venerdì 7 ottobre 2022

GLI ANNI Annie Ernaux

     


   GLI ANNI

 

Annie Ernaux

 Recensione

Un lunghissimo monologo, nel quale la vicenda personale e familiare si intreccia ai cambiamenti della società, del costume, della tecnologia: la Liberazione, l'Algeria, la maternità, de Gaulle, il '68, l'emancipazione femminile, le tentazioni del conformismo, l'avvento di internet, l'undici settembre, la riscoperta del desiderio. 

  GLI ANNI

Abbiamo solo la nostra storia ed essa non ci appartiene.

    JOSÉ ORTEGA Y GASSET

    

    

    

Sì. Dimenticheranno. È il nostro destino, non ci si può fare nulla. Ciò che a noi sembra serio, significativo, molto importante, col passar del tempo sarà dimenticato o sembrerà irrilevante. Ed è curioso che noi oggi non possiamo assolutamente sapere che cosa domani sarà ritenuto sublime, importante e che cosa meschino, ridicolo. […] E la nostra vita, che oggi viviamo con tanta naturalezza, apparirà col tempo strana e scomoda, priva di intelligenza, non sufficientemente pura, forse addirittura immorale.

     ANTON ČECHOV

    

    

    

Tutte le immagini scompariranno.

    

la donna accovacciata che, in pieno giorno, urinava dietro la baracca di un bar al margine delle rovine di Yvetot, dopo la guerra, si risistemava le mutande con la gonna ancora sollevata e se ne tornava nel caffè

   

il volto pieno di lacrime di Alida Valli mentre ballava con George Wilson nel film L’inverno ti farà tornare

    

l’uomo incrociato su un marciapiede di Padova nell’estate del ’90, con delle manine attaccate alle spalle che subito facevano pensare alla talidomide prescritta trent’anni prima alle donne incinte contro le nausee e allo stesso tempo alla barzelletta che si era raccontata in seguito: una futura madre lavora ai ferri il corredo per il neo­nato ingerendo con regolarità della talidomide, un giro di maglia, una compressa. Inorridendo un’amica le dice, ma come, non lo sai che il tuo bambino rischia di nascere senza braccia?, e lei, certo che lo so, è che non so fare le maniche

    

Claude Piéplu alla testa di un reggimento di legionari in un film con Les Charlots, in una mano la bandiera, nell’altra una corda attaccata a una capra

    

quella donna maestosa affetta da Alzheimer, con lo stesso camice a fiori delle altre degenti ma con uno scialle azzurro a coprirle le spalle, che percorreva solenne i corridoi della casa di riposo, senza mai fermarsi, altezzosa, come la duchessa di Guermantes al Bois de Boulogne, e che faceva pensare a Céleste Albaret quando aveva partecipato a una trasmissione di Bernard Pivot
    

sul palco di un teatro all’aperto, la donna rinchiusa in una scatola che alcuni uomini avevano trafitto da parte a parte con lance d’argento – uscitane viva perché si trattava di un gioco di prestigio chiamato Il martirio di una donna

    

le mummie dai merletti sbrindellati che incombevano dai muri del convento dei Cappuccini di Palermo

    

il volto di Simone Signoret sulla locandina diThérèse Raquin

    

la scarpina su un piedistallo girevole in un negozio della catena André di rue du Gros-Horloge, a Rouen, con quella frase che continuava a scorrerle attorno: «cammina bene e cresce bene con Babybotte Bébé»

    

lo sconosciuto su un treno fermo alla stazione Termini di Roma che, dopo aver abbassato per metà la tendina del suo scompartimento di prima classe, nascosto dalla vita in su, di profilo, si manipolava il sesso per farsi vedere dalle giovani viaggiatrici del treno fermo al binario di fronte, appoggiate coi gomiti ai finestrini

    

quel tale in uno spot al cinema del detersivo Paic Vaisselle che rompeva allegramente i piatti sporchi per non doverli lavare. La voce fuori campo ammoniva severa «non è questa la soluzione!» e lui guardava in camera disperato, «ma allora qual è, la soluzione?»

    

la spiaggia di Arenys de Mar proprio di fianco ai binari della ferrovia, il cliente dell’albergo che assomigliava a Zappy Max

   

il neonato brandito come un coniglietto senza pelo nella sala parto della clinica Pasteur di Caudéran, ritrovato mezz’ora dopo tutto vestito, addormentato su un fianco nel lettino, una mano che spuntava dal lenzuolo tirato su fino alle spalle

    

la silhouette scattante dell’attore Philippe Lemaire, sposato con Juliette Gréco

   

in una pubblicità alla televisione, il padre che, nascosto dietro il giornale, cercava invano di fare come sua figlia, lanciare in aria e riprendere al volo con la bocca una pralina Picorette

   

una casetta con il pergolato di vite americana, al 90/a della Fondamenta delle Zattere, a Venezia, che negli anni Sessanta era un albergo

    

le centinaia di facce pietrificate, fotografate prima della partenza per i campi di concentramento, sui muri di una sala del Palais de Tokyo, a Parigi, a metà degli anni Ottanta

   

i gabinetti nel cortile dietro la casa di Lillebonne, proprio sopra il fiume, gli escrementi mescolati alla carta trasportati piano dall’acqua che sciabordava attorno

    

tutte le immagini crepuscolari dei primi anni, con le pozzanghere luminose di una domenica d’estate, quelle dei sogni in cui i parenti morti risuscitano, in cui si cammina su strade indefinibili

    

quelle di Rossella O’Hara che trascina per le scale il soldato yankee che ha appena ammazzato – mentre corre per le strade di Atlanta alla ricerca di un medico perché Melania sta per partorire

    

di Molly Bloom sdraiata accanto al marito mentre si ricorda della prima volta che un ragazzo l’ha baciata e dice sì sì sì

   

di Elizabeth Drummond uccisa per la strada con i suoi genitori, a Lurs, nel 1952

    

le immagini reali o immaginarie, quelle che persistono anche nel sonno

le immagini di un momento bagnate da una luce che è soltanto loro

    

Svaniranno tutte in un colpo solo come sono svanite a milioni le immagini che erano dietro la fronte dei nonni morti da mezzo secolo, dei genitori morti anch’essi. Immagini in cui comparivamo anche noi, bambine, tra altri esseri scomparsi prima ancora che nascessimo, nella stessa maniera in cui ricordiamo i nostri figli piccoli assieme ai loro nonni già morti, ai nostri compagni di scuola. E così un giorno saremo nei ricordi dei figli in mezzo a nipoti e a persone che non sono ancora nate. Come il desiderio sessuale, la memoria non si ferma mai. Appaia i morti ai vivi, gli esseri reali a quelli immaginari, il sogno alla storia.

    

    

    

Si annienteranno d’un tratto le migliaia di parole che sono servite a nominare le cose, i volti delle persone, le azioni e i sentimenti, che hanno dato un ordine al mondo, che ci hanno fatto palpitare e bagnare

    

gli slogan, i graffiti sui muri delle strade e dei bagni, le poesie e le storielle sconce, i titoli

    

anamnesi, epigono, noema, teoretico, i termini annotati con la loro definizione sopra un quadernetto per non dover consultare ogni volta il vocabolario

   

le costruzioni sintattiche che altri impiegavano con naturalezza e che noi non sapevamo se saremmo mai stati in grado di usare, è innegabile che, è giocoforza constatare

    

le frasi terribili che si sarebbero dovute dimenticare, più persistenti di altre proprio in virtù dello sforzo compiuto per rimuoverle, sembri una puttana avvizzita

    

le frasi degli uomini nel letto la notte, Fammi quello che vuoi, sono il tuo oggetto

   

esistere è bersi senza sete

   

cosa stavi facendo l’11 settembre 2001?

   

in illo tempore la domenica a messa

    

vecchia cariatide, fare il diavolo a quattro, da sganasciarsi!, cretinetti che non sei altro!, le espressioni cadute in disuso, risentite per caso, all’improvviso diventate preziose come oggetti perduti e poi ritrovati, di cui ci si chiede come abbiano fatto a conservarsi

   

le parole legate per sempre a una persona specifica come se si trattasse di un motto personale – pronunciate una volta da un compagno di viaggio mentre si passava in macchina per la Statale 14, e da allora non si può più attraversare quel tratto preciso senza che ritornino in mente, come i getti d’acqua interrati del palazzo d’Estate di Pietro il Grande che sgorgano quando ci si mette il piede sopra

    

gli esempi grammaticali, le citazioni, gli insulti, le canzoni, le frasi ricopiate sui bloc-notes da adolescenti

   

l’abate Trublet compilava, compilava, compilava

    

la gloria per una donna è il lutto accecante della felicità

   

la nostra memoria è al di fuori di noi, in un soffio piovoso del tempo

    

il colmo per una suora è farsi portare un cappuccino a letto

   

il baro usa il mazzo di carte, Venere chissà cosa

   

come portafortuna un maialino con un cuore / che per cento soldi aveva comprato / costano poco le cose al mercato

   

la mia storia è la storia di un amore

    

è possibile tirlipotare con una forchetta? Si può mettere lo schmilblick nel biberon dei bambini?

    

(sono o non sono un drago?, ho riso molto e pasta poco, mi son fatto una corsa ad Ajaccio,in breve come direbbe Pipino, orca! diceva Giona nel ventre della balena, tutti questi giochi di parole sentiti mille volte, non più divertenti da molto tempo, ormai di una banalità irritante, il cui unico scopo rimasto era quello di garantire la complicità domestica e che erano subito scomparsi con lo sciogliersi della coppia ma che talvolta tornavano a riaffiorare alle labbra, fuori luogo all’esterno della tribù famigliare, inopportuni, dopo anni di separazione erano in fondo tutto ciò che restava di lui)

    

le parole di cui ci si stupiva che esistessero da tempo, mastoc per dire massiccio (in una lettera di Flaubert a Louise Colet), pioncer per dire dormire (George Sand a Flaubert)

    

il latino, l’inglese, il russo imparato in sei mesi per un uomo sovietico, tutto ciò che ne restava era Do svidanija, Ja tebja ljublju, chorošó

   

uomo coniugato mezzo declinato

   

le metafore talmente logore da meravigliarsi che qualcuno si azzardasse ancora a pronunciarle, la ciliegina sulla torta

   

oh Madre sepolta fuori dal primo giardino

    

chi ha farina non ha sacca, chi ha denti non ha pane, le espressioni datate

   

le parole da uomo che non ci piacevano,godere, le seghe

   

quelle imparate durante gli studi, che davano la sensazione di trionfare sulla complessità del mondo. Appena superato l’esame, sparivano dalla memoria più in fretta di come ci erano entrate

    

le frase ripetute, fastidiose, dei nonni, dei genitori, rimaste più vive dei loro stessi volti,lascia stare il cappello della bambina

    

le marche dei vecchi prodotti, dalla vita breve, il cui ricordo incantava più di quello delle marche conosciute, lo shampoo Dulsol, il cioccolato Cardon, il caffè Nadi, quasi fossero ricordi intimi, impossibili da condividere

    

Quando volano le cicogne

   

Marianne de ma jeunesse

   

Madame Soleil è ancora tra noi

    

al mondo manca la fede in una verità trascendente

    

Tutto si cancellerà in un secondo. Il dizionario costruito termine dopo termine dalla culla all’ultimo giaciglio si estinguerà. Sarà il silenzio, e nessuna parola per dirlo. Dalla bocca aperta non uscirà nulla. Né io né me. La lingua continuerà a mettere il mondo in parole. Nelle conversazioni attorno a una tavolata in festa saremo soltanto un nome, sempre più senza volto, finché scompariremo nella massa anonima di una generazione lontana.


    


          


           


      È una foto virata seppia, ovale, incollata tra le pagine di un libretto dal bordino d’oro, protetta da un foglio goffrato, trasparente. Sopra, Photo-Moderne, Ridel, Lillebonne (Senna Inferiore). Tel. 80. Un neonato grassoccio dalla bocca imbronciata, i capelli scuri a formare un ricciolo sulla testa, è seduto mezzo nudo su un cuscino al centro di un tavolo intarsiato. Lo sfondo sfocato, la ghirlanda a decorare la tavola, la camicia ricamata sollevata sul ventre – la manina nasconde il sesso –, la bretella scivolata dalla spalla sulle braccia pienotte sono tutti elementi intesi a formare la rappresentazione pittorica di un amorino o un cherubino. Con ogni probabilità ogni membro della famiglia ha ricevuto una copia della fotografia e si è poi messo a cercare di stabilire da chi avesse preso il bambino. In questo documento d’archivio famigliare – che deve risalire al 1941 – è impossibile leggere altro oltre alla messinscena rituale, modellata sui costumi della piccola borghesia, dell’entrata nel mondo.


         


      


      Un’altra foto, firmata dallo stesso fotografo – ma la carta del libretto è più ordinaria ed è scomparso il bordino dorato –, verosimilmente destinata alla stessa distribuzione famigliare, mostra una bambina di circa quattro anni, seria, quasi triste nonostante il faccino paffuto sotto i capelli corti, separati da una riga e tenuti indietro con delle forcine alle quali sono attaccati nastrini infiocchettati. La mano sinistra è appoggiata sopra lo stesso tavolo intarsiato in stile Luigi XVI, che questa volta risulta visibile per intero. La camicetta la infagotta un po’, la gonna con le bretelle sale sul davanti per via di una pancia prominente, forse segno di rachitismo (1944 circa).


         


      


      Altre due piccole foto dai bordi dentellati, probabilmente sempre di quell’anno, mostrano la stessa bambina, ma più minuta, in un vestitino a balze con le maniche a palloncino. Nella prima ha boccoli ampi, si stringe con fare furbetto a una donna dalla corporatura massiccia, fa un tutt’uno con il suo vestito a righe larghe. Nell’altra solleva il pugno sinistro, il destro chiuso nella mano di un uomo, alto, con la giacca chiara e i pantaloni con le pince, la postura disinvolta. Le due foto sono state scattate lo stesso giorno davanti a un muretto ornato da fiori, in un cortile lastricato. Sopra le loro teste è tesa una corda per il bucato alla quale è rimasta appesa una molletta.


         


          


          


      


      


      


      I giorni di festa dopo la guerra, nella lentezza interminabile dei pranzi, sbucava dal nulla e prendeva forma il tempo già cominciato, quello che talvolta sembrava paralizzare i genitori quando si dimenticavano di risponderci, gli occhi fissi nel vuoto, il tempo in cui noi non eravamo, in cui non saremmo mai stati, il tempo di prima. Le voci sovrapposte dei commensali componevano il grande racconto degli avvenimenti collettivi, avvenimenti ai quali, inevitabilmente, ci sembrava di aver assistito.


      Non si stancavano mai di raccontare l’inverno del ’42, glaciale, la fame e le rape, i rifornimenti e la tessera per il tabacco, i bombardamenti


      l’aurora boreale che aveva preannunciato la guerra


      le biciclette e le carriole sulle strade nei giorni della Disfatta, i negozi saccheggiati


      gli sfollati che frugavano tra le macerie alla ricerca delle loro foto, dei loro soldi


      l’arrivo dei tedeschi – ciascuno a precisare esattamente dove, in quale città –, la correttezza degli inglesi, la disinvoltura degli americani, i collaborazionisti, il vicino durante la Resistenza, la signorina X rapata alla Liberazione


      Le Havre rasa al suolo, non ne restava più nulla, il mercato nero


      la propaganda


      i crucchi in fuga che attraversavano la Senna a Caudebec in groppa a cavalli stremati


      la contadina che in treno molla un peto in uno scompartimento dove ci sono dei tedeschi e proclama ai quattro venti «se non glielo possiamo dire, almeno facciamoglielo sentire»


      Su uno sfondo comune di fame e di paura, tutto veniva raccontato alla prima persona plurale.


          


      


      Parlando di Pétain alzavano le spalle, troppo vecchio e già rimbambito, dopotutto, quando si era riusciti a mettergli sopra le mani. Imitavano il volo e il rumore dei V2 che solcavano il cielo, mimavano lo spavento, fingevano decisioni cruciali nei momenti più drammatici, e a quel punto cosa posso fare, per tenere con il fiato sospeso.


         


      


      Era un racconto pieno di morti e di violenza, di distruzioni, narrato con un’esultanza che a tratti sembrava voler smentire il solenne «non dovrà accadere mai più» che veniva pronunciato in maniera vibrante ed era seguito da un momento di silenzio, come per mettere in guardia un’istanza oscura, il rimorso di un appagamento.


         


      


      Ma parlavano solo di ciò a cui avevano assistito, ciò che poteva essere rivissuto mangiando e bevendo. Non avevano abbastanza talento o convinzione per raccontare ciò che sapevano ma che non avevano visto con i loro occhi. Dunque nessuna parola sui bambini ebrei ammassati nei treni per Auschwitz, sui morti per fame raccolti al mattino nel ghetto di Varsavia, sui 10.000 gradi di Hiroshima. E da qui quell’impressione mai fugata dai documentari e dai film visti in seguito: né i forni crematori né la bomba atomica appartenevano alla stessa epoca del burro comprato al mercato nero, degli allarmi aerei, delle corse in cantina.


      Iniziavano a fare confronti con la guerra del ’14, la precedente, la Grande, quella sì che era stata vinta con il sangue, con la gloria, una guerra di uomini che le donne a tavola ascoltavano con rispetto. Parlavano delle battaglie epocali, dello Chemin des Dames e di Verdun, del gas, delle campane dell’11 novembre 1918. Citavano nomi di villaggi in cui nemmeno uno dei giovani partiti per il fronte aveva fatto ritorno. Contrapponevano i soldati nel fango delle trincee ai prigionieri del ’40, tenuti al caldo e al riparo per cinque anni senza aver visto l’ombra di un bombardamento. Si contendevano l’eroismo e le sventure.


      Risalivano indietro nel tempo, fino a epoche in cui loro non c’erano ancora, la guerra di Crimea, quella del ’70, i parigini che avevano mangiato i topi.


         


      


      Nei tempi andati di cui si narrava c’erano soltanto guerre e fame.


          


      


      Alla fine cantavano Ah le petit vin blanc e Fleur de Paris, urlavano ritornelli patriottici a squarciagola, blu-bianco-rosso sono i colori della patria, in un coro assordante. Sollevavano i bicchieri e ridevano, alla faccia dei crucchi che non se lo berranno.


          


      


      I bambini non ascoltavano e si affrettavano ad alzarsi da tavola non appena ne avevano il permesso, approfittando della benevolenza generalizzata dei giorni di festa per dedicarsi a giochi altrimenti proibiti, saltare sui letti e andare in altalena con la testa all’ingiù. Ma assorbivano tutto. Rispetto a quei tempi favolosi – le cui fasi avrebbero imparato a mettere nel giusto ordine solo molto dopo, la Disfatta, l’Esodo, l’Occupazione, lo Sbarco, la Vittoria – trovavano scialbo quello, senza nome, in cui stavano crescendo. Si rammaricavano di non essere ancora nati, o di essere stati troppo piccini, quando si erano dovute abbandonare le città in lunghi cortei di profughi e si era stati costretti a dormire tutti assieme sulla paglia come i nomadi. Di quel tempo non vissuto conservavano un rimpianto tenace. La memoria degli altri ravvivava in loro segretamente la nostalgia per un’epoca che avevano perso per un soffio e alimentava la speranza di poterla, un giorno, vivere a loro volta.


         


          


          


      


      


      


      Di quell’epopea scintillante restavano soltanto le grigie e mute tracce delle casematte sulle fiancate delle scogliere, i cumuli di pietre a perdita d’occhio nelle città. Dalle macerie emergevano oggetti arrugginiti, carcasse di letti, ferraglie contorte. I commercianti sfollati si insediavano in baracche provvisorie vicino alle rovine. Granate dimenticate nello sminamento esplodevano in faccia ai bimbi che le raccoglievano per giocarci. I giornali lanciavano l’allerta, Non toccate le munizioni! I dottori levavano le tonsille ai bambini delicati di gola che si risvegliavano urlando dall’anestesia all’etere e venivano costretti a bere latte bollente. Sui manifesti sbiaditi il generale de Gaulle, di tre quarti, guardava lontano sotto il suo chepì. La domenica pomeriggio giochi da tavola e carte, con il jeu des petits chevaux e l’uomo nero.


          


      


      La frenesia seguita alla Liberazione si cominciava a placare. Sulle prime la gente non aveva fatto altro che uscire, tutti erano pieni di desideri da soddisfare subito. Qualunque cosa costituisse una prima volta da dopo la guerra, le banane, i biglietti della lotteria nazionale, i fuochi d’artificio, provocava smanie e assembramenti. Interi quartieri, dal neonato in carrozzina alla nonna sorretta dalle figlie, si precipitavano al passaggio delle fiaccolate militari, delle giostre, del circo Bouglione, quasi si calpestavano nel parapiglia. Scendevano in strada tra canti e preghiere per accogliere la statua di Notre-Dame de Boulogne e riaccompagnarla l’indomani in una processione di chilometri. Sacra o profana, ogni occasione era buona perché si ritrovassero tutti assieme all’aperto, come se volessero continuare a vivere collettivamente. La domenica sera tornavano dal mare i torpedoni pieni di giovani in pantaloncini, cantavano a squarciagola arrampicati sui tetti carichi di bagagli. I cani gironzolavano liberi e si accoppiavano in mezzo alla strada.


      Anche quell’epoca cominciava a diventare il ricordo di bei tempi andati di cui già si sentiva la mancanza nell’ascoltare alla radio le belle domeniche di una volta… / quanto sono ormai lontane. E allora i bambini rimpiangevano di essere stati troppo piccoli durante la Liberazione e di aver attraversato quel periodo senza averlo davvero vissuto.


         


      


      Ciononostante si cresceva tranquilli, «beati come pascià», tra le raccomandazioni di non toccare gli oggetti abbandonati e l’incessante lagnarsi per via dei razionamenti, delle tessere per l’olio e lo zucchero, del pane di mais difficile da digerire, del coke che come combustibile non riscaldava, A Natale ci sarà del cioccolato? E la marmellata? Cominciavamo la scuola, ci andavamo con una lavagnetta e un portamine costeggiando vasti spiazzi vuoti da cui erano state sgomberate le macerie, livellati in attesa della Ricostruzione. Giocavamo a rubabandiera, all’anello d’oro, a girotondo cantando Bonjour Guillaume, a pallamuro con la filastrocca Petite bohémienne, scorrazzavamo nel cortile della ricreazione tenendoci a braccetto e gridando chi gioca a nascondino chi gioca a nascondino. Ci prendevamo la scabbia, i pidocchi, asfissiati sotto asciugamani cosparsi dell’antiparassitario in polvere Marie-Rose. Salivamo uno alla volta sui camion delle radiografie per la tubercolosi tenendoci addosso sciarpa e cappotto. Facevamo la prima visita medica, ridendo dalla vergogna di ritrovarci in mutande, in una stanza che la fiamma blu in un piattino d’alcol messo a bruciare sul tavolino di fianco all’infermiera non bastava a scaldare. Presto avremmo sfilato in occasione della prima festa della Gioventù, tutti vestiti di bianco tra le acclamazioni della folla, fino all’ippodromo dove, tra il cielo e l’erba bagnata, sulla musica sparata dagli altoparlanti, avremmo eseguito i «movimenti d’insieme» in un’atmosfera di grandeur e di solitudine.


      I discorsi dicevano che rappresentavamo l’avvenire.


         


          


          


      


      


      


      Nella chiassosa polifonia dei pranzi estivi, prima che subentrassero i litigi e le offese a morte, ci giungeva per frammenti, intrecciato a quello della guerra, l’altro grande racconto, quello delle origini.


      Uomini e donne emergevano nella narrazione, talvolta nominati soltanto in base al loro grado di parentela, «padre», «nonno», «bisnonna», ridotti a un’unica peculiarità caratteriale, a un singolo aneddoto comico o tragico, all’influenza spagnola, l’embolo o il calcio di un cavallo che se li erano portati via – bambini che non avevano raggiunto la nostra età, una schiera di personaggi che non avremmo mai conosciuto. Si dispiegavano i fili di una trama famigliare aggrovigliatasi nell’arco di molti anni, difficile da sbrogliare, almeno fino a quando, in un tempo più vicino a noi, non ci era possibile cominciare a distinguere chi era «di famiglia» per un legame di sangue da chi «non ci era niente».


      Racconto famigliare e racconto sociale sono un tut­t’uno. Le voci dei commensali delimitavano gli spazi della giovinezza: la campagna e le fattorie quasi dimenticate in cui gli uomini erano stati braccianti e le ragazze domestiche, la fabbrica in cui si erano conosciuti tutti, e poi frequentati e sposati, il mondo dei piccoli commercianti cui avevano avuto accesso i più ambiziosi di loro. Quelle voci disegnavano storie senza eventi personali oltre alle nascite, ai matrimoni e ai lutti, senza alcun viaggio se non quelli fatti con il reggimento in una lontana città di guarnigione, esistenze occupate dal lavoro, duro, logorante, sotto la minaccia del troppo bere. La scuola era un sottofondo mitico, una breve età dell’oro di cui il Maestro, con la sua bacchetta di ferro, era stato il dio severo.


