La giornata d’uno scrutatore è un romanzo breve il cui protagonista, Amerigo, iscritto al Partito comunista, è incaricato di controllare la correttezza delle procedure elettorali all’interno di un istituto per «incurabili» di Torino nel quale si allestisce un seggio dedicato «ai tanti infelici, ai minorati, ai deficienti, ai deformi, giú giú fino alle creature nascoste che non si permette a nessuno di vedere». È il 1953, in Italia si svolgono le elezioni politiche. È una cosa nota che conventi, istituti psichiatrici, e ospedali, tutti in mano alla chiesa cattolica, costituiscono tradizionalmente una «grande riserva di suffragi per il partito democratico cristiano». In questa sede, il Cottolengo, Amerigo deve assicurarsi che i pazienti siano in grado di votare in modo autonomo in quanto abili mentalmente. La Democrazia cristiana non deve accaparrarsi elettori a partire da presupposti fraudolenti. Amerigo è consapevole che lo attende «una giornata triste e nervosa». Il seggio viene spostato da un reparto all’altro e sistemato intorno a ogni letto. Alle monache, vale a dire al personale infermieristico, è riservato un controllo decisamente benevolo. Ci sono un presidente di seggio e qualche scrutatore di altri partiti.A mano a mano che la squadra guadagna reparti situati ai piani piú alti dell’edificio, le deformità diventano piú vistose fino a quando il seggio mobile non raggiunge creature a stento riconoscibili come umane. Esseri immobilizzati, privi di arti, afasici. Uno di essi presenta delle branchie al posto della bocca e, come molti altri ricoverati del reparto, è in grado di emettere unicamente squittii. Si sta procedendo a sistemargli il paravento intorno al letto. Sarà compito di una monaca premurosa assistere lo sventurato alla votazione per la Democrazia cristiana. Amerigo interviene sollevando la sua prima protesta. Certo, se ne terrà debitamente conto. Il presidente chiede che le operazioni di voto siano sospese.
C’è tuttavia un’altra storia che si sviluppa, in parallelo a questa. Durante la pausa Amerigo ha una conversazione telefonica, la prima di tre, con la sua amante, Lia. Senza dirlo in modo esplicito, Lia gli fa sapere di essere incinta. Lui è furibondo, prima con lei, poi con se stesso, e la tensione tra i due si fa altissima. Si accenna all’ipotesi di un’interruzione di gravidanza, ma non se ne discute a fondo. Quel che sembra in questione è l’amore che Amerigo ha fino a quel punto dichiarato di provare per Lia.
Di ritorno alle proprie incombenze elettorali, le obiezioni sollevate da Amerigo riguardo al voto di quel particolare elettore sono tranquillamente accolte. A sostegno della decisione si racconterà la storia che le condizioni del paziente sono peggiorate dall’ultima volta che ha votato nel corso delle precedenti elezioni. Amerigo tuttavia è confuso. Che cosa cerca di evitare con l’aborto di quel bambino, a che cosa mira impedendo il voto a quella sfortunata creatura? Che differenza può mai fare? Da che cosa nascono le sue incredibili facoltà di negazione? Le responsabilità politiche e domestiche si sovrappongono per misurarsi sullo sfondo piú consueto della frode elettorale. L’integrità personale e quella politica appartengono a due sfere separate? Lessi il romanzo per la prima volta verso la metà degli anni Settanta. A colpirmi fu la sensibilità che traspare nei riguardi dei personaggi e del modo in cui risultano prigionieri delle rispettive differenze. Uscii da quella lettura con la consapevolezza che un romanzo politico non può funzionare senza il legame con una storia personale intensa e convincente.
In occasione dell’uscita presso l’editore Einaudi della Giornata d’uno scrutatore (febbraio 1963), Calvino scrisse il testo di una presentazione del libro, rimasta sostanzialmente inedita, che viene qui pubblicata per la prima volta nella stesura integrale. La domanda iniziale e i primi due capoversi apparvero sul «Corriere della Sera» del 10 marzo 1963 con il titolo Una domanda a Calvino.
Il suo nuovo libro La giornata d’uno scrutatore tratta di un tema contemporaneo, ed è un racconto intessuto di riflessioni che toccano la politica, la filosofia, la religione. Considera questo libro come una svolta rispetto ad altri suoi così diversi, mossi da una immaginazione liberamente fantasiosa, come Il visconte dimezzato, Il barone rampante, Il cavaliere inesistente? E se è una svolta, da che cosa è stata determinata?
Non è una svolta, in quanto il mio lavoro di rappresentazione e commento della realtà contemporanea non è cominciato oggi. La speculazione edilizia è un breve romanzo che ho scritto nel 1957 e che tenta – anch’esso partendo dall’esperienza autobiografica appena deformata – una definizione dei nostri tempi. La nuvola di smog che ho scritto nel 1958 si situa pure su questa linea. Avevo in animo, allora, di fare una specie di ciclo che avrebbe potuto intitolarsi A metà del secolo, insomma di storie degli anni ’50, a segnare un trapasso d’epoca che stiamo ancora vivendo. La giornata d’uno scrutatore era appunto uno dei racconti di questa serie. È all’interno di questa stessa direzione (nella quale credo che continuerò a lavorare ancora parecchio) che si può parlare d’una svolta o meglio di un approfondimento. I temi che tocco con La giornata d’uno scrutatore, quello della infelicità di natura, del dolore, la responsabilità della procreazione, non avevo mai osato sfiorarli prima d’ora. Non dico ora d’aver fatto più che sfiorarli; ma già l’ammettere la loro esistenza, il sapere che si deve tenerne conto, cambia molte cose.
Quanto alle storie avventuroso-fantastiche, non mi pongo il problema se continuare o meno il ciclo, perché ogni storia nasce da una specie di groppo lirico-morale che si forma a poco a poco e matura e s’impone. Si capisce che poi c’è anche la parte del divertimento, del gioco, del meccanismo. Ma questo groppo iniziale è un elemento che bisogna che si formi da sé; le intenzioni e la volontà contano poco. Non che questo valga solo per le storie fantastiche; vale per tutti i nuclei poetici d’ogni opera narrativa, anche realistica, anche autobiografica, ed è ciò che decide, nel mare delle cose che si possono scrivere, quelle che è impossibile non scrivere.
È un racconto non molto lungo, e in cui non succedono molte cose; è tenuto su più che altro dalle riflessioni del protagonista: un cittadino cui durante le elezioni (siamo nel 1953) è toccato il compito di fare lo «scrutatore» in una sezione elettorale che si trova all’interno del «Cottolengo» di Torino. Il racconto segue la sua giornata e s’intitola appunto La giornata d’uno scrutatore. È un racconto ma nello stesso tempo una specie di reportage sulle elezioni al Cottolengo, e di pamphlet contro uno degli aspetti più assurdi della nostra democrazia, e anche di meditazione filosofica su che cosa significa il far votare i deficienti e i paralitici, su quanto in ciò si rifletta la sfida alla storia d’ogni concezione del mondo che tiene la storia per cosa vana; ed anche un’immagine inconsueta dell’Italia, e un incubo del futuro atomico del genere umano; ma, soprattutto, è una meditazione su se stesso del protagonista (un intellettuale comunista), una specie di Pilgrim’s Progress d’uno storicista che vede a un tratto il mondo trasformato in un immenso «Cottolengo» e che vuole salvare le ragioni dell’operare storico insieme ad altre ragioni, appena intuite in quella sua giornata, del fondo segreto della persona umana…
No, per poco che cominci a spiegare e a commentare quello che ho scritto, dico delle banalità… Insomma, tutto quel che mi sentivo di dire è nel racconto, ogni parola in più già comincia a tradirlo. Dirò soltanto che lo scrutatore arriva alla fine della sua giornata in qualche modo diverso da com’era al mattino; e anch’io, per riuscire a scrivere questo racconto, ho dovuto in qualche modo cambiare.
Posso dire che, per scrivere una cosa così breve, ci ho messo dieci anni, più di quanto avessi impiegato per ogni altro mio lavoro. La prima idea di questo racconto mi venne proprio il 7 giugno 1953. Fui al Cottolengo durante le elezioni per una decina di minuti. No, non ero scrutatore, ero candidato del Partito Comunista (candidato per far numero nella lista, naturalmente) e come candidato facevo il giro dei seggi dove i rappresentanti di lista chiedevano l’aiuto del partito per delle contestazioni da risolvere. Così assistetti a una discussione in un seggio elettorale del Cottolengo tra democristiani e comunisti sul tipo di quella che è al centro del mio racconto (anzi, uguale, almeno in alcune battute). E fu lì che mi venne l’idea del racconto, anzi il suo disegno ideale era già allora quasi compiuto come l’ho scritto adesso: la storia d’uno scrutatore comunista che si trova lì, ecc. Provai a scriverlo; ma non ci riuscivo. Al Cottolengo ero stato pochi minuti appena: le immagini che ne avevo riportato erano troppa poca cosa per quelle che ci si aspetta dal tema. (Anche se non volevo né ho voluto poi indulgere a scene d’«effetto»). Sui casi più clamorosi delle varie elezioni al Cottolengo esisteva una vasta documentazione giornalistica; ma mi sarebbe potuta servire solo per una fredda cronaca indiretta. Pensai che avrei potuto scrivere un racconto solo se avessi vissuto veramente l’esperienza dello scrutatore che assiste a tutto lo svolgimento delle elezioni lì dentro. L’occasione di farmi nominare scrutatore al Cottolengo mi si presentò con le amministrative del ’61. Passai al Cottolengo quasi due giorni e fui anche tra gli scrutatori che vanno a raccogliere il voto nelle corsie. Il risultato fu che restai completamente impedito dallo scrivere per molti mesi: le immagini che avevo negli occhi, di infelici senza capacità di intendere né di parlare né di muoversi, per i quali si allestiva la commedia di un voto delegato attraverso al prete o alla monaca, erano così infernali che avrebbero potuto ispirarmi solo un pamphlet violentissimo, un manifesto antidemocristiano, un seguito di anatemi contro un partito il cui potere si sostiene su voti (pochi o tanti, non è qui la questione) ottenuti in questo modo. Insomma: prima ero a corto di immagini, ora avevo immagini troppo forti. Ho dovuto aspettare che si allontanassero, che sbiadissero un poco dalla memoria; e ho dovuto far maturare sempre più le riflessioni, i significati che da esse si irradiano, come un seguito di onde o cerchi concentrici.
I
Amerigo Ormea uscì di casa alle cinque e mezzo del mattino. La giornata si annunciava piovosa. Per raggiungere il seggio elettorale dov’era scrutatore, Amerigo seguiva un percorso di vie strette e arcuate, ricoperte ancora di vecchi selciati, lungo muri di case povere, certo fittamente abitate ma prive, in quell’alba domenicale, di qualsiasi segno di vita. Amerigo, non pratico del quartiere, decifrava i nomi delle vie sulle piastre annerite – nomi forse di dimenticati benefattori – inclinando di lato l’ombrello e alzando il viso allo sgrondare della pioggia.
C’era l’abitudine tra i sostenitori dell’opposizione (Amerigo Ormea era iscritto a un partito di sinistra) di considerare la pioggia il giorno delle elezioni come un buon segno. Era un modo di pensare che continuava dalle prime votazioni del dopoguerra, quando ancora si credeva che, col cattivo tempo, molti elettori dei democristiani – persone poco interessate alla politica o vecchi inabili o abitanti in campagne dalle strade cattive – non avrebbero messo il naso fuor di casa. Ma Amerigo non si faceva di queste illusioni: era ormai il 1953, e con tante elezioni che c’erano state s’era visto che, pioggia o sole, l’organizzazione per far votare tutti funzionava sempre. Figuriamoci stavolta, che si trattava per i partiti del governo di far valere una nuova legge elettorale (la «legge-truffa», l’avevano battezzata gli altri) per cui la coalizione che avesse preso il 50% + 1 dei voti avrebbe avuto i due terzi dei seggi… Amerigo, lui, aveva imparato che in politica i cambiamenti avvengono per vie lunghe e complicate, e non c’è da aspettarseli da un giorno all’altro, come per un giro di fortuna; anche per lui, come per tanti, farsi un’esperienza aveva voluto dire diventare un poco pessimista.
D’altro canto, c’era sempre la morale che bisogna continuare a fare quanto si può, giorno per giorno; nella politica come in tutto il resto della vita, per chi non è un balordo, contano quei due principî lì: non farsi mai troppe illusioni e non smettere di credere che ogni cosa che fai potrà servire. Amerigo non era uno che gli piacesse mettersi avanti: nella professione, all’affermarsi preferiva il conservarsi persona giusta; non era quel che si dice un «politico» né nella vita pubblica né nelle relazioni di lavoro; e – va aggiunto – né nel senso buono né nel senso cattivo della parola. (Perché c’era anche un senso cattivo; o anche un senso buono, secondo come uno la mette; Amerigo comunque lo sapeva.) Era iscritto al partito, questo sì, e per quanto non potesse dirsi un «attivista» perché il suo carattere lo portava verso una vita più raccolta, non si tirava indietro quando c’era da fare qualcosa che sentiva utile e adatto a lui. In Federazione lo consideravano elemento preparato e di buon senso: ora l’avevano fatto scrutatore: un compito modesto, ma necessario e anche d’impegno, soprattutto in quel seggio, all’interno d’un grande istituto religioso. Amerigo aveva accettato di buon grado. Pioveva. Sarebbe rimasto con le scarpe bagnate tutta la giornata.
II
Se si usano dei termini generici come «partito di sinistra», «istituto religioso», non è perché non si vogliano chiamare le cose con il loro nome, ma perché anche dichiarando d’emblée che il partito di Amerigo Ormea era il partito comunista e che il seggio elettorale era situato all’interno del famoso «Cottolengo» di Torino, il passo avanti che si fa sulla via dell’esattezza è più apparente che reale. Alla parola «comunismo» o alla parola «Cottolengo», capita che ognuno, secondo le proprie cognizioni ed esperienze, è portato ad attribuire valori diversi o magari contrastanti, e allora resterebbe da precisare ancora, definire il ruolo di quel partito in quella situazione, nell’Italia di quegli anni, e il modo di Amerigo nello starci dentro, e quanto al «Cottolengo», altrimenti detto «Piccola Casa della Divina Provvidenza» – ammesso che tutti sappiano la funzione di quell’enorme ospizio, di dare asilo, tra i tanti infelici, ai minorati, ai deficienti, ai deformi, giù giù fino alle creature nascoste che non si permette a nessuno di vedere – occorrerebbe definire il suo posto nella pietà dei cittadini, il rispetto che incuteva anche nei più distanti da ogni idea religiosa, e nello stesso tempo il posto tutt’affatto diverso che aveva assunto nelle polemiche in tempo d’elezioni, quasi un sinonimo di truffa, di broglio, di prevaricazione.
Infatti, da quando nel secondo dopoguerra il voto era divenuto obbligatorio, e ospedali ospizi conventi fungevano da grande riserva di suffragi per il partito democratico cristiano, era là soprattutto che ogni volta si davano casi d’idioti portati a votare, o vecchie moribonde, o paralizzati dall’arteriosclerosi, comunque gente priva di capacità d’intendere. Fioriva, su questi casi, un’aneddotica tra burlesca e pietosa: l’elettore che s’era mangiato la scheda, quello che a trovarsi tra le pareti della cabina con in mano quel pezzo di carta s’era creduto alla latrina e aveva fatto i suoi bisogni, o la fila dei deficienti più capaci d’apprendere, che entravano ripetendo in coro il numero della lista e il nome del candidato: «un due tre, Quadrello! un due tre, Quadrello!»
Amerigo queste cose le sapeva già tutte e non ne provava né curiosità né meraviglia; sapeva che una giornata triste e nervosa lo attendeva; cercando sotto la pioggia l’ingresso segnato sulla cartolina del Comune aveva la sensazione d’inoltrarsi al di là delle frontiere del suo mondo.
L’istituto s’estendeva tra quartieri popolosi e poveri, per la superficie d’un intero quartiere, comprendendo un insieme d’asili e ospedali e ospizi e scuole e conventi, quasi una città nella città, cinta da mura e soggetta ad altre regole. I contorni ne erano irregolari, come un corpo ingrossato via via attraverso nuovi lasciti e costruzioni e iniziative: oltre le mura spuntavano tetti d’edifici e pinnacoli di chiese e chiome d’alberi e fumaioli; dove la pubblica via separava un corpo di costruzione dall’altro li collegavano gallerie sopraelevate, come in certi vecchi stabilimenti industriali, cresciuti seguendo intenti di praticità e non di bellezza, e anch’essi come questi, recinti da muri nudi e cancelli. Il ricordo delle fabbriche rifletteva qualcosa di non soltanto esteriore: dovevano esser state le stesse doti pratiche, lo stesso spirito d’iniziativa solitaria dei fondatori delle grandi imprese, ad animare – esprimendosi nel soccorso dei derelitti anziché nella produzione e nel profitto – quel semplice prete che tra il 1832 e il 1842 aveva fondato e organizzato e amministrato in mezzo a difficoltà e incomprensioni questo monumento della carità sulla scala della nascente rivoluzione industriale; e anche per lui il suo nome – quel mite cognome campagnolo – aveva perso ogni connotazione individuale per designare una istituzione famosa nel mondo.
