematicamente individuato», è un simulacro dell’essere qual è veramente anche se sfugge alla percezione, è una struttura in atto, è l’attualità del tempo e dello spazio che non hanno limiti e non hanno confini.
Il problema non è come la coscienza possa afferrare l’infinito; il problema è che la coscienza è già da sempre afferrata dall’infinito, infatti è coscienza di ciò che la trascende infinitamente e la rende possibile come coscienza. In altre parole, il problema è come abitare l’infinito, come «viaggiare» in esso – de Chirico definisce Pitagora il primo Wanderer d’Occidente e chiama così i protagonisti del grande viaggio verso la contemporaneità, il che rievoca inevitabilmente il Viandante di Friedrich. Problema tecnico non meno che metafisico. Del resto, come si fa a non chiamare in causa la metafisica là dove in questione è il passaggio da una geometria euclidea e tridimensionale a una geometria post-euclidea e quadridimensionale? Non ha a che fare con la metafisica l’idea stessa di una quarta dimensione, ossia una dimensione che è al di là delle tre dimensioni della fisica? Per de Chirico il problema è la rappresentazione infinita dell’infinito. Vale a dire, una rappresentazione che faccia esplodere la stessa idea di rappresentazione. E comunque una rappresentazione che porti alla luce l’irrappresentabile, una visione che ci faccia vedere l’invisibile, una messa a fuoco della quarta dimensione.
Al fine di creare un ponte fra la fisica e la metafisica, e quindi fra tridimensionalità e quadridimensionalità, de Chirico usa nella sua pittura tutta una serie di accorgimenti atti a rendere possibile il passaggio. Per esempio fa ricorso alla prospettiva albertiana, ma vi sovrappone una prospettiva che non è né lineare né rovesciata, perché è semplicemente un’altra prospettiva, cioè prospettiva che si aggiunge a prospettiva nello stesso dipinto, e che risponde dunque a una logica binaria, con effetto di straniamento per cui le figure e gli sfondi appaiono non soltanto obliqui, sghembi, addirittura distorti, ma come affacciati su un vuoto inquietante e come sospese in un enigma. Lavora incessantemente sui poliedri platonici, combinandoli in modo da ottenere uno sfasamento di piano, che non è più a tre dimensioni ma comprensivo di una quarta: come per esempio nel caso del tetraedro tetradimensionale, che risulta dall’inserimento di due tetraedri tridimensionali uno nell’altro e che contiene cinque vertici. Produce inversioni di movimento che mettono radicalmente in questione e revocano come non era ancora mai avvenuto sia l’irreversibilità temporale sia l’uniformità spaziale.
Per de Chirico l’arte metafisica strappa alla classicità istanti, frammenti, lacerti di vita immortale come dopo l’attraversamento di interi eoni, o a seguito di una catastrofe, e li catapulta al di là di essa. Per farlo, scriverà de Chirico nella Commedia dell’arte moderna, coautrice Isabella Far[3] (e che contiene fra gli altri i saggi Sull’arte metafisica, 1919 e Noi metafisici, 1919), l’arte dovrà affrontare il problema dell’infinito e risolverlo una volta per tutte. Apparso all’orizzonte come una «nuova terra» (e a chi, verrebbe da chiedere, se non al Viandante di Friedrich l’infinito è apparso precisamente così?), l’infinito però non è e non può essere soltanto oggetto di contemplazione, perché l’infinito deve essere accolto all’interno del nostro mondo, che nell’infinito ha il suo principio e la sua fine. In questo senso è necessario «superare la contemplazione dell’infinito», andare oltre di essa, oltrepassarla.
È ciò che secondo de Chirico hanno fatto Schopenhauer e Nietzsche. L’infinito è tutt’uno con la scoperta della irriducibile abissalità del mondo. Vale a dire: la scoperta del fatto che il mondo non ha principio né fine, non ha una ragione ultima cui possano ricondursi le singole ragioni particolari, insomma non ha senso alcuno, se non per me che (dice Schopenhauer) me lo figuro in base a spazio, tempo e causalità, cioè in base a categorie soggettive, o che (dice Nietzsche) me ne approprio investendolo di una volontà, la volontà di potenza, in grado di creare liberamente valori e scopi. Da questo punto di vista l’infinito rimanda in Schopenhauer all’assoluto e in Nietzsche all’eterno. Dire che il mondo esiste per me, ma non in sé, è come dire che il mondo non esiste, non ha nessuna consistenza, nessuna realtà, nessuna verità, perché è un «insondabile abisso» (termine, questo, caro a de Chirico, e affine all’altro che contrassegna la sua poetica, «enigma»). Attinge l’abisso secondo Schopenhauer colui che ha strappato il «velo di Maya» e si è sciolto da tutti i condizionamenti dell’individuazione portandosi di fronte all’assoluto. A sua volta secondo Nietzsche «pensiero abissale» è il pensiero dell’eterno ritorno, perché pensa non a partire dal dover essere, non in rapporto al futuro, alla speranza, alla redenzione, ma a partire dall’essere com’è e in rapporto al tutto. In entrambi i casi l’abissalità del mondo è l’infinito.