          


      


      Le voci tramandavano un’eredità di miseria e privazioni che era precedente alle restrizioni della guerra, un tuffo in una notte immemorabile, «a quei tempi», di cui sgranavano i piaceri e le pene, gli usi e i saperi:


      abitare in una casa di terra battuta


      portare le galosce


      giocare con una bambola di stracci


      lavare la biancheria con la cenere del legno


      attaccare alle camicette dei bambini, vicino all’ombelico, un sacchetto di stoffa con degli spicchi d’aglio per cacciare i vermi


      obbedire ai genitori e prendersi gli scappellotti, così impara a non rispondere


          


      


      Catalogavano ciò che avevano ignorato, ciò che all’epoca non conoscevano e non facevano mai:


      mangiare la carne rossa, le arance


      la previdenza sociale, i sussidi famigliari, la pensione a sessantacinque anni


      partire per le vacanze


          


      


      Ricordavano i motivi d’orgoglio:


      gli scioperi del ’36, il Fronte popolare, prima, l’operaio mica contava niente


          


      


      Noi, i piccolini, seduti per il dolce, dimenticati dagli adulti nel rilassamento di fine pasto, restavamo ad ascoltare le storie licenziose a cui si abbandonavano, le canzoni della loro giovinezza che parlavano di Parigi, di fanciulle andate alla deriva, di squillo di quartiere e gagà della mala, Le grand rouquin, L’hirondelle du faubourg, il trinciato che si prende tra le dita / e che si rolla, romanze di pietà e passione che la cantante, gli occhi chiusi, interpretava con tutta se stessa, facendo sgorgare più di una lacrima asciugata con l’angolo di un tovagliolo. Poi avevamo il diritto di intenerire a nostra volta la tavolata intonando Étoile des neiges.


      Foto brunite passavano di mano in mano, il dorso macchiato da tutte le dita che le avevano toccate nel corso di altri pranzi, un misto di unto e caffè ormai fusi in un colore indefinibile. In quei due sposi irrigiditi e austeri alle cui spalle comparivano i vari invitati al matrimonio, disposti in più file davanti a un muro, non si riuscivano a riconoscere né i propri genitori né nessun altro. E anche in quel neonato dal sesso indefinibile, posato mezzo nudo su un cuscino, non si rivedeva più se stessi, ma qualcun altro, una creatura appartenente a un tempo muto e inaccessibile.


          


      


      Subito dopo la guerra, nei banchetti senza fine dei giorni di festa, tra le risate e gli schiamazzi, per morire c’è sempre tempo, suvvia!, era la memoria degli altri a collocarci nel mondo.


      Al di fuori delle narrazioni, i modi di camminare, di sedersi, di parlare e di ridere, di chiamare qualcuno per la strada, i gesti nel mangiare, nel maneggiare le cose, trasmettevano la memoria passata di corpo in corpo dal profondo delle campagne francesi ed europee. Un’eredità inavvertibile nelle fotografie che però, al di là delle differenze individuali, del divario tra la bontà degli uni e la cattiveria degli altri, univa i membri della famiglia, gli abitanti del quartiere e tutti coloro di cui si diceva quella è gente come noi. Un repertorio di abitudini, una somma di gesti modellati dalle infanzie nei campi, le adolescenze nelle botteghe, precedute da altre infanzie, retrocedendo fino all’oblio:


      mangiare facendo rumore e lasciando vedere la metamorfosi progressiva degli alimenti nella bocca aperta, pulirsi le labbra con un pezzo di pane, fare la scarpetta con tanta dovizia che si sarebbe potuto riporre il piatto senza lavarlo, sbattere il cucchiaio sul fondo della scodella, stiracchiarsi alla fine del pasto. Lavarsi tutti i giorni soltanto la faccia e del resto occuparsene secondo il grado di sporcizia, le mani e gli avambracci dopo il lavoro, le gambe e le ginocchia dei bambini nelle sere d’estate, la pulizia generale riservata alle festività


      impugnare gli oggetti con forza, sbattere le porte. Fare tutto in maniera brusca, che si trattasse di afferrare un coniglio per le orecchie, dare un bacino, stringere un bimbo al petto. Quando volavano gli stracci, entrare e uscire, spostare le sedie


      camminare ad ampie falcate dondolando le braccia, sedersi lasciandosi cadere sulla seggiola, le vecchie affondando il pugno in mezzo al grembiule, rialzarsi staccando con un gesto rapido il lembo di gonna rimasto tra le natiche


      per gli uomini, il continuo uso delle spalle, per trasportare vanghe, assi e sacchi di patate, i bambini sfiniti al ritorno dal mercato


      per le donne, le ginocchia e le cosce strette attorno al macinacaffè, alla bottiglia da stappare, alla gallina da sgozzare e di cui far sgocciolare il sangue nel catino


      parlare forte e brontolare in ogni circostanza, come se da sempre ci si fosse dovuti rivoltare contro l’universo.


          


      


      La lingua, un misto di francese storpiato e di patois, era indissociabile da quelle voci potenti e vigorose, dai corpi stretti nei grembiuli e nelle tute da lavoro, dalle case basse con l’orticello, dal pomeridiano abbaiare dei cani e dal silenzio che precede i litigi, così come le regole della grammatica e il francese corretto erano associati alle intonazioni neutre e alle mani bianche della maestra di scuola. Quella lingua senza cerimonie né lusinghe, contenente la pioggia, le scogliere a picco su spiagge di ciottoli grigi, i vasi da notte svuotati sul letame e il vino di chi faceva lavori di fatica, veicolava credenze e prescrizioni:


      osservare le fasi della luna, che regolavano le nascite, la semina e la raccolta dei porri, tutta la procedura rituale per togliere i vermi ai bambini


      rispettare i cicli delle stagioni e dunque scegliere il periodo giusto per smettere di indossare il cappotto e le calze, mettere la coniglia nella gabbia del maschio e piantare l’insalata, il tutto secondo il principio che c’era un momento per ogni cosa, un lasso di tempo prezioso e difficile da quantificare tra il «troppo presto» e il «troppo tardi» durante il quale si esercitava la buona volontà della natura, i bambini e i gatti nati in inverno crescevano meno bene degli altri e il sole di marzo dà alla testa


      applicare una patata cruda sulle scottature o far «spegnere il bruciore» da una vicina che conosceva la formula magica, curare un taglio con l’urina


      rispettare il pane, sui chicchi di grano c’è l’immagine di Dio


          


      


      Una lingua che, come tutte le altre, gerarchizzava, stigmatizzava, i fannulloni, le donne di malaffare, «gli svitati» e «i satiri», i bambini «ritardati», lodava «i ragazzi in gamba», le ragazze serie, riconosceva gli altolocati e «i pezzi grossi», ammoniva, la vita ti farà rigare dritto.


      Pronunciava i desideri e le speranze ragionevoli, un lavoro pulito, al riparo dalle intemperie, non soffrire la fame e morire nel proprio letto


      i limiti, non volere la luna, cose che non stanno né in cielo né in terra, accontentarsi di ciò che si ha


      la preoccupazione per le partenze e per l’ignoto, perché quando non si viaggia mai qualsiasi altra città è all’altro capo del mondo


      l’orgoglio e la ferita, saremo anche gente di campagna ma siam mica più scemi degli altri


          


      


      Ma noi, a differenza dei nostri genitori, non saltavamo la scuola per seminare la colza, raccogliere le mele, fare fascine di legna secca. Il calendario scolastico aveva sostituito il ciclo delle stagioni. Gli anni che avevamo davanti erano scanditi per classi, ciascuna posta sopra alla precedente, uno spazio-tempo che si apriva in ottobre e si chiudeva a luglio. Quando ricominciava la scuola coprivamo di carta azzurrina i libri usati che avevamo ereditato dagli studenti più grandi. Leggendo i loro nomi mal cancellati sul risguardo, vedendo le parole che avevano sottolineato, sembrava quasi di prendere da loro il testimone e di essere incoraggiati a imparare tutte quelle cose nel giro di un anno da chi, prima di noi, era riuscito a venirne a capo. Studiavamo poesie di Maurice Rollinat, Jean Richepin, Émile Verhaeren, Rosemonde Gérard, canzoni, Astro del ciel, Le dimanche matin. Ci sforzavamo di non fare alcun errore nei dettati di brani di Maurice Genevoix, La Varende, Émile Moselly, Ernest Pérochon. E recitavamo a memoria le regole di grammatica del buon francese. Appena rientrati a casa ritrovavamo senza neanche accorgercene la lingua originaria, quella che non obbligava a riflettere su ogni parola ma soltanto sulle cose da dire o non dire, quella collegata ai corpi, agli sberloni, all’odore di candeggina dei grembiuli, delle mele cotte per tutto l’inverno, al rumore dell’urina nel pitale e al russare degli adulti.


      La morte delle persone non ci faceva nulla.


          


           


           


      


      


      


      La foto in bianco e nero di una bambina con un co­stume da bagno scuro, su una spiaggia di ciottoli. Sullo sfondo, le scogliere. È seduta su una roccia piatta, le gambe robuste sono distese dritte in avanti, si appoggia sui gomiti, gli occhi chiusi, la testa leggermente inclinata, sorride. Una spessa treccia bruna le scende sul petto, l’altra dietro la schiena. Tutto rivela il desiderio di posare come le dive delle pagine di Cinémonde o della pubblicità dell’Ambre Solaire, di sfuggire al proprio corpo umiliante e senza importanza di bambina. Le cosce, più chiare come la parte alta delle braccia, disegnano la forma di un vestitino e indicano il carattere eccezionale, per lei, di un soggiorno al mare, di una gita. La spiaggia è deserta. Sul retro: agosto 1949. Sotteville-sur-Mer.


      Sta per compiere nove anni. È in vacanza con suo padre dagli zii, una coppia di artigiani che producono corde. La madre è restata a Yvetot, a badare al bar-alimentari di famiglia che non chiude mai. Di solito è lei a intrecciarle i capelli e a fissarglieli a corona sopra la testa con nastrini e fermagli. Forse suo padre e sua zia non sono capaci di acconciarla così, oppure approfitta dell’assenza della madre per lasciar sventolare le trecce.


      Difficile dire a cosa pensi, cosa sogni, come guardi agli anni che la separano dalla Liberazione, di cosa si ricordi senza sforzi.


          


      


      Forse già non conserva altre immagini oltre a quelle che avrebbero resistito anche in seguito alla dissipazione della memoria:


      l’arrivo nella città delle macerie e la cagna in calore che se ne fugge via


      il primo giorno di scuola, iniziata dopo Pasqua, non conosce nessuno


      la grande escursione con tutta la famiglia materna a Fécamp, su un treno con le panchette in legno, la nonna con un cappello nero in paglia di riso e i cugini che si spogliano sui sassi, il sedere nudo


      il puntaspilli a forma di zoccolo realizzato per Natale con una vecchia camicia


      Pas si bête con Bourvil


      i giochi segreti, gli anelli apribili delle tende usati co­me orecchini.


          


      


      Forse, se stesse pensando agli anni di scuola alle sue spalle, questi le apparirebbero già come una distesa immensa, quelle tre classi frequentate, la disposizione dei banchi e della cattedra, della lavagna, le compagne:


      Françoise C., di cui invidia il clownesco berretto a forma di testa di gatto, che all’intervallo le ha chiesto di prestarle il fazzoletto, ci si è soffiata forte il naso, l’ha appallottolato, gliel’ha restituito ed è corsa via, la sua sensazione di sporcizia e vergogna per quella pezzola sudicia tenuta nella tasca del cappotto per tutta la ricreazione


      Évelyne J., alla quale ha messo una mano nelle mutandine sotto il banco e ha toccato l’ovetto appiccicoso


      F., a cui non parlava nessuno, mandata in sanatorio, che alla visita medica indossava dei pantaloncini azzurri da maschietto, macchiati di cacca, e tutte le bambine che la guardavano ridendo


      le estati precedenti, già lontane, quella torrida con le cisterne vuote e i pozzi a secco, la fila degli abitanti del quartiere con le brocche in mano davanti alla fontana pubblica, la vittoria di Robic al Tour de France – quell’altra, piovosa, in cui raccoglie cozze assieme alla madre e alla zia sulla spiaggia di Veules-les-Roses, si sporge con loro su una fenditura della scogliera per guardare sotto, dissotterrano i soldati per poterli inumare altrove.


          


      


      A meno che non stia pensando a nulla di tutto ciò, preferendo come suo solito le molteplici combinazioni dell’immaginario a partire dai libri della Bibliothèque Verte o dalle avventure per bambine della Semaine de Suzette, e il sogno di un avvenire modellato sulle emozioni che prova nel sentire le canzoni d’amore alla radio.


          


      


      Ad ogni modo è improbabile che dedichi qualche pensiero agli avvenimenti politici o ai fatti di cronaca, tutto ciò che in seguito verrà riconosciuto come parte integrante del paesaggio della sua infanzia, un insieme di cose sapute e sfumate, Vincent Auriol, la guerra d’Indocina, Marcel Cerdan campione del mondo di boxe, il bandito Pierrot le fou e Marie Besnard, l’avvelenatrice all’arsenico.


          


      


      L’unica cosa certa è il suo desiderio di diventare grande. E l’assenza di questo ricordo:


      quello della prima volta in cui le è stato detto, davanti alla foto di un infante con una camiciola seduto su un cuscino, in mezzo a immagini identiche, ovali e di color bistro, «questa sei tu», obbligata a riconoscere se stessa in quell’altro, un essere paffuto che aveva vissuto un’esistenza misteriosa in un tempo scomparso.


         


         


          


      


      


      


      La Francia era immensa, composta da popoli diversi distinti dal cibo e dai modi di parlare, attraversata in lungo e in largo nel mese di luglio dai corridori del Tour di cui si seguivano le tappe sulla carta Michelin appesa con le puntine al muro della cucina. La maggior parte delle strade si distendeva all’interno di un perimetro di una cinquantina di chilometri. Quando in chiesa si alzava brontolando il canto vittorioso Regna su di noi Vergine pura sapevamo che quel su di noi indicava esattamente là dove abitavamo, la nostra cittadina, tutt’al più il dipartimento provinciale. L’esotismo iniziava dalla più vicina delle grandi città. Il resto del mondo era irreale. I più istruiti e coloro che volevano diventarlo andavano ad assistere ai documentari didattici dell’associazione Connaissance du monde. Gli altri leggevano Selezione dal Reader’s Digest o Constellation, «il mondo visto in francese». La cartolina di Biserta, in Tunisia, spedita da un cugino che vi si trovava a fare il militare, ci faceva piombare in uno stato di sognante costernazione.


      Parigi rappresentava la bellezza e la potenza, una totalità misteriosa che metteva paura, di cui ogni strada che compariva sui giornali o che veniva menzionata in una pubblicità, il boulevard Barbès, la rue Gazan, Jean-Mineur-116-avenue-des-Champs-Élysées, stimo­lava l’immaginazione. Chi ci aveva vissuto, chi ci aveva fatto anche solo una gita e aveva visto la Torre Eiffel, era circonfuso da un’aura di superiorità. Le sere d’estate, alla fine delle lunghe polverose giornate di vacanza, andavamo alla stazione all’arrivo dell’espresso per guardare chi rientrava da un qualsiasi altrove, li vedevamo scendere dal treno con le valigie, con i sacchetti di Printemps o di qualche altro grande magazzino, vedevamo i pellegrini che tornavano da Lourdes. Nelle canzoni si evocavano regioni sconosciute, il Midi, i Pirenei, i desideri si alimentavano sulle note del Fandango du pays basque, di Montagnes d’Italie, di Mexico. Nelle nuvole al tramonto bordate di rosa vedevamo maragià e palazzi indiani. Ci lamentavamo con i genitori, «non andiamo mai da nessuna parte!», rispondevano con stupore, «dove vuoi andare, non sei contenta di dove stai?».


         


      


      Tutto ciò che si trovava nelle case era stato comprato prima della guerra. Le pentole si erano annerite e avevano perso i manici, ai sanitari era venuto via lo smalto, le brocche erano riparate colmando le fessure con mezzi di fortuna. I cappotti erano aggiustati alla bell’e meglio, si girava il collo alle camicie, i vestiti della domenica ormai sciupati venivano declassati all’uso quotidiano. Che non smettessimo di crescere faceva disperare le madri, obbligate ad allungarci i vestiti con scampoli di tessuto, a comprarci scarpe di un numero più grande che erano già troppo piccole soltanto un anno dopo. Ogni oggetto doveva trovare una sua funzione, l’astuccio, il barattolo di vernice Lefranc, la scatola dei biscotti LU. Non si buttava nulla. I vasi da notte servivano per concimare l’orto, lo sterco raccolto per strada dopo il passaggio di un cavallo per fertilizzare i fiori, con i giornali ci si avvolgevano le verdure, si assorbiva l’umido delle scarpe bagnate, si asciugavano i pavimenti dei gabinetti.


      Vivevamo nella scarsità. Degli oggetti, delle immagini, delle distrazioni, delle spiegazioni di sé e del mondo, limitate al catechismo e alle prediche di don Riquet durante la quaresima, al vocione di Geneviève Tabouis che la domenica alla radio commentava le «ultime notizie di domani», ai racconti delle donne che il pomeriggio, davanti a una tazza di caffè, narravano la loro vita e quella dei vicini. I bambini credevano a lungo a Babbo Natale e ai neonati trovati sotto un cavolo o in una rosa.


          


      


      Le persone si spostavano a piedi o in bicicletta in un viavai regolare, gli uomini con le ginocchia divaricate e l’orlo dei pantaloni stretto da una molletta, le donne con le natiche fasciate nelle gonne tese, si tracciavano linee fluide che attraversavano la tranquillità delle strade. Il silenzio era il sottofondo delle cose e la bicicletta misurava la velocità della vita.


         


      


      Si viveva nella prossimità della merda, che faceva tanto ridere.


          


          


          


      


      


      


      In ogni famiglia erano morti dei bambini. Di una malattia improvvisa, di diarrea, di convulsioni, di difterite. Come traccia del loro breve passaggio sulla terra restavano una tomba a forma di lettino con le sbarre di ferro e un’iscrizione, «un angelo salito al cielo», delle fotografie mostrate asciugando furtivamente una lacrima, delle conversazioni fatte a mezza bocca, quasi con serenità, che facevano credere ai bambini ancora vivi, terrorizzati, di essere a loro volta in procinto di morire. Non sarebbero stati al sicuro che verso i dodici, quindici anni, dopo aver attraversato la pertosse, il morbillo e la varicella, gli orecchioni e le otiti, la bronchite immancabile a ogni inverno, dopo essere scampati alla tubercolosi e alla meningite, dopo che fosse stato detto di loro che si erano irrobustiti. Prima di allora, i «bambini della guerra», pallidini, anemici, le macchie bianche sulle unghie, dovevano buttar giù cucchiaiate di olio di fegato di merluzzo e di vermifugo Lune, masticare le pastiglie Jessel, salire sulla bilancia del farmacista e imbacuccarsi negli sciarponi per evitare il minimo colpo di freddo, mangiare la minestra per crescere, stare bene dritti con la schiena se non volevano essere costretti a portare un busto di ferro. I più piccoli, che cominciavano a nascere da ogni parte, venivano vaccinati, monitorati e portati alla pesata dei lattanti che si teneva ogni mese in una sala del municipio. I titoli dei giornali dicevano che ne morivano ancora cinquantamila all’anno.


      La demenza congenita non faceva paura. Si temeva la follia perché colpiva d’un tratto, in maniera misteriosa, le persone normali.


         


      


      La foto sfocata e logora di una bimba in piedi davanti a un parapetto, su un ponte. Ha i capelli corti, le cosce magre e le ginocchia sporgenti. Si protegge gli occhi dal sole con una mano. Ride. Sul retro c’è scritto Ginette 1937. Sulla tomba: deceduta all’età di sei anni il giovedì santo del 1938. È la sorella maggiore della bambina sulla spiaggia di Sotteville-sur-Mer.


          


          


          


      


      


      


      Dappertutto i maschi e le femmine erano separati. I bambini erano rumorosi, senza lacrime, sempre pronti a lanciare qualcosa, sassi, castagne, petardi, palle di neve pressata e dura, dicevano le parolacce, leggevano Tarzan e Bibi Fricotin. Alle bambine, che ne avevano paura, veniva intimato di non imitarli, di prediligere i giochi tranquilli, il girotondo, la campana, l’anello d’oro. I giovedì d’inverno si mettevano sedute al tavolo della cucina e si fingevano maestre di scuola davanti a una classe di vecchi bottoni o di figurine ritagliate dalle pagine dell’Écho de la mode. Facevano la spia, incoraggiate dalle mamme e dalla scuola, la loro minaccia preferita era «lo vado a dire!». Tra di loro si chiamavano dicendo ehi cosetta, ascoltavano storielle sconce che ripetevano bisbigliando con la mano davanti alla bocca, sghignazzavano di nascosto per la vicenda di Maria Goretti che aveva preferito morire pur di non fare con un ragazzo quello che loro non avrebbero avuto il diritto di fare per molto tempo ancora, si spaventavano della loro stessa viziosità, insospettata dagli adulti. Sognavano di avere il seno, i peli, un panno macchiato di sangue nelle mutandine. Nell’attesa, leggevano gli albi di Bécassine e I pattini d’argento di P.-J. Stahl, In famiglia di Hector Malot, andavano al cinema con la scuola a vedere Monsieur Vincent, Le Grand Cirque e Operazione Apfelkern, che elevavano l’anima, infondevano coraggio e scacciavano i cattivi pensieri. In cuor loro però sapevano che la realtà e l’avvenire si trovavano nei film di Martine Carol, nelle riviste che sin dal titolo, Nous deux, Confidences e Intimité, annunciavano un’impudicizia desiderabile e proibita.


          


           


           


      


      


      


      Gli edifici della Ricostruzione emergevano dal terreno nell’intermittente cigolio delle gru. I razionamenti erano finiti e di tanto in tanto arrivava una novità, abbastanza distanziata dalla precedente e dalla successiva da essere accolta con uno stupore festoso, da dare il tempo di attardarsi in conversazioni sulla sua eventuale utilità. Giungevano come nelle fiabe, impreviste, inaudite. Ce n’era per tutti, la penna Bic, i campioncini di shampoo monouso, i sottotovaglia di gomma e i pavimenti in PVC, i Tampax e le creme per la peluria superflua, la plastica Gilac, il Terital, le luci al neon, il cioccolato al latte con le nocciole, il bicimotore VéloSoleX e il dentifricio alla clorofilla. Non ci si capacitava di tutto il tempo risparmiato grazie al minestrone in busta, alla pentola a pressione, alla maionese in tubetto. Si preferivano le conserve ai prodotti freschi, trovando più chic servire delle pere sciroppate rispetto alle fragole, i piselli in scatola rispetto a quelli dell’orto. Cominciavano ad avere una qualche importanza cose come la «digeribilità» degli alimenti, le vitamine e la «linea». Ci si meravigliava delle invenzioni che in un istante cancellavano secoli di gesti e sforzi, inaugurando un tempo in cui, come si diceva, non si avrebbe più avuto niente da fare. Le si denigrava: la lavatrice era accusata di sciupare la biancheria, la televisione di far male agli occhi e di far andare a letto a ore impossibili. Si badava a ciò che possedevano i vicini, li si invidiava se avevano comprato qualche simbolo di progresso che ne potesse determinare la superiorità sociale. In città, i giovanotti ostentavano le loro Vespe e volteggiavano attorno alle signorine. Dritti e fieri sui loro sellini, aspettavano di portarsene via una che, con il foulard annodato sotto il mento, li abbracciasse da dietro per non cadere. Quando li guardavamo allontanarsi scoppiettando in fondo alla strada avremmo voluto crescere di tre anni in un colpo solo.


           


      


      Le réclame magnificavano le qualità degli oggetti con un entusiasmo imperioso e incessante, i mobili Lévitan sono garantiti per durare!, Chantelle, la guaina che non dà fastidio!, l’olio Lesieur è tre volte meglio!. Li decantavano con allegria, hop hop hop, evviva lo shampoo Dop, Colgate, ti spunta un fiore in bocca, con intensità, in casa entra la gioia quando c’è Lei, con il languore della voce di Luis Mariano, è Lou il reggipetto giusto per la donna che veste con gusto. Mentre facevamo i compiti sul tavolo della cucina, le réclame di Radio Luxembourg, così come le canzoni, trasmettevano la certezza di un avvenire felice e ci sentivamo circondati di cose assenti che un giorno ci saremmo potuti permettere. Nell’attesa di essere grandi abbastanza da usare il rossetto Baiser o il profumo Bourjois, con la j di “joie de vivre”, facevamo collezione delle figurine delle fiabe di La Fontaine che trovavamo nel cioccolato Menier, degli animaletti in plastica dei pacchi di caffè, e poi ce li scambiavamo durante la ricreazione.


      L’astuccio di plastica, le scarpe con le suole di gomma, l’orologio d’oro. Avevamo il tempo di desiderare le cose. Possederle non deludeva mai. Le si offrivano agli sguardi e all’ammirazione altrui. Custodivano un mistero e una magia che non si esauriva né nella contemplazione né nell’uso. Dopo averle finalmente ottenute, girandole e rigirandole tra le mani, continuavamo ad aspettarci da loro chissà cosa.


           


      


      Il progresso era l’orizzonte delle esistenze. Significava benessere, salute dei bambini, case luccicanti e strade illuminate, il sapere, tutto ciò che voltava per sempre le spalle alle oscurità della campagna e della guerra. Era nella plastica e nella fòrmica, negli antibiotici e nelle indennità della previdenza sociale, nel lavello con l’acqua corrente e nel sistema fognario, nelle colonie di vacanza, nel proseguire gli studi, nell’atomo. Ogni occasione era buona per dire bisogna stare al passo con i propri tempi, e così facendo ci si mostrava intelligenti, di ampie vedute. In terza media si assegnavano temi dal titolo «I benefici dell’elettricità» o «Elabora una risposta per qualcuno che si metta a denigrare il mondo moderno». I genitori dicevano cose come, i giovani ne sapranno più di noi.