… Nel crudele gergo popolare, poi, quel nome era divenuto, per traslato, epiteto derisorio per dire deficiente, idiota, anche abbreviato, secondo l’uso torinese, alle sue prime sillabe: cutu. Sommava dunque, il nome «Cottolengo», un’immagine di sventura a un’immagine ridicola (come spesso avviene nella risonanza popolare anche ai nomi dei manicomi, delle prigioni), e insieme di provvidenza benefica, e insieme di potenza organizzativa, e adesso poi, con lo sfruttamento elettorale, d’oscurantismo, medioevo, malafede…
Ogni significato si stingeva sull’altro, e addosso ai muri la pioggia infradiciava i manifesti, improvvisamente invecchiati come se la loro aggressività si fosse spenta con l’ultima sera di battaglia dei comizi e degli attacchini, l’altro ieri, e già fossero ridotti a una patina di colla e carta cattiva, che da uno strato all’altro lascia trasparire i simboli degli opposti partiti. Ad Amerigo la complessità delle cose alle volte pareva un sovrapporsi di strati nettamente separabili, come le foglie d’un carciofo, alle volte invece un agglutinamento di significati, una pasta collosa.
Anche nel suo dirsi «comunista» (e nel percorso che, per designazione del suo partito, egli compiva in quest’alba umida come una spugna) non si distingueva fin dove arrivasse un dovere tramandato di generazione in generazione (tra i muri di quegli edifici ecclesiastici Amerigo si vedeva – un po’ ironicamente e un po’ sul serio – nella parte d’un ultimo anonimo erede del razionalismo settecentesco – sia pur solo per un esiguo resto di quell’eredità mai saputa far fruttare – nella città che tenne Giannone in ceppi) e fin dove lo sbocco in un’altra storia, vecchia appena d’un secolo ma già irta d’ostacoli e passi obbligati, l’avanzata del proletariato socialista (allora era attraverso le «contraddizioni interne della borghesia» o l’«autocoscienza della classe in crisi» che la lotta di classe era arrivata a smuovere anche l’ex borghese Amerigo), o meglio la più recente – d’una quarantina d’anni soltanto – incarnazione di quella lotta di classe, dacché il comunismo era diventato potenza internazionale e la rivoluzione s’era fatta disciplina, preparazione a dirigere, trattativa da potenza a potenza anche dove non si aveva il potere (attraeva dunque anche Amerigo questo gioco di cui molte regole parevano fissate e imperscrutabili e oscure ma molte si aveva il senso di partecipare a stabilirle), oppure, all’interno di questa partecipazione al comunismo, era una sfumatura di riserva sulle questioni generali, che spingeva Amerigo a scegliere i compiti di partito più limitati e modesti come riconoscendo in essi i più sicuramente utili, e anche in questi andando sempre preparato al peggio, cercando di serbarsi sereno pur nel suo (altro termine generico) pessimismo (in parte ereditario anche quello, la sospirosa aria di famiglia che contraddistingue gli italiani della minoranza laica, che ogni volta che vince s’accorge d’aver perso), ma sempre in linea subordinata a un ottimismo altrettanto e più forte, l’ottimismo senza il quale non sarebbe stato comunista (allora bisognava dire, prima: un ottimismo ereditario, della minoranza italiana che crede d’aver vinto ogni volta che perde; cioè l’ottimismo e il pessimismo erano, se non la stessa cosa, le due facce della stessa foglia di carciofo), e, nello stesso tempo, al suo opposto, il vecchio scetticismo italiano, il senso del relativo, la facoltà d’adattamento e attesa (cioè il nemico secolare di quella minoranza: e allora tutte le carte tornavano a imbrogliarsi perché chi parte in guerra contro lo scetticismo non può essere scettico sulla sua vittoria, non può rassegnarsi a perdere, altrimenti s’identifica col suo nemico), e sopra a tutto l’aver capito finalmente quel che non ci voleva poi tanto a capire: che questo è solo un angolo dell’immenso mondo e che le cose si decidono, non diciamo altrove perché altrove è dappertutto, ma su una scala più vasta (e anche in questo c’erano ragioni di pessimismo e ragioni d’ottimismo, ma le prime venivano alla mente più spontanee).
III
Per trasformare una stanza in sezione elettorale (stanza che di solito è un’aula di scuola o di tribunale, il camerone d’un refettorio, d’una palestra, o un qualsiasi locale d’un ufficio del Comune) bastano poche suppellettili – quei paraventi di legno piallato, senza vernice, che fanno da cabina; quella cassa di legno pure grezzo che è l’urna; quel materiale (i registri, i pacchi di schede, le matite, le penne a sfera, un bastone di ceralacca, dello spago, delle strisce di carta ingommata) che viene preso in consegna dal presidente al momento della «costituzione del seggio» – e una speciale disposizione dei tavoli che si trovano sul posto. Ambienti insomma nudi, anonimi, coi muri tinti a calce; e oggetti più nudi e anonimi ancora; e questi cittadini, lì al tavolo – presidente, segretario, scrutatori, eventuali «rappresentanti di lista» – prendono anch’essi l’aria impersonale della loro funzione.
Quando incominciano ad arrivare i votanti allora tutto s’anima: è la varietà della vita che entra con loro, tipi caratterizzati uno per uno, gesti troppo impacciati o troppo svelti, voci troppo grosse o troppo fine. Ma c’è un momento, prima, quando quelli del seggio sono soli, e stanno lì a contare le matite, un momento che ci si sente stringere il cuore.
Specialmente là dov’era Amerigo: il locale di questa sezione – una delle tante allestite dentro il «Cottolengo», perché ogni sezione raccoglie circa cinquecento elettori, e in tutto il «Cottolengo» di elettori ce n’è delle migliaia – era in giorni normali un parlatorio per i parenti che vengono a trovare i ricoverati, e aveva torno torno delle panche di legno (Amerigo scacciò dalla mente le facili immagini che il luogo evocava: attese di genitori campagnoli, panieri con qualche frutta, dialoghi tristi) e le finestre, alte, davano su un cortile, irregolare di forma, tra padiglioni e porticati, un po’ da caserma, un po’ da ospedale (delle donne troppo grandi portavano dei carretti, dei bidoni; avevano gonne nere come contadine di tanto tempo fa, scialli neri di lana, cuffie nere, grembiuli azzurri; si muovevano svelte, nella pioggerella che veniva; Amerigo dette appena un’occhiata e si tolse via dalle finestre).
Non voleva lasciarsi prendere dallo squallore dell’ambiente, e per far ciò si concentrava sullo squallore dei loro arnesi elettorali – quella cancelleria, quei cartelli, il libriccino ufficiale del regolamento consultato a ogni dubbio dal presidente, già nervoso prima di cominciare – perché questo era per lui uno squallore ricco, ricco di segni, di significati, magari in contrasto uno con l’altro.
La democrazia si presentava ai cittadini sotto queste spoglie dimesse, grige, disadorne; ad Amerigo a tratti ciò pareva sublime, nell’Italia da sempre ossequiente a ciò che è pompa, fasto, esteriorità, ornamento; gli pareva finalmente la lezione d’una morale onesta e austera; e una perpetua silenziosa rivincita sui fascisti, su coloro che la democrazia avevano creduto di poter disprezzare proprio per questo suo squallore esteriore, per questa sua umile contabilità, ed erano caduti in polvere con tutte le loro frange e i loro fiocchi, mentre essa, col suo scarno cerimoniale di pezzi di carta ripiegati come telegrammi, di matite affidate a dita callose o malferme, continuava la sua strada.
Ecco, lì, attorno a lui, gli altri membri del seggio, persone qualsiasi, per lo più (pareva) reclutate su proposta dell’Azione Cattolica ma qualcuno anche (oltre lui Amerigo) dei partiti comunista e socialista (ancora non li aveva individuati), impegnarsi in un servizio comune, un servizio razionale, laico. Eccoli alle prese coi piccoli problemi pratici: come mettere a verbale i «Votanti iscritti in altre sezioni»; come rifare il conto degli iscritti in base all’elenco arrivato all’ultimo momento dei «Votanti deceduti». Ora eccoli che sciolgono con dei fiammiferi la ceralacca per sigillare l’urna e poi non sanno come tagliare lo spago che avanza e decidono di bruciarlo coi fiammiferi…
In questi gesti, in questo immedesimarsi nelle loro provvisorie funzioni, Amerigo era pronto a riconoscere il vero senso della democrazia, e pensava al paradosso d’essere lì insieme, i credenti nell’ordine divino, nell’autorità che non proviene da questa terra, e i compagni suoi, ben coscienti dell’inganno borghese di tutta la baracca: insomma, due razze di gente che alle regole della democrazia avrebbero dovuto dargli poco affidamento, eppure sicuri gli uni e gli altri d’esserne i più gelosi tutori, d’incarnarne la sostanza stessa.
Due degli scrutatori erano donne: una col golfino arancione, un viso rosso di lentiggini, sui trent’anni, pareva, operaia, o impiegata; l’altra sui cinquanta, con una blusa bianca, un medaglione con un ritratto sul petto, forse una vedova, l’aria di maestra elementare. Chi l’avrebbe detto – pensava Amerigo, ormai deciso a veder tutto nella luce migliore – che da così pochi anni le donne avevano i diritti civili? Sembrava non avessero mai fatto altro, di madre in figlia, che preparare le elezioni. Per di più sono quelle che hanno più buon senso, nelle piccole questioni pratiche, e soccorrono gli uomini, impacciati.
Seguendo questo filo di pensieri, già Amerigo arrivava a sentirsi soddisfatto, come se tutto ormai andasse per il meglio (indipendentemente dalle oscure prospettive delle elezioni, indipendentemente dal fatto che le urne si trovavano dentro un ospizio, dove non avevano potuto né tenersi comizi, né manifesti essere affissi, né vendersi giornali), quasi che la vittoria fosse già questa, nella vecchia lotta tra Stato e Chiesa, la rivincita d’una religione laica di dovere civile, contro…
Contro cosa? Amerigo tornava a guardarsi intorno, come cercando la presenza tangibile d’una forza contraria, d’un’antitesi, ma non trovava più appigli, non riusciva più a contrapporre le cose della sezione all’ambiente che le conteneva: nel quarto d’ora da quando lui era lì, cose e luoghi erano divenuti omogenei, accomunati in un unico anonimo grigiore amministrativo, uguale per le prefetture e le questure come per le grandi opere pie. E come chi, tuffandosi nell’acqua fredda, s’è sforzato di convincersi che il piacere di tuffarsi sta tutto in quell’impressione di gelo, e poi nuotando ritrova dentro di sé il calore e insieme il senso di quanto fredda e ostile è l’acqua, così Amerigo dopo tutte le operazioni mentali per trasformare dentro di sé lo squallore della sezione elettorale in un valore prezioso, era tornato a riconoscere che la prima impressione – di estraneità e freddezza di quell’ambiente – era la giusta.
In quegli anni la generazione d’Amerigo (o meglio quella parte della sua generazione che aveva vissuto in un certo modo gli anni dopo il ’40) aveva scoperto le risorse d’un atteggiamento finora sconosciuto: la nostalgia. Così, nella memoria, egli prese a contrapporre allo scenario che aveva davanti agli occhi il clima che c’era stato in Italia dopo la liberazione, per un paio d’anni di cui ora gli pareva che il ricordo più vivo fosse la partecipazione di tutti alle cose e agli atti della politica, ai problemi di quel momento, gravi ed elementari (erano pensieri d’adesso: allora aveva vissuto quei tempi come un clima naturale, come facevano tutti, godendoselo – dopo tutto quel che c’era stato –, arrabbiandosi contro ciò che non andava, senza pensare che potesse mai essere idealizzato); ricordava l’aspetto della gente d’allora, che pareva tutta quasi egualmente povera, e interessata alle questioni universali più che alle private; ricordava le sedi improvvisate dei partiti, piene di fumo, di rumore di ciclostili, di persone incappottate che facevano a gara nello slancio volontario (e questo era tutto vero, ma soltanto adesso, a distanza di anni, egli poteva cominciare a vederlo, a farsene un’immagine, un mito); pensò che solo quella democrazia appena nata poteva meritare il nome di democrazia; era quello il valore che invano poco fa egli andava cercando nella modestia delle cose e non trovava; perché quell’epoca era ormai finita, e piano piano a invadere il campo era tornata l’ombra grigia dello Stato burocratico, uguale prima durante e dopo il fascismo, la vecchia separazione tra amministratori e amministrati.
La votazione che adesso cominciava avrebbe (Amerigo ne era, ahimè, sicuro) ingrandito ancora quest’ombra, questa separazione, allontanato ancora quei ricordi, facendoli diventare, da corposi e aspri che erano, sempre più eterei e idealizzati. Il parlatorio del «Cottolengo» era dunque lo scenario perfetto per la giornata: non era forse quest’ambiente il risultato d’un processo simile a quello subito dalla democrazia? Alle origini, anche qui doveva esserci stato (in un’epoca in cui la miseria era ancora senza speranza) il calore d’una pietà che pervadeva persone e cose (forse anche ora c’era – Amerigo non voleva escluderlo – in singole persone e ambienti là dentro, separati dal mondo), e doveva aver creato, tra soccorritori e derelitti, l’immagine d’una società diversa, in cui non era l’interesse che contava, ma la vita. (Amerigo, come molti laici di scuola storicista, si faceva un puntiglio di saper comprendere e apprezzare, dal suo punto di vista, momenti e forme della vita religiosa.) Ma adesso questo era un grande ente assistenziale-ospitaliero, dalle attrezzature certamente antiquate, che adempiva bene o male alle sue funzioni, al suo servizio, e per di più era diventato produttivo, in un modo che al tempo in cui era stato fondato nessuno avrebbe potuto immaginare: produceva voti.
Dunque, quello che conta d’ogni cosa è solo il momento in cui comincia, in cui tutte le energie sono tese, in cui non esiste che il futuro? Non viene per ogni organismo il momento in cui subentra la normale amministrazione, il tran-tran? (Anche per il comunismo – non poteva non domandarsi Amerigo – anche per il comunismo sarebbe avvenuto? o stava già avvenendo?) Oppure… oppure quel che conta non sono le istituzioni che invecchiano ma le volontà e i bisogni umani che continuano a rinnovarsi, a ridare verità agli strumenti di cui si servono? Qui, a metter su questa sezione (ora restava solo da attaccare bene in vista – secondo il regolamento – tre manifesti: uno con gli articoli di legge e due con le liste dei candidati), quegli uomini e donne sconosciuti e in parte avversi lavoravano insieme, e una suora, forse una Madre superiora, li aiutava (le chiesero se potevano avere un martello e qualche chiodo), e delle ricoverate col grembiale a quadretti facevano capolino incuriosite, e – Vado io! – disse una ragazza con la testa grossa, superando le compagne, e corse, ridendo, e ritornò coi chiodi, il martello, poi spostò una panca.
A quei suoi gesti eccitati si svelava là nei cortili piovosi tutto un concorso, un’eccitazione per queste elezioni, come un’insolita festa. Cos’era? Cos’era questa cura nell’appendere per bene quei manifesti come bianchi lenzuoli (bianchi, come paiono i manifesti ufficiali, pur con tutto il loro inchiostro nero che nessuno legge), che accomunava un gruppo di cittadini, tutti certo «inseriti nella vita produttiva», e delle monache, delle povere ragazze che del mondo conoscevano solo quello che si vede andando dietro i funerali? Amerigo sentiva ormai in questo concorde affannarsi la nota falsa: in loro del seggio, era l’impegno che si mette durante il servizio militare a risolvere delle difficoltà che ti sono imposte e i cui fini ti rimangono estranei; nelle monache e nelle ricoverate era come se si stessero preparando lì intorno delle trincee, contro un nemico, un assalitore: e questo subbuglio delle elezioni fosse appunto la trincea, la difesa, ma insieme in qualche modo anche il nemico.
Così, quando i componenti del seggio furono al loro posto, in attesa nella sala vuota, e fuori cominciò a muoversi il piccolo gruppo che s’era formato, di persone che volevano sbrigarsi subito a votare, la guardia civica a far entrare i primi, era in tutti loro la certezza di quello che stavano facendo ma anche il presentimento di qualcosa d’assurdo. I primi votanti erano dei vecchietti – ricoverati, o artigiani al servizio dell’istituto, o le due cose insieme –, qualche monaca, un prete, delle donne anziane (già Amerigo pensava che questa poteva essere una sezione elettorale non troppo diversa dalle altre): come se la contestazione che là sotto covava avesse scelto di presentarsi nel suo aspetto più rassicurante (rassicurante per gli altri, che dall’elezione aspettavano la conferma dell’antico; di deprimente normalità per Amerigo), ma nessuno se ne sentisse rassicurato (neanche gli altri), e tutti stessero invece lì ad aspettare che da quei recessi invisibili si manifestasse una presenza, forse una sfida.