Ciò permette di far luce ulteriormente sulla presenza di un’eredità romantica in Schopenhauer e in Nietzsche. Tanto più che proprio il romanticismo ha visto nell’infinito il punto d’arrivo di un viaggio: viaggio della conoscenza, viaggio addirittura iniziatico, in alcuni casi, o essenzialmente estetico, com’è quello del nostro Wanderer. «Io, esule, non ho casa, sono stato gettato via verso l’infinito», scriveva Friedrich Schlegel in una sua lettera a Novalis. Gettato via, sbalzato dal mondo, che evidentemente non è più quello che era, ma forse già non è più, e soprattutto «esule». Verso dove? Verso l’infinito, dice Schlegel. Ma per restarvi, ponendo il problema di come abitare l’infinito, o per tornare, anche se non si saprebbe dire dove, visto che il mondo sembra sparito.
È qui che la questione romantica, in quanto questione dell’infinito, apre in due direzioni opposte. Se l’infinito è da intendersi, sulla scorta delle suggestioni plotiniane cui i romantici guardavano sempre più affascinati, come quella patria celeste che è la vera patria dell’uomo, allora il mondo dovrà essere abbandonato essendo la meta del viaggio al di là di questo mondo. Invece se l’infinito è qui e ora, come sosterranno Schopenhauer e Nietzsche e come i romantici già sospettano, allora non resta che tornare nel mondo, anche se del mondo così com’era non è restato nulla o quasi nulla. Bisogna guardare al mondo come dal suo al di là. Dall’infinito, dunque? Sì, dall’infinito. Anche l’infinito però deve essere lasciato alle spalle o meglio «oltrepassato», dice de Chirico. Deve cioè cessare di essere oggetto di contemplazione e punto d’arrivo per diventare soggetto ispiratore e punto di partenza di un nuovo viaggio.
Un viaggio, questa volta, nel vuoto di senso, e alla riscoperta di un senso ancora possibile: come dopo una catastrofe, di cui è causa ed effetto insieme la desacralizzazione del mondo. Schopenhauer e Nietzsche, scrive de Chirico nella Commedia dell’arte moderna, sono stati i primi a cogliere «il profondo non senso della vita» e a porsi il problema di come tale non senso potesse essere «trasmutato in arte»[4]. Come non vedere qui tutta l’affinità che intercorre fra Schopenhauer e Nietzsche, da una parte, e il Wanderer di Friedrich, dall’altra? Essi hanno compiuto lo stesso cammino. Sono andati incontro all’infinito, lo hanno raggiunto, vi si sono confrontati. Al punto da prospettarselo come interfaccia del mondo, nel cui schermo il mondo lascia intravedere la sua abissale profondità e vertiginosa mancanza di senso ultimo.
Schopenhauer e Nietzsche secondo de Chirico stanno di fronte all’infinito come artisti di fronte alla tela cui si apprestano a metter mano. E qui verrebbe da dire che se in Schopenhauer e in Nietzsche noi riconosciamo alcuni tratti essenziali del Viandante, il Viandante a sua volta viene da loro svelato per quello che è e soprattutto per quello che fa. Che cosa sta facendo infatti il Viandante su quella roccia, sopra quel mare di nebbia, e come di fronte all’infinito, completamente assorto nella sua visione? Molto probabilmente sta meditando su come tradurre in un’immagine l’infinito. Come rappresentare l’irrappresentabile. Come materializzare l’immateriale, l’impalpabile, l’invisibile. Su una tela – e dove se no?
Attenzione, però: il Viandante non è un pittore. Se ne sta lì. In atteggiamento contemplativo. Precisamente l’atteggiamento che secondo de Chirico Schopenhauer e Nietzsche vogliono superare. Infatti vogliono fare un passo in più. Oltrepassare la contemplazione dell’infinito. Passare all’azione. Come, noi lo sappiamo, e lo sa anche de Chirico: Schopenhauer attraverso l’identificazione di arte e ascesi, che è essenzialmente negazione della vita, Nietzsche attraverso l’identificazione di arte e grande stile, che sostanzialmente è affermazione della vita. Sia l’ascesi sia il grande stile comportano la liberazione dell’individuo, del soggetto empirico, dall’asservimento al mondo e alle sue leggi: che si riassumono tutte in una sola, ossia nella legge di causa ed effetto, per cui ogni cosa non è se non in funzione di un’altra, e la totalità di esse una macchina e uno strumento finalizzati a scopi che le avviliscono e mortificano tutte quante. L’artista, che in Schopenhauer è un mistico o un uomo religioso e in Nietzsche un uomo superiore o addirittura un uomo già al di là dell’uomo, opera diversamente, perché non è assoggettato alla legge del mondo.