      Nella realtà, la dimensione delle case costringeva bambini e genitori, fratelli e sorelle a dormire nella stessa stanza, si continuavano a usare bacinelle per lavarsi, i bisogni si facevano nelle latrine comuni poste all’esterno degli appartamenti, la stoffa degli assorbenti igienici riversava il suo sangue in secchi d’acqua fredda. I raffreddori e le bronchiti dei bambini si curavano con cataplasmi alla farina di senape. Le influenze degli adulti con un grog e un’aspirina. Gli uomini pisciavano contro il muro in pieno giorno e chi proseguiva gli studi suscitava diffidenza, c’era il timore di un’oscura ritorsione, di una sorta di contrappasso che avrebbe condotto alla follia chi aveva voluto innalzarsi troppo. Non c’era bocca a cui non mancasse qualche dente. La gente diceva, l’epoca non è mica la stessa per tutti.


          


      


      Il corso dei giorni non mutava, scandito dal ritorno delle stesse distrazioni che non riuscivano a star dietro all’abbondanza e alla novità delle cose. In primavera tornavano le comunioni, la festa della Gioventù e le sagre parrocchiali, il circo Pinder, la parata degli elefanti che intasavano la strada con la loro grigia imponenza. A luglio seguivamo alla radio il Tour de France e incollavamo su un quadernone le fotografie di Geminiani, Darrigade e Coppi ritagliate dai giornali. In autunno approfittavamo delle giostre del luna park in modo che ci bastassero per un anno intero, andavamo sull’autoscontro tra i tintinnii e le scintille delle aste metalliche, con la voce all’altoparlante che continuava a tonare forza giovani, veloci sui vostri piccoli bolidi! Al baracchino dei biglietti della lotteria lo stesso ragazzo di sempre con il naso pitturato di rosso imitava Bourvil, nell’aria fredda un’imbonitrice dalla generosa scollatura prometteva spettacoli torridi, «le Folies-Bergère da mezzanotte alle due», vietati ai minori di sedici anni. Scrutavamo i volti di quelli che avevano osato attraversare le tendine dell’entrata e uscivano sghignazzando, cercavamo qualche indizio di ciò cui avevano assistito. Nell’odore di fritto e d’acqua marcia sentivamo aleggiare la lussuria.


      In seguito avremmo raggiunto anche noi l’età per oltrepassare quelle tende. Tre donne in bikini ballavano su un palchetto di legno, senza musica. Si spegneva la luce, poi si riaccendeva: le donne erano immobili, a seno nudo, davanti al poco pubblico, in piedi sull’asfalto della piazza del municipio. Fuori, un altoparlante urlava una canzone di Dario Moreno, ehi mambo, mambo italiano.


           


      


      La religione era la cornice ufficiale della vita e regolava il tempo. I giornali proponevano menu specifici per il periodo della quaresima, di cui sul calendario delle Poste erano segnate tutte le varie tappe, dalla domenica di settuagesima fino a Pasqua. Il venerdì non si mangiava la carne. La messa della domenica restava un’occasione per cambiare la biancheria, inaugurare un vestito, mettersi un cappello, i guanti, una borsa, vedere gente ed essere visti, seguire i chierichetti con lo sguardo. Per tutti rappresentava un segno esteriore della propria moralità e la certezza che il destino si scrivesse in una lingua particolare, il latino. Recitare nella stessa parrocchia le medesime preghiere ogni settimana, sottoporsi alla noia rituale della predica, tutti gesti con una funzione purificatoria che permetteva di potersi godere il piacere di mangiare pollo e pasticcini, di andare al cinema il pomeriggio. Che alcuni maestri di scuola e alcune persone istruite, dalla condotta irreprensibile, non credessero in nulla era vissuto come un’anomalia. La religione era l’unica fonte di moralità, conferiva quella dignità umana senza la quale la vita sarebbe stata simile a quella dei cani. Solo la legge della Chiesa, superiore a tutte le altre, poteva conferire legittimità ai grandi momenti dell’esistenza: «Chi non si sposa in chiesa non è sposato davvero», di­chiarava il catechismo. L’unica religione era quella cattolica, le altre erano o sbagliate o ridicole. Durante la ricreazione berciavamo Maometto che è il profeta / del grandissimo Allah / vende le noccioline / al mercato di Biskrà / sarebbe meglio ancora / se vendesse nocciole / ma noi sappiamo ora / che Allah mica le vuole (3 volte).


          


      


      Aspettavamo la prima comunione con impazienza, premessa gloriosa a tutto ciò che di importante sarebbe accaduto in seguito, il ciclo, la licenza elementare o l’entrata alle medie. Sulle file di panche della chiesa separate dalla navata centrale, i maschi in abito scuro e con il bracciale di stoffa e le femmine con il vestito lungo e il velo bianco assomigliavano già alle coppiette di sposi che sarebbero stati di lì a dieci anni. Dopo aver tuonato all’unisono durante i vespri nel nome di Gesù Cristo rinuncio a Satana potevamo sentirci dispensati dalle pratiche religiose, oramai cristiani confermati, muniti dei requisiti necessari e sufficienti per sentirci integrati nella comunità dominante e per essere certi che c’è sicuramente qualcosa dopo la morte.


          


      


      Tutti sapevano discernere ciò che si poteva da ciò che non si poteva fare, il Bene dal Male, i valori erano leggibili nello sguardo che gli altri posavano su ciascuno di noi. Dall’abbigliamento si poteva distinguere una bambina da un’adolescente, un’adolescente da una ragazza, una ragazza da una giovane donna, una madre da una nonna, un operaio da un commerciante o da un impiegato. I ricchi dicevano delle commesse o delle dattilografe troppo ben vestite, «si portano addosso tutta la loro fortuna».


          


           


          


      


      


      


      Pubblica, privata, la scuola si assomigliava, luogo di trasmissione di un sapere immutabile nel silenzio, nell’ordine e nel rispetto delle gerarchie, la sottomissione assoluta: indossare un grembiule, mettersi in fila alla campanella, alzarsi in piedi se entrava in classe la direttrice ma restare seduti se entrava una bidella, equipaggiarsi di quaderni, penne e matite regolamentari, non replicare quando si era sgridati, in inverno non indossare pantaloni senza metterci sopra una gonna. Soltanto gli insegnanti avevano il diritto di fare domande. Se non si capiva una parola o una spiegazione la colpa era solo nostra. Vivevamo quelle regole rigide con la fierezza di un privilegio. L’uniforme imposta dagli istituti privati era il segno visibile della loro perfezione.


      I programmi non cambiavano mai, in prima media Il medico per forza di Molière, in seconda Le furberie di Scapino sempre di Molière, I litiganti di Racine e La povera gente di Hugo, in terza Il Cid eccetera, né cambiavano i manuali, il Malet-Isaac per la storia, il Demangeon per la geografia, il Carpentier-Fialip per l’inglese. Un blocco compatto di conoscenze trasmesso a una minoranza che vedeva così confermata, di anno in anno, la propria intelligenza e superiorità, da rosa rosam ai versi di Corneille, Roma, unico oggetto del mio risentimento, passando per la relazione di Chasles e la trigonometria, mentre alla maggioranza per passare l’esame finale e ottenere la licenza era soltanto richiesto di cantare la Marsigliese e di svolgere problemi semplici per dimostrare di saper far di conto. Riuscire a farcela rappresentava un evento, salutato come tale dai giornali che infatti pubblicavano i nomi dei promossi. Chi falliva misurava precocemente il peso dell’indegnità, non era capace. L’elogio generalizzato dell’istruzione presente in qualsiasi discorso ne celava la parsimoniosa distribuzione.


      Incrociando per la strada l’ex compagna di banco che era stata iscritta all’avviamento al lavoro o mandata a bottega non veniva neanche in mente di doversi fermare per parlarle, non più di quanto la figlia del notaio, la cui superiorità sociale era sancita dall’abbronzatura al rientro dalla settimana bianca, pensasse a degnarci di uno sguardo fuori da scuola.


          


      


      Il lavoro, lo sforzo e la volontà rappresentavano il metro di giudizio per valutare i comportamenti. Il giorno del diploma ricevevamo in dono libri che esaltavano l’eroismo dei pionieri dell’aviazione, dei grandi generali, dei colonizzatori, Mermoz, Leclerc, de Lattre de Tassigny, Lyautey. Ma non veniva dimenticato neanche il coraggio quotidiano, bisognava ammirare il padre di famiglia, «questo avventuriero del mondo moderno» (Péguy), «la vita umile dai lavori noiosi e facili» (Verlaine), svolgere temi a partire dalle frasi di Georges Duhamel e Saint-Exupéry o dalla «lezione di energia degli eroi di Corneille», saper dimostrare «come l’amore per la famiglia conduce all’amore per la patria» e quanto «il lavoro allontana dai tre grandi mali dell’uomo, la noia, il vizio e il bisogno» (Voltaire). Si leggevano avventure a fumetti edificanti su Vaillant e Âmes vaillantes.


      Per fortificare la gioventù all’insegna di questi ideali e corroborarla fisicamente, per tenerla al riparo dalle trappole della pigrizia e delle attività debilitanti (la lettura e il cinema), per far crescere degli «uomini a modo» e delle «donne per bene» si consigliava alle famiglie di mandare i figli a fare gli Scout o i Francs et Franches Camarades affinché diventassero Lupetti, Esploratori, Pionieri, Guide. La sera attorno a un fuoco da campo, all’alba lungo un sentiero, in fila dietro un gagliardetto brandito con fare marziale, cantando Urrà Urrà si compiva l’unione incantata di natura, ordine e morale. Volti radiosi che guardavano l’avvenire figuravano tanto sulle prime pagine di La Vie catholique quanto su quelle del quotidiano comunista L’Humanité. Quella gioventù sana di figli e figlie della Francia avrebbe dato il cambio alla generazione precedente, uscita dalla Resistenza, proprio come aveva esclamato a gran voce il presidente René Coty in un discorso vibrante nel luglio del ’54, pronunciato nella piazza della stazione gremita da studenti raggruppati per istituto scolastico mentre in un cielo minaccioso correvano le nuvole bianche di un’estate in cui avrebbe piovuto tutto il tempo.


           


      


      Dietro quell’ideale e quegli occhi chiari si spandeva, lo sapevamo, un territorio informe, colloso, contenente parole e oggetti, immagini e comportamenti: le ragazze madri, la tratta delle bianche verso l’America Latina, le locandine del film Caroline chérie, i preservativi inglesi, le misteriose pubblicità che promettevano «igiene intima, discrezione assicurata», le copertine della rivista Guérir, «le donne sono fertili solo tre giorni al mese», i figli dell’amore, gli attentati al pudore, Janet Marshall strangolata in un bosco con il suo reggiseno da Robert Avril, l’adulterio, le parole lesbica, pederasta, la voluttà, i peccati impossibili da ammettere in confessionale, gli aborti spontanei, le cattive maniere, i libri all’indice, la canzone Tout ça parce qu’au bois de Chaville, l’unione libera, all’infinito. Una quantità di cose innominabili – che gli adulti erano i soli a poter sapere – tutte riconducibili agli organi genitali e al loro utilizzo. Il sesso era il grande indiziato, la società ne vedeva allusioni dappertutto, nelle scollature, nelle gonne strette, nelle unghie smaltate di rosso, nella biancheria intima nera, nel bikini, nelle mescolanze dei generi, nell’oscurità dei cinema, nei bagni pubblici, nei muscoli di Tarzan, nelle donne che fumavano e accavallavano le gambe, nel gesto di toccarsi i capelli in classe eccetera. Era il primo criterio per valutare le ragazze, divise tra le «come si deve» e le «poco di buono». Il «livello di moralità» indicato di fianco agli annunci dei film della settimana sulla porta della chiesa era stabilito in base a quell’unico criterio.


          


      


      Ma aggiravamo la sorveglianza, andavamo a vedere Manina, ragazza senza veli, Rabbia in corpo con Françoise Arnoul. Avremmo voluto assomigliare a quelle eroine, avere la libertà di comportarci come loro. Ma tra i libri, i film e le ingiunzioni della società si stendeva il territorio del divieto e del giudizio morale. Identificarci non rientrava nei nostri diritti.


          


      


      In quelle condizioni, prima di essere legittimate a fare l’amore all’interno del matrimonio, diventavano interminabili gli anni di masturbazione. Bisognava convivere con una voglia di godimento che credevamo riservata agli adulti e che però pretendeva di essere soddisfatta a ogni costo, a dispetto di qualsiasi tentativo di diversione, le preghiere, custodendo così un segreto di quelli che ci annoveravano tra le pervertite, le isteriche, le puttane.


      Nel dizionario Larousse c’era scritto:


      Onanismo: insieme dei mezzi adottati per provocare artificialmente il piacere sessuale. L’onanismo è spesso causa di incidenti molto gravi; bisogna dunque sorvegliare i bambini quando si avvicinano alla pubertà. Si impiegheranno di volta in volta il bromuro, l’idroterapia, la ginnastica, l’esercizio, la cura in sanatorio, la medicazione marziale e quella arsenicale eccetera.


      Tra le coperte o al gabinetto, ci si masturbava sotto lo sguardo della società intera.


          


      


      I ragazzi erano fieri di partire per il militare, in divisa li trovavamo belli. La sera della visita di idoneità facevano il giro di tutti i bar per festeggiare la gloria di essere riconosciuti come veri uomini. Prima del servizio di leva erano ancora dei ragazzetti che non valevano nulla sul mercato del lavoro o del matrimonio. Dopo, potevano avere moglie e figli. L’uniforme con cui passeggiavano per il quartiere durante le licenze li ammantava di patriottica bellezza, di un sacrificio potenziale. Su di loro aleggiava ancora l’ombra dei combattenti vincitori, dei G.I. americani. La tela ruvida della divisa, sfiorata nell’atto di alzarci sulle punte per baciarli, dava una sostanza materiale alla frattura assoluta che separava il mondo degli uomini da quello delle donne. Nel guardarli provavamo un sentimento di eroismo.


           


          


           


      


      


      


      Sotto la patina d’immutabilità delle locandine del circo dell’anno precedente con la foto di Roger Lanzac, delle fotografie della prima comunione distribuite alle compagne, del Club des Chansonnier su Radio Luxembourg, i giorni si riempivano di desideri nuovi. La domenica pomeriggio ci ammassavamo davanti al televisore in vetrina nel negozio di elettrodomestici. Per attirare la clientela alcuni bar facevano l’investimento di comprarne uno. Sui fianchi delle colline serpeggiavano le piste di motocross e passavamo giornate intere a guardare quegli aggeggi assordanti salire e scendere le cunette. La crescente impazienza del commercio, con le sue nuove parole d’ordine, «iniziativa», «dinamismo», sconquassava il tran-tran quotidiano delle città. Tra la partenza delle giostre e la sagra di paese si insediavano come un rito primaverile le due settimane della fiera commerciale. Lungo le vie del centro gli altoparlanti strepitavano le loro esortazioni all’acquisto per poter vincere una Simca o una cucina attrezzata, intervallate di tanto in tanto da una canzone di Annie Cordy o di Eddie Constantine. Sul palco nella piazza del municipio un animatore locale divertiva il pubblico con le barzellette di Roger Nicolas e di Jean Richard e radunava candidati per emulare programmi radiofonici di quiz o canzoni come Quitte ou double o Le Crochet. Seduta in un angolo del palco troneggiava con la sua corona la Regina del Commercio. La merce incedeva tra i colori della festa. La gente diceva «è il vento del cambiamento» o «non si può restare chiusi in casa, ci si abbrutisce».


          


      


      Una gioia diffusa attraversava la gioventù della classe media, i ragazzi si mettevano a organizzare feste a sorpresa, inventavano un linguaggio nuovo, dicevano «che schianto», «dare buca», «filarino», infilavano un «okay» in ogni frase, si divertivano a imitare l’accento di Marie-Chantal, giocavano a biliardino e chiamavano «matusa» la generazione dei genitori. Yvette Horner, Tino Rossi e Bourvil ormai li facevano sghignazzare. Tutti cercavamo confusamente dei modelli adatti alla nostra età. Ci entusiasmavamo per Gilbert Bécaud e le sedie sfasciate dal pubblico in delirio durante un suo concerto. Alla radio ascoltavamo Europe n. 1, che trasmetteva soltanto musica, canzoni e pubblicità.


         


          


         


      


      


      


      Su una foto in bianco e nero, due ragazze in un vialetto, spalla contro spalla, entrambe tengono le braccia dietro la schiena. Sullo sfondo, qualche albero e un alto muro di mattoni. Sopra di loro, grandi nuvole bianche nel cielo. Sul retro della foto: luglio 1955, nei giardini del collegio di Saint-Michel.


      A sinistra c’è la più alta delle due, bionda, con i capelli corti e spettinati, un vestito chiaro e i calzini alla caviglia, il viso in ombra. A destra, una mora con i capelli ricci, corti, gli occhiali sul volto in carne, attraversato dalla luce, la fronte alta, un golfino scuro con le maniche corte, una gonna a pois. Entrambe portano le ballerine, la bruna è senza calze. Devono essersi tolte i grembiuli di scuola per scattare la foto.


      Anche se nella ragazza di destra non si riesce a riconoscere la bimbetta con le trecce che posava sulla spiaggia, che crescendo sarebbe potuta diventare anche la bionda, è lei, e non l’altra, a essere stata quella coscienza, è lei a essere stata presa in quel corpo, con una memoria unica, il che permette di assicurare che i capelli sono ricci per via di una permanente, rituale del mese di maggio dopo la cresima, che la gonna era stata ricavata da un vestitino estivo dell’anno precedente diventato troppo stretto e che il golfino era stato fatto a maglia da una vicina di casa. Ed è con le percezioni e le sensazioni ricevute da quella brunetta occhialuta di quattordici anni e mezzo che la scrittura, ora, può rinvenire qualcosa di ciò che pulsava negli anni Cinquanta, captare il riflesso proiettato sullo schermo della memoria individuale dalla storia collettiva.


      A parte le ballerine, non c’è niente nell’aspetto di quell’adolescente che possa essere ricondotto a «ciò che usava» al tempo e che si poteva vedere nelle riviste di moda o nei negozi delle grandi città, la gonna scozzese a metà polpaccio, un grosso pendente sopra un maglioncino nero, la coda di cavallo con la frangetta come Audrey Hepburn in Vacanze romane. La foto potrebbe essere stata scattata tanto sul finire degli anni Quaranta quanto all’inizio dei Sessanta. Agli occhi di chiunque sia nato dopo è, semplicemente, vecchia, appartiene a quella preistoria di sé in cui si appianano tutte le vite che sono venute prima. Eppure, quella luce laterale che illumina il viso della ragazzina e scende sul golfino tra i seni ben dritti è stata sensazione di calore di un sole di giugno in un anno che, tanto per gli storici quanto per chi allora c’era e viveva, non può confondersi con nessun altro, il 1955.


      Forse non si accorge del divario che la separa dalle altre ragazze della classe, quelle con cui sarebbe inimmaginabile farsi ritrarre in fotografia. Un divario che si manifesta negli svaghi, nel modo di impiegare il tempo al di fuori delle ore di lezione, nella maniera generale di vivere, e che la allontana tanto dalle ragazze chic quanto da quelle che già lavorano in ufficio o a bottega. O forse percepisce questa distanza e non se ne preoccupa.


      Non è ancora mai stata a Parigi, a centoquaranta chilometri da lì, non ha mai partecipato a un «party», non ha il giradischi. Nel fare i compiti ascolta le canzoni della radio e ne trascrive le parole su un quaderno, se le porta nella testa per giornate intere, mentre cammina, a lezione, tu che dicevi, che dicevi, che dicevi che l’amavi, che ne hai fatto del tuo amor che ora piange nella pioggia.


      Non parla con i ragazzi, ci pensa tutto il tempo. Vorrebbe avere il diritto di mettersi il rossetto, le calze da donna, i tacchi alti – i calzini la fanno vergognare, li toglie appena esce di casa – per mostrare che già appartiene alla categoria delle ragazze e che può essere seguita per strada. Con questo preciso scopo la domenica mattina dopo la messa va a «fare le vasche» in città in compagnia di due o tre amiche del suo stesso ambiente «semplice», badando bene a non trasgredire la rigorosa legge materna a proposito dell’ora («se ti dico di tornare alla tal ora torni alla tal ora, non un minuto dopo»). Compensa il generico divieto di uscire con la lettura dei romanzi d’appendice pubblicati sui giornali, I signori di Mogador, Affinché nessuno muoia, Mia cugina Rachele, La cittadella. Si astrae immaginandosi storie e incontri che sfociano in orgasmi serali sotto le lenzuola. Si sogna puttana e al contempo ammira la bionda della foto, così come altre compagne di scuola più grandi che la rimandano al suo corpo ancora invischiato in un bozzolo informe. Vorrebbe essere loro.


      Al cinema ha visto La strada, Lo spretato, Gli orgogliosi, Le piogge di Ranchipur, La belle de Cadix. Sono più i film che vorrebbe vedere ma che le sono vietati – Les enfants de l’amour, Quella certa età, Le compagne della notte eccetera – di quelli che le sono concessi.


      (Andare in città, sognare, darsi piacere e attendere: riassunto possibile di un’adolescenza in provincia.)


         


      


      Quanto c’è in lei in termini di conoscenza del mondo, oltre a ciò che ha imparato in classe fino alla terza media? Quali tracce hanno lasciato i vari eventi, i fatti di cronaca, gli avvenimenti che più tardi la indurranno a dire «me ne ricordo» quando saranno rievocati in una frase ascoltata per caso?


      il grande sciopero dei treni dell’estate del ’53


      la caduta di Dien Bien Phu


      la morte di Stalin annunciata alla radio un freddo mattino di marzo, appena prima di uscire per andare a scuola


      gli alunni più piccini in fila indiana al refettorio per bere il bicchiere di latte promesso da Mendès France


      la coperta fatta a maglia dagli studenti e spedita al­l’Abbé Pierre, la cui barba offre lo spunto per qualche barzelletta sconcia


      la gigantesca vaccinazione collettiva, la città intera in fila al municipio spaventata dal vaiolo che aveva causato diversi morti a Vannes


      le inondazioni in Olanda


      Tra i suoi pensieri è improbabile che figurino gli ultimi morti di un’imboscata in Algeria, ennesimo episodio dei disordini di cui verrà a conoscenza soltanto in seguito e che si sono scatenati a Ognissanti nel ’54, e di quel giorno saprà di averlo passato nella sua cameretta, seduta vicino alla finestra con i piedi sul letto a guardare gli invitati della casa di fronte uscire uno dopo l’altro in giardino per urinare in un angolino nascosto da un muretto, e lo saprà talmente bene che non dimenticherà mai né la data dell’insurrezione algerina né quel pomeriggio di Ognissanti per il quale avrà a disposizione un’immagine netta, una sorta di fatto puro, una giovane donna che si accovaccia nell’erba e che poi si rialza aggiustandosi la gonna.


      Nella stessa memoria illegittima, quella delle cose che è impensabile, vergognoso o folle formulare, rientrano anche:


      una macchia scura su un lenzuolo di sua madre che era appartenuto alla nonna, morta da tre anni; una macchia indelebile, che l’attira e la ripugna con violenza, come se fosse una cosa viva


      la scenata tra i suoi genitori, la domenica prima dell’esame di ammissione alle medie, con suo padre che trascina in cantina la moglie e la vuole sopprimere vicino al ceppo in cui è conficcata la roncola


      il ricordo che le torna ogni volta che passa davanti al terrapieno situato lungo la strada per la scuola, là dove un paio di anni prima, una domenica di gennaio, ha visto una bambina piccola con il cappottino che si divertiva a premere il piede sull’argilla impregnata d’acqua. Il giorno dopo c’era la sua impronta, ci sarebbe rimasta per mesi.


         


      


      La vacanze estive saranno una lunga spianata di noia, di giornate riempite da attività minuscole:


      ascoltare l’arrivo della tappa del Tour de France, incollare la foto del vincitore in un quaderno apposito


      identificare il numero di dipartimento sulle targhe delle auto di passaggio


      leggere sul quotidiano locale le brevi recensioni di film che non vedrà, di libri che non leggerà


      ricamare un portatovaglioli


      spremersi i punti neri e metterci sopra dell’Eau Précieuse o delle fettine di limone


      andare in città a comprare lo shampoo e un piccolo classico della Larousse abbassando lo sguardo nel passare davanti al bar dove i ragazzi giocano a flipper


      


      Il futuro è troppo immenso perché lei riesca a immaginarlo. Arriverà, tutto qui.


      Quando in cortile durante l’intervallo sente cantare le bambine delle elementari Cueillons la rose le pare che la sua infanzia sia qualcosa di accaduto molto tempo prima.


          


          


           


      


      


      


      Verso la metà degli anni Cinquanta, nei pranzi di famiglia, gli adolescenti restavano a tavola, ascoltavano senza immischiarsi, sorridevano educatamente a battute che non li facevano ridere, alle allusioni un po’ sconce destinate a farli arrossire e a chi si complimentava con loro per come stavano venendo su bene; si limitavano a rispondere alle caute domande sui loro studi, non sentendosi ancora pronti per partecipare a pieno diritto alla conversazione generale, anche se il vino, i liquori e le sigarette che erano autorizzati a bere e fumare per il dessert sancivano l’inizio della loro inclusione nella cerchia degli adulti. Ci lasciavamo pervadere dalla dolcezza delle tavolate festive, quando la consueta severità del giudizio sociale si attenuava, si ammorbidiva nelle facezie, e quelli che l’anno precedente se l’erano presa a morte e se l’erano giurata ora si passavano la maionese senza frizioni. Ci annoiavamo un po’, ma non fino a preferire di essere già alla lezione di matematica dell’indomani.