E ci fu una pausa nel flusso dei votanti, e si sentì un passo, come un arrancare, anzi un battere d’assi, e tutti quelli del seggio guardarono alla porta. Sulla porta apparve una donnetta, bassa bassa, seduta su uno sgabello; ossia, non propriamente seduta, perché non posava le gambe per terra, né le penzolava, né le teneva ripiegate. Non c’erano, le gambe. Questo sgabello, basso, quadrato, un panchetto, era coperto dalla gonna, e sotto – sotto alla vita, alle anche della donna – non pareva che ci fosse più niente: spuntavano solo le gambe del panchetto, due assi verticali, come le zampe d’un uccello. – Avanti! – disse il presidente del seggio e la donnetta cominciò ad avanzare, ossia spingeva avanti una spalla e un’anca e il panchetto si spostava di sbieco da quella parte, e poi spingeva l’altra spalla e l’altra anca, e il panchetto descriveva un altro quarto di giro di compasso, e così saldata al suo panchetto arrancava per la lunga sala verso il tavolo, protendendo il certificato elettorale.
IV
A tutto ci si abitua, più in fretta di quanto non si creda. Anche a veder votare i ricoverati del «Cottolengo». Dopo un poco, già sembrava la vista più usuale e monotona, per quelli di qua del tavolo: ma di là, nei votanti, continuava a serpeggiare il fermento dell’eccezione, della rottura della norma. Le elezioni in sé non c’entravano: chi ne sapeva nulla? Il pensiero che li occupava pareva essere soprattutto quello dell’insolita prestazione pubblica richiesta a loro, abitatori d’un mondo nascosto, impreparati a recitare una parte di protagonisti sotto l’inflessibile sguardo di estranei, di rappresentanti d’un ordine sconosciuto; soffrendone alcuni, moralmente e nel fisico (avanzavano barelle con malati e arrancavano le grucce di sciancati e paralitici), altri ostentando una specie di fierezza, come d’un riconoscimento finalmente giunto della propria esistenza. C’era dunque in questa finzione di libertà che era stata loro imposta – si domandava Amerigo – un barlume, un presagio di libertà vera? O era solo l’illusione, per un momento e basta, d’esserci, di mostrarsi, d’avere un nome?
Era un’Italia nascosta che sfilava per quella sala, il rovescio di quella che si sfoggia al sole, che cammina le strade e che pretende e che produce e che consuma, era il segreto delle famiglie e dei paesi, era anche (ma non solo) la campagna povera col suo sangue avvilito, i suoi connubi incestuosi nel buio delle stalle, il Piemonte disperato che sempre stringe dappresso il Piemonte efficiente e rigoroso, era anche (ma non solo) la fine delle razze quando nel plasma si tirano le somme di tutti i mali dimenticati d’ignoti predecessori, la lue taciuta come una colpa, l’ubriachezza solo paradiso (ma non solo, ma non solo), era il rischio d’uno sbaglio che la materia di cui è fatta la specie umana corre ogni volta che si riproduce, il rischio (prevedibile del resto in base al calcolo delle probabilità come nei giochi di fortuna) che si moltiplica per il numero delle insidie nuove, i virus, i veleni, le radiazioni dell’uranio… il caso che governa la generazione umana che si dice umana proprio perché avviene a caso…
E che cos’era se non il caso ad aver fatto di lui Amerigo Ormea un cittadino responsabile, un elettore cosciente, partecipe del potere democratico, di qua del tavolo del seggio, e non – di là del tavolo –, per esempio, quell’idiota che veniva avanti ridendo come se giocasse?
Di fronte al presidente del seggio, l’idiota scattò sull’attenti, fece il saluto militare, porse i documenti: carta d’identità, certificato elettorale, tutto in regola.
– Bravo, – fece il presidente.
Quello prese la scheda, la matita, sbatté di nuovo i tacchi, rifece il saluto, marciò sicuro verso la cabina.
– Questi sì che sono elettori come si deve, – disse forte Amerigo, pur rendendosi conto che era una battuta banale e di cattivo gusto.
– Poveretti, – disse la scrutatrice in blusa bianca, e poi: – Mah! Beati loro…
Amerigo, velocemente, pensò al Discorso della Montagna, alle varie interpretazioni dell’espressione «poveri di spirito», a Sparta e a Hitler che sopprimevano gli idioti e i deformi; pensò al concetto d’eguaglianza, secondo la tradizione cristiana e secondo i principî dell’89, poi alle lotte della democrazia durante tutto un secolo per imporre il suffragio universale, agli argomenti che opponeva la polemica reazionaria, pensò alla Chiesa che da ostile era diventata favorevole; e ora al nuovo meccanismo elettorale della «legge-truffa» che avrebbe dato maggior potere al voto di quel povero idiota che al suo.
Ma questo suo implicito considerare il proprio voto come superiore a quello dell’idiota, non era già un riconoscere che la vecchia polemica antiegualitaria aveva la sua parte di ragione?
Altro che «legge-truffa». La trappola era scattata da un pezzo. La Chiesa, dopo un lungo rifiuto, aveva preso in parola l’eguaglianza dei diritti civili di tutti gli uomini, ma al concetto d’uomo come protagonista della Storia aveva sostituito quello di carne d’Adamo misera e infetta e che pur sempre Dio può salvare con la Grazia. L’idiota e il «cittadino cosciente» erano uguali in faccia all’onniscienza e all’eterno, la Storia era restituita nelle mani di Dio, il sogno illuminista messo in scacco quando pareva che vincesse. Lo scrutatore Amerigo Ormea si sentiva un ostaggio catturato dall’esercito nemico.
V
A una divisione del lavoro tra scrutatori si arrivò spontaneamente: uno cercava i nomi sul registro, un altro li depennava su un elenco, un terzo controllava i documenti d’identità, uno indirizzava i votanti a questa o quella cabina, a seconda di quali erano libere. Si formò presto una naturale intesa tra loro, a sbrigare quelle incombenze nella maniera più svelta senza confusione, e anche una certa alleanza nei confronti del presidente, uomo vecchio, lento, timoroso di fare errori, che bisognava gli stessero addosso tutti insieme, a forzarlo mostrandosi decisi ogni volta che stava per perdersi in un bicchier d’acqua.
Ma oltre a questa divisione pratica dei compiti, prendeva forma l’altra, la vera, che li opponeva tra loro. Il primo a scoprirsi fu una delle due donne, quella col golfino arancione, nervosa: cominciò a sollevare obiezioni per via d’una vecchia, uscita dalla cabina sventolando la scheda aperta. – Voto nullo! Ha mostrato il voto!
Il presidente disse che lui non aveva visto niente. – Torni in cabina, pieghi bene la scheda, da brava! – fece alla vecchia; e alla scrutatrice: – Ci vuol pazienza… Ci vuol pazienza…
– La legge è legge, – insisté la scrutatrice, dura.
– Se non c’è cattiva intenzione, – disse uno scrutatore, uno smilzo, occhialuto, – si può chiudere un occhio…
«Gli occhi siamo qui per tenerli aperti», avrebbe potuto intervenire Amerigo, a quel punto, a sostegno della donna col golf arancione, ma sentiva desiderio, invece, di socchiuderli, gli occhi, come se quella processione di ricoverati emanasse un fluido ipnotico, lo facesse prigioniero d’un mondo diverso.
Era, per lui estraneo, una processione uniforme, in maggioranza di donne, tra le quali faticava a distinguere le differenze: c’erano quelle in grembiale a quadri e quelle in nero con cuffia e scialletto, e le monache bianche e nere e grige, e chi abitava al «Cottolengo» e chi pareva arrivasse da fuori apposta per il voto. Per lui, tanto, erano tutte della stessa partita, beghine senza età, che votavano allo stesso modo, e così sia.
(D’improvviso gli venne da pensare a un mondo in cui non ci fosse più la bellezza. Ed era alla bellezza femminile che pensava.)
Queste ragazze con le trecce, magari orfane o trovatelle allevate dall’istituto e destinate a restar lì tutta la vita, a trent’anni hanno ancora l’aria un po’ infantile, non si distingue se perché un po’ attardate di mente o perché sono vissute sempre lì, e si direbbe passino direttamente dall’infanzia alla vecchiezza. Si somigliano come fossero sorelle, ma in mezzo ad ogni gruppo se ne distingue sempre una più brava, che fa la diligente a ogni costo, spiega alle altre come si fa a votare, e per quelle che sono senza documenti va a firmare che le conosce, come è previsto dalla legge.
(Rassegnato a passare tutta la giornata tra quelle creature opache, Amerigo sentiva un bisogno struggente di bellezza, che si concentrava nel pensiero della sua amica Lia. E quello che ora ricordava di Lia era la pelle, il colore, e soprattutto un punto del suo corpo – dove la schiena fa un arco, netto e teso a percorrere con la mano, e poi subito s’alza dolcissima la curva dei fianchi –, un punto in cui ora gli pareva si concentrasse la bellezza del mondo, lontanissima, perduta.)
Una delle «brave» già aveva firmato per altre quattro. Arrivò senza carta d’identità una di quelle tutte in nero che Amerigo non sapeva se erano monache o cosa. – Conosce nessuno? – le chiese il presidente. Quella faceva di no, sbigottita.
(Cos’è questo nostro bisogno di bellezza? si domandava Amerigo. Un carattere acquisito, un riflesso condizionato, una convenzione linguistica? E cos’è, in sé, la bellezza fisica? Un segno, un privilegio, un dato irrazionale della sorte, come – tra costoro – la bruttezza, la deformità, la minorazione? O è un modello via via diverso che noi ci fingiamo, storico più che naturale, una proiezione dei nostri valori di cultura?)
Il presidente insisteva: – Si guardi intorno se c’è qualcuno che conosce, che possa testimoniare.
(Amerigo pensava che invece d’esser lì avrebbe potuto passare la domenica tra le braccia di Lia, e questo suo rimpianto ora non gli pareva in contrasto con il dovere civile che l’aveva portato a fare lo scrutatore: anche far sì che la bellezza del mondo non passi inutilmente – pensava – è Storia, è opera civile…)
La donnetta nera muoveva gli occhi intorno senza raccapezzarsi, e allora saltò fuori la solita «brava» e disse: – La conosco io!
(La Grecia… pensava Amerigo. Ma porre la bellezza troppo in alto nella scala dei valori, non è già il primo passo verso una civiltà disumana, che condannerà i deformi a esser gettati dalla rupe?)
– Ma conosce tutti, quella lì! – si levò la voce acuta della donna in arancione. – Presidente, le domandi un po’ se sa il nome.
(Per pensare alla sua amica Lia ora Amerigo sentiva come di dover chiedere scusa a quel mondo deserto di bellezza che per lui era diventato la realtà, e Lia appariva nel ricordo come non vera, una parvenza. Era tutto il mondo di fuori a diventare parvenza, nebbia, mentre questo, di mondo, questo del «Cottolengo», ora riempiva talmente la sua esperienza che pareva il solo vero.)
La «brava» era già venuta avanti, prendeva la penna per firmare il registro. – Conosce, è vero, Carminati Battistina? – fece il presidente, tutto d’un fiato, e quella, pronta: – Sì, sì, Carminati Battistina, – e firmava.
(Un mondo, il «Cottolengo», – pensava Amerigo, – che potrebbe essere il solo mondo al mondo se l’evoluzione della specie umana avesse reagito diversamente a qualche cataclisma preistorico o a qualche pestilenza… Oggi, chi potrebbe parlare di minorati, di idioti, di deformi, in un mondo interamente deforme?)
– Presidente! Che riconoscimento è? Se gliel’ha detto lei! – s’infuriò la arancione. – Provi un po’ a chiedere alla Carminati se riconosce l’altra…
(… Una via che ancora l’evoluzione potrebbe prendere, rifletteva Amerigo, se è vero che le radiazioni atomiche agiscono sulle cellule che racchiudono i caratteri della specie. E il mondo potrà venir popolato da generazioni d’esseri umani che per noi sarebbero stati mostri, ma che per loro stessi saranno esseri umani nel solo modo in cui si potrà essere umani…)
Il presidente era già smarrito. – Eh, la conosce, lei? Eh, lo sa chi è? – faceva, e non si sapeva più a chi si rivolgesse.
– Non so, non so, – balbettava la nera, spaventata.
– Ma certo che la conosco, era al padiglione Sant’Antonio l’anno scorso, no? – protestava la «brava», torcendo il viso verso la scrutatrice arancione, che rimbeccava: – E allora le faccia dire il suo nome!
(Se il solo mondo al mondo fosse il «Cottolengo», pensava Amerigo, senza un mondo di fuori che, per esercitare la sua carità, lo sovrasta e schiaccia e umilia, forse anche questo mondo potrebbe diventare una società, iniziare una sua storia…)
Lo scrutatore smilzo intervenne anche lui contro quella del golf arancione: – Vivono qui, si vedono tutti i giorni: si conoscono, no?
(Di una diversa possibilità d’essere dell’umanità ci si ricorderebbe come nelle favole, d’un mondo di giganti, un Olimpo… Come capita a noi: che forse siamo, senza rendercene conto, deformi, minorati, rispetto a una diversa possibilità d’essere, dimenticata…)
– Se non si conoscono per nome, non è valido! – insisteva quella in arancione.
(E più la possibilità che il «Cottolengo» fosse l’unico mondo possibile lo sommergeva, più Amerigo si dibatteva per non esserne inghiottito. Il mondo della bellezza svaniva all’orizzonte delle realtà possibili come un miraggio e Amerigo ancora nuotava nuotava verso il miraggio, per riguadagnare questa riva irreale, e davanti a sé vedeva Lia nuotare, il dorso a filo del mare.)
– Certo se a far rispettare la legalità in questo seggio ci sono io sola… – diceva l’arancione, volgendosi intorno con disappunto. Gli altri scrutatori infatti guardavano le loro carte, come occupati a tutt’altro, come cercassero di scostare la questione solo opponendole un atteggiamento distratto, appena appena infastidito, e Amerigo pure, Amerigo che era lì apposta per dare man forte a lei, navigava in pensieri lontani, come in sogno. E nella parte sveglia di sé, rifletteva che, tanto, quelli ci sarebbero riusciti comunque, a far votare senza documenti chi volevano.
Sostenuto dallo scrutatore smilzo, il presidente trovò la forza d’uscire dalla sua incertezza e dire: – Per me il riconoscimento è valido.
– Posso far mettere a verbale che mi oppongo? – disse l’altra, ma l’aver posto la questione come una domanda era già un darsi per sconfitta.
– Non c’è da mettere a verbale proprio niente, – disse lo smilzo.
Amerigo girò dietro il tavolo, passò alle spalle della donna arancione e disse piano: – Calma, compagna, aspettiamo –. La donna lo guardò interrogativa. – Qui non vale la pena d’impuntarsi. Verrà il momento. – Quella s’acquetò. – Dobbiamo sollevare un caso generale.
VI
Per un momento Amerigo fu soddisfatto di se stesso, della sua calma, del suo autocontrollo. La norma costante del suo comportamento avrebbe voluto fosse questa, nella politica come in ogni altra cosa: diffidenza tanto dall’entusiasmo, sinonimo d’ingenuità, quanto dall’astiosità faziosa, sinonimo d’insicurezza, debolezza. Corrispondeva, quest’atteggiamento, a una abitudine tattica del suo partito, prontamente assimilata da lui, perché gli serviva da corazza psicologica, per dominare gli ambienti estranei e ostili.
Però, ripensandoci, questo suo desiderio d’aspettare, di non intervenire, di puntare su un «caso generale», non erano dettati da un suo senso di inutilità, di rinuncia, in fondo di pigrizia? Amerigo si sentiva già troppo scoraggiato per sperare di prendere qualsiasi iniziativa. La sua battaglia legalitaria contro le irregolarità e i brogli non era ancora cominciata e già tutta quella miseria gli era calata addosso come una valanga. Che facessero presto, con tutte le loro barelle e stampelle, che s’affrettassero a compiere questo plebiscito di tutti i vivi e i moribondi e magari anche i morti: non era con le limitate ragioni formali di cui disponeva uno scrutatore che la valanga poteva essere fermata.
Cosa era venuto a fare, al «Cottolengo»? Altro che rispetto della legalità! Bisognava ricominciare da capo, da zero: era il senso primo delle parole e delle istituzioni che andava rimesso in discussione, per stabilire il diritto della persona più indifesa a non essere usata come strumento, come oggetto. E questo, oggi, al punto in cui ci si trovava, al punto in cui le elezioni al «Cottolengo» venivano scambiate per un’espressione di volontà popolare, pareva talmente lontano, da non poter essere invocato che attraverso un’apocalissi generale.