Secondo de Chirico l’artista schopenhaueriano e nietzschiano non è un soggetto empirico, e perciò non è un uomo di questo mondo, ma è un uomo che in questo mondo è come se vivesse in un mondo totalmente irriducibile a questo. Alla legge di causa ed effetto egli contrappone una legge che in realtà è la soppressione di qualsiasi legge ed è un segreto che solo l’artista conosce: anziché usare e piegare le cose a questo o a quel fine, l’artista sa come coglierle nella loro verità misteriosa, anzi, «metafisica», verità slegata da condizionamenti di sorta, verità libera e liberatrice, verità addirittura coincidente con la negazione di ogni verità. Sa lasciar essere le cose (come avrebbe detto Plotino, e chissà se è a lui che de Chirico pensa mentre tratteggia questa figura d’artista in chiave romantica e al tempo stesso neoplatonica). Tanto che le cose gli si mostrano nella loro quieta, beata e quindi divina «insensatezza». È lo splendore della materia, che di per sé è buia e senza luce. Ed è la riconquista della sua bellezza. Sulla tela di fronte alla quale l’artista è venuto a trovarsi al termine del suo viaggio nel grande vuoto e nell’infinito gli oggetti, dice de Chirico, appaiono dotati d’una singolare nettezza di profilo e d’una stupefacente trasparenza e luminosità. Anziché sfumare e dissolversi in una dimensione dove non c’è più niente di fisso o di certo perché tutto è in continuo divenire, qual è la dimensione dell’infinito, essi presentano tale e tanta limpidità di colore e tale e tanta esattezza di misura da porsi «agli antipodi» di ogni confusione e indistinzione. Sono perfettamente conformi a sé stessi. Insomma, sono quel che sono e nient’altro.
Dice ancora de Chirico: così come quel celebre navigatore comprese di aver scoperto un «nuovo mondo» non dopo aver attraversato l’oceano ed esserselo lasciato alle spalle, ma nel momento in cui un nuovo e perfino più grande oceano gli si parò dinanzi, allo stesso modo gli artisti contemporanei sono esploratori ai quali la terra appare nel momento in cui disperano di poterla raggiungere, essendo senza fine l’oceano, e appare nella prospettiva di un altro oceano al di là di essa. Infinito è l’infinito. Dentro l’infinito non c’è che l’infinito. Oltre l’infinito può esserci solo l’infinito. Nel 1912 de Chirico dipinge La stanchezza dell’infinito[5]. Uno sfinimento, perché dev’essere uno sfinimento attraversare l’infinito, se mai è possibile attraversarlo. Ma già l’anno dopo ne prova nostalgia. Al punto che nel 1913 dipinge La nostalgia dell’infinito[6]. Com’è possibile provare nostalgia per qualcosa che non può essere trovato se non perdendolo e soprattutto perdendosi? Eppure a quei marinai, quando ormai avevano esaurito tutte le loro forze, un nuovo mondo è apparso. Non solo, ma quel nuovo mondo è apparso in una prospettiva di «infinità». Altrimenti, che nuovo mondo sarebbe? In ogni caso, gli artisti contemporanei secondo de Chirico sono come quei marinai: e quella è l’esperienza che sono chiamati a fare nei loro atelier e nel mondo.
Resterebbe da chiedersi se un nuovo mondo, al termine del suo viaggio nell’infinito, sia apparso anche al Wanderer di Friedrich. Che cosa si mostri all’uomo sulla roccia, appoggiato al suo bastone, di fronte e sopra al mare di nebbia, non sappiamo. O meglio, sappiamo che gli si palesa l’infinito, non potendo chiamare altrimenti ciò che per convenzione collochiamo oltre l’ultimo orizzonte. Ma nell’infinito, che cosa vede? Pur sempre qualcosa, o non piuttosto il nulla? Forse dovremmo prestare ascolto al suggerimento che ci viene da Kleist (nel suo apologo Sul teatro delle marionette), il quale osserva che non c’è viaggio nell’infinito che non sia un viaggio dall’infinito verso l’infinito. Lo compie colui che percorre l’intero periplo dell’universo, attraversando tutti i mondi, tutti i tempi e tutti gli spazi, insomma, tutte le esperienze possibili, sì, tutto il bene e tutto il male, tutto il vero e tutto il falso… Appunto, dall’infinito verso l’infinito. Costui è stato scacciato dal paradiso terrestre, o forse da un luogo che credeva fosse il paradiso, e invece era l’inferno. Da lì è iniziato il suo peregrinare. Alla fine del quale viene a trovarsi di fronte alla stessa porta dalla quale era stato scacciato, sia pure dall’altra parte, la parte di dietro. Vi si affaccia. Convinto, dopo tutto quel che ha sperimentato e vissuto, di affacciarsi sull’inferno. Invece è sul paradiso.
[1] E. Bloch, Geist der Utopie, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1973 (rist. della II ed. 1923), p. 46. Cfr. la trad. it. a cura di F. Coppellotti, Spirito dell’utopia, Milano, Rizzoli, 2009.
[2] «Metafisica. Quaderni della Fondazione Giorgio e Isa De Chirico», 3/4, 2004.
[3] Questo saggio sarà raccolto insieme con altri, tra cui Noi metafisici, dello stesso anno, nella Commedia dell’arte moderna, co-autrice Isabella Far, di cui cfr. la ristampa a cura di Jole de Sanna (Milano, Abscondita, 2002).
[4] Ibidem, pp. 18 ss.
[5] Collezione privata, Stati Uniti.
[6] Museum of Modern Art, New York.