      Le pietanze che ci si apprestava a mangiare erano commentate, suscitavano il ricordo delle stesse ricette degustate in altre occasioni e uno scambio di consigli su come prepararle al meglio, poi i convitati discutevano dell’esistenza dei dischi volanti, dello Sputnik e di chi tra americani e russi sarebbe andato per primo sulla luna, degli alloggi d’emergenza dell’Abbé Pierre, del costo della vita. Prima o poi si tornava a parlare della guerra. Ricordavano l’esodo, i bombardamenti, i razionamenti postbellici, la moda degli zazous, i pantaloni da golf. Era il romanzo della nostra nascita e della nostra prima infanzia, lo ascoltavamo presi da una nostalgia indefinibile, la stessa che provavamo nel recitare con fervore Barbara di Prévert di cui ricopiavamo i versi in un quadernetto personale di poesie. Ma nel tono delle voci era percepibile una forma di distanza. Se n’era andato qualcosa, erano morti i nonni che avevano conosciuto due guerre, i bambini erano cresciuti, la ricostruzione delle città era terminata, c’erano il progresso e il mobilio comprato a rate. In un passato ormai compiuto convergevano i ricordi degli stenti patiti durante l’Occupazione e quelli della loro infanzia contadina. Avevano tutti la forte convinzione di vivere meglio.


      Dell’Indocina non si parlava già più, così lontana, così esotica – «due sacchi di riso appesi alle estremità di una canna di bambù», recitava il manuale di geografia –, e ormai persa senza troppi rimpianti nella battaglia di Dien Bien Phu in cui a combattere erano andate soltanto le teste calde, volontari che si erano arruolati perché non avevano nessun mestiere per le mani. Era un conflitto che non aveva mai fatto parte del presente delle persone. E neppure avevano voglia di appesantire l’atmosfera parlando delle rivolte in Algeria, che nessuno sapeva dire esattamente come fossero cominciate. Ma erano tutti d’accordo – anche noi, che l’avevamo in programma per l’esame delle medie –, i tre dipartimenti algerini erano Francia a tutti gli effetti, proprio come buona parte dell’Africa raffigurata sugli atlanti, coperta per metà da territori in nostro possesso. La ribellione doveva essere sedata, bisognava bonificare i «covi di fellagha», quei macellai di cui intuivamo l’ombra traditrice nel volto brunito del pur gentile venditore di tappeti curvo sotto il peso del suo campionario di scendiletto. Ai motteggi cui gli arabi erano sottoposti anche nelle canzoncine coloniali, bella algerina infila il naso nella caffettiera vedrai quanto scotta, si sommava la certezza della loro selvaggia ferocia. Normale dunque che soldati regolari e riservisti fossero inviati per ristabilire l’ordine, anche se tutti concordavano su quanto fosse una disgrazia terribile perdere un figlio di vent’anni che, come recitava la didascalia della foto sotto il titolo «caduto in un’imboscata» nel quotidiano locale, per di più stava per sposarsi. Erano tragedie individuali, morti singole occorse di volta in volta. Non c’era nemico, né combattente, né battaglia. Non avevamo la sensazione che ci fosse una guerra in corso. La prossima sarebbe venuta dall’Est, con i carrarmati russi che come a Budapest sarebbero arrivati a distruggere il mondo libero, e allora sarebbe stato inutile rimettersi in strada e partire come nel ’40, la bomba atomica non avrebbe lasciato alcuno scampo. Già si era sudato freddo con la crisi del Canale di Suez.


      Nessuno parlava dei campi di concentramento, se non incidentalmente, a proposito di un qualcuno che aveva perso i genitori a Buchenwald. Seguiva un silenzio contrito. Era diventata una sciagura privata.


         


      


      I cori patriottici che si cantavano al dolce dopo la Liberazione erano scomparsi. Gli adulti intonavano Parlez-moi d’amour, i ragazzi più grandi Mexico e i bambini Ma grand-mère était cow boy. Quanto a noi, ci saremmo troppo vergognati di cantare come un tempo Étoile des neiges. Esortati a lanciarci in un coro a nostra volta facevamo finta di non sapere per intero nessuna canzone a memoria, certi che Brassens e Brel avrebbero stonato in quella letizia postprandiale, che sarebbe stato meglio scegliere brani già consacrati da altri pranzi, da altre lacrime asciugate con l’angolo del tovagliolo. Provavamo una timida ripugnanza a svelare gusti musicali che non potevano capire, loro che non conoscevano nemmeno una parola d’inglese oltre al fuck you imparato alla Liberazione e che ignoravano chi fossero i Platters o Bill Haley.


      Ma l’indomani, nel silenzio della sala di lettura, colti da un soggiogante senso di vuoto, sapevamo che il giorno prima, malgrado non volessimo ammetterlo, malgrado avessimo creduto di restarne al di fuori, di annoiarci, era stato un giorno di festa.


          


           


           


      


      


      


      Catturati nel tempo infinitamente lungo della scuola, nella regolarità cadenzata della campanella che suonava per ogni lezione, delle interrogazioni di fine quadrimestre, delle interminabili spiegazioni del Cinna e dell’Ifigenia, della traduzione del Pro Milone, i pochi ragazzi che avevano la possibilità di continuare gli studi avevano l’impressione che non succedesse mai niente. Ci segnavamo frasi di grandi scrittori sulla vita, scoprivamo la gioia di pensare a noi stessi tramite formule scintillanti, esistere è bersi senza sete. Eravamo invasi dalla nausea, da una sensazione di assurdità. Il corpo vischioso dell’adolescenza incontrava l’essere «di troppo» dell’esistenzialismo. Sui fogli di un quadernone appiccicavamo le foto di Brigitte Bardot in E Dio creò la donna, nel legno del banco di scuola incidevamo le iniziali di James Dean. Copiavamo le poesie di Prévert, i testi delle canzoni di Brassens, Je suis un voyou e La première fille, vietate alla radio. Leggevamo di nascosto Bonjour tristesse e i Tre saggi sulla teoria sessuale. La sfera del desiderio e dei divieti diventava immensa. Si schiudeva da qualche parte davanti a noi la possibilità di un mondo senza peccato. Gli adulti sospettavano che fossimo demoralizzati dagli scrittori moderni, dicevano che non avevamo più rispetto per niente.


          


      


      Nell’immediato, il desiderio più pressante era quello di possedere un giradischi e almeno qualche vinile, oggetti cari di cui si poteva godere in compagnia o in solitudine, all’infinito, fino a non poterne più, oggetti che facevano entrare di diritto nella tribù giovanile dei più evoluti, dei liceali benestanti, quelli che indossavano i montgomery, che chiamavano i genitori «i miei vecchi» e dicevano bye per dire arrivederci.


      Eravamo avidi di jazz, di spiritual, di rock ’n’ roll. Tutto ciò che si cantava in inglese era aureolato di una misteriosa bellezza. Dream, love, heart, parole pure, senza un utilizzo pratico, che restituivano la sensazione di un al di là. Nel segreto della propria cameretta ci si abbuffava dello stesso disco, senza stancarsene, come una droga che pigliava la testa, faceva esplodere il corpo, apriva la porta su un altro mondo fatto di violenza e di amore, un mondo che si sovrapponeva e confondeva con quello di quei party a cui ancora non avevamo il diritto di andare. Elvis Presley, Bill Haley, Armstrong, i Platters incarnavano la modernità, l’avvenire, e cantavano soltanto per noi, per noi giovani, lasciandosi alle spalle i gusti fuorimoda dei genitori e l’ignoranza dei buzzurri, Il paese del sorriso, André Claveau e Line Renaud. Ci sembrava di far parte di un circolo ristretto di iniziati. E tuttavia Les Amants d’un jour non aveva smesso di farci venire la pelle d’oca.


      Ci capitava ancora di trovarci nel silenzio delle vacanze, i rumori distinti, separati, della provincia, i passi di una donna che andava a far la spesa, un’auto di lontano, il martellare attutito di un’officina. Si consumavano intere ore per obiettivi di pochissima importanza, attività stiracchiate, archiviare i compiti svolti durante l’anno, mettere in ordine un ripostiglio, leggere un romanzo sforzandosi di non finirlo troppo in fretta. Ci guardavamo allo specchio, ansiose di avere i capelli abbastanza lunghi da poterli raccogliere all’indietro in una coda di cavallo. Aspettavamo con impazienza l’improbabile arrivo di un’amica. A cena, ci dovevano tirar fuori le parole di bocca con la tenaglia, lasciavamo il cibo nel piatto, ci sgridavano, «se avessi avuto fame durante la guerra ora faresti meno la difficile». Ai desideri che ci scombussolavano si contrapponeva la saggezza dei limiti, «dalla vita chiedi troppo».


          


      


      La domenica, dopo la messa o dopo il cinema, femmine e maschi camminavano in gruppi separati, ma a forza di girarsi attorno e di scambiarsi sguardi finivano per abbordarsi. I ragazzi parodiavano i professori, facevano scherzi e giochi di parole, si davano del «verginello» a vicenda, si interrompevano, «sei una pressa», «dacci un taglio o te lo do io», «già che c’hai il gas in casa vatti a fare un uovo». Si divertivano a parlare a bassa voce per non farci sentire e poi urlavano «guarda che masturbarsi rende ciechi». Fingevano raccapriccio davanti all’esibizione di una gengiva gonfia e gridavano «basta, basta, abbiamo già visto troppi orrori durante la guerra». Si concedevano il diritto di dire qualsiasi cosa, erano i detentori assoluti della parola e del senso dell’umorismo. Si subissavano di barzellette sporche, intonavano goliardate, il de morpionibus. Le ragazze sorridevano con riserva. Magari non li trovavano divertenti, ma si trattava pur sempre di uno spettacolo inscenato a loro uso e consumo, lo sapevano e ne andavano fiere. Era grazie a quei ragazzi che le attorniavano che potevano arricchire il loro vocabolario con parole ed espressioni che le avrebbero poi fatte apparire più evolute agli occhi delle amiche, rendo l’idea?, bidonare eccetera. Ma ci si domandava con angoscia, sia gli uni che le altre, che cosa ci si sarebbe potuti mai dire in un incontro a due; era necessaria tutta la curiosa sollecitudine del gruppo per sostenerci prima di andare al primo appuntamento.


          


          


          


      


      


      


      La distanza che separa il passato dal presente si misura forse dalla luce che scivola sui volti, proietta le ombre, disegna le pieghe di un vestito di una foto in bianco e nero; dalla sua chiarezza crepuscolare, qualsiasi sia l’ora in cui è stata scattata.


      In questa, una ragazza alta dai capelli scuri e lisci, di media lunghezza, con il volto pieno, gli occhi strizzati per via del sole, si tiene di tre quarti, il fianco leggermente in avanti per mettere in risalto la curva delle cosce, fasciate in una gonna stretta che le arriva sotto le ginocchia, e al contempo slanciarle. La luce le sfiora la gamba destra, sottolinea il seno teso sotto il golfino da cui esce un colletto bianco da educanda. Un braccio è nascosto, l’altro penzoloni, la manica rimboccata a scoprire l’orologio sopra una mano grande. Colpiscono le differenze rispetto alla foto nel giardino della scuola. Eccezion fatta per le guanciotte e la forma dei seni, pur più sviluppati, non c’è niente che ricordi la ragazza con gli occhiali di due anni prima. Posa in un cortile che dà sulla strada, davanti a un capanno dalla porta rabberciata come se ne vedono in campagna e nelle periferie delle città. Sullo sfondo, tre tronchi d’albero piantati su un terrapieno si stagliano contro il cielo. Sul retro, 1957, Yvetot.


      Forse, nel preciso momento di quel sorriso, non sta pensando ad altro che a se stessa, a quell’immagine di sé che fissa la ragazza nuova che sente di diventare:


      ascoltando nell’oasi isolata di camera sua Sydney Bechet, Édith Piaf e i 33 giri di jazz proposti dal Club internazionale del disco,


      annotando in un taccuino frasi che dicono come vivere, frasi trovate sui libri e dunque portatrici di un qualche elemento di verità, l’unica felicità reale è quella di cui ti accorgi mentre la vivi.


           


      


      Oramai conosce il suo livello sociale – a casa sua non c’è né frigorifero, né stanza da bagno, i gabinetti sono in cortile e ancora non è mai stata a Parigi – e sa che è inferiore rispetto a quello delle compagne di classe. Spera che loro non se ne accorgano, o che almeno glielo perdonino fintanto che fa ciò che può per essere «una a posto» che dice cose tipo «atomico» e «che strizza».


      Tutte le sue energie sono tese nello sforzo di «avere uno stile». Il suo cruccio restano quegli occhiali da miope che le rimpiccioliscono gli occhi e le conferiscono un’aria da secchiona. Quando li toglie, per la strada non riconosce più nessuno.


      Nelle sue prefigurazioni del futuro più lontano – dopo la maturità – si immagina, in quanto a corpo e portamento, come le modelle delle riviste femminili, magra, i capelli lunghi a fluttuare sulle spalle, sul tipo di Marina Vlady ne La strega. È diventata maestra, forse in campagna, ha una macchina tutta per lei, segno supremo di emancipazione, una 2CV o 4CV, è libera e indipendente. Su questa immagine aleggia l’ombra di un uomo ancora sconosciuto, un uomo che incontrerà come nella canzone di Mouloudji Un jour tu verras, o tra le cui braccia si getterà come Michèle Morgan tra quelle di Gérard Philipe nel finale de Gli orgogliosi. È sicura di doversi «conservare per lui», e percepisce come una colpa nei confronti di quel grande amore a venire il fatto di esserci già data piacere da sola. Benché si sia scritta in un taccuino i giorni in cui non si rischia di rimanere incinta secondo il metodo Ogino-Knaus, è tutta sentimento. Tra il sesso e l’amore il divorzio è totale.


      La vita dopo la maturità è una scala in salita che si perde nella nebbia.


          


      


      Nella scarsezza di memoria necessaria a sedici anni per agire ed esistere, vede la sua infanzia come una sorta di film muto a colori, da cui emergono e si mescolano le immagini dei carrarmati e delle macerie, dei vecchi scomparsi, degli auguri scritti e decorati per la festa della mamma, degli albi di Bécassine, della prima comunione, dei giochi con la palla contro il muro. Non ha voglia nemmeno di ricordarsi degli anni più recenti, tutto è goffaggine e imbarazzo, i travestimenti da ballerina di music-hall, i capelli con la permanente, i calzini.


          


      


      Non può sapere che di quel 1957 conserverà nella memoria:


      il bar del casinò sulla spiaggia di Fécamp, dove una domenica pomeriggio è rimasta incantata a guardare una coppia che ballava lentamente, avvinghiata, un blues sulla pista deserta. La donna, alta e bionda, indossava un abito bianco in «plissé soleil». I suoi genitori, trascinati lì loro malgrado, si domandavano se avessero abbastanza soldi per pagare le consumazioni


      i gabinetti ghiacciati, nel cortile della ricreazione, dove per via di un’enterite è dovuta correre un giorno di febbraio nel bel mezzo della lezione di matematica. Le è parso di essere come il Roquentin de La nausea nei giardini pubblici, si è detta il cielo è vuoto e Dio non risponde, sentendosi abbandonata, incapace di dare un nome a quella sensazione, le cosce ruvide dal freddo, la pancia sottosopra dal dolore.


      Così come non sa dare un nome a ciò che la invade nei giorni in cui ci sono le giostre e lei si trova nello stesso cortile della foto, da dietro gli alberi le giungono le voci tonanti degli altoparlanti, la musica e gli annunci confusi ad altri suoni incomprensibili. È come se fosse estranea a quel clima di festa, separata da qualcosa di anteriore.


      Probabilmente assorbe le informazioni che riceve sul mondo in termini di sentimenti, sensazioni e immagini, senza alcuna traccia dell’ideologia che è a esse sottesa. È così che vede:


      l’Europa tagliata in due da una cortina di ferro, a ovest il sole e i colori, a est l’ombra, il freddo, la neve e i carrarmati sovietici che un giorno varcheranno la frontiera francese, si installeranno a Parigi come è appena successo a Budapest (è ossessionata dai nomi di Imre Nagy e di János Kádár, li ripete scandendone le sillabe)


      l’Algeria come una terra bruciata dal sole e dal sangue, lacerata dalle imboscate, di uomini che si aggirano rapidi in burnus ondeggianti, un’immagine che le viene dal quadro La presa della Smala di Abd el-Kader che nel suo manuale di storia di seconda media illustrava la conquista di Algeri iniziata nel 1830


      i soldati morti sul massiccio dell’Aurès simili al Dormiente nella valle di Rimbaud, sdraiati nella sabbia dove piove la luce con due buchi rossi sul lato destro


      rappresentazioni che traducono un quasi sicuro consenso nei confronti della repressione contro i ribelli, rimesso però in discussione da una foto vista sul quotidiano locale dove un gruppetto di giovani francesi vestiti sciccosi discutevano all’uscita di un liceo di Bab el-Oued, rendendo in qualche maniera meno giustificabile la morte di soldati di vent’anni.


      Di tutto questo non c’è traccia nel diario che ha cominciato a tenere e in cui descrive la sua noia, l’attesa dell’amore con un vocabolario romantico e magniloquente. Vi ha preso nota che al Poliuto di Corneille, sul quale deve fare un’esposizione orale per la scuola, preferisce i romanzi di Françoise Sagan che, «benché profondamente immorali, sono scritti con un accento di verità».


          


           


           


      


      


      


      Grazie alle cose le persone potevano contare su un’esistenza migliore. Se ne avevano i mezzi sostituivano la cucina a carbone con una a gas, la tavolaccia in legno e la tovaglia cerata con un tavolo in fòrmica, la 4CV con una Dauphine, rimpiazzavano il rasoio a mano e il ferro da stiro con i loro equivalenti elettrici, gli utensili in metallo con quelli in plastica. Il più desiderato e caro degli oggetti era l’automobile, sinonimo di libertà, di un perfetto controllo dello spazio, di un certo modo di essere, di un intero mondo. Imparare a guidare e prendere la patente erano considerati una vittoria che veniva festeggiata da tutti come il conseguimento di un diploma.


      Si iscrivevano a corsi per corrispondenza di disegno, d’inglese, di jujitsu, di stenografia. Di questi tempi più si sa e meglio è. Non c’era nessuno che non avesse timore di partire in vacanza all’estero senza conoscere la lingua del luogo, chi ci andava incollava una F sulla targa della macchina. La domenica le spiagge erano gremite di corpi in bikini, offerti al sole nell’indifferenza generale. Restare vestiti sulla battigia o entrare in acqua per bagnarsi soltanto i piedi sollevandosi la gonna erano cose che si facevano sempre di meno. Dei timidi e di chi non accondiscendeva all’allegria diffusa si diceva, ha dei complessi. Era l’inizio della «società del divertimento».


           


      


      Però ce l’avevano con la politica, con i presidenti del consiglio che cambiavano ogni due mesi, erano esasperati dal fatto che tanti giovani fossero spediti a farsi immancabilmente ammazzare nelle imboscate. Desideravano la pace in Algeria ma non volevano una seconda Dien Bien Phu. Votavano Poujade. Ripetevano «dove andremo a finire». Le notizie sul colpo di stato del 13 maggio ad Algeri li gettavano nell’angoscia, facevano scorte di chili di zucchero e di litri di olio in previsione della guerra civile. Credevano che l’unica persona in grado di salvare la situazione, l’Algeria e la Francia fosse il generale de Gaulle. Con sollievo avevano appreso che colui che nel 1940 era stato il salvatore della patria aveva accettato, magnanimo, di riprendere in mano il Paese – si sentivano come protetti dalla lunga ombra proiettata dalla sua figura imponente, continuo oggetto di scherno ma anche prova tangibile della sua sovrumanità.


      Noi che conservavamo il ricordo di un volto scavato sotto al chepì con dei baffetti anteguerra sui manifesti della città in rovina, che non avevamo sentito l’appello del 18 giugno, eravamo attoniti e delusi da quelle guance cadenti e da quelle sopracciglia cespugliose da notaio arricchito, da quella voce in cui già si intuiva il tremolio di un vecchio. Il personaggio riemerso dal buen retiro di Colombey incarnava in maniera grottesca tutto il tempo che era passato dall’epoca della nostra infanzia. Ce l’avevamo con lui per aver messo fine così in fretta a quello che, mentre ripassavamo le equazioni, il seno e il coseno, mentre studiavamo sul Lagarde et Michard, ci era parso l’inizio di una rivoluzione.


          


      


      «Passare le due maturità» – il primo esame alla fine del quarto anno delle superiori, il secondo l’anno successivo – era un segno incontestabile di superiorità intellettuale, rappresentava la certezza di un futuro successo. Per la maggior parte delle persone, tutti gli esami e i concorsi che si sarebbero fatti in seguito non avevano la stessa importanza, era «una bella cosa andare così avanti» ma nulla più.


          


      


      Sulla musichetta del Ponte sul fiume Kwai sentivamo che stava per iniziare la più bella estate della nostra vita. Aver passato la maturità ci conferiva d’un tratto una dignità sociale, come se non avessimo tradito la fiducia che la comunità degli adulti aveva riposto in noi. I genitori si dividevano le persone da avvisare per far sì che nessuno tra parenti e amici restasse all’oscuro della grandiosa notizia. C’era sempre qualcuno pronto a scherzarci su, «ora che sei matura, beato chi ti coglie!». Incurante di queste aspettative, luglio proseguiva simile ai precedenti con le sue giornate trascorse a leggere, ascoltare dischi, iniziare delle poesie. L’euforia si spegneva. Per tornare a godersi l’idea di avercela fatta c’era bisogno di pensare a che razza di vacanze si sarebbero passate in caso di bocciatura. Il vero premio per la maturità sarebbe stato vivere una storia d’amore simile a quella di Marianne de ma jeunesse. Nell’attesa ci accontentavamo di flirtare, ritrovandoci di nascosto con un lui che a ogni appuntamento scendeva un po’ più in basso e che avremmo presto dovuto lasciare perché non si poteva certo fare l’amore per la prima volta con un ragazzo che per le amiche era rosso come un peperone.


          


      


      Finalmente lo spazio si allargava, in quella o un’altra estate. I più ricchi partivano per l’Inghilterra, andavano in Costa Azzurra con i genitori. Gli altri, educatori in una colonia estiva, avevano comunque l’occasione di cambiare aria e di scoprire la Francia facendo escursioni e cantando Pirouette cacahouète assieme a una dozzina di ragazzini piagnucolosi o di bambine frignanti con il siero antiveleno e la merenda nella borsa a tracolla. Erano i loro primi stipendi, grazie ai quali entravano a far parte della previdenza sociale e si potevano permettere, a settembre, le novità appena uscite in libreria. Erano fieri delle loro responsabilità, provvisori portatori di quell’ideale laico e repubblicano di cui i «metodi di educazione attiva» costituivano la gioiosa realizzazione. Nel badare ai Leoncini in fila in mutande davanti ai lavandini del bagno, nel sorvegliare le tavolate chiassose pronte a infiammarsi di urla entusiaste all’arrivo di un piatto di risolatte sentivano con certezza di stare dando il loro contributo a un modello di ordine giusto, armonioso e buono. A conti fatti, erano delle vacanze estenuanti e gloriose. Eravamo sicuri che non le avremmo mai dimenticate quando, nell’ebbrezza di un’inedita promiscuità, finalmente lontani dallo sguardo dei genitori, in blue-jeans e con una Gauloise in mano, saltavamo i gradini a due a due verso lo scantinato da cui proveniva la musica di un party, immersi in una sensazione di giovinezza assoluta e precaria, quasi fossimo tutti dovuti morire alla fine delle vacanze come nel film Ha ballato una sola estate. In balia di questa sensazione travolgente, dopo un lento ci ritrovavamo su una brandina o sulla spiaggia con in bocca il sesso di un uomo – visto fino ad allora soltanto in foto, e a malapena – e dello sperma per aver rifiutato di aprire le cosce, ricordandoci all’ultimo momento del calendario Ogino-Knaus. Il sole si alzava su un giorno bianco senza significato. Bisognava sovrapporre alle parole che avremmo voluto dimenticare subito dopo averle ascoltate, prendimi il cazzo succhiamelo, quelle di una canzone d’amore, era ieri / quel mattino / era ieri / è già lontano, abbellire, costruire la finzione di una «prima volta» in una maniera sentimentale, ammantare di malinconia una deflorazione mancata. Se non ci riuscivamo, compravamo dei pasticcini e delle caramelle, affogavamo la tristezza nella crema e nello zucchero o altrimenti ci consumavamo nell’anoressia. Ma una cosa era sicura, non sarebbe mai più stato possibile ricordarsi di com’era il mondo prima di aver avuto addosso un corpo nudo.


          


      


      Le ragazze erano sempre minacciate da un senso di vergogna. La loro maniera di vestirsi e di truccarsi era sempre a rischio di un troppo: corto, lungo, scollato, stretto, trasparente eccetera. L’altezza dei tacchi, le frequentazioni, le uscite, l’ora del rientro a casa, ogni mese lo stato delle mutandine, tutto ciò che le riguardava era oggetto di una sorveglianza generale da parte della comunità. A quelle che erano obbligate ad allontanarsi dal proprio ambiente famigliare la società metteva a disposizione la Maison de la Jeune Fille, studentato universitario femminile a cui i ragazzi non avevano accesso, per proteggerle dagli uomini e dal vizio. Nulla, non l’intelligenza, non gli studi, non la bellezza, contava altrettanto per una ragazza quanto la sua reputazione sessuale, ovverosia il suo valore sul mercato del matrimonio, valore di cui le madri, riproducendo quanto era successo a loro in gioventù, diventavano le zelanti guardiane: se vai a letto con qualcuno prima di sposarti non ti vorrà più nessuno – sottintendendo: potrai trovare al massimo un equivalente scarto di mercato sul versante maschile, un infermo, un malato o, peggio, un divorziato. La ragazza madre non valeva più niente, poteva sperare soltanto nell’abnegazione di un uomo che avrebbe accettato di raccogliere lei e il prodotto della sua colpa.