Era nell’estremismo, come giù in un vuoto d’aria, che si sentiva risucchiato. E, con l’estremismo, riusciva a giustificare l’abulia e l’accidia, metteva subito a posto la sua coscienza: se di fronte a un’impostura come questa egli restava fermo e zitto, come paralizzato, era perché in queste cose o tutto o niente, o si faceva tabula rasa o si accettava.
E Amerigo si chiudeva come un riccio, in una opposizione che era più vicina a uno sdegno aristocratico che alla calorosa elementare partigianeria popolare. Tant’è vero che la vicinanza d’altre persone della sua parte, invece di dargli forza, gli comunicava una specie di fastidio, e agli interventi per esempio della scrutatrice arancione era preso da una reazione contraria, quasi avesse paura di assomigliarle. Si buttava allora coi suoi pensieri nella direzione d’un possibilismo tanto agile da permettergli di vedere con gli occhi stessi dell’avversario le cose che dianzi l’avevano sdegnato, per poi ritornare a sperimentare con più freddezza le ragioni della sua critica e tentare un giudizio finalmente sereno. Anche qui agiva in lui – più che uno spirito di tolleranza e adesione verso il prossimo – il bisogno di sentirsi superiore, capace di pensare tutto il pensabile, anche i pensieri degli avversari, capace di comporre la sintesi, di scorgere dovunque i disegni della Storia, come dovrebb’essere prerogativa del vero spirito liberale.
In quegli anni in Italia il partito comunista s’era assunto, tra i molti altri compiti, anche quello d’un ideale, mai esistito, partito liberale. E così il petto d’un singolo comunista poteva albergare due persone insieme: un rivoluzionario intransigente e un liberale olimpico. Più il comunismo mondiale s’era fatto, in quei tempi duri, schematico e senza sfumature nelle sue espressioni ufficiali e collettive, più accadeva che, nel petto di un singolo militante, quel che il comunista perdeva di ricchezza interiore uniformandosi al compatto blocco di ghisa, il liberale acquistasse in sfaccettature e iridescenze.
Forse era segno che la vera natura di Amerigo – e di molti come lui – sarebbe stata, se lasciata a se stessa, quella del liberale, e che solo per un processo – appunto – d’identificazione col diverso egli poteva esser definito un comunista? Domandarselo voleva dire per Amerigo chiedersi cos’era l’essenza d’una identità individuale (se mai esisteva…), al di fuori delle condizioni esterne che la determinavano. Saldare in lui – e in tanti come lui – quei differenti metalli, era «compito della Storia» – egli pensava –, cioè un fuoco al di là di loro (che superava gli individui, con tutte le loro debolezze)…
Quel fuoco che riverberava, sia pur fievole, perfino in quella sezione elettorale, in quanti erano lì presenti al seggio, e a poco a poco si scopriva in ognuno, diverso nel grado d’intensità, di temperatura individuale che mettevano nel rappresentare la loro parte: l’oscillazione di Amerigo, l’impazienza della donna in arancione, (una del partito socialista, come egli apprese appena poterono appartarsi e parlare), il bisogno del giovane democristiano smilzo di credersi (e non era proprio il caso) su un fronte di battaglia insidiato dai nemici, l’apprensivo formalismo del presidente, che gli veniva dalla sua scarsa convinzione nel sistema, e, per la scrutatrice in blusa bianca, (che non perdeva occasione per marcare il suo dissenso dalla collega), un bisogno di sentirsi edificata e protetta dallo scandalo della disobbedienza.
Quanto agli altri del seggio (democristiani tutti anche loro, o giù di lì) parevano preoccupati soltanto di smussare i contrasti: che qua dentro si votava in una sola maniera lo sapevano tutti, no? e allora, perché agitarsi, perché cercare grane? Non c’era che da accettare le cose come stavano, amici o avversari che si fosse.
Anche tra i votanti, variava la considerazione di quel che stavano facendo. Per i più l’atto del voto occupava un posto minimo nella coscienza, era una crocetta da segnare con la matita su di un segno stampato, qualcosa che si doveva fare come era stato loro insegnato con tanta cura, come il modo di comportarsi in chiesa o di tenere in ordine la branda. Privi di dubbi che si potesse far altrimenti che così, concentravano i loro sforzi nell’esecuzione pratica, già di per sé tale – specie per gli invalidi e gli attardati – da impegnarli interamente.
Per altri invece, più emotivi, oppure indottrinati secondo un diverso sistema didattico, la votazione pareva si svolgesse in mezzo a pericoli e inganni; tutto era motivo di diffidenza, d’offesa, di paura. Soprattutto certe monache vestite di bianco: avevano l’ossessione delle schede macchiate. Una entrava in cabina, ci si fermava per cinque minuti, poi usciva senza aver votato. – Ha votato? No? Perché? – La suora protendeva la scheda aperta e intatta e indicava un qualche puntolino più chiaro o più scuro. – È macchiata! – protestava con voce adirata, al presidente. – Me la cambi!
Le schede erano stampate su una carta ordinaria, verdastra, fatta d’una pasta granulosa, piena d’impurità, sbavata d’ombre d’inchiostro tipografico da parte a parte. Ormai si sapeva che ogni volta che veniva a votare una di quelle suore bianche si ripeteva la scena della scheda rifiutata. Non si riusciva a convincerle che si trattava solo di difetti del materiale, che non potevano far invalidare il voto. Più si insisteva più le piccole suore si facevano testarde: una – una vecchia, scura, che veniva d’in Sardegna – addirittura s’infuriò. Certamente avevano avuto su quella storia delle macchie chissà quali raccomandazioni particolari: che stessero attente, nel seggio c’erano i comunisti che macchiavano apposta le schede delle suore, per rendere nulli i loro voti.
Terrorizzate: ecco com’erano, queste monachine bianche. E nel cercare di far loro intendere ragione, il seggio era solidale: anzi erano proprio il presidente e lo scrutatore smilzo che ci s’arrabbiavano di più, a non essere creduti, a sentirsi trattati come nemici infidi. Anch’essi, con Amerigo, si domandavano cosa mai avessero potuto dire, a queste povere donne, per spaventarle così, di quali orrori potevano averle minacciate, descrivendo loro la vittoria comunista incombente, per un solo voto perso. Un bagliore di guerra di religione investiva il seggio per un momento, poi si spegneva in nulla: e il disbrigo delle operazioni riprendeva il suo corso normale, sonnacchioso, burocratico.
VII
Il compito che ora gli toccava, nella divisione del lavoro tra i componenti del seggio, era di controllare i documenti d’identità. Venivano a votare stormi di monache, a centinaia: prima le bianche, poi le nere. Coi documenti, quasi tutte, erano a posto: la carta d’identità rilasciata pochi giorni prima, nuova nuova. Nelle settimane precedenti le elezioni, gli uffici dell’anagrafe dovevano aver lavorato notte e giorno per mettere in regola interi ordini religiosi. E i fotografi pure: sotto gli occhi di Amerigo continuavano a passare fotografie e fotografie formato tessera, tutte ugualmente ripartite di spazi bianchi e neri, l’ogiva del viso incorniciata dalle bianche bende e dal trapezio del pettorale, il tutto inscritto nel triangolo nero del velo. E doveva dir questo: o il fotografo delle monache era un grande fotografo, o sono le monache che in fotografia riescono benissimo.
Non soltanto per l’armonia di quell’illustre motivo figurativo che è l’abito monacale, ma perché i visi venivano fuori naturali, somiglianti, sereni. Amerigo s’accorse che questo controllo dei documenti delle suore diventava per lui una specie di riposo dello spirito.
A pensarci, era strano: nelle fotografie formato tessera, novanta casi su cento, uno viene con gli occhi sbarrati, i lineamenti gonfi, un sorriso che non lega. Almeno, lui era sempre così che riusciva, e adesso, controllando queste carte d’identità, in ogni foto in cui trovava sembianze tese, atteggiate a espressioni innaturali, riconosceva la sua stessa mancanza di libertà di fronte all’occhio di vetro che ti trasforma in oggetto, il suo rapporto privo di distacco verso se stesso, la nevrosi, l’impazienza che prefigura la morte nelle fotografie dei vivi.
Le monache no: posavano di fronte all’obiettivo come se il volto non appartenesse più a loro: e a quel modo riuscivano perfette. Non tutte, si capisce, (Amerigo ora leggeva nelle foto delle suore come un cartomante: riconosceva quelle ancora strette dall’ambizione terrena, quelle mosse dall’invidia, dalle passioni non spente, quelle che lottavano contro se stesse e la loro sorte): bisognava avessero passato come una soglia, dimenticandosi di sé, e allora la fotografia registrava quest’immediatezza e pace interiore e beatitudine. È segno che una beatitudine esiste? si domandava Amerigo, (questi problemi, a lui poco consueti, era portato a connetterli con il buddismo, il Tibet), e, se esiste, allora va perseguita? Va perseguita a scapito d’altre cose, d’altri valori, per essere come loro, le monache?
O come gli idioti completi? Anche quelli, nelle loro carte d’identità fresche di stampa, si mostravano felici e fotogenici. Anche per loro il dare immagine di sé non costituiva problema: voleva dire che il punto cui la vita monacale porta attraverso una via faticosa, loro l’hanno per sorte dalla natura?
Invece, quelli che restano a metà strada, i minorati, i disadatti, i tardi, i nevrotici, quelli per cui la vita è difficoltà e sbigottimento, in fotografia sono uno strazio: con quei colli tesi, quei sorrisi come da lepri, specialmente le donne, quando loro resta una misera speranza di riuscir graziose.
Portavano una monaca in barella. Era una giovane. Stranamente era una bella donna. Tutta vestita come fosse morta, il viso, colorito, appariva composto come nei quadri di chiesa. Amerigo avrebbe voluto non essere attratto a guardarla. La lasciarono in cabina sulla barella, con uno sgabello vicino, che facesse anche lei la sua crocetta. Ad Amerigo, sul tavolo, mentre lei era di là, restava il documento. Guardò la fotografia; ebbe spavento. Era, con gli stessi lineamenti, un viso d’annegata al fondo d’un pozzo, che gridava con gli occhi, trascinata giù nel buio. Capì che tutto in lei era rifiuto e divincolamento: anche il giacere immobile e malata.
È bene avere la beatitudine? O è migliore quest’ansia, questa carica che irrigidisce i volti al lampo del fotografo e non ci fa contenti di come siamo? Pronto sempre a comporre gli estremi, Amerigo avrebbe voluto continuare a scontrarsi con le cose, a battersi, eppure intanto raggiungere dentro di sé la calma al di là di tutto… Non sapeva cosa avrebbe voluto: capiva solo quant’era distante, lui come tutti, dal vivere come va vissuto quello che cercava di vivere.
VIII
Gli abusi che uno scrutatore d’opposizione può utilmente contestare durante le votazioni al «Cottolengo» sono classificabili in un limitato numero di casi. Prendersela perché fanno votare degli idioti, per esempio, non porta a grandi risultati: quando i documenti sono in regola e l’elettore è in grado d’andare in cabina da solo, cosa si può dire? Non c’è che da lasciarlo andare, magari sperando (ma capita di rado) che non gli abbiano insegnato bene, che si sbagli, e aumenti il numero delle schede nulle. (Ora, finita l’infornata delle monache, era il turno d’una schiera di giovinotti somiglianti come fratelli nelle facce storte, vestiti di quello che doveva essere l’abito buono, come se ne vedono in fila per la città nelle domeniche di bel tempo, e la gente se li indica: «Guarda i cutu».) Anche la donna in arancione con loro era quasi incoraggiante.
I casi in cui bisogna stare più all’erta sono quando un certificato medico autorizza la ricoverata semicieca, o il paralitico, o il senza mani, a essere accompagnato in cabina da una persona di fiducia (monaca o prete, al solito) che faccia la crocetta per lui. Con questo sistema, tanti disgraziati incapaci d’intendere e volere, che mai sarebbero stati in grado di votare anche se avessero avuto vista e uso delle mani, sono promossi al rango d’elettori di sicura osservanza.
In quei casi lì un certo margine per le contestazioni del seggio ci rimane quasi sempre; per esempio, un certificato di vista fortemente diminuita: lo scrutatore può subito piantare una grana. – Presidente, ci vede! Può andare a votare da solo! – esclamava l’arancione. – Gli ho sporto la matita e lui ha allungato la mano e l’ha presa!
Era un poveretto dal collo storto e gozzuto. Il prete che l’accompagnava era di corporatura spessa e faccia brusca, con in testa un basco ben calcato, un’aria dura, pratica, un po’ come un camionista; era da un pezzo che si dava da fare a portare elettori avanti e indietro. Mise avanti il palmo della mano, verticale, col foglio schiaffato sopra, e ci batté con l’altra mano: – Certificato medico. Qui c’è che non ci vede.
– Ci vede meglio di me! Ha preso le due schede: s’è accorto che erano due!
– Ne vuol sapere più dell’oculista?
Il presidente, per prender tempo, faceva finta di cadere dalle nuvole. – Cos’è che c’è? Cos’è che c’è? – Bisognava spiegargli tutto da capo.
– Proviamo a farlo andare in cabina da solo, – diceva la donna. Il gozzuto già andava.
– E no! – faceva il prete. – E se sbaglia?
– Già: se sbaglia è perché non sa votare! – ribatteva l’arancione.
– Ma perché si accanisce con un poveretto? Vergogna! – faceva l’altra scrutatrice, quella in bianco, alla collega.
Era il momento in cui interveniva Amerigo. – Si potrebbe provare se veramente la vista…
– Il certificato è valido o no? – faceva il prete.
Il presidente osservava il foglio in lungo e in largo come fosse una banconota. – Eh già! È valido…
– È valido solo se dice la verità, – obiettava Amerigo.
– È vero che non ci vede? – chiese il presidente al gozzuto. Il gozzuto guardava di sotto in su, con quel suo collo storto. Non parlò: si mise a piangere.
– Protesto! Intimoriscono l’elettore! – disse lo scrutatore smilzo.
– Così un poveretto! – disse la scrutatrice anziana. – Si dice non aver compassione!
– Visto che la maggioranza del seggio è d’accordo… – fece il presidente.
– Io mi oppongo! – disse l’arancione.
– Anch’io, – fece Amerigo.
– Cos’è questa storia? – fece il prete, al presidente, brusco, come prendendosela con lui. – Impediscono il voto a un elettore? Presidente, lei non dice niente?
Il presidente decise che era il momento di perdere la pazienza, di fare una sfuriata, la sfuriata più violenta che poteva riuscire a un uomo mite e piagnucoloso quale in fondo egli era: – Ma ma ma ma, – fece, – ma cos’è che ce l’avete tanto su! Ma perché non lo lasciate, il votante, che voti? Ma perché uno gli volete impedire? Sono qui, poverini, che la Piccola Casa della Divina Provvidenza li ha tenuti fin da piccoli! E quando vogliono dimostrare la loro gratitudine, poverini, gli volete impedire! La gratitudine a chi gli ha fatto del bene! Ma non ne avete, sentimento?
– Nessuno vuole impedire la gratitudine, presidente, – disse Amerigo. – Qui stiamo facendo le elezioni politiche. Si tratta di controllare che ognuno sia libero di votare secondo la sua idea. Che c’entra la gratitudine?
– E che idea vuole che ci abbiano più che la gratitudine? Povere creature che nessuno le vuole! Qui hanno chi gli vuol bene, li tiene qui, gli insegna! Ce l’hanno la volontà di votare! Più loro che tutti quelli che son fuori! Perché sanno cos’è la carità!
Amerigo mentalmente ricostruì il loro pensiero, registrò la loro implicita calunnia, («Ecco, vogliono dire che il “Cottolengo” è possibile solo grazie alla religione e alla Chiesa, e i comunisti saprebbero solo distruggerlo, e quindi il voto dei disgraziati è una difesa della carità cristiana…»), se ne adontò e, nello stesso tempo, confutandola con la sua certezza di superiorità («non sanno che solo il nostro è umanesimo totale…») la cancellò come se non fosse mai esistita, tutto nello spazio d’un secondo («… e che noi e solo noi potremo organizzare istituti cento volte più efficienti di questo!»), ma ciò che disse fu: – Scusi, presidente, questa è un’elezione politica, si sceglie tra i candidati dei vari partiti… (– Non si metta a far propaganda nel seggio! – interruppe lo smilzo), – … non è che si voti pro o contro il «Cottolengo»… Quindi, le cose che lei dice, la gratitudine da dimostrare… Gratitudine a chi?
Si levò la voce del prete, che era stato a sentire fin allora col mento sul petto e le pesanti mani poggiate sul tavolo, guardando di traverso, sotto il basco:
– Gratitudine a Dio nostro Signore, e basta.
Nessuno disse più nulla; presero a muoversi in silenzio: l’uomo col gozzo si fece il segno della croce, la scrutatrice anziana assentì chinando il capo, la giovane alzò lo sguardo con sopportazione, il segretario si rimise a scrivere, il presidente a controllare l’elenco, e così ognuno del seggio alle sue incombenze. Rimettendosi al parere della maggioranza, il presidente lasciò che il prete accompagnasse nella cabina il gozzuto; Amerigo e la compagna socialista fecero mettere a verbale il loro disaccordo. Poi Amerigo uscì a fumare.
IX
Era spiovuto. Anche dai cortili desolati si levava un odore di terra e primavera. Qualche rampicante fioriva un muro. Una scolaresca dietro un portico, con in mezzo la monaca, giocava. Si udì un suono lungo, forse un grido, oltre i muri, oltre i tetti: erano gli urli, i mugghi che si raccontava si levassero nel «Cottolengo» giorno e notte dalle corsie degli esseri nascosti? Il suono non si ripeté. Dalla porta d’una cappella si sentiva un coro di donne. Intorno era un andirivieni tra le sezioni elettorali installate un po’ in tutti i padiglioni, in aule al pianterreno o al primo piano. Cartelli bianchi con numeri e frecce nere spiccavano sui pilastri, sotto le vecchie targhe annerite con nomi di santi. Passavano guardie del Comune, con cartelle piene di fogli. I poliziotti oziavano, con l’occhio torpido che non vede niente. Scrutatori d’altri seggi erano usciti, come Amerigo, a fumare una sigaretta e a fissare l’aria del cielo.
«Gratitudine a Dio.» Gratitudine per le sventure? Amerigo cercava di farsi passare il nervoso riflettendo (la teologia gli era poco familiare) a Voltaire, Leopardi, (la polemica contro la bontà della natura e della provvidenza), poi – naturalmente – Kierkegaard, Kafka, (il riconoscimento d’un dio imperscrutabile agli uomini, terribile). Le elezioni, qui, a non starci attenti, diventavano una specie di atto religioso. Per la massa dei votanti, ma anche per lui: l’attenzione dello scrutatore ai possibili brogli finiva per esser catturata da un broglio metafisico. Visti da qui, dal fondo di questa condizione, la politica, il progresso, la storia, forse non erano nemmeno concepibili, (siamo in India), ogni sforzo umano per modificare ciò che è dato, ogni tentativo di non accettare la sorte che tocca nascendo; erano assurdi. (È l’India, è l’India, pensava, con la soddisfazione d’aver trovato la chiave, ma anche il sospetto di star rimuginando dei luoghi comuni.)
Quest’accolta di gente menomata non poteva esser chiamata in causa, nella politica, che per testimoniare contro l’ambizione delle forze umane. Questo voleva dire il prete: qui ogni forma del fare (anche il votare alle elezioni) si modellava sulla preghiera, ogni opera che si compiva qui (il lavoro di quella piccola officina, la scuola di quell’aula, le cure di quell’ospedale), aveva solo il significato di variante dell’unica attitudine possibile: la preghiera, ossia il farsi parte di Dio, ossia (Amerigo azzardava definizioni) l’accettare la pochezza umana, il rimettere la propria negatività nel conto d’una totalità in cui tutte le perdite s’annullano, il consentire a un fine sconosciuto che solo potrebbe giustificare le sventure.
Certo, una volta ammesso che quando si dice «uomo» s’intende l’uomo del «Cottolengo» e non l’uomo dotato di tutte le sue facoltà (ad Amerigo adesso, suo malgrado, le immagini che venivano in mente erano quelle statuarie, forzute, prometeiche, di certe vecchie tessere di partito), l’atteggiamento più pratico diventava l’atteggiamento religioso, cioè lo stabilire un rapporto tra la propria menomazione e un’universale armonia e completezza (significava questo, riconoscere Dio in un uomo inchiodato a una croce?) Dunque progresso, libertà, giustizia erano soltanto idee dei sani (o di chi potrebbe – in altre condizioni – essere sano) cioè idee di privilegiati, cioè idee non universali?
Già il confine tra gli uomini del «Cottolengo» e i sani era incerto: cos’abbiamo noi più di loro? Arti un po’ meglio finiti, un po’ più di proporzione nell’aspetto, capacità di coordinare un po’ meglio le sensazioni in pensieri… poca cosa, rispetto al molto che né noi né loro si riesce a fare e a sapere… poca cosa per la presunzione di costruire noi la nostra storia…
Nel mondo-Cottolengo (nel nostro mondo che potrebbe diventare, o già essere, «Cottolengo») Amerigo non riusciva più a seguire la linea delle sue scelte morali (la morale porta ad agire; ma se l’azione è inutile?) o estetiche (tutte le immagini dell’uomo sono vecchie, pensava camminando tra quelle madonnette di gesso, quei santini; non a caso già i pittori coetanei d’Amerigo a uno a uno s’erano risolti all’astrattismo). Costretto per un giorno della sua vita a tener conto di quanto è estesa quella che vien detta la miseria della natura («E ancora grazie che non mi han fatto vedere che i più in gamba…») sentiva aprirsi sotto ai suoi piedi la vanità del tutto. Era questa, che chiamano una «crisi religiosa»?
«Ecco, uno esce un momento a fumare una sigaretta, – pensò, – e gli prende una crisi religiosa.»
Però, qualcosa in lui faceva resistenza. Cioè: non in lui, nel suo modo di pensare, ma lì intorno, proprio nelle stesse cose e persone del «Cottolengo». Ragazze con le trecce s’affrettavano con ceste di lenzuola (verso – Amerigo pensò – qualche segreta corsia di paralitici o di mostri); camminavano gli idioti in squadre, comandati da uno che pareva appena meno idiota degli altri, (queste famose «famiglie» – si chiese con improvviso interesse sociologico – come sono organizzate?); un angolo del cortile era ingombro di calce e sabbia e impalcature perché sopraelevavano un padiglione (come si amministrano i lasciti? quanta parte va alle spese, agli ampliamenti, agli aumenti del capitale?) Della inutilità del fare, il «Cottolengo» era la prova e insieme la smentita.
Lo storicista, in Amerigo, riprendeva fiato: tutto è storia, il «Cottolengo», queste monache che vanno a cambiare le lenzuola. (Storia magari rimasta ferma in un punto del suo corso, incagliata, stravolta contro se stessa.) Anche questo mondo dei minorati poteva diventare diverso, e lo sarebbe certo diventato, in una società diversa. (Amerigo aveva in mente solo immagini vaghe: istituti di cura luminosi, ultramoderni, sistemi pedagogici modello, ricordi di fotografie su giornali, un’aria fin troppo pulita, vagamente svizzera…)
La vanità del tutto e l’importanza d’ogni cosa fatta da ognuno erano contenute tra le mura dello stesso cortile. Bastava che Amerigo continuasse a farne il giro e sarebbe incappato cento volte nelle stesse domande e risposte. Tanto valeva tornarsene al seggio; la sigaretta era finita; cosa aspettava ancora? «Chi agisce bene nella storia, – provò a concludere, – anche se il mondo è il “Cottolengo”, è nel giusto.» E aggiunse in fretta: «Certo, essere nel giusto è troppo poco».
X
Entrò in cortile un’auto nera e grossa. L’autista col berretto uscì ad aprire. Ne scese un uomo diritto, i capelli grigi, ben rasato. Portava un impermeabile chiaro di quelli con tanti bottoni e passanti, e il bavero mezzo su e mezzo giù. Ci fu un muovere di gente, i poliziotti facevano il saluto.
Lo scrutatore smilzo chiese al presidente sottovoce ehm essendo arrivato l’onorevole candidato del suo partito per favore il permesso d’assentarsi volendo andare un momento è vero a informarlo di come andavano le cose lì.
Il presidente gli rispose sottovoce ehm di aspettare perché siccome i parlamentari è vero hanno il diritto di entrare in tutte le sezioni forse sarebbe passato anche di lì.
Difatti venne. L’onorevole si muoveva nel «Cottolengo» con confidenza e fretta ed efficienza ed euforia. S’informò della percentuale dei votanti, rivolse qualche parola di bonario scherzo agli elettori che aspettavano in fila, come fosse in visita alle colonie marine. Lo scrutatore smilzo andò a dirgli qualcosa: probabilmente che c’era dell’ostruzionismo comunista, e come comportarsi con quelli che volevano fare un verbale ogni momento. Il deputato stette a sentirlo appena, perché di quel che succedeva là dentro voleva sapere lo stretto indispensabile, e senza troppo soffermarcisi. Fece un gesto vago, rotatorio, come dire che tanto la macchina girava, girava bene, voti ce n’erano a milioni, e in quei casi un po’ spinosi, se la va subito va bene, altrimenti: via, presto, sorvolare!
Poi di punto in bianco, s’informò di qualcuno, chiese a destra e a manca: – Dov’è la reverenda Madre? Dov’è? – e uscì, tornò in cortile. La Madre, avvertita, già veniva; lui le andò incontro, e le parlò da vecchio amico e come dandole rimproveri scherzosi.
Volle continuare il giro delle Sezioni accompagnato dalla Madre. Un piccolo codazzo gli teneva dietro, in gran parte rappresentanti di lista dei vari seggi (ogni tanto uno si faceva avanti a raccontargli qualche grana) e ragazzi del servizio di staffette del partito (sempre in andirivieni con le liste degli elettori trasferiti in altri istituti ma ancora iscritti a votare lì, o comunque persone di cui bisognava organizzare il trasporto) e l’onorevole dava brevi ordini, sguinzagliava le staffette, gli autisti, rispondeva a tutti prendendoli per il braccio, sul gomito, per incoraggiamento ma anche per spingerli via subito.
A un certo punto le macchine del trasporto elettori erano tutte partite a raccogliere gente. Qualche staffetta oziava, aspettando di fare un altro viaggio; all’onorevole non piaceva vedere gente ferma e li mandò via con la sua macchina. Così, avendo spedito ciascuno a un’incombenza, il suo codazzo s’era diradato. L’onorevole si trovò solo, nel cortile, e doveva aspettare che la sua macchina tornasse. Il sole occupava metà del cielo; ma ancora, a sprazzi, dalle nuvole cadeva qualche goccia. L’onorevole ebbe quel momento di solitudine che provano i re e i potenti quando hanno finito di dar ordini e vedono il mondo che gira da solo. Gettò intorno un’occhiata fredda, ostile.
Amerigo lo guardava d’attraverso una finestra. E pensò: «A quello lì il Cottolengo non gli sfiora nemmeno la falda dell’impermeabile». (Era il pessimismo cattolico sulla natura umana che si poteva riconoscere sotto l’aria spregiudicata del parlamentare, ma ad Amerigo ora piaceva vederla come un lucido cinismo.) E pensò anche: «È un uomo che ama la tavola, che fuma col bocchino di ciliegio. Forse ha un cane e va a caccia. Certo gli piacciono le donne. Forse è stato a letto ieri sera con una donna che non è sua moglie». (Magari era solo l’indulgenza cattolica verso la propria grigia coscienza di buon padre di famiglia borghese che dava al deputato quella parvenza gioviale, ma ad Amerigo ora piaceva vederla come spirito pagano, epicureo.) E tutt’a un tratto l’avversione si trasformò in solidarietà: non erano forse, loro due, più simili che chiunque altro là dentro? Non appartenevano alla stessa famiglia, alla stessa parte, la parte dei valori terreni, della politica, della pratica, del potere? Non stavano tutti e due insieme dissacrando il feticcio del «Cottolengo», l’uno usandolo come una macchina elettorale e l’altro cercando di smascherarlo in questa sua funzione?
Guardando dalla finestra, s’accorse che a un altro davanzale, apparivano due occhi dietro il vetro, una testa che non riusciva a sporgere più in su del naso, una grossa scatola cranica coperta di peluria: un nano. Gli occhi del nano erano fissi sull’onorevole, e contro il vetro della finestra s’alzarono delle dita corte corte, la grinzosa palma d’una piccola mano, che batté contro il vetro, batté due volte, come per chiamarlo. Cosa aveva da comunicargli? si domandò Amerigo. Cosa pensava, il nano, di quell’autorevole personaggio? Cosa pensava – si disse – di noi, di tutti noi?
L’onorevole si voltò, il suo sguardo girò sulla finestra, si fermò appena sul nano, poi passò via, distante. Amerigo pensò: «Si è accorto che è uno che non può votare». E pensò: «Non lo vede nemmeno, non lo degna d’uno sguardo». E pensò anche: «Ecco, io e l’onorevole siamo da una parte, e il nano dall’altra», e se ne sentì rassicurato.
Il nano batté ancora la manina sulla finestra, ma l’onorevole ormai non si voltava. Certo il nano non aveva nulla da dire all’onorevole, i suoi occhi erano solo occhi, senza pensieri dietro, eppure si sarebbe detto che volesse fargli arrivare una comunicazione, dal suo mondo senza parole, che volesse stabilire un rapporto, dal suo mondo senza rapporti. Qual è il giudizio, si domandava Amerigo, che un mondo escluso dal giudizio dà di noi?
Il senso della vanità della storia umana che l’aveva colto poco prima in cortile, lo riprese: il regno del nano soverchiava il regno dell’onorevole, e Amerigo adesso si sentiva tutto dalla parte del nano, s’identificava con quello che il «Cottolengo» testimoniava contro l’onorevole, contro l’intruso, il solo vero nemico infiltratosi là dentro.
Ma gli occhi del nano si posavano con uguale assenza di partecipazione su tutto quel che nel cortile si muoveva, onorevole compreso. Il negare valore ai poteri umani implica l’accettazione (ossia la scelta) del potere peggiore: il regno del nano, dimostrata la sua superiorità sul regno dell’onorevole, lo annetteva, lo faceva proprio. Ecco che il nano e l’onorevole confermavano d’essere dalla stessa parte, e Amerigo adesso non poteva starci, era fuori…
Tornò la macchina nera e sbarcò un carico di tremanti beghine. Con gran sollievo l’onorevole si cacciò dentro, abbassò il vetro per dare gli ultimi incitamenti, e partì.
XI
A metà della giornata il flusso dei votanti diradò. Nel seggio ci si mise d’accordo per dei turni d’uscita, così qualcuno degli scrutatori che non abitavano lontano poteva fare un salto a casa e mangiare un boccone. Ad Amerigo toccò per primo.
Abitava solo, in un piccolo appartamento; una donna a ore gli faceva i servizi e un poco di cucina. – La signorina ha telefonato già due volte, – gli disse. E lui: – Ho fretta, mi dia subito da mangiare –. Ma più che mangiare voleva due cose: fare una doccia e stare un momento seduto con un libro aperto davanti agli occhi. Fece la doccia, si rivestì, anzi si cambiò, mise una camicia pulita. Poi avvicinò la poltrona alla libreria e si mise a cercare nei ripiani più bassi.
La sua biblioteca era ristretta. Col passar degli anni, s’accorgeva che era meglio concentrarsi su pochi libri. In gioventù era stato di letture disordinate, mai sazio. Ora la maturità lo portava a riflettere ed a evitare il superfluo. Il contrario che con le donne: la maturità gli portava insofferenza, una giostra di storie brevi e balorde che ogni volta si vedeva già che non andava. Era uno di quegli scapoli che per abitudine gli piace far l’amore il pomeriggio, e di notte dormir solo.
Il pensiero di Lia, che per tutta la mattina, finché era un ricordo irraggiungibile, gli era stato necessario, ora l’infastidiva. Avrebbe dovuto telefonarle, ma parlare con lei in quel momento gli avrebbe mandato all’aria la rete di pensieri che stava lentamente tessendo. Comunque, Lia non avrebbe tardato a richiamare, e Amerigo voleva, prima di sentire la sua voce, essere entrato in una lettura che accompagnasse e incanalasse le sue riflessioni, in modo da poterne riprendere il filo dopo la telefonata.
Ma non sapeva trovare un libro che facesse al caso suo, tra quelli che aveva lì: classici, un po’ a caso, e di moderni soprattutto filosofi, qualche poeta, e libri di cultura. Da tempo cercava d’allontanare da sé la letteratura, quasi vergognandosi della vanità d’aver voluto essere, in gioventù, scrittore. Era stato svelto a capire l’errore che c’è sotto: la pretesa d’una sopravvivenza individuale, senz’aver fatto nient’altro per meritarla che mettere in salvo un’immagine – vera o falsa – di sé. La letteratura delle persone gli pareva una distesa di lapidi di cimitero: quella dei vivi e quella dei morti. Ormai nei libri cercava altro: la sapienza delle epoche o semplicemente qualcosa che servisse a capire qualcosa. Ma siccome era abituato a ragionare per immagini continuava a scegliere nei libri dei pensatori il nocciolo immaginoso, cioè a scambiarli per poeti, oppure a cavar fuori la scienza o la filosofia o la storia ragionando di come Abramo va per sacrificare Isacco, e come Edipo s’accieca, e Re Lear nella bufera perde il senno.