      Fino al matrimonio, ogni storia d’amore si svolgeva sotto lo sguardo giudicante degli altri.


          


      


      Ciononostante ci si spingeva sempre un po’ più lontano, con pratiche innominabili al di fuori dei manuali di medicina, la fellatio, il cunnilingus e talvolta la sodomia. I ragazzi se ne infischiavano dei preservativi e rifiutavano il coito interrotto dei loro padri. Sognavamo le pillole contraccettive che, a quanto si diceva, in Germania erano già in commercio. Il sabato, una dopo l’altra, si sposavano ragazze in abito bianco che sei mesi dopo davano alla luce robusti neonati fatti passare per prematuri. Sospese a metà strada tra la libertà di Brigitte Bardot, i ragazzi che ci dileggiavano dicendoci che restare vergini faceva male alla salute, le prescrizioni dei genitori e le ingiunzioni della Chiesa, non sceglievamo. Nessuno si domandava quanto tempo sarebbe durato il divieto di abortire e di vivere insieme senza essere sposati. I segni dei cambiamenti collettivi non sono percepibili nella particolarità delle vite individuali, a parte forse nello scoramento e nella fatica che fanno pensare segretamente a migliaia di individui nello stesso tempo «non cambierà mai nulla».


          


           


           


      


      


      


      Sulla foto di gruppo in bianco e nero inserita all’interno di un libretto goffrato, ventisei ragazze sono allineate su tre file, in un cortile, sotto le foglie di un castagno davanti alle finestre di una facciata che potrebbe essere quella di un convento, di una scuola o di un ospedale. Indossano un grembiule chiaro che le fa assomigliare a un gruppo di crocerossine.


      Sotto l’immagine, scritto a mano: Liceo Jeanne-d’Arc – Rouen – Classe di filosofia 1958-1959. I nomi delle studentesse non sono segnati, come se, al momento della consegna della foto da parte della capoclasse, fosse stato sicuro che ce li saremmo ricordati tutti. Probabilmente era impossibile anche solo immaginarsi nei panni di una signora d’età intenta, quarant’anni dopo, a scrutare quei volti così familiari senza vedere altro che tre file di fantasmi dagli occhi fissi e brillanti.


      La prima fila è seduta sulle seggiole della scuola, le mani giunte appoggiate alle ginocchia, le gambe chiuse, talvolta piegate sotto la sedia, soltanto una le tiene accavallate. Le ragazze della seconda fila, in piedi, e della terza, montate sui banchi, sono visibili dalla vita in su. Il fatto che solo sei di loro tengano le mani in tasca, considerato allora un gesto di maleducazione, indica che il liceo è frequentato più che altro da figlie della borghesia. Tutte, tranne quattro, guardano verso l’obiettivo sorridendo leggermente. Ciò che vedono – il fotografo? un muro? altre studentesse? – è andato perso.


           


      


      Nella seconda fila c’è lei, la terza da sinistra. Difficile riconoscere, in questa ragazza che è tornata a portare gli occhiali, l’adolescente dalla postura provocante della foto di due anni prima. Ha i capelli raccolti in una coda bassa, una ciocca sfugge alla base della nuca. La frangetta bombata non ne attenua la seriosità dell’aspetto. Dal volto è impossibile capire quanto si senta invasa in tutto il suo essere dal ragazzo che quell’estate l’ha deflorata a metà, al punto da conservare di nascosto degli slip macchiati di sangue tra i libri riposti in un armadio. Né si possono vedere le cose che fa e i gesti che compie: passeggiare per la strada dopo le lezioni nella speranza di rivederlo, rientrare allo studentato femminile e piangere, restare per ore a leggere e rileggere la traccia di un tema senza riuscire a capirne il senso, ascoltare senza sosta Only You quando ritorna dai suoi genitori per il fine settimana, abbuffarsi di pane, biscotti e cioccolato.


      Nessun segno di quella pesantezza di vivere dalla quale si deve strappare per appropriarsi del linguaggio della filosofia, per rimuovere, a furia di imperativi categorici e ontologia, l’esistenza del suo corpo, la voglia di mangiare, l’ossessione di un ritardo nel ciclo. Per riflettere sul reale affinché cessi di essere tale e diventi una cosa astratta, impalpabile, di pura intelligenza. Entro qualche settimana smetterà di mangiare, comprerà le pillole dietetiche Néo-Antigrès, non sarà altro che pura coscienza. Quando dopo le lezioni risale il boulevard de la Marne tra i chioschi del luna park itinerante, gli schiamazzi e la musica la perseguitano come una sciagura.


      Le ventisei studentesse della foto non si parlano tutte tra di loro, ognuna rivolge la parola soltanto a una decina delle altre ignorando le restanti ed essendo da loro ignorata. Tutte sanno d’istinto ciò che devono fare quando si incrociano vicino al liceo, se aspettarsi, se limitarsi a un sorriso di circostanza, se far finta di non essersi viste. Tuttavia, dall’ora di metafisica all’ora di ginnastica, tutte le voci che rispondono «presente» all’appello, tutte le particolarità del fisico e dell’abbigliamento delle une e delle altre sono talmente impresse nella coscienza di ciascuna che ogni ragazza della classe conserva in sé un preciso campionario della personalità delle altre venticinque. In definitiva, sono ventisei visioni cariche di giudizi e sentimenti quelle che circolano per la classe. Non più delle altre, nemmeno lei saprebbe dire come è percepita, e sopra ogni cosa desidera non essere percepita affatto. Fa parte del gruppo delle ignorate, delle studentesse che vanno bene a scuola ma mancano di verve e della battuta pronta. Non ha voglia di dire che i suoi genitori gestiscono un bar-alimentari. Si vergogna di essere ossessionata dal cibo, di non avere più le mestruazioni, di non sapere cosa siano le classi preparatorie dell’hypokhâgne, di portare un giubbino di finto camoscio. Si sente molto sola. Legge Polvere di Rosamond Lehmann e tutti i poeti che trova nella collana Poètes d’aujourd’hui, Supervielle, Miłosz, Apollinaire, So io, amore mio, se mi ami ancora.


          


      


      Se una delle grandi questioni che dovrebbe far avanzare la conoscenza di sé è la possibilità, o l’impossibilità, di determinare come, in ogni età e anno della propria esistenza, ci si rappresenta il passato, che memoria si può attribuire a quella ragazza della seconda fila? Forse non ne possiede altra che quella dell’estate precedente, una memoria quasi senza immagini, l’incorporamento in se stessa di un corpo mancante, un corpo di uomo. Per quanto riguarda il futuro, in lei coesistono due propositi: 1, diventare magra e bionda; 2, essere libera, autonoma, utile al mondo. Si sogna al contempo come Mylène Demongeot e Simone de Beauvoir.


          


           


          


      


      


      


      Anche se i soldati del contingente di leva continuavano a partire per l’Algeria, l’epoca era improntata alla speranza e alla volontà, ai grandi progetti in terra, acqua e cielo, ai grandi discorsi e ai grandi lutti, Gérard Philipe e Camus. C’era il transatlantico France, gli aerei Caravelle e il Concorde, la scuola dell’obbligo fino a sedici anni, le case della cultura, il Mercato europeo comune, un giorno o l’altro sarebbe arrivata anche la pace in Algeria. C’era il nuovo franco, i braccialetti scoobydoo, gli yogurt aromatizzati, i cartoni di latte e le radio portatili. Per la prima volta si poteva ascoltare la musica dappertutto, sdraiati sulla spiaggia, camminando per la strada. La gioia data dai transistor era di una tipologia sconosciuta, quella di poter restare da soli senza esserlo davvero, di poter disporre a piacimento del rumore e della diversità del mondo.


         


      


      E arrivavano i giovani, sempre più numerosi. C’era carenza di maestri di scuola, bastava avere diciott’anni e un diploma per essere spediti in una prima elementare a far leggere le avventure di Rémi et Colette. Ci fornivano passatempi per il nostro divertimento, gli hula-hoop, le trasmissioni di Salut les copains alla radio, di Âge tendre et tête de bois in televisione, non avevamo diritto a niente, né di votare, né di fare l’amore, nemmeno di esprimere la nostra opinione. Per assicurarsi il diritto di parola bisognava dapprima dar prova di essersi integrati al modello sociale dominante, «entrare» nell’insegnamento, in posta o nelle ferrovie, alla Michelin o alla Gillette, in una compagnia di assicurazioni: «guadagnarsi da vivere». L’avvenire non era altro che il ripetersi di una serie di esperienze date, il servizio militare di ventiquattro mesi, il lavoro, il matrimonio, i figli. Da noi ci si aspettava che accettassimo con naturalezza il perpetuarsi delle cose. Messi di fronte a quel futuro prestabilito avevamo confusamente voglia di restare giovani a lungo. I discorsi ufficiali e le istituzioni erano in ritardo rispetto ai nostri desideri, ma la distanza tra il dicibile della società e il nostro personale indicibile ci appariva del tutto normale, irrimediabile, non ci soffermavamo nemmeno a pensarci su, salvo poi sentire agitarsi qualcosa nel nostro foro interiore alla visione di Fino all’ultimo respiro.


           


      


      Le persone ne avevano abbastanza dell’Algeria, delle bombe dell’OAS lasciate sui davanzali delle finestre di Parigi, del fallito attentato a De Gaulle al Petit-Clamart, di svegliarsi con l’annuncio di un colpo di stato da parte di generali sconosciuti che ostacolavano il processo verso la pace, verso «l’autodeterminazione». Si erano abituate all’idea dell’indipendenza e alla legittimità del Fronte di liberazione nazionale, di cui ormai conoscevano bene anche i nomi dei capi, Ben Bella e Ferhat Abbas. Le loro aspirazioni di felicità e calma coincidevano con l’instaurazione di un principio di giustizia, una decolonizzazione che in altri tempi sarebbe stata impensabile. Tuttavia gli «arabi» continuavano a suscitare timore, o tutt’al più indifferenza. Li evitavano, li ignoravano, non si erano rassegnati all’idea di camminare per la strada al fianco di individui i cui fratelli, sull’altra sponda del Mediterraneo, assassinavano dei francesi. E il lavoratore immigrato sapeva meglio di loro di portare addosso il volto del nemico. Che vivessero in bidonville, lavorassero alla catena di montaggio o in un buco nel terreno, che le loro manifestazioni d’ottobre fossero state vietate e poi represse con una violenza estrema, tutto, forse anche persino che un centinaio di loro fossero stati gettati ad affogare nella Senna, almeno per chi ne era al corrente, sembrava rientrare nell’ordine naturale delle cose. [Più tardi, quando avremmo saputo cos’era successo il 17 ottobre del ’61, non saremmo stati in grado di dire ciò di cui eravamo al corrente all’epoca dei fatti, recuperando nella memoria soltanto la dolce sensazione di quei tempi, dell’imminente inizio dell’università, vivendo il disagio di non aver saputo – anche se lo Stato e i giornali avevano fatto di tutto per tenerci all’oscuro – come se la nostra ignoranza e il nostro silenzio fossero ormai irredimibili. E per quanto decidessimo allora di darci da fare, non c’era alcun paragone tra le cariche gonfie d’odio che la polizia gollista aveva effettuato in ottobre contro gli algerini e quelle del febbraio successivo contro i militanti anti-OAS. I nove morti alla stazione della metropolitana Charonne schiacciati contro le inferriate e i mai contati morti della Senna non si ricongiungevano.]


      Nessuno si chiedeva se gli accordi di Évian fossero una vittoria o una sconfitta, rappresentavano una fonte di sollievo e l’inizio dell’oblio. Non ci si preoccupava di cosa sarebbe accaduto in seguito, dei cittadini francesi in Algeria, i pieds-noirs e gli harkis, o degli algerini in Francia. Si sperava di poter passare le vacanze in Spagna, così poco cara a detta di chi ci era stato.


      Le persone erano abituate alla violenza e a vivere in un mondo pieno di opposizioni: Est/Ovest, Chruščëv il Mužik/Kennedy il giovane presidente, Peppone/Don Camillo, JEC/UEC, L’Humanité/L’Aurore, Franco/Tito, cattolici/comunisti, i rossi/i baciapile. Sotto l’ombrello esterno della guerra fredda si sentivano internamente tranquilli. Al di là delle rivendicazioni sindacali dalla violenza codificata, non si lamentavano, si erano abituati all’idea di essere gestiti dallo Stato, di ascoltare ogni sera Jean Nocher che faceva la morale alla radio, di veder fallire gli scioperi. Avevano votato sì al referendum d’ottobre non tanto per una convinta quanto astratta adesione all’elezione diretta del presidente della Repubblica, bensì per il segreto desiderio di continuare ad avere de Gaulle come presidente a vita, se non addirittura fino alla fine dei tempi.


           


      


      Noi preparavamo gli esami per la laurea triennale ascoltando la radio a transistor. Andavamo a vedere Cleo dalle 5 alle 7, L’anno scorso a Marienbad, Bergman, Buñuel e il cinema italiano. Ci piacevano Léo Ferré, Barbara, Jean Ferrat, Leny Escudero e Claude Nougaro. Leggevamo la satira di Hara-Kiri. Sentivamo di non avere niente in comune con gli yé-yé che, come nel documentario di Bertrand Blier, dicevano Hitler? Non so chi è, né con i loro idoli, più giovani di noi, ragazzine dai codini svolazzanti come le loro canzoni orecchiabili, ragazzi che strillavano rotolandosi sul palco. Avevamo l’impressione che non ci avrebbero mai raggiunto, ai loro occhi eravamo già dei vecchi. Forse, dopotutto, anche noi saremmo morti sotto de Gaulle.


      Ma non eravamo adulti. La vita sessuale restava clan­destina e rudimentale, tormentata da quel tipo di «incidenti» che nessuno poteva avere prima del matrimonio. I ragazzi credevano di far mostra di ampie conoscenze erotiche attraverso alcune salaci allusioni, di fatto sparavano i loro colpi all’indirizzo dei corpi delle ragazze dove la prudenza consigliava a queste ultime di lasciarli fare. Le verginità erano incerte, la sessualità una questione irrisolta sulla quale le ragazze discutevano per ore nelle stanze dello studentato universitario in cui nessun maschio era autorizzato a entrare. Cercavano di tenersi informate leggendo libri, analizzavano il rapporto Kinsey per persuadersi della legittimità del loro piacere. Conservavano ancora tracce della vergogna del sesso provata dalle loro madri. C’erano sempre parole per gli uomini e parole per le donne, le quali non dicevano né «godere» né «cazzo» né niente, provavano ripugnanza a nominare gli organi genitali, se proprio dovevano lo facevano con una voce anonima, clinica, speciale, «vagina», «pene». Le più ardite osavano recarsi con discrezione a un consultorio di pianificazione famigliare, un’organizzazione clandestina da cui si facevano prescrivere un diaframma di caucciù che poi faticavano a inserire.


      Non sospettavano nemmeno che i ragazzi accanto ai quali erano sedute tra i banchi dell’aula magna potessero avere paura dei loro corpi. Che se rispondevano a monosillabi alle domande più innocenti non era per disdegno, ma per timore delle complicazioni del loro ventre-trappola. Che a conti fatti preferissero masturbarsi da soli la sera una volta rientrati in camera.


      Se non si era state colte per tempo dalla paura, in una pineta o sulla sabbia della Costa Brava, il tempo si fermava durante l’ennesima verifica di mutandine che da giorni si ostinavano a restare bianche. Bisognava «trovare una soluzione» in un modo – ossia in Svizzera, per le ricche – o in un altro – nella cucina di una sconosciuta senza qualifiche che estraeva un sondino dall’acqua bollente di un pentolone. Aver letto Simone de Beauvoir non serviva a nulla se non a constatare sulla propria pelle la disgrazia di avere un utero. Così le ragazze si provavano la febbre in continuazione come se fossero malate, calcolavano incessantemente i periodi a rischio, tre settimane su quattro. Vivevano in due tempi distinti, quello di tutti, con gli esami da preparare, le vacanze, e quello volubile, minaccioso, che poteva fermarsi da un momento all’altro, il tempo mortale del loro sangue.


          


      


      Nelle aule magne i professori incravattati spiegavano l’opera degli scrittori attraverso le loro biografie, dicevano monsieur André Malraux e madame Yourcenar in segno di rispetto per i viventi, ma facevano studiare soltanto autori già morti. Non osavamo menzionare Freud nel timore di attirare il sarcasmo altrui o di prendere un brutto voto, a malapena ci arrischiavamo a citare Bachelard e gli studi sul tempo umano di Georges Poulet. Ci sembrava di dar prova di una grande indipendenza intellettuale quando, all’inizio di una relazione, dichiaravamo che bisognava «rifiutare le etichette» e che L’educazione sentimentale era «il primo romanzo moderno». Tra amici ci regalavamo libri sui quali scrivevamo dediche. Era l’epoca di Kafka, Dostoevskij, Virginia Woolf, Lawrence Durrell. Scoprivamo Butor, Robbe-Grillet, Sollers, Sarraute, desideravamo farci piacere molto il nouveau roman ma non vi trovavamo abbastanza risorse che ci aiutassero a vivere.


      Preferivamo testi contenenti parole e frasi in grado di riassumere l’esistenza, la nostra ma anche quella delle donne delle pulizie e dei fattorini dell’università, senza tuttavia farci perdere la nostra specificità, perché noi, a differenza loro, «ci facevamo delle domande». Avevamo bisogno di parole che fossero portatrici di principi di spiegazione del mondo e del sé, che ci dettassero una morale: l’«alienazione» e ciò che ne derivava, la «cattiva fede» e la «cattiva coscienza», l’«immanenza» e il «trascendente». Il punto di riferimento in base al quale valutavamo ogni cosa era l’«autenticità». Se non avessimo temuto di troncare con i genitori che gettavano in un unico ignominioso calderone i divorziati e i comunisti, avremmo anche aderito al Partito. In un bar fumoso, rapiti dalla conversazione, di colpo l’ambiente circostante perdeva ogni significato, ci sentivamo estranei al mondo, senza passato e senza futuro, la nostra era «una passione inutile».


      Quando a marzo si allungavano le giornate e cominciavamo a sentire caldo con addosso i vestiti invernali – non si stava avvicinando soltanto l’estate, ma la vita stessa, senza forma né progetti –, sulla strada per l’università ci ripetevamo the time is out of joint, life is a tale told by an idiot full of sound and fury signifying nothing. Tra amici ci raccontavamo come avremmo preferito suicidarci, prendendo sonniferi in un sacco a pelo nella Sierra de Guadalajara.


          


           


           


      


      


      


      Durante i pranzi domenicali, a metà degli anni Sessanta, quando lo studente fuorisede rientrava a casa per il week-end a farsi fare il bucato, i genitori approfittavano della sua presenza per invitare alcuni parenti e amici di famiglia, e allora a tavola si discuteva dell’apertura di un nuovo supermercato e della costruzione di una piscina municipale, della Renault 4L e della Citroën Ami 6. Chi aveva comprato un televisore commentava l’aspetto dei ministri e delle annunciatrici, parlava delle dive che aveva visto sullo schermo come se si trattasse di vicini di casa. Era come se aver visto le immagini della confezione di filetto al pepe flambé con Raymond Oliver, una trasmissione medica di Igor Barrère o il programma di varietà 36 Chandelles conferisse un diritto di parola superiore. Davanti alla rigidità e al disinteresse di chi non aveva il televisore, non conosceva né Zitrone, né Anne-Marie Peysson, né il neonato tritato nel passaverdure di Jean-Christophe Averty, decidevano di cambiare argomento di conversazione per tornare a qualche tema che coinvolgesse tutti, come cucinare il coniglio, i privilegi degli impiegati statali, la macelleria di zona più conveniente. Evocavano il 2000, calcolavano le probabilità che avevano di arrivarci, l’età che avrebbero avuto. Si divertivano a immaginare come sarebbe stata la vita alla fine del secolo, il cibo in pillole, i robot tuttofare, le case sulla luna. Ma smettevano presto, in fondo a nessuno interessava sapere come si sarebbe vissuto quarant’anni dopo, l’importante era esserci ancora.


      Con la sensazione di stare compiendo un sacrificio necessario – per gli invitati, che si mostravano ammiratissimi dal nostro percorso di studi, per i genitori, che ci allungavano la paghetta e alla partenza ci consegnavano la valigia con i vestiti lavati e stirati –, scorrevano ore che si sarebbero potute passare leggendo Le onde di Virginia Woolf o la Psicologia sociale di Stoetzel, durante le quali tentavamo di inserirci con buona volontà e goffaggine nella conversazione collettiva. Non potevamo fare a meno, nostro malgrado, di notare le maniere altrui, il brodo bevuto dal piatto, lo zucchero fatto sciogliere agitando la tazza, le espressioni usate per designare «una persona altolocata», e d’un tratto percepivamo il nostro ambiente famigliare come se ne fossimo estranei, come se si trattasse di un mondo chiuso al quale non appartenevamo più. Eravamo abitati da idee aliene alle malattie, alle verdure da seminare con la luna crescente, ai licenziamenti in fabbrica, a tutto ciò che accadeva da quelle parti. E dunque rinunciavamo a parlare di noi, dei corsi all’università, stavamo attenti a non contraddirli mai, come se affermare di non avere la certezza che avremmo trovato una buona sistemazione o saremmo entrati nel mondo dell’insegnamento avrebbe fatto crollare tutto ciò in cui avevano riposto le loro speranze, una sorta di insulto, qualcosa che li avrebbe fatti dubitare delle nostre capacità.


      A tavola non ci si scaldava più al ricordo dell’Occupazione o dei bombardamenti. La reviviscenza delle emozioni di ieri era scomparsa. Se qualcuno a fine pranzo ancora brindava «alla faccia dei crucchi che non se lo berranno», lo faceva consapevole che ormai si trattasse soltanto di una citazione.


      Anche a noi le grandi domeniche del dopoguerra, Fleur de Paris e Le petit vin blanc sembravano appartenere a un tempo passato, quello dell’infanzia, un tempo di cui non volevamo sentir nulla, e quando uno zio provava a ravvivarne la memoria, «ricordi quando ti ho insegnato ad andare in bicicletta?», ci sembrava semplicemente vecchio. Nella confusione di voci, parole ed espressioni che ci avevano accompagnato da sempre ma che ora non ci sembrava più così naturale avere attorno a noi, avevamo la sensazione di fluttuare tra una sfilza di immagini di altre domeniche tra loro indistinguibili, sprofondando fino a quel tempo di cui stavamo a sentire sognanti i racconti al momento del dolce, con il fiatone per il troppo aver giocato, prima di ascoltare ritornelli che oramai nessuno si curava più di riprendere in coro.


         


           


           


      


      


      


      Su questa foto in bianco e nero, in primo piano, sdraiati a pancia in giù, ci sono tre ragazze e un ragazzo, su un terreno in discesa, inquadrati da davanti. Dietro di loro altri due ragazzi, uno in piedi e un po’ piegato su un lato si staglia contro il cielo, l’altro è inginocchiato, con il braccio teso sembra stia infastidendo una delle ragazze. Sullo sfondo, una vallata immersa in una sorta di nebbia. Sul retro della foto: Studentato. Mont-Saint-Aignan. Giugno ’63. Brigitte, Alain, Annie, Gérald, Annie, Ferrid.


      Lei è la ragazza al centro, con i capelli pettinati in bandeau laterali alla maniera di George Sand, le spalle larghe e nude, la più «donna». I pugni stretti spuntano buffamente da sotto il busto sdraiato. Non porta gli occhiali. La foto è stata scattata durante la fase che separa gli esami dall’affissione dei risultati. È un periodo di notti passate senza dormire, di discussioni nei bar e nelle camere della città, seguite da carezze fino alle soglie dell’imprudenza con la Javanaise di Gainsbourg in sottofondo. Dorme nel pomeriggio, si risveglia con la sensazione colpevole di essersi tagliata fuori dal mondo, come quel giorno in cui si è alzata dal letto dopo che il Tour de France e Jacques Anquetil erano già passati. È entrata nella festa, vi si annoia. Le due ragazze accanto a lei nella foto appartengono alla borghesia. Non si sente una di loro, ma più forte e più sola. A frequentarle troppo, ad accompagnarle ai party, ha l’impressione di svilirsi. Nemmeno crede più di avere qualcosa in comune con il mondo operaio della sua infanzia, con il negozietto dei suoi genitori. È passata sull’altra sponda, ma non saprebbe dire di che cosa, dietro di lei la vita è costituita da immagini senza legami tra loro. Non si sente da nessuna parte, se non nel sapere e nella letteratura.


      Le conoscenze astratte di quella ragazza non potrebbero essere repertoriate, non più delle sue letture. La laurea triennale in lettere moderne che sta per conseguire non è altro che un indicatore generico. Si è nutrita di esistenzialismo, di surrealismo, ha letto Dostoevskij, Kafka, tutto Flaubert, si è appassionata alle novità letterarie, Le Clézio e il nouveau roman, come se soltanto i libri più recenti fossero in grado di avere il giusto sguardo sul mondo del qui e ora.


      Più ancora che un modo di affrancarsi dalla miseria, gli studi le paiono lo strumento di lotta privilegiato contro quell’impantanarsi femminile che le suscita pietà, quella tentazione di perdersi in un uomo che ha già conosciuto (come nella foto del liceo di cinque anni prima) e di cui ha vergogna. Nessuna voglia di sposarsi o di avere dei figli, la maternità le pare incompatibile con la vita dello spirito. Ad ogni modo è sicura che sarebbe una pessima madre. Il suo ideale è l’unione libera di una poesia di André Breton.


      A volte si sente schiacciata sotto il peso delle cose che ha imparato. Ha un corpo giovane e un pensiero vecchio. Sul diario ha scritto che si sente «stomacata da idee passe-partout, satura di teorie», che è «alla ricerca di un altro linguaggio» per «tornare a una purezza primigenia», sogna di scrivere in una lingua sconosciuta. Le parole le sembrano soltanto «un ricamino ai bordi di una tovaglia di notte». Altre frasi contraddicono questa stanchezza: «Sono un volere e un desiderio». Non dice quale.


          


      


      Vede il futuro come un’ampia scalinata rossa, quella di un quadro di Soutine riprodotto nel giornale Lectures pour tous, che ha ritagliato per incollarlo alla parete della sua stanza allo studentato.


      Le capita di indugiare su alcune immagini della sua infanzia, il primo giorno di scuola, le giostre in mezzo alle macerie, le vacanze a Sotteville-sur-Mer eccetera. Si prefigura come sarà di lì a vent’anni, quando rievocherà le discussioni in cui si accalorano adesso, tutti loro, sul comunismo, il suicidio, la contraccezione. Quella donna di vent’anni dopo è un’idea, un fantasma. Non arriverà mai a quell’età.


      A vederla sulla foto, una bella ragazza solida, non si sospetterebbe mai che la sua più grande paura sia la follia. Per salvaguardarsene, almeno per il momento, non le viene in mente altro che la scrittura, forse un uomo. Ha iniziato un romanzo in cui si alternano le immagini del passato e quelle del presente, i sogni notturni e le fantasticherie sul futuro, il tutto in un «io» che è il doppio dissaldato di se stessa.


      È sicura di non avere alcuna «personalità».


           


      


      Non c’è nessun rapporto tra la sua vita e la Storia, tuttavia le tracce di quest’ultima sono già strettamente collegate a sensazioni personali, il freddo grigiore di un mese di marzo – sciopero dei minatori –, l’umidità di un fine settimana di Pentecoste – morte di Giovanni XXIII –, la frase di un amico «tra due giorni scoppia un’altra guerra mondiale» – la crisi di Cuba –, la coincidenza tra una notte passata a un ballo dell’Unef e il colpo di stato dei generali, Salan, Challe eccetera. Il tempo degli eventi non le appartiene, e men che meno quello dei fatti di cronaca, detesta le notizie tappabuchi; il suo tempo è fatto a sua immagine. Solo pochi mesi dopo, per via di un ritardo del ciclo di otto settimane, l’assassinio di Kennedy a Dallas la lascerà più indifferente di quanto non avesse fatto la morte di Marilyn Monroe l’estate precedente.


          


          


            


      


      


      


      Il susseguirsi sempre più rapido degli oggetti faceva indietreggiare il passato. Le persone non si chiedevano più a cosa servissero le cose, avevano semplicemente voglia di possederle e soffrivano di non guadagnare abbastanza per potersele permettere subito. Si abituavano a staccare assegni, scoprivano le «agevolazioni di pagamento», i prestiti della Sofinco. Erano a proprio agio con le novità, fieri di usare l’aspirapolvere o un asciugacapelli elettrico. La curiosità aveva la meglio sulla diffidenza. Si scopriva il cibo crudo e flambé, la bistecca alla tartara e il filetto al pepe, le spezie e il ketchup, il pesce impanato e il purè liofilizzato, i piselli surgelati, i cuori di palma, il dopobarba, il bagnoschiuma Obao nella vasca e il cibo per cani Canigou. Le Coop e i Familistère cedevano il posto ai supermercati in cui i clienti erano tutti contenti di poter toccare la mercanzia prima di averla comprata. Ci si sentiva liberi, non si chiedeva niente a nessuno. Ogni sera il mobilificio delle Galeries Barbès accoglieva i clienti con un buffet rustico gratuito. Le giovani coppiette della classe media si compravano la raffinatezza grazie a una caffettiera Hellem, l’Eau sauvage di Dior, una radio a modulazione di frequenza, uno stereo hi-fi, dei tendaggi veneziani e la tappezzeria di iuta alle pareti, un soggiorno in teak, un materasso Dunlopillo, un secrétaire o uno scrittoio, mobili di cui avevano letto il nome soltanto nei romanzi. Frequentavano gli antiquari, invitavano a casa ospiti per cene a base di salmone affumicato, avocado e gamberetti, fondue bourguignonne, leggevano Playboy e Lui, Barbarella, Le Nouvel Observateur, Teilhard de Chardin, la rivista Planète, fantasticavano sugli annunci immobiliari di «appartamenti di pregio» con cabina armadio all’interno di «complessi residenziali» – già soltanto il nome evocava il lusso –, prendevano l’aereo per la prima volta dissimulando l’angoscia e si emozionavano nel vedere sotto di loro quadrati di campi verdi e dorati, si innervosivano perché non avevano ancora ottenuto il telefono di cui avevano fatto richiesta già da un anno. Gli altri lo trovavano inutile e per fare una telefonata continuavano ad andare alla posta, dove l’addetto componeva il numero per loro e li invitava a sistemarsi in un’apposita cabina.


      Le persone non si annoiavano, volevano approfittare di ciò che accadeva.


      In un libello di successo, Riflessioni per il 1985, il futuro appariva radioso, le incombenze gravose e sudice sarebbero state tutte affidate a robot, ogni individuo avrebbe avuto accesso alla cultura e al sapere. In una certa maniera confusa, il primo trapianto di cuore, laggiù in Sudafrica, sembrava il passo iniziale sulla strada che avrebbe portato a debellare la morte stessa.


           


      


      L’abbondanza delle cose celava la scarsità delle idee e il logoramento di ogni credo.


      I giovani professori si servivano dello stesso manuale su cui avevano studiato da ragazzi, il Lagarde et Michard dei loro anni di liceo, davano buoni voti e facevano fare compiti in classe ogni tre mesi, si iscrivevano a sindacati che in tutti i bollettini annunciavano «Il potere indietreggia!». La religiosa di Rivette era vietata, i libri erotici si compravano per corrispondenza dalle edizioni Terrain Vague, Sartre e Beauvoir si rifiutavano di andare in televisione (ma non importava a nessuno). Ci si portavano dietro valori e linguaggi ormai esauriti. Più tardi, ripensando al vocione brontolone dell’orsacchiotto Nounours della trasmissione per bambini Bonne nuit les petits, avremmo avuto l’impressione che, a quell’epoca, fosse de Gaulle a rimboccarci le coperte ogni sera.


          


      


      Movimenti di dislocazione percorrevano la società in tutte le direzioni, i contadini scendevano a valle dalle montagne, gli studenti si trasferivano dal centro città e salivano in collina per stabilirsi nei campus, condividendo a Nanterre lo stesso fango in cui vivevano gli immigrati delle bidonville. Le famiglie operaie abbandonavano le loro case basse con i gabinetti esterni e si ritrovavano ad abitare assieme ai rimpatriati d’Algeria in grandi complessi edilizi dai palazzoni tutti uguali contrassegnati da una F seguita da un numero. Non era di stare insieme che avevano voglia, ma del riscaldamento centralizzato, di pareti pulite e di una stanza da bagno.


      


      Accadeva ciò che non avremmo mai creduto possibile, veniva autorizzato il commercio della cosa più vietata di tutte, la pillola anticoncezionale. Non si osava domandarla al dottore, lui a sua volta non la proponeva, soprattutto se non si era sposate. Era una richiesta impudica. Ci era chiaro che con la pillola la vita sarebbe cambiata completamente, libere di disporre dei nostri corpi al punto di averne paura. Libere come gli uomini.


           


      


      Le gioventù del mondo davano notizie di sé con violenza. Trovavano nella guerra del Vietnam ragioni per ribellarsi e nella Campagna dei cento fiori di Mao motivi per sognare. C’era un risveglio di gioia pura, espresso dai Beatles con la loro musica. Bastava ascoltarla per aver voglia di essere felici. Con Antoine, Nino Ferrer e Dutronc trionfava la stravaganza. Gli adulti che si erano ormai sistemati facevano finta di non accorgersi di nulla, ascoltavano Le tirlipot su RTL, Maurice Biraud su Europe n. 1, La minute de bon sens di Saint-Granier, confrontavano la bellezza delle annunciatrici della televisione, si domandavano chi, tra Mireille Mathieu e Georgette Lemaire, sarebbe stata la nuova Piaf. C’era già stata l’Algeria ed erano stufi di guerre, osservavano con disagio i carrarmati israeliani che schiacciavano i soldati di Nasser, disorientati dal riproporsi di una questione che credevano ormai risolta e dalla trasformazione delle vittime di un tempo nei vincitori di oggi.


           


      


      Dal momento che le estati finivano per assomigliarsi tutte, che le preoccupazioni personali si facevano sempre più gravose, che si continuava a mancare l’obiettivo di «realizzarsi» a forza di solitudine e discussioni nei soliti bar, che la sensazione di essere giovani si trasformava in un senso di durata indefinita e cupa, che si constatava la superiorità sociale della coppia rispetto al celibato, allora ci si innamorava con più determinazione di prima e, con la complicità di un attimo di distrazione rispetto alle prescrizioni dell’Ogino-Knaus, ci si ritrovava sposati e, nel giro di poco, genitori. L’incontro di un ovulo con uno spermatozoo imprimeva un’accelerazione alla storia degli individui. Finivamo gli studi lavorando come sorveglianti, facendo sondaggi per qualche agenzia, dando lezioni private. Partire per l’Algeria o l’Africa nera come «cooperanti» ci tentava come un’avventura, un modo di accordarsi un’ultima proroga prima di accasarsi.


           


      


      Con il posto fisso, i nuovi nuclei famigliari aprivano un conto in banca, chiedevano un prestito al gruppo Cofremca per comprare un frigorifero, un freezer, una cucina combinata eccetera, sorpresi di scoprirsi poveri proprio in virtù del matrimonio, chiamati a confrontarsi con tutto ciò che non possedevano e di cui fino a poco tempo prima ignoravano tanto il prezzo quanto quel bisogno che ora gli sembrava del tutto naturale. Da un giorno all’altro eravamo diventati degli adulti ai quali i genitori potevano finalmente trasmettere, senza sollevare moti di protesta, le loro conoscenze sugli aspetti pratici della vita, i risparmi, la cura dei figli, la pulizia del parquet. Ci si sentiva fiere e stranite nell’essere chiamate «signora» con un altro cognome. Cominciavamo a preoccuparci in maniera costante della sussistenza, del ciclo quotidiano dei due pasti al giorno. Ci mettevamo a frequentare con assiduità luoghi a cui non eravamo abituate, i minimarket Casino, i reparti alimentari di Prisu e delle Nouvelles Galeries. Le velleità di spensieratezza e la pretesa di vivere come prima – un’uscita serale con gli amici magari per andare a vedere un film – si spegnevano con l’arrivo di un bimbo, al quale, nell’oscurità di un cinema, non riuscivamo a smettere di pensare, piccolo piccolo, tutto solo nella sua culla, e da cui ci precipitavamo appena aperta la porta di casa per sincerarci con sollievo del fatto che stesse respirando e dormendo tranquillo, con i pugnetti stretti. Quindi compravamo il televisore, ultimo passaggio del processo di integrazione sociale. La domenica pomeriggio guardavamo I cavalieri del cielo, Vita da strega. Lo spazio si restringeva, il tempo si regolarizzava, suddiviso tra gli orari del lavoro, dell’asilo, del bagnetto e del cartone animato Le Manège enchanté. Il sabato si faceva la spesa. Scoprivamo la gioia dell’ordine. La malinconia di vedere allontanarsi un progetto individuale – dipingere, suonare, scrivere – era compensata dalla soddisfazione di dare il proprio contributo al progetto famigliare.


      Constatavamo che tutti avevamo formato, con una rapidità che ci lasciava stupefatti, delle minuscole cellule separate e sedentarie che si frequentavano tra loro invitandosi a casa di tanto in tanto, giovani sposi e giovani genitori che provavano una sorta di vago risentimento nei confronti della libertà di andare e venire di chi non era in coppia, considerato una sorta di immaturo che ignorava cosa fossero le cambiali, gli omogeneizzati Blédina e i libri del dottor Spock.


           


      


      Non si pensava a valutare la propria posizione rispetto ai discorsi politici o a quanto accadeva nel mondo. Ci si concedeva giusto il piacere di dare contro a de Gaulle e votare quel candidato baldanzoso il cui nome rimandava in qualche maniera agli anni dell’Algeria francese, François Mitterrand. Nel corso dell’esistenza personale, la Storia non esisteva. Eravamo soltanto felici o infelici a seconda dei giorni.


      Più eravamo immersi in ciò che dicevamo essere la realtà – il lavoro, la famiglia – più provavamo una sensazione di irrealtà.


           


      


      Nei pomeriggi di sole, le giovani mamme, sedute sulle panchine dei giardinetti e con un occhio al parco giochi, si scambiavano consigli sui pannolini e su cosa dar da mangiare ai figli. Sembravano lontanissime le confidenze dell’adolescenza, le lunghe chiacchierate fatte nel riaccompagnarsi interminabilmente a casa. Le lasciava incredule il pensiero di come avevano vissuto fino a non più di tre anni prima, con il rimpianto di non averne approfittato più a lungo. Erano entrate nella fase della Preoccupazione, per il cibo, per il bucato, per le malattie infantili. Avevano pensato che non sarebbero mai diventate come le loro madri e ora, con più leggerezza, con una forma di disinvoltura incoraggiata dalla lettura di libri quali Il secondo sesso e da slogan come Moulinex libera la donna, ne prendevano il testimone, rifiutando però, a differenza loro, di riconoscere un qualsiasi valore a ciò che tuttavia si sentivano tenute a fare senza sapere bene perché.


           


            


           


      


      


      


      Con un misto d’apprensione e orgoglio si invitava a pranzo la famiglia del coniuge per mostrare quanto ci si fosse accasati bene, con più gusto rispetto agli altri giovani della famiglia. Si mostravano i tendaggi veneziani, si faceva toccare il velluto del divano, si testava la potenza delle casse dello stereo, si tirava fuori il servizio del matrimonio – ma mancavano sempre dei bicchieri – e infine, quando tutti erano riusciti a sedersi a tavola e ciascuno aveva detto la sua su come andava mangiata la fondue bourguignonne – di cui si era recuperata la ricetta su Elle – cominciavano le conversazioni borghesi sul lavoro, le vacanze e le automobili, i libri del commissario San Antonio, i capelli lunghi di Antoine, la bruttezza di Alice Sapritch, le canzoni di Dutronc. Non si sfuggiva al ricorrente dibattito che tentava di stabilire se il fatto che una donna andasse a lavorare invece di occuparsi della casa portasse reali vantaggi economici alla coppia. Si prendeva in giro de Gaulle, il suo modo di parlare, i discorsi celebri, Français, je vous ai compris!, Vive le Québec libre! (come se il ballottaggio conquistato da Mitterrand avesse rotto gli argini dell’irriverenza rivelando bruscamente la senilità di colui che sulle pagine del Canard enchaîné veniva ormai chiamato soltanto Charles lo Sballottato). Si celebrava l’intelligenza e l’integrità di Mendès France, si valutava l’avvenire politico di Giscard d’Estaing, Defferre, Rocard. Nel brusio della tavolata si alternavano facezie e sghignazzi su Mauriac e la sua risatina strozzata, sul reparto paramilitare dei barbouzes, sui tic e i vezzi di Malraux (tra i personaggi dei suoi libri l’avevamo immaginato nei panni del rivoluzionario Tchen, ora bastava vederlo con il suo soprabito alle cerimonie ufficiali per smettere di credere nella letteratura).


      I ricordi della guerra in bocca a chi aveva superato i cinquant’anni si limitavano ad aneddoti personali pieni di vanagloria che alle orecchie di chi ne aveva meno di trenta suonavano come lagnosi vaneggiamenti. A nostro avviso per quel genere di rievocazioni esistevano appositi discorsi commemorativi con tanto di corone di fiori. Riemergevano alcuni nomi legati alla Quarta Repubblica, Bidault, Pinay, che – oltre alla consapevolezza che «a quel tempo c’eravamo già» – non destavano in noi nessuna immagine precisa, e dall’astio che ancora suscitavano – «quella canaglia di Guy Mollet» – scoprivamo con sorpresa che avevano avuto un ruolo importante. Sull’Algeria, convertita in destinazione economicamente vantaggiosa per un giovane professore che avesse voluto insegnare all’estero, si era voltato pagina in via definitiva.


      La contraccezione intimidiva troppo perché se ne parlasse nelle tavolate famigliari. L’aborto, una parola impronunciabile.


      


      Si cambiavano i piatti per il dolce, piuttosto mortificate dall’accoglienza ricevuta dalla fondue bourguignonne che, invece delle auspicate congratulazioni, aveva suscitato un po’ di curiosità e qualche commento deludente – soprattutto rispetto allo sforzo che si era fatto per preparare le salsine d’accompagnamento – venato di condiscendenza. Dopo il caffè, sulla tavola sparecchiata ci si apprestava a giocare a bridge. Al suocero la voce si faceva al contempo più alta e più impastata per via del whisky. Possibile che ancora si ripetessero vecchi adagi come Diecimila inglesi si sono buttati nel Tamigi per non aver battuto gli atout? Nella sazietà che illuminava i volti della nuova famiglia, nel canticchiare del bimbo che voleva alzarsi dopo il riposino, si era attraversate da una fugace impressione di provvisorietà. Ci si sorprendeva di trovarsi lì, di aver avuto ciò che si era desiderato, un uomo, un figlio, un appartamento.


           


           


            


      


      


      


      Sulla foto in bianco e nero, sopra un letto trasformato in divano con dei cuscini, una giovane donna e un bambino seduti una accanto all’altro davanti a una finestra con le tende trasparenti. Al muro è appeso un manufatto africano. Lei indossa un completo in jersey chiaro, con un twin-set e una gonna che le arriva sopra il ginocchio. I capelli, sempre raccolti in bandeau scuri, asimmetrici, ne mettono in risalto l’ovale pieno, con le guance sollevate in un gran sorriso. Né la pettinatura né il completo sono conformi all’immagine che verrà data più tardi degli anni attorno al ’66-67, soltanto la gonna corta corrisponde alla moda lanciata da Mary Quant. Cinge con il braccio le spalle del bambino, gli occhi vivaci, l’aria sveglia, un dolcevita e i pantaloni del pigiama, la bocca semiaperta a scoprire dei denti piccoli, colto nell’atto di parlare. Sul retro, rue de Loverchy, inverno ’67. La foto l’ha dunque fatta lui, qui invisibile, lui, lo studente imberbe e volubile diventato in meno di quattro anni marito, padre e quadro amministrativo in una città di montagna. È di sicuro stata scattata di domenica, l’unico giorno della settimana in cui stanno insieme, in cui, tra gli effluvi del pranzo che cuoce a fuoco lento, il borbottare del bambino che gioca con i Lego, la riparazione dello sciacquone rotto e l’Offerta musicale di Bach come sottofondo, costruiscono la loro memoria comune e affermano di sentirsi, tutto sommato, felici. La foto è parte di questa costruzione, inscrive la «famigliola» all’interno di una stabilità di cui lei ha predisposto la prova rassicurante a uso e consumo dei nonni che ne hanno ricevuto una copia.


      In quel preciso istante dell’inverno ’67-68 probabilmente non sta pensando a nulla, si gode il suo piccolo nucleo famigliare – presto disturbato dallo squillo del telefono, da qualcuno alla porta – in una finestra temporale libera dalle varie incombenze che hanno l’esatto scopo di farlo andare avanti, la lista della spesa, controllare il bucato, cosa fai da mangiare stasera, quell’incessante prevedere il futuro immediato che complica il versante esterno dei suoi obblighi, il suo lavoro di insegnante. I momenti in famiglia sono quelli in cui sente, non quelli in cui pensa.


      Interpreta come pensieri veri e propri quelli che le vengono quando è da sola o porta a spasso il bambino. E non intende le considerazioni su come parlano o si vestono gli altri, su quanto sono alti i marciapiedi quando si sta spingendo un passeggino, sulla censura ai Paraventi di Jean Genet o sulla guerra del Vietnam, ma le questioni che riguardano se stessa, l’essere e l’avere, l’esistenza. È l’approfondimento di sensazioni fugaci, impossibili da comunicare agli altri, tutto ciò che, se avesse il tempo di scrivere – e non trova nemmeno quello per leggere – sarebbe il materiale di un suo libro. Sul diario, che apre di rado quasi costituisse una minaccia contro la famiglia, come se adesso non avesse più diritto alla sua interiorità, ha scritto: «Non ho più nessuna idea. Non cerco più di spiegare la mia vita» e «sono una piccoloborghese fatta e finita». Ha l’impressione di aver deviato dai suoi scopi precedenti, di essersi immessa in una progressione prettamente materiale. «Ho paura di sistemarmi in questa vita calma e comoda, di ritrovarmi ad aver vissuto senza essermene resa conto.» Nell’esatto momento in cui fa questa considerazione sa di non essere pronta a rinunciare a tutto ciò che nel suo diario non compare mai, quella vita insieme, quella intimità condivisa in uno stesso luogo, l’appartamento in cui non vede l’ora di tornare subito dopo le lezioni, dormire in due, al mattino il ronzio del rasoio elettrico, la sera raccontare I tre porcellini, quella ripetitività che crede di detestare e a cui è affezionata, che le manca non appena si allontana per soltanto tre giorni quando va a fare le prove d’esame per il Capes – tutto ciò di cui le basta immaginare la perdita accidentale per sentirsi stringere il cuore in una morsa.


      Non si sogna più sulla spiaggia dell’estate a venire o come scrittrice che ha appena pubblicato il suo primo libro. Il futuro si annuncia in termini materiali molto precisi, ottenere un posto migliore, promozioni, acquisti, il bambino che entra all’asilo, non si tratta più di sogni, ma di previsioni. Le capita spesso di tornare con la mente a quando era sola, si rivede per le strade delle città in cui ha vissuto, nelle camere che ha abitato – a Rouen in una casa con altre giovani, a Finchley come ragazza alla pari, in vacanza a Roma in una pensione di via Servio Tullio. Le pare che quegli io continuino a esistere. Il passato e il futuro si sono insomma invertiti i ruoli. Ora è ciò che ha alle spalle a essere diventato oggetto del desiderio, non ciò che ha davanti: ritrovarsi in quella stanza a Roma nell’estate del ’63. Scrive sul diario: «Con estremo narcisismo, voglio vedere il mio passato nero su bianco e grazie a questo diventare ciò che ora non sono» e anche «è una sorta di immagine precisa della donna a tormentarmi. Devo forse orientarmi in quella direzione». In un quadro di Dorothea Tanning, visto tre anni prima in un museo di Parigi, era ritratta una donna dal seno nudo e, dietro di lei, un’infilata di porte socchiuse. Il titolo era Compleanno. Le viene da pensare che quel quadro rappresenti la sua vita, che ci si trovi dentro come un tempo lo era stata in Via col vento, in Jane Eyre, più tardi ne La nausea. Ogni volta che legge un libro, Gita al faro, Les Années-lumière, si pone la stessa domanda, si chiede se lei potrebbe raccontare così la sua vita.


      Talvolta le tornano in mente immagini dei suoi genitori nella cittadina normanna, la madre che si toglie il grembiule per recarsi all’adorazione eucaristica serale, il padre che risale dall’orto, la vanga in spalla, un mondo lento che continua a esistere, più irreale di un film, lontanissimo da quello di cui fa parte ora, moderno, colto, che avanza, verso cosa è difficile a dirsi.


      Tra ciò che accade nel mondo e ciò che accade a lei non c’è alcun punto di intersezione. Due serie parallele, una astratta di informazioni ricevute e subito dimenticate, l’altra di piani fissi.


      In ogni momento, assieme a ciò che viene considerato naturale fare e dire, assieme a ciò che i libri, i manifesti pubblicitari in metropolitana e persino le barzellette prescrivono di pensare, ci sono tutte quelle cose su cui la società tace senza rendersene conto, destinando a un disagio solitario chi quelle stesse cose le sente senza saperle nominare. Un silenzio che un giorno si rompe, d’un tratto o poco a poco, e delle parole cominciano a sgorgare sulle cose, finalmente riconosciute, mentre al di sopra si vanno formando altri silenzi.


          


            


            


      


      


      


      In seguito, ai giornalisti e agli storici sarebbe piaciuto ricordare una frase di Pierre Viansson-Ponté comparsa su Le Monde qualche mese prima del Maggio ’68: La Francia si annoia!. Non ci sarebbe voluto niente a ripescare nella memoria immagini di monotonia, pregne di una non databile tetraggine, domeniche passate davanti al televisore a guardare Anne-Marie Peysson, e si sarebbe potuti star certi che momenti del genere erano stati vissuti da chiunque, un mondo rappreso in un grigiore uniforme. Ma la televisione, nel diffondere un’iconografia immutabile con un ventaglio ridotto di protagonisti, avrebbe istituito una versione non modificabile degli eventi, imponendo l’impressione che quell’anno esistessero solo persone tra i diciotto e i venticinque anni e lanciassimo tutti cubetti di porfido ai celerini con un fazzoletto sulla bocca. Sotto il bombardamento ripetitivo delle immagini riprese dalle telecamere avremmo così rimosso quelle del nostro maggio personale, né celebre – una domenica nella piazza della stazione, deserta, senza viaggiatori e senza giornali in edicola – né glorioso – quando avevamo avuto paura di restare senza soldi (ritirati in tutta fretta dalla banca), benzina e, soprattutto, cibo, e avevamo riempito fino all’orlo il carrello del supermercato, spinti da un’ereditata memoria della fame.