Qui non era però il caso d’aprire la Bibbia: sapeva già il gioco che si sarebbe messo a fare, col libro di Giobbe, identificando quelli del seggio, presidente, prete, nei personaggi che vengono attorno all’afflitto a persuaderlo sul modo di trattare con l’eterno.
Piuttosto, tanto per tenersi a quei testi che appena a sfogliarli trovi sempre qualcosa che ti prende, il comunista Amerigo Ormea cercò in Marx. E vide, nei Manoscritti giovanili, un passo che fa:
… L’universalità dell’uomo appare praticamente proprio in quella universalità che fa dell’intera natura il corpo inorganico dell’uomo, sia perché essa 1) è un mezzo immediato di sussistenza, sia perché 2) è la materia, l’oggetto e lo strumento della sua attività vitale. La natura è il corpo inorganico dell’uomo, precisamente in quanto non è essa stessa corpo umano. Che l’uomo viva della natura vuol dire che la natura è il suo corpo, con cui deve stare in costante progresso per non morire…
Velocemente, si convinse che poteva significare anche questo: una volta fuori dalla società che fa diventare gli uomini cose, la totalità delle cose – natura e industria – diventa umana, e anche l’uomo menomato, l’uomo-Cottolengo (ossia, nella peggiore delle ipotesi, l’uomo) è reintegrato nei diritti del genere umano in quanto usufruisce di questo corpo totale, di questo prolungamento del suo corpo: la ricchezza di tutto ciò che esiste (anche la «natura inorganica spirituale» – si leggeva più sopra, forse per un residuo di hegelismo – cioè pensata, come scienza e arte) finalmente divenuta nel suo insieme oggetto della coscienza e della vita umane. Vorrà dire che il «comunismo» (Amerigo cercava di dare alla parola un suono come se fosse la prima volta che veniva pronunciata, perché tornasse possibile pensare, sotto la scorza del nome, a questo sogno d’una morte e resurrezione della natura, il tesoro dell’utopia sepolto sotto le fondamenta della dottrina «scientifica»), vorrà dire che il comunismo ridarà le gambe agli zoppi, la vista ai ciechi? Cioè lo zoppo avrà a disposizione tante e tante gambe per correre che non s’accorgerà se gliene manca una delle sue? Cioè il cieco avrà tante e tante antenne per conoscere il mondo che si dimenticherà di non avere gli occhi?
Suonò il telefono. Lia chiedeva: – Ma di’, dove sei stato tutta la mattina?
Amerigo non le aveva spiegato niente, né aveva intenzione di farlo. Non per un qualche motivo particolare, ma perché con Lia c’erano cose di cui parlava, e cose di cui non parlava affatto: e questa era delle seconde. – Be’, lo sai, oggi c’è tutte ’ste elezioni, no? – si limitò a dire.
– Le elezioni è una cosa che dura due minuti. Uno va e vota. Anch’io ci sono andata.
(Per chi potesse votare la ragazza, era un problema che Amerigo non si poneva nemmeno, domandarlo gli sarebbe costato uno sforzo, era mescolare un tipo di problemi – i suoi rapporti con lei – a un altro – i suoi rapporti con la politica. Però gliene restava una specie di cattiva coscienza, sia verso il partito – il dovere d’ogni comunista sarebbe stato di fare «propaganda capillare» e lui neanche con la sua amica, era buono! – sia verso di lei – perché non parlava mai con lei delle cose che per lui erano più importanti?)
– Be’, io avevo da fare delle cose. Sono uno di quelli che stanno lì nei seggi, – disse, provando un gran fastidio.
– Ah. Era perché volevo combinare per questo pomeriggio.
– Niente. Devo tornare lì.
– Di nuovo?
– Ormai sono impegnato, – e volle aggiungere: – Sai, il partito…
(Lia, al fatto che Amerigo fosse nei comunisti, non badava più che se tenesse per una squadra di foot-ball o per un’altra. Era giusto?)
– Perché non ti metti d’accordo con un altro che stia lui?
– Ti dico: è una cosa che quando uno ci s’è messo, deve starci fino alla fine, per legge.
– Bravo furbo.
– Eh.
Il nervoso che era buona a mettergli, questa ragazza.
– Era l’ultimo giorno della tua settimana. Ma sì, lo sai, te l’avevo già detto, la settimana dell’oroscopo!
– Lia, adesso, l’oroscopo…
– «Settimana decisiva per la vita amorosa, altrimenti sfavorevole ad altre iniziative.»
– L’oroscopo di quel settimanale!
– È il più sicuro di tutti, non sbaglia mai.
Cominciò una discussione delle solite, causate dal fatto che Amerigo, invece di dirle: «Gli oroscopi, tutte balle!» come gli sarebbe venuto naturale, s’impelagava – per la sua abitudine a guardare le cose dal punto di vista dell’avversario e la sua riluttanza a esprimere concetti ovvi – in un’analisi tecnica dell’astrologia, cercando di dimostrarle che, appunto per chi credeva negli influssi degli astri, era impossibile dare affidamento agli oroscopi dei giornali.
– Sta’ a sentire, l’ora della nascita non è contraddistinta solamente dalla posizione del Sole ma…
– Ma che me ne importa? Su me e su te quegli oroscopi lì indovinano sempre!
– Irrazionale, Lia, sei sempre irrazionale, – s’arrabbiava Amerigo, – i pianeti, basta un po’ di logica, Plutone, per esempio, secondo dov’è ospite…
– Io mi baso sull’esperienza, non su chiacchiere, – tempestava Lia. Insomma, non ci si capiva più.
Dopo la telefonata, Amerigo si sedette a tavola, cominciò a mangiare, col libro aperto davanti, e intanto cercava di riprendere il pensiero interrotto. Era arrivato a un punto, a uno spiraglio sottile come il forellino d’uno spillo, da cui poteva vedere un mondo umano di così diversa struttura che anche le ingiustizie della natura vi perdevano peso, diventavano trascurabili, e finiva quella lotta a soverchiarsi reciprocamente che c’è nella carità, tra chi la esercita e chi la richiede… Niente, non lo ritrovava più, era inutile, aveva perso il filo, sempre così con quella ragazza! Si sarebbe detto che bastava il suono della sua voce ad alterare tutte le proporzioni intorno, per cui la cosa che gli capitava di discutere con Lia (una cosa qualsiasi, una stupidaggine, gli oroscopi, il colonnello Townsend, il vitto migliore per chi soffre di colite) diventava d’un’importanza divorante, e lui era inghiottito anima e corpo in un litigio che continuava poi sotto forma di soliloquio, di farneticazione interiore, e l’accompagnava per tutta la giornata.
S’accorse che non aveva neanche più appetito.
«Irrazionale, ecco com’è, questa ragazza! – si ripeteva, arrabbiandocisi, ma nello stesso tempo sicuro che Lia non potesse essere che così, e se non fosse stata così sarebbe come se non ci fosse. – Irrazionale, prelogica!» e provava un doppio piacere, a riproporsi la sofferenza che gli dava il modo di pensare di Lia, e a esercitare crudelmente su di esso l’aggressione della logica più elementare. «Prelogica! Prelogica!»: nel suo litigio immaginario continuava a gettare questa parola sul viso di Lia, e adesso rimpiangeva di non avergliela detta, «Prelogica! Sai come sei? Prelogica!», e avrebbe voluto che lei capisse subito quel che voleva dire, anzi no: che non capisse e lui avesse modo di spiegarle diffusamente cosa voleva dirle con: «Prelogica!», e lei se ne offendesse e così lui potesse, continuando a dirle: «Prelogica!», spiegarle chiaramente come non avesse nessuna ragione di sentirsene offesa, anzi, «Prelogica!» fosse ben detto per lei proprio perché a sentirsi dire: «Prelogica!» si offendeva come se «Prelogica!» fosse un’offesa e invece.
Buttò il tovagliolo, s’alzò da tavola, s’attaccò al telefono, la richiamò. Aveva bisogno di ricominciare a litigare e di dirle: «Prelogica!», ma Lia prima ancora che lui avesse detto: «Pronto», fece, a bassa voce: – Sss… Taci…
Una musica veniva su attutita dal fondo del telefono. Amerigo aveva già perso ogni sicurezza. – Be’… cos’è…?
– Sss… – faceva Lia, come se non volesse perdere una nota.
– Che disco è? – chiese Amerigo, tanto per dir qualcosa.
– La-la-lan… Come, non senti? Ma se te ne ho anche regalato uno?
– Ah già… – fece Amerigo; non gliene importava niente. – Di’, volevo dirti…
– Taci, – sussurrava Lia, – devi sentirlo fino in fondo…
– Sì, adesso sto al telefono a sentire i dischi! Per quello, posso sentirne uno dei miei senza alzarmi da tavola!
Ci fu un silenzio al di là del filo; anche il fiotto di musica si era interrotto. Poi Lia disse lentamente: – … Ah. I tuoi dischi?
Amerigo si rese conto d’aver detto l’ultima cosa che doveva mai dire. Cercò di riparare, velocemente: – I miei, cioè i tuoi, quelli che mi hai regalato…
Ma era troppo tardi. – Oh, lo so, chi te li ha regalati non importa…
Era una vecchia polemica, insopportabile per Amerigo. Lui aveva certi dischi, va bene?, non gliene importava niente, ma una volta, chissà perché, aveva detto a Lia che non si stancava mai di sentirli; fin qui niente di male; ma quando poi Lia aveva appreso, da una sua distratta affermazione, che quei dischi glieli aveva regalati una certa Maria Pia, ci aveva ricamato su in una maniera così antipatica che non si riusciva più a parlarne senza litigare. Poi gli aveva regalato degli altri dischi; e voleva che buttasse via i vecchi. Amerigo aveva detto di no, per principio: non gli importava niente dei dischi né di quella Maria Pia, acqua passata, ma non ammetteva di collegare dei fatti oggettivi come la musica d’un disco a dei fatti soggettivi come il sentimento per chi aveva regalato il disco, non ammetteva di dover rendere conto, non ammetteva di dover spiegare perché non ammetteva, insomma: una storia insopportabile, e adesso ci s’era impelagato ancora una volta.
Aveva fretta, ma non poteva tagliar corto senza peggiorare le cose. Tanto più che stavolta, tra lei che fingeva di dire le cose che diceva lui: – Oh, capisco, una musica è una musica, cosa c’entra il ricordo della persona… – e lui che cercava di dire le cose che dovevano piacere a lei: – Ma io sento i dischi che mi piacciono di più, cioè quelli che hai scelto tu, no? – non si capiva più se il litigio ci fosse o non ci fosse.
E Lia a un certo punto rimise il disco, e insieme accennavano al motivo, e a un certo punto Amerigo, a parte, cioè alla domestica che chiedeva se poteva portare via i piatti, disse: – Un momento, devo finire la minestra! – e Lia allora ridendo: – Ma sei matto, non hai ancora finito di mangiare? – e così si salutarono e non c’era dubbio che s’erano rappacificati.
Il pensiero che occupava Amerigo alla pietanza era questo: che dell’amore l’unico che aveva capito qualcosa era Hegel. Si alzò tre volte prima di finire il piatto per cercare dei libri; ma testi di Hegel in casa non ce ne aveva; solo qualche libro su Hegel o con capitoli su Hegel, e per quanto li scartabellasse tra un boccone e l’altro, – il Desiderio del Desiderio, l’Altro, il Riconoscimento, – non trovava il punto.
Suonò il telefono. Era di nuovo Lia. Senti, ho da parlarti. Avevo deciso di non dirti ancora niente invece te lo dico. No, non al telefono, è una cosa che non si può dire al telefono. Veramente non sono ancora sicura, te ne parlerò quando sarò sicura, no: è meglio che ti dica già adesso. Una cosa importante, ho paura di sì, (parlavano a frasi mozzicate, lei perché non sapeva decidersi, lui perché di là c’era la domestica – a un certo momento andò a chiudere la porta della cucina – e anche perché aveva paura di capire), è inutile che ti arrabbi caro mio, se ti arrabbi hai capito, mah, sicura al cento per cento non sono, però… Insomma, voleva dirgli che era incinta.
C’era una sedia vicino al telefono. Amerigo si sedette. Non diceva niente, tanto che Lia fece: – Pronto? Pronto? – credendo che si fosse interrotta la linea.
Amerigo in questi casi avrebbe voluto restar calmo, padrone della situazione – non era più un ragazzo! –, costituire una presenza tranquillizzante, serena, protettiva, e nello stesso tempo fredda, lucida, di chi sa tutto quel che deve fare. Invece perdeva subito la testa. Gli si stringeva la gola, non sapeva parlare con calma, né riflettere prima di parlare, – Ma no, ma sei matta, ma come può… – e subito era in preda all’ira, un’ira precipitosa che era come voler ricacciare indietro, nel non essere, l’eventualità che s’affacciava, il pensiero che non permetteva altro pensiero, l’obbligo di far qualcosa, di prendere delle responsabilità, di decidere sulla vita altrui e sulla propria. Si buttava a parlare, a inveire: – Ma me lo dici così, ma sei incosciente, ma come puoi restare così tranquilla… – tanto da provocare la reazione di lei, indignata, ferita: – Incosciente sei tu! Anzi: incosciente io a parlartene! Dovevo dirti niente, sbrigarmela da me, non vederti più!
Amerigo sapeva bene che dava dell’«incosciente» a lei volendo darlo a se stesso, era solo con se stesso che ce l’aveva, ma in quel momento il rammarico e il senso di colpa si traducevano in un’avversione per la donna nei guai, per quel rischio che poteva trasformare in una presenza irrevocabile, in un futuro senza fine quello che ora gli pareva un incontro già durato abbastanza, finito, relegato nel passato.
Nello stesso tempo non smetteva in lui il rimorso d’essere così egoista, d’avere una parte così comoda in confronto a quella di lei, e il coraggio della ragazza gli pareva grandissimo, sublime, e in lui ora l’ammirazione per questo coraggio, l’affetto per quest’incertezza di lei, così legata alla sua, e la sicurezza d’essere in fondo migliore di come quelle prime reazioni affannose l’avevano rivelato, di poter fare appello a una riserva di maturo equilibrio e responsabilità, lo spingevano a prendere un atteggiamento tutto diverso, anche qui con una fretta precipitosa, a dire: – No, no, cara, non ti preoccupare, ci sono qua io, ti sto vicino, qualunque cosa…
La voce di lei non tardava ad addolcirsi, cercando una espressione di consolazione: – Oh, senti, vuol dire che se… – ed ecco a lui già prendeva la paura d’essere andato troppo in là, quasi fino a farle credere d’essere disposto ad avere un figlio da lei, e allora, pur senza interrompere la sua pressione protettiva, cercava di marcare le sue intenzioni: – Vedrai, mia cara, sarà una cosa da niente, provvedo io, povera stella, sta’ tranquilla, roba di pochi giorni e non te ne ricordi più… – ed ecco che si levava di scatto dall’altro capo del filo la voce acuta, quasi stridula: – Cosa dici? Cosa provvedi, tu? Cosa c’entri? Il figlio è mio… Io se voglio avere un figlio lo faccio! Io a te non chiedo niente! Io a te non ti voglio più vedere! Mio figlio crescerà e te non saprà neanche chi sei!
Con questo, non era detto che volesse il figlio davvero; forse voleva solo sfogare il naturale risentimento della donna contro questa facilità dell’uomo nel fare e nel disfare; ma moltiplicò l’allarme in Amerigo, che protestava: – Ma no, ma non si può, non si può fare i figli così, non è serio, non è responsabile… – finché lei non gli abbassò il ricevitore a mezzo del discorso.
– Non mangio più, sparecchi, – disse alla domestica. Tornò a sedersi vicino alla libreria e pensava a quando era seduto lì, prima, come a un tempo lontano, e sereno, e spensierato. Più di tutto, si sentiva umiliato. Per lui, la procreazione, per prima cosa, era una sconfitta delle sue idee. Amerigo era un fautore accanito del birth-control, nonostante che il suo partito su quel punto si dimostrasse tra agnostico e contrario. Nulla lo scandalizzava quanto la faciloneria con cui i popoli si moltiplicano, e più affamati e arretrati sono meno la smettono di far figli, non tanto perché li vogliono ma perché abituati a lasciar fare alla natura, alla disattenzione, all’abbandono. Ma per continuare a dimostrare quel distaccato rammarico e stupore da socialdemocratico scandinavo verso il mondo sottosviluppato, bisognava che restasse lui stesso esente da quella colpa…
Oggi, poi, le ore passate al «Cottolengo» gli pesavano addosso, tutta quell’India di gente nata all’infelicità, quella muta domanda o accusa a tutti quelli che procreano. Gli pareva che quella vista, quella coscienza non sarebbero state senza conseguenze, quasi che la madre incinta fosse lui, suscettibile come una lastra fotografica, o che già da tempo la dissezione atomica lavorasse dentro di lui e non ne potesse nascere che una progenie perduta.