          


      


      Era una primavera uguale alle altre, il mese d’aprile era stato piovoso, la Pasqua cadeva alta. Avevamo seguito le Olimpiadi invernali e assistito alle medaglie di Jean-Claude Killy, letto Elisa, o la vera vita, sostituito con fierezza la Renault 8 con una berlina della Fiat, cominciato a studiare il Candido di Voltaire con gli alunni di terza dell’istituto tecnico, il tutto prestando poca attenzione ai disordini nelle università parigine di cui si parlava alla radio. Sarebbero stati repressi, come al solito. Ma la Sorbona chiudeva, le prove scritte del Capes erano sospese, c’erano scontri con la polizia. Una sera abbiamo sentito una voce affannata su Europe n. 1, nel Quartiere latino erano state erette barricate come ad Algeri dieci anni prima, erano volate le molotov, c’erano stati dei feriti. Ormai avevamo preso coscienza che stava succedendo qualcosa, l’indomani non avevamo più voglia di ricominciare la vita di ogni giorno. Ci si incrociava per la strada, si esitava, ci si riuniva. Si smetteva di lavorare senza avere una ragione precisa per farlo, senza rivendicazioni definite, per contagio, perché quando accade l’imprevedibile è impossibile fare altro che attendere. Non sapevamo ciò che sarebbe successo l’indomani, né tentavamo di saperlo. Era un altro tempo.


      Noi, che fino ad allora ci eravamo schierati solo blandamente dalla parte dei lavoratori, che compravamo cose senza desiderarle davvero, ci riconoscevamo negli studenti di poco più giovani che lanciavano sanpietrini sui poliziotti. Al posto nostro chiedevano conto al potere di anni di censura e repressione, della violenza poliziesca sui manifestanti contro la guerra in Algeria, delle spedizioni punitive contro gli algerini, delle Citroën DS nere degli ufficiali e della messa al bando de La religiosa. Vendicavano l’addomesticamento della nostra adolescenza, il silenzio rispettoso nelle aule magne, la vergogna nel far entrare i ragazzi di nascosto nelle stanze dello studentato. Era in fondo a noi stessi, nei desideri umiliati, nello scoramento della sottomissione, che si trovavano le ragioni per aderire alle notti infiammate di Parigi. Rimpiangevamo di non aver vissuto prima tutto ciò, ma ci reputavamo fortunati che stesse accadendo quando ancora eravamo all’inizio delle nostre carriere.


      D’un tratto diventava reale il 1936 dei racconti di famiglia.


           


      


      Vedevamo e ascoltavamo ciò che non avevamo mai visto o ascoltato da quando eravamo nati, ciò che non avremmo mai creduto possibile. Luoghi il cui utilizzo obbediva a regole rispettate da sempre, in cui erano autorizzati a entrare soltanto determinati tipi di persone, università, fabbriche, teatri, aprivano le loro porte a chiunque, e vi si faceva di tutto – discutere, mangiare, dormire, amarsi – tranne ciò per cui erano stati predisposti. Non c’erano più spazi istituzionali e sacri. Professori e studenti, giovani e vecchi, colletti bianchi e tute blu si parlavano tra loro, le gerarchie e le distanze si dissolvevano nella parola come per miracolo. E si era dato un taglio alle precauzioni oratorie, a quel linguaggio cortese e moderato, fatto di toni posati e circonlocuzioni, a quel modo di tenere le distanze con il quale – ce ne rendevamo conto solo allora – i potenti e i loro servi – e bastava dare un’occhiata a Michel Droit – imponevano il loro dominio. Ora le voci erano vibranti, aggressive, si interrompevano senza tante cerimonie. I volti esprimevano la collera, il disprezzo, il godimento. La libertà dei gesti e l’energia dei corpi bucavano lo schermo. Se di rivoluzione si trattava, era in quei cambiamenti dei modi di fare che si stava davvero compiendo, in quella nuova espansività, in quella rilassatezza, in quei corpi seduti dove e come capitava. Quando il ricomparso de Gaulle – ma da dove sbucava? lo speravamo uscito di scena definitivamente – riesumava con una smorfia di disgusto il termine chienlit per parlare di quella che ai suoi occhi era solo una pagliacciata, senza nemmeno sapere cosa volesse dire quel vocabolo desueto percepivamo tutto lo sdegno aristocratico che gli suscitava la rivolta, ridotta a una parola che richiamava alla mente escrementi e amplessi, brulicare animalesco, scatenarsi degli istinti.


           


      


      Non facevamo caso al fatto che non stesse emergendo nessun leader operaio. Con la loro aria paterna i dirigenti del PC e dei sindacati continuavano a determinare i bisogni e le volontà. Si precipitavano a negoziare con il governo – che tuttavia era quasi immobile – come se non si potesse ottenere niente di meglio che l’aumento del potere d’acquisto e l’innalzamento dell’età pensionabile. Guardandoli uscire dal Ministero del lavoro dopo gli accordi di Grenelle, tutti intenti a enunciare pomposi, con parole che avevamo già dimenticato da tre settimane, le «misure» alle quali il potere aveva «acconsentito», ci si sentiva venir meno. Tornavamo a sperare nel vedere la «base» che rifiutava quella capitolazione e Mendès France che partecipava alla manifestazione tenutasi allo stadio Charléty. E ancora ci riassaliva il dubbio con lo scioglimento dell’Assemblea e l’annuncio di nuove elezioni. Quando abbiamo visto irrompere sugli Champs-Élysées una folla scura con Debré, Malraux (dal volto segnato ma non più ispirante, ormai soltanto servile) e gli altri che avanzavano a braccetto in un’ostentazione di fratellanza affettata e lugubre, abbiamo capito che tutto sarebbe presto finito. Non era più possibile ignorare che c’erano due mondi e che bisognava scegliere. Ma le elezioni non significavano scegliere, bensì riconsegnare ai notabili le loro poltrone. In ogni caso, la metà dei giovani non aveva ancora ventun anni e non avrebbe potuto votare. A scuola, in fabbrica, il sindacato e il Partito ordinavano di riprendere il lavoro. I loro portavoce, pensavamo, con quell’eloquio lento e roco da pseudo-contadini, ci avevano raggirato per bene. Si facevano la reputazione di «alleati oggettivi del potere» e di traditori stalinisti, in ogni posto di lavoro c’era sempre un tale o una tale che incarnava a pieno quel ruolo e che sarebbe rimasto negli anni il bersaglio di ogni strale.


           


      


      Gli studenti si rimettevano sui libri perché gli esami non erano stati sospesi, i treni funzionavano regolarmente, la benzina tornava a scorrere. Si poteva partire per le vacanze. All’inizio di luglio i provinciali diretti in villeggiatura che, per cambiare stazione ferroviaria, attraversavano Parigi in autobus potevano sentire sotto di loro il pavé risistemato sulle strade come se non fosse successo niente. Ripassandoci qualche settimana dopo sulla via del rientro trovavano il manto stradale coperto da una distesa liscia di catrame e si domandavano che fine avessero fatto fare a tutte quelle tonnellate di cubetti di porfido. Sembrava che fossero successe più cose in due mesi che in dieci anni, ma non avevamo avuto il tempo di fare nulla. A un certo punto ci era sfuggito qualcosa, ma non sapevamo cosa – o forse avevamo lasciato fare.


            


      


      Il futuro avrebbe riservato violenze, lo credevano tutti, era questione di mesi, di un anno al massimo. Ci si aspettava un autunno caldo, poi si diceva che lo sarebbe stata la primavera [finché non ci si sarebbe pensato più, e nel ritrovare tempo dopo un paio di jeans ci si sarebbe detti «hanno fatto il Maggio»]. «Un nuovo mese di maggio» era auspicato dagli uni, che si affaccendavano perché accadesse e desideravano l’avvento di una nuova società, e temuto dagli altri, che brigavano contro questa possibilità, gettavano in prigione Gabrielle Russier, vedevano un «sinistrorso» in ogni capellone, applaudivano alle leggi antisommossa e disapprovavano qualsiasi cosa. Sui luoghi di lavoro le persone si dividevano in due categorie, i manifestanti di maggio e i non-manifestanti, separati dallo stesso reciproco ostracismo. Quel maggio era diventato la cartina di tornasole per classificare gli individui, nell’incontrare qualcuno ci si chiedeva da che parte fosse stato durante gli eventi. Sull’uno e l’altro fronte c’era la stessa violenza, non ci si perdonava niente.


           


      


      Noi, che per cambiare la società eravamo rimasti fermi al Partito socialista unificato, scoprivamo in un colpo solo i maoisti, i trotskisti, una straordinaria quantità di idee e di concetti. Dappertutto nascevano movimenti, si pubblicavano libri e riviste, emergevano filosofi, critici, sociologi: Bourdieu, Foucault, Barthes, Lacan, Chomsky, Baudrillard, Wilhelm Reich, Ivan Illich, Tel Quel, l’analisi strutturale, la narratologia, l’ecologia. In un modo o in un altro, che fosse leggendo Les Héritiers o un libretto svedese sulle posizioni sessuali, tutto andava in direzione di una nuova intelligenza, di una trasformazione del mondo. Eravamo immersi in linguaggi inauditi, non sapevamo più dove sbattere la testa, sgomenti perché non avevamo mai sentito parlare di tutto ciò prima di allora. In un mese avevamo recuperato anni di tempo perso. E ci sentivamo rassicurati nel ritrovare, invecchiati ma più battaglieri che mai, emozionanti, Sartre e Beauvoir con il suo turbante, anche se non avevano niente di nuovo da insegnarci. André Breton, purtroppo, era morto due anni prima, troppo presto.


          


      


      Niente di ciò che fino a quel momento era stato considerato normale veniva più dato per scontato. La famiglia, l’educazione, la prigione, il lavoro, le vacanze, la follia, la pubblicità: a essere messa sotto esame era la realtà intera, inclusa la parola del soggetto che la criticava, chiamato a interrogarsi su se stesso, sulle proprie origini, da dove parli tu? Era finita l’epoca dell’ingenuità sociale. Comprare una macchina, assegnare un compito a casa, partorire, ogni cosa aveva un suo significato.


      Nulla dell’intero pianeta ci doveva risultare estraneo, gli oceani, il delitto di Bruay-en-Artois, eravamo partecipi di ogni lotta, dal Cile di Allende a Cuba, dal Vietnam alla Cecoslovacchia. Comparavamo i sistemi politici, cercavamo dei modelli. Eravamo immersi in una generalizzata lettura politica del mondo. La parola chiave era «liberazione».


          


      


      Chiunque, purché rappresentasse un gruppo, una particolare condizione, un’ingiustizia, aveva il diritto di parlare ed essere ascoltato anche se non era un intellettuale. Aver avuto esperienza di qualcosa, qualsiasi cosa, in quanto donna, omosessuale, transfuga di classe, detenuto, contadino, minatore, dava il diritto di dire io. C’era una forma di esaltazione nel pensarsi in termini collettivi, le prostitute e i lavoratori in sciopero trovavano spontaneamente i loro portavoce. Charles Piaget, l’operaio di Lip, era più conosciuto dello psicologo dallo stesso cognome con il quale ci avevano fatto una testa così alle lezioni di filosofia [ignorando che un giorno il nome Piaget ci avrebbe evocato soltanto quello di un gioielliere di lusso letto sulle riviste dal parrucchiere].


           


      


      I ragazzi e le ragazze ora erano sempre insieme, le medaglie scolastiche e i grembiuli erano stati soppressi, i voti in cifre erano stati sostituiti dalle lettere dalla A alla E. Gli studenti si baciavano e fumavano durante le lezioni, commentavano a voce alta le tracce dei temi e dei compiti in classe, che palle o roba forte.


      Sperimentavamo la grammatica strutturale, i campi semantici e le isotopie, la pedagogia Freinet. Abbandonavamo Corneille e Boileau per far studiare Boris Vian, Ionesco, le canzoni di Boby Lapointe e Colette Magny, Pilote e il fumetto. In classe facevamo scrivere un romanzo o un giornale, suscitando l’ostilità di quei colleghi che nel ’68 si erano barricati in sala professori e quella dei genitori, scandalizzati dal fatto che, oltre ai compiti consueti, dessimo da leggere Il giovane Holden e I bambini del secolo.


      Uscivamo da ore di dibattiti sulla droga, l’inquinamento o il razzismo in uno stato quasi di ebbrezza, covando però il remoto sospetto di non aver insegnato niente agli studenti (avevamo forse girato a vuoto?, ma in fondo la scuola serviva poi a qualche cosa? Saltavamo da un interrogativo all’altro, senza sosta).


      Altri modi di pensare, parlare, scrivere, lavorare, esistere: credevamo di non aver niente da perdere a provare tutto.


      Il 1968 era il primo anno del mondo.

     


            


            


      


      


      


      Venire a conoscenza della morte del generale de Gaulle in un mattino di novembre faceva sprofondare un momento nell’incredulità – era dunque immortale ai nostri occhi? –, poi in capo a un anno e mezzo ci si accorgeva fino a che punto lo si fosse già dimenticato. La sua morte suggellava l’epoca precedente al Maggio, anni che nelle nostre vite erano già lontani.


      Eppure, nel fluire consueto dei giorni, con la campanella della scuola alla solita ora, la voce di Albert Simon e di Madame Soleil su Europe n. 1, la cena del sabato a base di filetto e patatine, gli appuntamenti televisivi con Kiri il clown e Un minuto per le donne di Annick Beauchamp, non si percepiva nessuna evoluzione. Forse per accorgersi dei cambiamenti sarebbe servito un momento di pausa, per esempio davanti all’immagine degli studenti seduti per terra nel cortile del liceo, al sole, dopo la morte di un operaio, Pierre Overney, ucciso da una guardia giurata della Renault, un momento che ci pareva di cogliere soltanto nel suo particolare sapore, quello di un pomeriggio di marzo, e che sarebbe diventato, una volta che il tempo lasciato alle spalle si fosse fatto Storia, l’effigie stessa del primo sit-in.


          


      


      Ciò che in passato era fonte di vergogna ora non lo era più. Si sbeffeggiava il senso di colpa (siamo tutti dei giudeo-cretini), si stigmatizzava l’indigenza sessuale, la ritrosia e il disinteresse nei confronti del piacere erano considerati peccati capitali. La rivista Parents insegnava alle donne frigide a stimolarsi, gambe aperte di fronte allo specchio. In un volantino distribuito nei licei, il dottor Carpentier invitava gli studenti a masturbarsi per ingannare la noia delle lezioni. Si giustificavano le carezze tra adulti e bambini. Tutto ciò che era stato proibito, considerato peccato indicibile, veniva consigliato. Ci si abituava a vedere sessi di uomini e donne proiettati sugli schermi, ma si tratteneva il respiro per paura di tradire l’emozione quando Marlon Brando sodomizzava Maria Schneider. Per perfezionarsi si comprava il libricino rosso svedese con le foto di tutte le posizioni possibili, si andava a vedere Tecniche dell’amore fisico. Si prendeva in considerazione l’idea di fare l’amore a tre. Ma, nonostante tutto, non ci decidevamo a fare ciò che fino al giorno prima era considerato un oltraggio al pudore, mostrarci nudi davanti ai figli.


      Il discorso sul piacere dominava tutti gli altri. Bisognava godere leggendo, scrivendo, facendo il bagno, defecando. Era il fine ultimo delle attività umane.


           


      


      Rimettevamo in discussione le nostre storie di donne. Ci rendevamo conto di non aver avuto la nostra parte di libertà sessuale, di libertà creatrice, di tutto ciò che gli uomini hanno a disposizione. Il suicidio di Gabrielle Russier ci aveva sconvolto come quello di una sorella sconosciuta, e ci eravamo indignate per lo stratagemma di Pompidou che, per evitare di esporsi sulla questione, si era rifugiato in un indecifrabile verso di Éluard. Anche in provincia giungeva voce dell’esistenza dell’MLF, il Movimento per la liberazione delle donne, che lanciava in edicola il giornale Le torchon brûle. Leggevamo L’eunuco femmina di Germaine Greer, La politica del sesso di Kate Millett, La Création étouffée di Suzanne Horer e Jeanne Socquet con quel sentimento di esaltazione e impotenza che procura scoprire in un libro una verità su se stessi. Risvegliate dal torpore coniugale, sedute per terra sotto il poster che recitava Una donna senza uomini è come un pesce senza bicicletta, ripercorrevamo assieme le nostre vite, ci sentivamo capaci di lasciare marito e figli, di svincolarci da tutto e di scrivere cose brutali. Tornate a casa la determinazione si raffreddava, eravamo prese dal senso di colpa. Non sapevamo più da che parte incominciare per liberarci, né da cosa avremmo dovuto farlo. Ognuna era convinta che il proprio uomo non fosse né un fallocrate né un macho. Ed esitavamo tra i discorsi – quelli che propugnavano la parità di diritti tra uomini e donne e se la prendevano con «la legge dei padri», quelli che preferivano valorizzare tutto ciò che era femminile, il ciclo, l’allattamento e la preparazione della crema di porri. Ma per la prima volta ci figuravamo la nostra stessa vita come una marcia verso la libertà, e questo cambiava molte cose. Stava scomparendo un certo tipo di percezione della donna, quella che la legava a un’inferiorità naturale.


           


      


      Il giorno e il mese li avremmo poi dimenticati – era però primavera – ma ci sarebbe rimasto in mente il fatto di aver letto tutti i nomi, dal primo all’ultimo, delle 343 donne – erano dunque così numerose mentre noi, con la sonda e il sangue schizzato sulle lenzuola, ci eravamo sentite così sole – che avevano dichiarato a Le Nouvel Observateur di aver abortito illegalmente. Anche se non era ben visto, avevamo fatto nostra la causa di quanti chiedevano l’abrogazione della legge del 1920 e l’accesso libero all’aborto medico. Stampavamo volantini con la fotocopiatrice del liceo, li distribuivamo di notte nelle cassette delle lettere, andavamo a vedere Histoires d’A., accompagnavamo di nascosto donne incinte in una casa privata dove medici militanti aspiravano l’embrione indesiderato senza farsi pagare. Bastavano una pentola a pressione per disinfettare il materiale e una pompa per biciclette: il dottor Karman aveva semplificato e migliorato la tecnica delle mammane. Fornivamo indirizzi a Londra e Amsterdam. La clandestinità era esaltante, era come riallacciarsi alla Resistenza, sembrava di prendere il testimone dei «portatori di valigie», la rete di sostegno dell’FLN durante la guerra d’Algeria. A rappresentare questa continuità c’era l’avvocata Gisèle Halimi, così bella sotto i flash dei giornalisti all’uscita del processo di Bobigny in cui aveva difeso la militante Djamila Boupacha, e dall’altra parte, a rappresentare invece la continuità con il regime di Vichy, i seguaci del movimento Laissez-les vivre e del professor Lejeune, che esibiva feti alla televisione per terrorizzare le persone. Un sabato pomeriggio, in corteo, a migliaia, sotto il sole, dietro gli striscioni, levando gli occhi al cielo uniformemente blu di Dauphiné, ci dicevamo che stava a noi fermare la morte rossa delle donne, per la prima volta, dopo millenni. Chi ci avrebbe mai potuto dimenticare?


          


           


           


      


      


      


      Ci si confezionava la rivoluzione su misura secondo l’età, il mestiere e la classe sociale, gli interessi e i vecchi sensi di colpa. Seguivamo, anche nostro malgrado, le esortazioni alla festa e al godimento, all’intelligenza, non si finisce mai di imparare. C’era chi fumava erba, chi andava a vivere in una comune, chi faceva esperienza della catena alla Renault, chi partiva per Katmandu; altri passavano una settimana a Tabarka, leggevano Charlie Hebdo, Fluide glacial, L’Écho des savanes, Tankonalasanté, Métal hurlant, La Gueule ouverte, incollavano fiori sulle portiere delle loro auto, appendevano in camera poster del Che e della bimba che fugge dal napalm, indossavano un poncho o una giacca alla Mao e si mettevano a vivere per terra sopra ai cuscini, acquistavano prodotti Maurice Mességué, andavano a vedere il Grand Magic Circus, Ultimo Tango a Parigi, Emmanuelle, rabberciavano una vecchia fattoria nell’Ardèche, si abbonavano a Cinquante millions de consommateurs scandalizzati dai pesticidi nel burro, non portavano più il reggiseno, lasciavano sul tavolo Lui o altre riviste per adulti alla portata dei propri figli, chiedevano a questi ultimi di essere chiamati per nome come dei compagni di scuola.


          


      


      Cercavamo dei modelli nello spazio e nel tempo, l’India e le Cevenne, l’esotico o il rurale. C’era un’aspirazione alla purezza.


          


      


      Non decidendosi a lasciare tutto, casa e lavoro, per stabilirsi in campagna, progetto sempre rinviato ma che si era certi di realizzare un giorno, i più assetati di risurrezione cercavano per le vacanze dei villaggi isolati in territori aspri, rifiutando di passarle in spiaggia ad abbronzarsi come degli ebeti o nelle proprie province d’origine, piatte e «deturpate» dal progresso industriale. In compenso attribuivano autenticità ai contadini poveri delle regioni aride, che da secoli sembravano sempre identiche. Coloro che volevano fare la Storia ammiravano sopra ogni altra cosa proprio il suo annullarsi nel ritorno ciclico delle stagioni e nell’immutabilità dei gesti – e compravano una vecchia baracca da quegli stessi contadini per un tozzo di pane.


          


      


      Oppure andavano in vacanza nei Paesi dell’Est. Nelle strade grigie dai marciapiedi dissestati, davanti ai negozi statali dai prodotti economici e senza marca imballati in carta grezza, in case illuminate da lampadine nude appese al soffitto, avevano l’impressione di camminare nell’universo lento, senza grazia, sprovvisto di ogni cosa degli anni del dopoguerra. Era un sentimento dolce e indicibile. Eppure non avrebbero mai voluto vivere là. Se ne tornavano con bluse ricamate e bottiglie di rakija. Erano ben contenti che nel mondo continuassero a esserci nazioni senza progresso dove potersi sentire trasportati indietro nel tempo.


           


           


            


      


      


      


      Nelle sere d’estate, all’inizio degli anni Settanta, tra l’odore della terra secca e del timo, seduti a un tavolaccio comprato per appena mille franchi da un rigattiere, attorno a spiedini e ratatouille – bisognava pensare anche ai vegetariani –, commensali che non si conoscevano tra loro, parigini che rimettevano in sesto la casa accanto, viaggiatori di passaggio, esperti di scalate e pittura su seta, coppie con e senza bambini, uomini irsuti, adolescenti inselvatichiti, donne mature in vesti indiane, dopo un inizio reticente nonostante il tu instaurato d’istinto, si mettevano a parlare dei coloranti e degli ormoni negli alimenti, di sessuologia ed espressione corporea, di antiginnastica, del metodo Mézières e del metodo Rogers, di yoga, della nascita senza violenza di Frédérick Leboyer, di omeopatia e della soia, dell’autogestione della Lip e dell’agronomia di René Dumont. Ci si chiedeva se fosse meglio mandare i figli a scuola o educarli in casa, tossico utilizzare l’Ajax per pulire il pavimento, utile fare yoga o una terapia di gruppo, utopico pensare di lavorare soltanto due ore al giorno, se le donne dovessero rivendicare la parità con gli uomini o l’uguaglianza nella differenza. Passavamo in rassegna i migliori metodi per nutrirsi, nascere, educare i bambini, curarsi, insegnare, essere in armonia con se stessi, gli altri e la natura e per sfuggire alla società. Per esprimersi: corsi di ceramica, taglio e cucito, chitarra, bigiotteria, teatro, scrittura. Aleggiava nell’aria un immenso e vago desiderio di creare. Ognuno si dedicava a un’attività artistica o progettava di farlo, convenendo che, in un modo o nell’altro, si equivalessero tutte. E se non si sapeva dipingere o suonare il flauto traverso restava sempre la possibilità, sul lettino dell’analista, di creare se stessi.


          


      


      Mentre i bambini, messi a dormire insieme nella stessa camera, si divertivano come matti facendo stupidaggini a ripetizione nonostante gli fosse stato intimato – più che altro per salvare la forma – di non «fare baraonda», noi bevevamo un goccio offerto dal contadino accanto – invitato soltanto per l’aperitivo – e i discorsi ruotavano attorno a fumose fantasticherie sessuali, confessioni, il primo orgasmo, orientamenti etero o omo. La ragazza più selvatica affermava «quanto mi piace fare la cacca». Ritrovarsi quella sera d’estate tra individui senza legami tra loro, lontano dai pranzi di famiglia e dai rituali che detestavamo, suscitava il sentimento esaltante di aprirsi alla diversità del mondo. Ci sentivamo di nuovo adolescenti.


      A nessuno veniva in mente di evocare la guerra, Auschwitz e i campi di concentramento, né i fatti d’Algeria, questione chiusa, soltanto Hiroshima, il futuro nucleare. Era come se nulla fosse accaduto tra i secoli di agricoltura, di cui la notte odorosa della gariga sembrava portare l’afflato, e quel momento dell’agosto ’73.


      Qualcuno cominciava a suonare la chitarra, a cantare Comme un arbre dans la ville di Maxime Le Forestier e Duerme negrito dei Quilapayun – ascoltavamo a occhi bassi. Andavamo a dormire come capitava in brandine da campo sistemate nella vecchia bigattiera, non sapendo se fosse meglio fare l’amore con il vicino di destra, quello di sinistra, oppure non farlo e basta. Il sonno ci prendeva prima di aver deciso, resi euforici da uno stile di vita di cui ci sembrava evidente di avere comprovato la validità per tutta la sera – lontano dai «buzzurri» stipati nei campeggi a Merlin-Plage.