Come poteva tornare alle letture ormai, alle riflessioni universali? Anche i libri aperti davanti a lui gli erano nemici: la Bibbia con tutto quel problema del perpetuare tra carestie e deserti le generazioni di una specie umana che vuol salvare ogni goccia del suo seme, incerta ancora sulla propria sopravvivenza; e Marx, anche lui che non vuol freni alla seminagione umana, persuaso dell’infinita ricchezza della terra, anche lui: allez, tutto irrorante fecondità; giù! dài! evviva! allegri! ve li raccomando tutti e due! come si fa a non aver capito che adesso il pericolo del genere umano è tutto l’opposto?
Aveva fatto tardi; al seggio l’aspettavano; aveva da dare il cambio agli altri; doveva andare via di corsa. Ma prima chiamò Lia ancora una volta, sebbene non sapesse neanche cosa dirle: – Lia, senti, ora devo uscire di corsa, però, guarda, io…
– Sss… – fece lei: il disco continuava a suonare come prima, come se quella telefonata in mezzo non ci fosse stata, e Amerigo ebbe un soprassalto di polemica («Ecco, per lei non è niente, per lei è il corso della natura, per lei non conta la logica della ragione ma solo la logica della fisiologia!») e insieme una specie di rassicuramento, perché Lia era davvero la Lia di sempre: – Taci… Devi sentirlo anche tu fino alla fine… – e in fondo, cosa poteva esser cambiato in lei? Poca cosa: qualcosa che ancora non era e che quindi si poteva ricacciare nel nulla (da che punto in poi un essere è davvero un essere?), una potenzialità biologica, cieca (da che punto un essere umano è umano?), un qualcosa che solo una deliberata volontà di farlo essere umano poteva far entrare tra le presenze umane.
XII
Un certo numero degli iscritti a votare del «Cottolengo» erano malati che non potevano lasciare il letto e la corsia. La legge prevede in questi casi che tra i componenti del seggio se ne scelgano alcuni per costituire un «seggio distaccato» che vada a raccogliere i voti dei malati nel «luogo di cura» cioè là dove si trovano. Si misero d’accordo per formare questo «seggio distaccato» con il presidente, il segretario, la scrutatrice in bianco e Amerigo. Il «seggio distaccato» aveva in dotazione due scatole, una con le schede da votare e l’altra per raccogliere le schede votate, un fascicolo speciale come registro e l’elenco dei «votanti nel luogo di cura».
Presero le cose e andarono. Li guidava su per le scale un ricoverato di quelli «bravi», un giovanotto piccolo e tozzo che, nonostante i brutti lineamenti, la zucca rapata e subito sotto i sopraccigli spessi e uniti, si dimostrava all’altezza del suo compito e premuroso, tanto che pareva finito lì per sbaglio, per via della faccia. – In questo reparto ce n’è quattro –. Ed entrarono.
Era un camerone lungo e si andava tra due bianche file di letti. L’occhio, uscendo dall’ombra della scala, provava un senso d’abbagliamento, doloroso, che forse era soltanto una difesa, quasi un rifiuto di percepire in mezzo al bianco d’ogni monte di lenzuola e guanciali la forma di colore umano che ne affiorava; oppure una prima traduzione, dall’udito nella vista, dell’impressione d’un grido acuto, animale, continuo: ghiii… ghiii… ghiii… che si levava da un qualche punto della corsia, a cui rispondeva a tratti da un altro punto un sussultare come di risata o latrato: gaa! gaa! gaa! gaa!
Il grido acuto proveniva da una minuscola faccia rossa, tutta occhi e bocca aperta in un fermo riso, d’un ragazzo a letto, in camicia bianca, seduto, ossia che spuntava col busto dall’imboccatura del letto come una pianta viene su da un vaso, come un gambo di pianta che finiva (non c’era segno di braccia) in quella testa come un pesce, e questo ragazzo-pianta-pesce (fino a dove un essere umano può dirsi umano? si chiedeva Amerigo) si muoveva su e giù inclinando il busto a ogni «ghiii… ghiii…» E il «gaa! gaa!» che gli rispondeva era d’uno che nel letto prendeva meno forma ancora, eppure protendeva una testa boccuta, avida, congestionata, e doveva avere braccia – o pinne – che si muovevano sotto le lenzuola in cui era come insaccato, (fino a che punto un essere può dirsi un essere, di qualsiasi specie?), e altri suoni di voci gli facevano eco, eccitate forse dall’apparire di persone nella corsia, e anche un ansare e gemere, come d’un urlo che stesse per levarsi e subito si soffocasse, questo d’un adulto.
Erano, in quell’infermeria, parte adulti – pareva – parte ragazzi e bambini, se si doveva giudicare dalle dimensioni e da segni, come i capelli o il colore della pelle, che contano tra le persone di fuori. Uno era un gigante con la smisurata testa da neonato tenuta ritta dai cuscini: stava immobile, le braccia nascoste dietro la schiena, il mento sul petto che s’alzava in un ventre obeso, gli occhi che non guardavano nulla, i capelli grigi sulla fronte enorme, (un essere anziano, sopravvissuto in quella lunga crescita di feto?), impietrito in una tristezza attonita.
Il prete, quello col basco, era già nella corsia, ad aspettarli, anche lui con in mano un suo elenco. Vedendo Amerigo si fece scuro in viso. Ma Amerigo in quel momento non pensava più all’insensato motivo per cui si trovava lì; gli pareva che il confine di cui ora gli si chiedeva il controllo fosse un altro: non quello della «volontà popolare», ormai perduto di vista da un pezzo, ma quello dell’umano.
Il prete e il presidente s’erano avvicinati alla Madre che dirigeva quel reparto, coi nomi dei quattro iscritti a votare, e la Madre li indicava. Altre suore venivano portando un paravento, un tavolino, tutte le cose necessarie per fare le elezioni lì.
Un letto alla fine della corsia era vuoto e rifatto; il suo occupante, forse già in convalescenza, era seduto su una seggiola da una parte del letto, vestito d’un pigiama di lana con sopra una giacca, e seduto dall’altra parte del letto era un vecchio col cappello, certamente suo padre, venuto quella domenica in visita. Il figlio era un giovanotto, deficiente, di statura normale ma in qualche modo – pareva – rattrappito nei movimenti. Il padre schiacciava al figlio delle mandorle, e gliele passava attraverso al letto, e il figlio le prendeva e lentamente portava alla bocca. E il padre lo guardava masticare.
I ragazzi-pesce scoppiavano nei loro gridi, e ogni tanto la Madre si staccava dal gruppo di quelli del seggio per andare a zittire uno troppo agitato, ma con scarso esito. Ogni cosa che accadeva nella corsia era separata dalle altre, come se ogni letto racchiudesse un mondo senza comunicazione col resto, salvo per i gridi che s’incitavano uno con l’altro, in crescendo, e comunicavano un’agitazione generale, in parte come un chiasso di passeri, in parte dolorosa, gemente. Solo l’uomo con la testa enorme stava immobile, come non sfiorato da nessun suono.
Amerigo continuava a guardare il padre e il figlio. Il figlio era lungo di membra e di faccia, peloso in viso e attonito, forse mezzo impedito da una paralisi. Il padre era un campagnolo vestito anche lui a festa, e in qualche modo, specie nella lunghezza del viso e delle mani, assomigliava al figlio. Non negli occhi: il figlio aveva l’occhio animale e disarmato, mentre quello del padre era socchiuso e sospettoso, come nei vecchi agricoltori. Erano voltati di sbieco, sulle loro seggiole ai due lati del letto, in modo da guardarsi fissi in viso, e non badavano a niente che era intorno. Amerigo teneva lo sguardo su di loro, forse per riposarsi (o schivarsi) da altre viste, o forse ancor di più, in qualche modo affascinato.
Intanto gli altri facevano votare uno in un letto. In questo modo: gli mettevano intorno il paravento, col tavolino dietro, e per lui la suora, perché era paralitico, votava. Tolsero il paravento, Amerigo lo guardò: era una faccia viola, riversa, come un morto, a bocca spalancata, nude gengive, occhi sbarrati. Più che quella faccia, nel guanciale affossato, non si vedeva; era duro come un legno, tranne un ansito che gli fischiava al fondo della gola.
Ma cosa hanno il coraggio di far votare? si domandò Amerigo, e solo allora si ricordò che toccava a lui impedirlo.
Già rizzavano il paravento a un altro letto. Amerigo li seguì. Un’altra faccia glabra, tumida, irrigidita a bocca aperta e storta, coi bulbi degli occhi fuori delle palpebre senza ciglia. Questo però era inquieto, smanioso.
– Ma c’è un errore! – disse Amerigo, – come può votare, questo qui?
– Eppure, c’è il suo nome, Morin Giuseppe, – fece il presidente. E al prete: – È proprio lui?
– Eh, qui c’è il certificato, – disse il prete: – impedimento motorio agli arti. Madre, è lei, vero, che l’aiuta?
– Ma sì, ma sì, povero Giuseppe! – fece la Madre.
Quello sobbalzava come colto da scosse elettriche, gemendo.
Amerigo, ora toccava a lui. Si strappò con sforzo dai suoi pensieri, da quella lontana zona di confine appena intravista – confine tra che cosa e che cosa? – e tutto quello che era al di qua e al di là sembrava nebbia.
– Un momento, – disse, con una voce senz’espressione, sapendo di ripetere una formula, di parlare nel vuoto, – è in grado l’elettore di riconoscere la persona che vota per lui? È in grado di esprimere la sua volontà? Ehi, dico a lei, signor Morin: è in grado?
– La solita storia, – disse il prete al presidente, – la Madre che sta qui con loro giorno e notte, gli chiedono se la conosce… – e scosse il capo, con una risatina.
Anche la Madre sorrise, ma d’un sorriso che era per tutti e per nulla. Il problema d’esser riconosciuta, pensò Amerigo, per lei non esisteva; e gli venne da confrontare lo sguardo della vecchia suora con quello del contadino venuto a passare la domenica al «Cottolengo» per fissare negli occhi il figlio idiota. Alla Madre non occorreva il riconoscimento dei suoi assistiti, il bene che ritraeva da loro – in cambio del bene che loro dava – era un bene generale, di cui nulla andava perso. Invece il vecchio contadino fissava il figlio negli occhi per farsi riconoscere, per non perderlo, per non perdere quel qualcosa di poco e di male, ma di suo, che era suo figlio.
La Madre, se da quel tronco d’uomo col certificato elettorale non veniva alcun segno di riconoscimento, era la meno preoccupata di tutti: eppure, si dava da fare a sbrigare quella formalità delle elezioni come una delle tante che il mondo di fuori imponeva e che, per vie che lei non si curava d’indagare, condizionavano l’efficienza del suo servizio; e così cercava d’alzare quel corpo con le spalle sui guanciali, quasi che potesse far la figura di stare seduto. Ma nessuna posizione s’addiceva più a quel corpo: le braccia, nel camicione bianco, erano rattrappite, con le mani piegate in dentro, e anche le gambe aveva allo stesso modo, come se le membra cercassero di tornare dentro se stesse a cercare un rifugio.
– Ma, parlare, – fece il presidente, con un dito alzato, come chiedendo scusa del dubbio, – non può proprio?
– Parlare no, signor presidente, – disse il prete, – eh, parli, tu? No, non parli? Vede che non parla. Ma capisce. Lo sai chi è lei, sì? È buona? Sì? Capisce. Del resto ha già votato l’altra volta.
– Sì, sì, – disse la Madre, – questo qui ha sempre votato.
– Perché è così, ma poi capisce… – disse la scrutatrice in bianco: una frase che non si capiva se fosse una domanda, un’affermazione, o una speranza. E si rivolse alla Madre, come a coinvolgere nella sua domanda-affermazione-speranza anche lei: – Capisce, neh?
– Eh… – la Madre allargò le braccia e guardò in su.
– Basta con questa commedia, – disse Amerigo, secco. – Non può esprimere la sua volontà, cioè non può votare. È chiaro? Un po’ più di rispetto. Non c’è bisogno di far altre parole.
(Voleva dire «un po’ più di rispetto» verso le elezioni oppure «un po’ più di rispetto» verso la carne che soffre? Non lo specificò.)
Si aspettava che le sue parole suscitassero una battaglia. Invece niente. Nessuno protestò. Con un sospiro, scuotendo il capo, guardavano l’uomo rattratto. – Certo, è peggiorato, – convenne il prete, a bassa voce. – Ancora due anni fa, votava.
Il presidente mostrò il registro ad Amerigo: – Cosa si fa: lasciamo in bianco o facciamo un verbale a parte?
– Lasciamo. Lasciamo perdere, – fu tutto quello che seppe dire Amerigo; pensava a un’altra domanda: se era più umano aiutarli a vivere o a morire, e anche a quella non avrebbe saputo dare una risposta.
Così, aveva vinto la sua battaglia: il voto del paralitico non era stato estorto. Ma un voto, cosa contava un voto? Questo era il discorso che gli faceva il «Cottolengo» con i suoi gemiti e i suoi gridi, vedila la tua volontà popolare che scherzo diventa, qua nessuno ci crede, qua ci si vendica dei poteri del mondo, era meglio lasciarlo passare anche quel voto, era meglio che quella parte di potere guadagnata così restasse incancellabile, inscindibile dalla loro autorità, che se la portassero su di loro per sempre.
– E il 27? E il 15? – chiese la Madre. – Gli altri che dovevano votare, votano?
Il prete, data un’occhiata all’elenco, s’era avvicinato a un letto. Tornò scuotendo il capo: – Anche quello là, sta male.
– Non riconosce? – fece la scrutatrice, come ci s’informa d’un parente.
– È peggiorato. Peggiorato, – fece il prete. – Non se ne fa niente.
– Anche questo, allora, lo depenniamo, – fece il presidente. – E il quarto? Dov’è il quarto?
Ma il prete ormai l’aveva capita, voleva solo tagliar corto. – Se non può uno non possono neanche gli altri; andiamo, andiamo, – e spingeva per il braccio il presidente che cercava di controllare i numeri dei letti e a un certo momento si fermò davanti al gigante immobile dalla testa enorme, e cercò nell’elenco come per verificare se il numero del quarto votante era quello lì, ma il prete lo spingeva via: – Andiamo, andiamo, vedo che qui sono tutti mal messi…
– Gli altri anni glielo facevano fare, – diceva la Madre, come se parlasse di iniezioni.
– Eh, adesso sono peggiorati, – concluse il prete. – Si sa, il malato, o guarisce, o peggiora.
– Non tutti sono in grado di votare, si capisce, poveretti, – disse la scrutatrice come scusandosi.
– Oh, poveri noi! – rise la Madre. – Ce n’è che non possono votare, ce n’è. Vedesse lì nella veranda…
– Si possono vedere? – chiese la scrutatrice.
– Ma sì, venite di qua, – e aperse una porta a vetri.
– Se sono di quelli che fanno impressione, io ho paura, – disse il segretario. Anche Amerigo s’era tirato indietro.
La Madre sorrideva sempre: – Ma no, perché paura, buoni figli…
La porta dava su una terrazza, una specie di veranda; e c’era un semicerchio di seggioloni con seduti tanti giovanotti, rapati in testa e incolti di barba, con le mani poggiate sui braccioli. Portavano vestaglie a righe blu i cui lembi scendevano a terra nascondendo il vaso che era sotto a ogni seggiolone, ma il puzzo e rivoli di trabocco si perdevano sul pavimento, tra le loro gambe nude dai piedi calzati in zoccoli. Anche tra loro c’era quella somiglianza fraterna che regna al «Cottolengo» e anche l’espressione era simile, nelle bocche aperte, senza forma, maldentate: d’uno sghignazzare che poteva anche essere un piangere; e lo strepito che mandavano si fondeva in uno spento blaterio di risa e pianti. In piedi davanti a loro, un assistente – uno di quei ragazzi brutti ma bravi – teneva l’ordine, con in mano una canna, e interveniva quando uno voleva toccarsi, o alzarsi, o attaccava briga con gli altri, o faceva troppo strepito. Sui vetri della veranda brillava un po’ di sole, e i giovanotti ridevano ai riflessi o passavano mutevoli all’ira vociando contro l’uno o l’altro, e poi subito dimenticavano.
Quelli del seggio guardarono un po’, dalla soglia, poi si ritirarono, ripercorsero la corsia. La Madre li precedeva. – Lei è una santa, – disse la scrutatrice. – Non ci fossero anime come lei, questi infelici…
La vecchia suora muoveva lì intorno gli occhi chiari e lieti, come si trovasse in un giardino pieno di salute, e rispondeva alle lodi con quelle frasi che si sanno, improntate a modestia e ad amore del prossimo, ma naturali, perché tutto doveva essere molto naturale per lei, non ci dovevano essere dubbi, dacché aveva scelto una volta per tutte di vivere per loro.
Anche Amerigo avrebbe voluto dirle delle parole di ammirazione e simpatia, ma quel che gli veniva da dire era un discorso sulla società come avrebbe dovuto essere secondo lui, una società in cui una donna come lei non sarebbe considerata più una santa perché le persone come lei si sarebbero moltiplicate, anziché star relegate in margine, allontanate nel loro alone di santità, e vivere come lei, per uno scopo universale, sarebbe stato più naturale che vivere per qualsiasi scopo particolare, e sarebbe stato possibile a ognuno esprimere se stesso, la propria carica sepolta, segreta, individuale, nelle proprie funzioni sociali, nel proprio rapporto con il bene comune…
Ma più s’ostinava a pensare queste cose, più s’accorgeva che non era tanto questo che gli stava a cuore in quel momento, quanto qualcos’altro per cui non trovava parole. Insomma, alla presenza della vecchia suora si sentiva ancora nell’ambito del suo mondo, confermato nella morale alla quale aveva sempre (sia pur per approssimazione e con sforzo) cercato di modellarsi, ma il pensiero che lo rodeva lì nella corsia era un altro, era ancora la presenza di quel contadino e di suo figlio, che gli indicavano un territorio per lui sconosciuto.
La suora aveva scelto la corsia con un atto di libertà, aveva identificato – respingendo il resto del mondo – tutta se stessa in quella missione o milizia, eppure – anzi: proprio per questo – restava distinta dall’oggetto della sua missione, padrona di sé, felicemente libera. Invece il vecchio contadino non aveva scelto nulla, il legame che lo teneva stretto alla corsia non l’aveva voluto lui, la sua vita era altrove, sulle sue terre, ma faceva alla domenica il viaggio per veder masticare suo figlio.
Ora che il giovane idiota aveva terminato la sua lenta merenda, padre e figlio, seduti sempre ai lati del letto, tenevano tutti e due appoggiate sulle ginocchia le mani pesanti d’ossa e di vene, e le teste chinate per storto – sotto il cappello calato il padre, e il figlio a testa rapata come un coscritto – in modo di continuare a guardarsi con l’angolo dell’occhio.
Ecco, pensò Amerigo, quei due, così come sono, sono reciprocamente necessari.
E pensò: ecco, questo modo d’essere è l’amore.
E poi: l’umano arriva dove arriva l’amore; non ha confini se non quelli che gli diamo.
XIII
Veniva sera. Il «seggio distaccato» continuava a percorrere corsie: di donne, adesso. A raccogliere il voto dai letti, con quei paraventi da spostare ogni volta, non finiva mai. Queste malate, queste vecchie, alle volte ci stavano dieci minuti, un quarto d’ora. – Ha finito, signora? Possiamo venire a ritirare? – La poverina, di là del paravento, magari stava proprio agonizzando. – Ha chiuso le schede? Sì? – Tiravano via il paravento: la scheda era ancora lì spiegata, bianca; oppure con uno sgorbio, un ghirigoro.
Amerigo vigilava; la malata doveva restar sola dietro il paravento; quella storia della vista o delle mani impedite non attaccava più; ormai di far fare la crocetta alla monaca non se ne parlava nemmeno; Amerigo era inflessibile; chi non riusciva a far da sé, pazienza, non votava.
Dal momento in cui s’era sentito meno estraneo a quegli infelici, anche il rigore della sua mansione politica gli era divenuto meno estraneo. Si sarebbe detto che in quella prima corsia la ragnatela delle contraddizioni oggettive che lo teneva avviluppato in una specie di rassegnazione al peggio si fosse rotta, e adesso si sentiva lucido, come se ormai tutto gli fosse chiaro, e comprendesse cosa si doveva esigere dalla società e cosa invece non era dalla società che si poteva esigere, ma bisognava arrivarci di persona, se no niente.
Si sa come sono quei momenti in cui pare d’aver capito tutto: magari un momento dopo si cerca di definire quel che si è capito e tutto scappa. Forse in lui non era cambiato gran che: le sue azioni e i loro motivi, la difesa di se stesso eccetera, quello è difficile che cambi; si dice si dice ma a un certo punto uno com’è è.
Però quello che gli pareva d’esser arrivato finalmente a capire era il suo rapporto con Lia, e tra quei letti che parevano celare in una penombra indistinta tutto il male che può sfigurare dei corpi di donna (erano in una sala a raggera sotto ampie volte, appena rischiarata dai riflessi di lampade velate sul risvolto bianco dei lenzuoli – vi posavano braccia contratte, come rami rossi o gialli – e queste volte o raggi convergevano su di un pilastro, al cui piede, da un letto, si levava un grido continuato e squittente, d’una forma incuffiettata che doveva essere – lui non volle guardare – una bambina, ma ridotta solo al pulsare di quel grido, e tutto quel che era disposto intorno – lo scenario e le ombre che si sollevavano dai guanciali – sembrava fosse in funzione di quel solo sforzo infantile di vivere, e il coro dei gemiti e dell’ansimare da tutti i letti venisse di sostegno a quella voce quasi senza corpo), Amerigo vedeva Lia, ma di Lia adesso era la tristezza degli occhi grigi che vedeva, l’ombra di fuga in fondo agli occhi che non si riusciva a stanare, a consolare, il modo remissivo che avevano i capelli d’andar giù sulle soffici spalle, ma come una creatura selvatica, acquattata, che si divincolerà appena la sfiori, e quel modo indifeso della punta del seno di salire fuori dal braccio, tutto quello che in lei esigeva una protezione, una pietà, ma non si sapeva comunicargliela, perché nel momento in cui pareva d’esserci arrivato eccola girarsi con un risolino di sfida, incupendo lo sguardo grigio ostile, la discesa dei capelli si tendeva sulla schiena giù fino allo scatto dei fianchi, e l’alta gamba avanzava in un passo leggero come uno scrollarsi di dosso tutto quel che c’era prima. Ma adesso questo sogno a occhi aperti di Lia, questo genere d’amore come una reciproca e continua sfida o corrida o safari, non gli pareva più in contrasto con la presenza di quelle ombre ospedaliere: erano lacci dello stesso nodo o garbuglio in cui sono legate tra loro – dolorosamente, spesso (o sempre) – le persone. Anzi, per lo spazio d’un secondo (cioè per sempre) gli sembrò d’aver capito come nello stesso significato della parola amore potessero stare insieme una cosa del genere di quella sua con Lia e la muta visita domenicale al «Cottolengo» del contadino al figlio.
Era così eccitato da questa scoperta che non vedeva l’ora di parlarne con Lia, e – vista la porta aperta d’un ufficio – chiese a una suora il permesso di telefonare. Il numero di Lia era occupato. – Ritorno più tardi, le dispiace? Grazie, – e così cominciò a far la spola tra il «seggio distaccato» che si spostava tra i reparti, e il telefono che dava occupato, e sempre meno sapeva cosa avrebbe detto a Lia, perché adesso avrebbe voluto spiegarle tutto, delle elezioni, del «Cottolengo», delle persone che aveva visto lì, ma una suora andava e veniva in quell’ufficio e non gli sarebbe riuscito di fare lunghi discorsi. E ogni volta che sentiva il segnale di occupato, ne provava insieme contrarietà e sollievo, anche perché temeva che il discorso cadesse su quella questione là, e non voleva affrontare il problema; o meglio: voleva solo farle capire che – sebbene non potesse aver cambiato intenzione – pure nel considerare quell’intenzione era in un diverso stato d’animo.
Così, benché ormai sperando che il numero della ragazza continuasse a suonare occupato, non smetteva di chiamarlo, e quando a un tratto fu libero, cominciò a farle un discorso che non c’entrava niente sul fatto che lei stava sempre col telefono occupato.
Lia pure rispose con un discorso che non c’entrava niente, cioè tutto tra loro era come al solito, ma ad Amerigo adesso ciò che era come al solito pareva struggente di commozione, e non stava nemmeno attento alle parole, ma solo al loro suono, come a una musica.
Tese l’orecchio a un tratto. Lia diceva: – E poi non so che vestiti devo portare, se devo prendere un paletot da mezza stagione. Che tempo farà, ora, a Liverpool?
– Come? Non vai mica a Liverpool?
– Sì che ci vado. Domani. Parto domani.
– Ma cosa dici? Perché? – e Amerigo era allarmato su quel che poteva dire un viaggio a Liverpool, ma anche rassicurato perché forse una partenza escludeva i timori di prima, e anche disorientato perché Lia decideva sempre quel che meno ci si aspetta, e anche rassicurato perché Lia era sempre Lia.
– Lo sai: devo andare da mia zia a Liverpool.
– Ma avevi detto che non ci andavi.
– Ma tu mi hai detto: «vacci».
– Io? Quando?
– Ieri.
Ecco, siamo alle solite. – Uffa, avrò detto «vacci» come per dire: va’ un po’ al diavolo, non mi scocciare, sempre con questa storia di Liverpool, di tua zia, «vacci!» ti avrò detto, come ti posso dire ora: «vacci!» ma mica volendo dire di andarci!
Si arrabbiava, ma sapeva che l’amore con Lia era appunto l’arrabbiarsi così.
– Ma me l’hai detto! «Vacci!»
– Tu sei come quello che prendeva alla lettera ogni parola!
Lia saltò su risentita. – Chi è quello? Di chi parli? Cosa vuoi dire? – come se nella frase di Amerigo avesse colto qualcosa d’estremamente offensivo, e Amerigo non sapeva più come troncare la telefonata, ed era pieno d’irritazione e furia, e nello stesso tempo sapeva che c’era dentro, che riattaccare il telefono non significava nulla.
XIV
Gli ultimi voti da raccogliere erano di monache che non potevano lasciare il letto. Gli scrutatori avanzavano per lunghi dormitori, tra file di baldacchini con le tende bianche, drappeggiate su qualche letto a incorniciare una vecchia monaca appoggiata ai cuscini, che sporgeva dalle coltri vestita e acconciata di tutto punto, fino all’ala fresca d’amido della cuffia. L’architettura conventuale (forse della metà del secolo passato, ma come senza tempo), l’arredo, gli abiti, facevano una vista che doveva essere la stessa in un monastero del Seicento. Amerigo, in un posto del genere, era certo la prima volta che ci metteva piede. E in questi casi, un tipo come lui – tra il fascino storico, l’estetismo, il ricordo di libri famosi, l’interesse (proprio dei rivoluzionari) a come le istituzioni modellano il volto e l’anima delle civiltà – era capace di lasciarsi andare a un improvviso entusiasmo per il dormitorio delle monache, e lasciarsi prendere quasi dall’invidia, a nome delle società future, per un’immagine che, come questa sfilata di baldacchini bianchi, racchiudesse in sé tante cose: praticità, repressione, calma, imperio, esattezza, assurdità.
Invece, niente. Aveva attraversato un mondo che rifiutava la forma, e a ritrovarsi ora in mezzo a quest’armonia quasi fuori dal mondo, s’accorgeva che non gli importava. Era altro che cercava di fissare ora, non le immagini del passato e del futuro. Il passato (proprio per il fatto d’avere un’immagine così compiuta nella quale non si poteva pensare di cambiar nulla come in questo dormitorio) gli pareva una gran trappola. E il futuro, quando ci se ne fa un’immagine (cioè lo si annette al passato), diventava una trappola esso pure.
Qui il votare procedeva più svelto. Si posavano le schede su un vassoio, sopra le ginocchia della monaca seduta a letto, si chiudevano le tendine bianche del baldacchino, «Ha votato, reverenda?», si tiravano le tendine, si mettevano le schede nella scatola. La bocca dell’alto letto era occupata dalla montagna dei cuscini e dalla persona della vegliarda, sotto il grande pettorale bianco, con le ali della cuffia che toccavano il cielo del baldacchino. Aspettando lì dietro la tenda, presidente segretario e scrutatori sembravano più piccoli.
«Siamo come Cappuccetto rosso in visita alla nonna malata, – pensò Amerigo. – Forse, aperta la tendina, non troveremo più la nonna, ma il lupo.» E poi: «Ogni nonna malata è sempre un lupo».
XV
Erano di nuovo insieme, tutti i componenti del seggio nel locale della sezione. Non c’era più molto afflusso: ormai i nomi non spuntati, nell’elenco degli iscritti a votare, erano pochi. Il presidente, smessa la tensione nervosa, buttava fuori per reazione una giovialità altrettanto sussultante: – Ah, domani ancora, lo scrutinio, e poi anche questa è fatta! Poi: signori, il nostro dovere l’abbiamo compiuto! Ah, per quattro anni almeno non ci si pensa più!
– Si comincerà a pensarci allora, invece… – borbottò Amerigo, già nella previsione (ma si sbagliava) che la giornata che stavano vivendo sarebbe stata ricordata tra le date d’un’involuzione italiana (invece la famosa «legge-truffa» non passò, l’Italia andò avanti esprimendo sempre più la sua anima bifronte), d’un impietrimento mondiale (ma in tutto il mondo le cose che più parevano di pietra si muovevano), dando pace solo alle coscienze pigre come quel presidente di seggio, e soffocando il bisogno di cercare delle coscienze sveglie (invece ogni cosa si mostrò sempre più complessa, e fu sempre più difficile distinguere il positivo e il negativo all’interno d’ogni cosa positiva e negativa, e più necessario scartare le apparenze e cercare le essenze non provvisorie: poche e ancora incerte…)
Ora gli scrutatori facevano capannello attorno a uno degli ultimi che avevano votato, un omone col berretto. Era senza mani, dalla nascita: due moncherini cilindrici gli uscivano dalle maniche, ma stringendoli uno all’altro sapeva afferrare e manovrare oggetti, anche sottili (la matita, un foglio di carta; difatti aveva votato da solo, piegato da solo le schede) come nella presa di due enormi dita. – Tutto: anche accendermi una sigaretta, – diceva l’omone, e con movimenti svelti prendeva il pacchetto di tasca, lo portava alla bocca per estrarne la sigaretta, stringeva il pacchetto dei cerini sotto l’ascella, accendeva, tirava una boccata, impassibile.
Gli erano tutti intorno, a chiedergli come faceva, come aveva imparato. L’uomo rispondeva brusco: aveva una grossa faccia sanguigna da operaio anziano, ferma, senza espressione. – Io so fare tutto, – diceva. – Ho cinquant’anni. Sono cresciuto al «Cottolengo» –. Parlava a mento alto, con una dura aria quasi di sfida. Amerigo pensò: l’uomo trionfa anche delle maligne mutazioni biologiche; e riconosceva nelle fattezze dell’uomo, nel suo vestiario e atteggiamento, i tratti che contraddistinguono l’umanità operaia, anch’essa orbata – il simbolo e la lettera – di qualcosa della sua completezza, eppure atta ad autocostruirsi, ad affermare la parte decisiva dell’homo faber.
– Io so fare tutti i lavori da me, – diceva l’omone col berretto. – Sono le suore che mi hanno insegnato. Qui al «Cottolengo» facciamo tutti i lavori da noi. Le officine e tutto. Siamo come una città. Io ho sempre vissuto dentro il «Cottolengo». Non ci manca niente. Le suore non ci fanno mancare niente.
Era sicuro e impenetrabile: in quella specie di sussiego della sua forza, e della sua adesione a un ordine che aveva fatto di lui quello che era. La città che moltiplicherà le mani dell’uomo, si chiedeva Amerigo, sarà già la città dell’uomo intero? O l’homo faber vale proprio in quanto non considererà mai abbastanza raggiunta la sua interezza?
– Gli vuol bene, eh, alle suore? – domandò all’omone la scrutatrice con la blusa bianca, ansiosa di sentire una parola consolante, al termine di quella giornata.
L’uomo continuava a rispondere secco, quasi ostile, come il buon cittadino delle civiltà produttive (Amerigo pensava all’uno e all’altro dei due grandi paesi). – Grazie alle suore sono riuscito a imparare. Io senza le suore che mi aiutavano sarei niente. Ora io posso fare tutto. Non si può dire niente contro le suore. Come le suore non c’è nessuno.
La città dell’homo faber, pensò Amerigo, rischia sempre di scambiare le sue istituzioni per il fuoco segreto senza il quale le città non si fondano né le ruote delle macchine vengono messe in moto; e nel difendere le istituzioni, senza accorgersene, può lasciar spegnere il fuoco.
S’avvicinò alla finestra. Un poco di tramonto rosseggiava tra gli edifici tristi. Il sole era già andato ma restava un bagliore dietro il profilo dei tetti e degli spigoli, e apriva nei cortili le prospettive di una città mai vista.
Donne nane passavano in cortile spingendo una carriola di fascine. Il carico pesava. Venne un’altra, grande come una gigantessa, e lo spinse, quasi di corsa, e rise, e tutte risero. Un’altra, pure grande, venne spazzando, con una scopa di saggina. Una grassa grassa spingeva per le stanghe alte un recipiente-carretto, su ruote di bicicletta, forse per trasportare la minestra. Anche l’ultima città dell’imperfezione ha la sua ora perfetta, pensò lo scrutatore, l’ora, l’attimo, in cui in ogni città c’è la Città.
(1953-1963)