          


           


           


      


      


      


      La società adesso aveva un nome, si chiamava «società dei consumi». Era un fatto assodato, una certezza sulla quale, che si fosse contro o a favore, non c’era bisogno di tornare a discutere. L’aumento del prezzo del petrolio lasciava interdetti, ma solo per poco, la tendenza generale era quella di spendere, di appropriarsi in maniera risoluta delle cose e dei beni non necessari. Compravamo un frigo a due porte, una dinamica Renault 5, una settimana al Club Hotel a Flaine, un monolocale sul mare a La Grande-Motte. Cambiavamo televisore. Sullo schermo a colori il mondo era più bello, gli interni delle case più invidiabili. Scompariva la distanza che il bianco e nero instaurava con l’universo quotidiano, del quale era il negativo austero, quasi tragico.


      La pubblicità mostrava come bisognava vivere e com­portarsi, l’arredamento da scegliere, era l’educatrice culturale della società. E i bambini esigevano l’acqua Évian aromatizzata, «superfruttosa», i biscotti Cadbury, i formaggini Kiri, un mangianastri per ascoltare la canzone degli Aristogatti e La Bonne du curé, una macchinina telecomandata e una Barbie. I genitori speravano che, con tutte quelle cose, i loro figli almeno non si sarebbero fatti le canne una volta diventati grandi. E noi, che non ci facevamo ingannare, che esaminavamo con tono serioso i pericoli della pubblicità assieme agli studenti, che assegnavamo compiti in classe su temi quali «la felicità risiede nel possesso?», ci compravamo un impianto stereo alla Fnac, un registratore Grundig e una cinepresa superotto Bell & Howell con l’impressione di utilizzare la modernità per scopi intelligenti. Per noi e attraverso di noi il consumo si purificava.


         


      


      Gli ideali del Maggio si convertivano in oggetti e in intrattenimento.


           


      


      Accompagnati dal ronzio del proiettore, restavamo sconcertati nel vederci per la prima volta camminare, muovere le labbra, ridere silenziosamente sullo schermo srotolato in salotto. Ci stupivamo di noi stessi, dei nostri gesti. Era una sensazione nuova, forse simile a quella provata nel Seicento da chi si era osservato per la prima volta in uno specchio, o dai bisnonni che si erano trovati davanti al loro primo ritratto fotografico. Di quel turbamento non osavamo dire niente, preferivamo concentrarci sugli altri, i parenti, gli amici, che sullo schermo ci apparivano più conformi all’immagine che già avevamo di loro. Sentire la propria voce registrata era ancora più terribile. Non riuscivamo a capacitarci che fosse quella che gli altri sentivano. Diventavamo più consapevoli di noi stessi, perdevamo in naturalezza.


      Nel modo di vestirci (canottiera e sandali, pantaloni a zampa di elefante), di leggere (Le Nouvel Obs), di indignarci (contro il nucleare, i detersivi in mare), di accettare (gli hippie), ci sentivamo aderenti alla nostra epoca – dal che derivava la certezza di avere ragione in qualunque circostanza. I genitori e gli ultracinquantenni facevano parte di un altro tempo, anche quando insistevano nel voler comprendere i giovani. Consideravamo le loro opinioni e i loro consigli alla stregua di pure informazioni. E non saremmo mai invecchiati.


          


          


            


      


      


      


      La prima immagine del filmino mostra una porta d’ingresso che comincia ad aprirsi – è buio –, si richiude e si riapre. Salta fuori un ragazzino, si ferma, esitante, giubbotto arancione, berretto calato sulle orecchie, sbatte le palpebre. Poi un altro, più piccolo, imbacuccato in un eskimo blu con il cappuccio bordato di pelo bianco. Il più grande si muove di qua e di là, il piccolo resta pietrificato, gli occhi fissi, da pensare che il film si sia fermato. Entra anche una donna, in un lungo cappotto sagomato marrone, il cappuccio le nasconde la testa. Trasporta due scatoloni in cui si intravedono prodotti alimentari. Spinge la porta con la spalla. Scompare dalla visuale, riappare senza le scatole mentre appende il cappotto a un attaccapanni detto «a pappagallo», si gira verso la cinepresa con un sorriso rapido, abbassa gli occhi, abbagliata dalla luce vivida della lampada al magnesio. È quasi pelle e ossa, poco truccata, porta pantaloni Karting marroni, attillati, senza cerniera, un maglione a righe marroni e gialle. I capelli di media lunghezza sono tirati indietro da un fermaglio. Qualcosa d’ascetico e triste – o disincantato – nell’espressione, il sorriso arriva troppo tardi per essere spontaneo. I gesti ne traducono la spigolosità e/o il nervosismo. I bambini sono di nuovo là, davanti a lei. Nessuno di loro sa cosa fare, come muovere braccia e gambe, tutti e tre di fronte alla cinepresa alla quale adesso, abituatisi alla luce violenta, concedono uno sguardo diretto. Non parlano tra loro, non dicono niente. Sembrano in posa per una foto che non finisce mai di essere scattata. Il ragazzino più grande alza il braccio e fa un saluto militare grottesco, una smorfia sulle labbra e le palpebre chiuse. La cinepresa indugia su alcuni elementi dell’arredo di un qualche valore, una cassapanca, un lampadario in opalina, che nell’insieme vanno a definire un gusto borghese.


      È stato lui, suo marito, a filmarli mentre rientravano dalle compere fatte dopo la scuola. La bobina ha un’etichetta con scritto Vita famigliare 72-73. È sempre lui che filma.


      Secondo i criteri stabiliti dalle riviste femminili lei apparterrebbe alla categoria, in espansione, delle trentenni attive che conciliano lavoro e maternità e intendono restare femminili e alla moda. Elencare i luoghi che frequenta durante una giornata tipo (scuola, Carrefour, macelleria, lavanderia…), i suoi tragitti in una Mini Austin tra il pediatra, il corso di judo del figlio maggiore e quello di ceramica del più piccolo, la posta, nonché calcolare il tempo dedicato a ogni attività, preparare le lezioni per gli studenti e correggerne i compiti, apparecchiare per la colazione, sistemare i vestiti per i bambini, lavare la biancheria, cucinare i pranzi, occuparsi della spesa, ma non del pane – è lui che lo porta quando torna da lavoro –, evidenzierebbe:


      una divisione apparentemente impari tra l’esterno e l’interno della casa, tra il lavoro stipendiato (2/3) e il lavoro domestico (1/3, compreso il carico educativo)


      una grande diversità di mansioni


      un’alta frequentazione di negozi e supermercati


      un’assenza quasi totale di tempi morti.


      Questo calcolo – che lei non fa, traendo una specie di fierezza dal compiere in fretta ciò che non necessita né di invenzione né di trasformazione – è insufficiente a spiegarne il nuovo stato d’animo.


      Percepisce il suo mestiere come una continua imperfezione e un’impostura, sul diario ha scritto «essere professoressa mi dilania». Straripa d’energia, di desiderio di imparare e d’intraprendere nuove attività, si ricorda di ciò che ha scritto da ventiduenne, «se arrivo a venticinque anni senza aver mantenuto la promessa di scrivere un romanzo mi suicido». Non saprebbe dire in che misura il Maggio ’68 – che ha l’impressione di essersi persa, ormai troppo accasata – sia all’origine della domanda che la ossessiona: «Sarei più felice in un’altra vita?».


      Comincia a pensarsi al di fuori della coppia e della famiglia.


      I suoi anni da studentessa non sono più un oggetto di desiderio nostalgico. Li vede come un’epoca di imborghesimento intellettuale, di rottura con il suo mondo di provenienza. La sua memoria passa dall’essere romantica a critica. Spesso si ricorda di episodi della sua infanzia, la madre che le grida un giorno ti prenderai gioco di noi, i ragazzi che girano in Vespa dopo la messa, e lei con la sua permanente ondulata come sulla foto nel giardino dello studentato, i fogli dei compiti a casa sparsi sul tavolo coperto da un’incerata unta dove suo padre è intento a «desinare» – anche le parole ritornano, come una lingua dimenticata –, le sue letture, Confidences e i romanzi di Delly, le canzoni di Mariano, alcuni ricordi di eccellenza scolastica e di inferiorità sociale – l’invisibile delle foto –, tutto ciò che ha rifuggito come vergognoso e che ora diventa degno di essere ritrovato, dispiegato alla luce dell’intelligenza. E più la memoria cessa di essere umiliata, più il futuro torna a essere un campo d’azione. Lottare per il diritto delle donne ad abortire, battersi contro l’ingiustizia sociale e comprendere come sia diventata la donna che è sono per lei un tutt’uno.


          


      


      Tra i ricordi degli anni appena passati non ne conserva nessuno che sia un’immagine di felicità:


      i mesi tra il ’69 e il ’70, tutti in bianco e nero a causa del cielo livido e della neve abbondante rimasta sui marciapiedi fino ad aprile, raggrumata in lastre grigie sulle quali camminava apposta per schiacciarle con gli stivali e dare il suo contributo alla distruzione di quell’inverno interminabile, associati all’incendio del dancing di Saint-Laurent-du-Pont, nell’Isère, accaduto in realtà l’anno successivo


      Yves Montand che sulla piazza di Saint-Paul-de-Vence gioca a bocce in camicia rosa, un po’ di pancia, passeggiando dopo ogni lancio, felice e contento, con lo sguardo sulle turiste ammassate dietro le transenne a una buona distanza, la stessa estate in cui Gabrielle Russier è in prigione e si suicida quando torna al suo appartamento


      il parco termale di Saint-Honoré-les-Bains, la vasca dove i suoi figli fanno galleggiare barchette giocattolo, l’Hotel du Parc dove ha soggiornato tre settimane con loro, in seguito confuso con la pensione di cui si parla nel libro di Robert Pinget, Quelqu’un.


           


      


      Nell’insostenibile della memoria c’è l’immagine di suo padre in agonia, del cadavere vestito con un abito indossato in un’unica occasione – quando si era sposata lei – fatto scendere dalla camera al piano terra in un sacco di plastica attraverso una scala troppo stretta per il passaggio di una bara.


          


      


      Gli avvenimenti politici non sussistono che sotto forma di dettaglio: alla televisione, durante la campagna elettorale per le presidenziali, l’immagine avvilente della coalizione tra Pierre Mendès France e Gaston Defferre, il suo pensiero di allora, «ma perché PMF non si è presentato da solo?», e il momento in cui Alain Poher, nel suo ultimo discorso prima del ballottaggio, si gratta il naso, la sua impressione che, a causa di quel gesto davanti agli spettatori, si farà battere da Pompidou.


           


      


      Non sente l’età. Sicuramente cova un’arroganza di giovane donna nei confronti delle più anziane, una condiscendenza per quelle in menopausa. È improbabile che diventi una di loro. Qualcuno le predice che morirà a cinquantadue anni, la cosa non la scombussola, le sembra un’età accettabile per morire.


          


           


           


      


      


      


      Si annunciava che la primavera sarebbe stata calda. Poi che lo sarebbe stato l’autunno. Non lo erano mai.


      Comitati d’azione degli studenti delle superiori, autonomisti, ecologisti, antinuclearisti, obiettori di coscienza, femministe, omosessuali, tutte le cause si infiammavano, ognuna per conto suo. Forse era troppo convulso ciò che accadeva nel resto del mondo, dalla Cecoslovacchia al Vietnam che non finiva mai, dall’attentato alle Olimpiadi di Monaco alle giunte militari in Grecia. Il potere e il ministro Marcellin reprimevano le «azioni sovversive» in tutta tranquillità. E Pompidou, che secondo le fonti ufficiali aveva soltanto le emorroidi, moriva all’improvviso. In sala professori le locandine sindacali ricominciavano a proclamare che lo sciopero contro il «degrado delle nostre condizioni di lavoro» avrebbe fatto «tremare il potere». Immaginarsi il futuro significava più che cerchiare sull’agenda i giorni di vacanza sin dall’inizio di settembre.


      Leggere Charlie Hebdo e Libération perpetuava la convinzione di appartenere a una gaudente comunità di rivoluzionari e di operare, nonostante tutto, per l’arrivo di un nuovo Maggio.


          


      


      La consapevolezza dei «gulag», diffusa da Solženicyn, accolta come un’epifania, seminava confusione e imbrattava l’orizzonte della Rivoluzione. Un tipo dal sorriso abominevole, sui manifesti, diceva ai passanti, fissandoli dritto negli occhi, i vostri soldi mi interessano. Finivamo per affidarci all’Unione della sinistra e al suo programma comune, dopotutto si trattava di qualcosa che fino ad allora non si era mai visto. Tra l’11 settembre ’73 – noi a manifestare sotto il sole contro Pinochet dopo l’assassinio di Allende, la destra giubilante nel vedere finalmente conclusa «la triste esperienza cilena» – e la primavera del ’74 – incollati davanti al televisore a guardare quello che era presentato come il grande evento, il faccia a faccia tra Mitterrand e Giscard d’Estaing –, avevamo smesso di credere che il nuovo Maggio sarebbe arrivato. Nelle primavere successive, a causa della pioggia tiepida di marzo o d’aprile, all’uscita di un consiglio di classe, avevamo la sensazione che sarebbe potuto succedere qualcosa, ma al tempo stesso sapevamo che si trattava solo di un’illusione. In primavera non succedeva più niente, né a Parigi né a Praga.


           


      


      Con Giscard vivevamo ormai nella «società liberale a­vanzata». Le cose non erano più politiche o sociali, ma soltanto moderne oppure no. Tutto era questione di modernità. Le persone confondevano libero e liberale, pensavano che la società così chiamata fosse quella che permetteva di avere il massimo di diritti e di cose.


      Non ci annoiavamo particolarmente. Persino noi – che avevamo cambiato canale la sera delle elezioni subito dopo aver ascoltato Giscard pronunciare con la bocca a culo di gallina il suo vittorioso «Saluto il mio avversario» – eravamo colpiti dalle risoluzioni prese dal governo, dal voto a diciotto anni, dal divorzio per reciproco consenso, dal progetto di legge sull’aborto, quasi piangevamo di rabbia nel vedere Simone Veil costretta a difendersi da sola in parlamento contro gli attacchi scatenati di uomini del suo stesso versante politico e la inserivamo così nel nostro pantheon personale accanto all’altra Simone, de Beauvoir – la cui prima apparizione televisiva in un’intervista, con il turbante e le unghie rosse tipo chiaroveggente, aveva deluso le aspettative, era troppo tardi, non avrebbe dovuto –, e smetteva di darci fastidio che gli studenti la confondessero con la filosofa che talvolta ci capitava di citare a lezione. Ma rompevamo una volta per tutte con quel presidente elegante quando si rifiutava di concedere la grazia a Christian Ranucci, condannato a morte nel pieno di un’estate senza una goccia di pioggia, torrida, la prima dopo così tanto tempo.


           


      


      Andava di moda la leggerezza, la «strizzatina d’occhio». L’indignazione morale non usava più. Ci si divertiva a leggere sulle locandine i titoli dei film, Bocche bollenti e Mutandine bagnate, non ci si perdeva nessuna apparizione di Jean-Louis Bory nei panni della «checca» d’ordinanza. Sembrava inconcepibile che solo pochi anni prima fosse stato censurato un film come La religiosa di Rivette. Era tuttavia difficile ammettere quanto ci avesse turbato la scena de I santissimi in cui Patrick Dewaere poppava dal seno di una donna al posto del suo bambino appena nato.


      Ci disabituavamo alle parole della moralità corrente a vantaggio di altre che misuravano le azioni, i comportamenti e i sentimenti alla luce del piacere, parole come «frustrazione» e «gratificazione». Il nuovo modo di stare al mondo era improntato al «relax», sentirsi a proprio agio in abiti casual, un misto tra sicurezza di sé e indifferenza per gli altri.


          


           


           


      


      


      


      Più che mai le persone sognavano di andare in campagna, lontano dall’«inquinamento», dal «tran-tran» quotidiano, dalle banlieue «concentrazionarie» e dai loro «teppisti». Eppure continuavano ad affluire nelle grandi città, nei casermoni di periferia o nei quartieri residenziali a seconda delle disponibilità economiche.


      E noi, che avevamo meno di trentacinque anni, che alla prospettiva di passare tutta la vita sempre nella stessa cittadina di provincia eravamo colti da un groppo in gola, ci chiedevamo se sarebbe mai giunto il nostro turno di stabilirci in quella che ci immaginavamo come una conca straripante e sovreccitata, di cui già sentivamo il richiamo all’altezza di Digione quando il treno accelerava d’un colpo e prendeva a filare come un matto senza fermarsi fino alle mura grigie della Gare de Lyon: l’area urbana di Parigi. Era l’evoluzione ineluttabile di una vita riuscita, il completo insediamento nella modernità.


      Sainte-Geneviève-des-Bois, Ville-d’Avray, Chilly-Ma­zarin, Le Petit-Clamart, Villiers-le-Bel, questi nomi – dal suono gentile e storico, che potevano evocare un film, l’attentato contro de Gaulle o niente in particolare – eravamo incapaci di situarli sulla mappa, sapevamo soltanto che si trovavano all’interno di quel cerchio incantato da cui in poco tempo si poteva raggiungere il Quartiere latino e bere un caffè macchiato a Saint-Germain come Serge Reggiani. Bisognava giusto avere l’accortezza di evitare Sarcelles, La Courneuve o Saint-Denis, con «tutti quegli stranieri» stipati in «quartieri dormitorio» che, persino nei manuali scolastici, si diceva fossero un «male».


      Così si partiva. Ci si andava a sistemare in una città nuova a quaranta chilometri dalla tangenziale. Un prefabbricato in un complesso ancora in costruzione, colorato come un villaggio vacanze, con le vie dai nomi di fiori. La porta sbattendo faceva un suono da bungalow. Era un luogo silenzioso, allo scoperto sotto il cielo dell’Île-de-France, ai margini di un campo attraversato da una sfilata di piloni.


      Più lontano c’erano spiazzi erbosi, edifici di vetro e torri amministrative, una zona pedonale, altri complessi uniti da passerelle sopraelevate. Era impossibile riuscire a immaginarsi quali fossero i confini della città. Ci sentivamo galleggiare in uno spazio troppo vasto, l’esistenza si diluiva. Passeggiare per quelle strade non aveva senso, al massimo si poteva correre in tuta da ginnastica senza guardare niente attorno a sé. Conservavamo addosso l’impronta della città precedente, delle strade con le automobili, dei passanti sui marciapiedi.


      Migrando dalla provincia alla macrozona parigina il tempo aveva subito un’accelerazione. Il sentimento della durata non era più lo stesso. Arrivati a sera avevamo l’impressione di non aver fatto nulla per tutto il giorno se non qualche fumosa lezione davanti a studenti irrequieti e distratti.


          


      


      Abitare nell’hinterland di Parigi significava:


      sentirsi scaraventati in un territorio dalla geografia sfuggente, confusi da un intrico di strade che venivano percorse solo in macchina


      essere sottoposti allo spettacolo del trionfo della merce, accatastata in ampi spiazzi di terreno incolto o disposta lungo la strada in un cordone eterogeneo di magazzini e negozi di cui già dalle insegne si intuiva la smisuratezza, MacroSofà, MondialMoquette, ToiletteCenter, e che di colpo conferivano uno statuto di realtà alle stranianti pubblicità delle radio commerciali


      non riuscire a trovare un ordine sereno in ciò che vedevamo.


          


      


      Eravamo trapiantati in un altro spazio-tempo, un altro mondo, probabilmente quello del futuro. Per questo era così difficile da definire, se ne poteva soltanto fare esperienza passeggiando ai piedi della Torre Blu, in mezzo a persone che non avremmo mai conosciuto. Sapevamo che da quelle parti eravamo migliaia, milioni se si contava il territorio che arrivava fino alla Défense. Agli altri non pensavamo mai.


      Parigi era come se non esistesse. Ci eravamo stufati di andarci con i bambini un paio di volte alla settimana per mostrar loro la Torre Eiffel e il museo Grévin, per portarli in battello sulla Senna. I siti storici che avevamo tanto sognato da piccoli, quando sui cartelli stradali ci sembravano così a portata di mano, Versailles, Chantilly, non suscitavano più alcun desiderio. La domenica pomeriggio restavamo a guardare Le Petit Rapporteur e a fare bricolage.


          


      


      Il luogo che per necessità frequentavamo più spesso era il grande centro commerciale al coperto, su tre piani, riscaldato, dai rumori attutiti nonostante la folla, sotto una vetrata, con fontane e panchine, gallerie rischiarate da una luce dolce in contrasto con l’illuminazione implacabile delle vetrine e degli interni dei negozi uno via l’altro, negozi dall’ingresso libero, senza porte da spingere, senza buongiorno e buonasera da dire. Mai i vestiti e gli alimenti erano parsi più belli, accessibili senza distanze né rituali. I nomi delle boutique, «La Vestaglietta», «Dal Profumista», «La Matitina», conferivano un’infantile irragionevolezza all’atto di rovistare. E ci si sentiva senza età.


      Non era più lo stesso io di quello che andava a fare spese nei minimarket Prisunic o alle Nouvelles Galeries. In quei negozi, da Darty a Pier Import, eravamo presi da un desiderio assillante di comprare, come se l’acquisto di una cialdiera elettrica o di una lampada giapponese dovesse fare di noi esseri differenti, nella stessa maniera in cui a quindici anni avevamo sperato di essere trasformati dalla conoscenza delle parole alla moda e del rock ’n’ roll.


          


      


      Scivolavamo in un presente ovattato senza poter dire se ciò fosse dovuto al nostro trasloco in una città senza passato o alla prospettiva infinita di una «società liberale avanzata», oppure ancora alla fortuita concomitanza di entrambe le cose. Andavamo a vedere Hair. Nell’aereo che trasportava in Vietnam gli attori del film, eravamo noi stessi e le illusioni del Maggio ’68 che si mandavano a morire.


          


      


      Con il passare delle settimane, ripetendo ogni giorno gli stessi tragitti, facendo pratica con i parcheggi, uscivamo dallo straniamento per scoprirci, con stupore, inclusi nel novero di quella popolazione enorme e vaga di cui il brontolio indistinto che saliva dalle autostrade mattina e sera ci portava un segno reale, invisibile e potente. Nel corso del tempo scoprivamo finalmente Parigi, localizzavamo gli arrondissement e le vie, le stazioni della metropolitana e il miglior punto della banchina per scendere e prendere la coincidenza. E osavamo andare in macchina fino al­l’Étoile o a place de la Concorde. All’entrata del pont de Gennevilliers, davanti all’immensa prospettiva di Parigi che si apriva d’un tratto, provavamo il sentimento esaltante di far parte di quella vita immensa e trepidante, come una promozione individuale. Non avremmo più avuto voglia di tornare in quella che ora era per noi, in maniera omogenea e indifferenziata, la provincia. E una sera, sul treno che affondava nella notte costellata dalle insegne luminose rosse e blu dell’hinterland parigino, la cittadina dell’Alta Savoia che avevamo lasciato tre anni prima ci sarebbe infine sembrata in capo al mondo.


          


           


          


      


      


      


      La guerra in Vietnam era finita. Avevamo vissuto così tante cose da quando era iniziata che faceva ormai parte della nostra vita. Il giorno della caduta di Saigon ci accorgevamo che non avevamo mai creduto possibile la sconfitta degli americani. Pagavano per il napalm, per la bambina urlante nella risaia il cui poster era appeso nelle nostre case. Sentivamo l’allegria e la fatica delle cose finalmente compiute. Ci eravamo illusi. La televisione mostrava grappoli umani asserragliati su imbarcazioni che fuggivano dal Vietnam comunista. In Cambogia la faccia civilizzata del bonario re Sihanouk, abbonato a Le Canard enchaîné, non riusciva a nascondere la ferocia dei khmer rossi. Moriva Mao e tornava in mente quel mattino d’inverno in cui, prima di uscire per la scuola, in cucina, avevamo sentito gridare è morto Stalin. Dietro il gran timoniere dei cento fiori scoprivamo un’associazione a delinquere capeggiata dalla vedova Jiang Qing. Vicinissimo a noi, appena al di là delle frontiere, le Brigate rosse e la banda Baader-Meinhof rapivano dirigenti e uomini di Stato, ritrovati morti nei bagagliai delle auto come mafiosi qualunque. Sperare in una rivoluzione era diventato ignominioso, e non osavamo dire che la morte di Ulrike Meinhof, suicidatasi in cella, ci aveva rattristato. Di lì a poco Althusser avrebbe strangolato la moglie nel suo letto una domenica mattina e il suo crimine, in una qualche maniera oscura, sarebbe stato imputabile tanto a un problema psichico quanto al marxismo di cui il filosofo era l’incarnazione.


           


      


      Dalle loro passerelle televisive i nouveaux philosophes puntavano il dito contro le «ideologie», brandivano i libri di Solženicyn e tiravano in ballo i gulag a ogni piè sospinto per mortificare chi ancora sognava la rivoluzione. A differenza di Sartre, considerato rimbambito e che continuava a rifiutarsi di andare in TV, e di Simone de Beauvoir, con la sua parlata a mitraglietta, questi erano giovani, «interpellavano» le coscienze con parole comprensibili a tutti, rassicuravano le persone sulla loro intelligenza. La loro indignazione era uno spettacolo piacevole, ma non capivamo dove volessero arrivare, cosa volessero ottenere – se non scoraggiare il voto per l’Unione della sinistra.


      Noi, a cui era stato prescritto durante l’infanzia di salvarci l’anima attraverso le buone azioni, nei corsi di filosofia di mettere in pratica l’imperativo categorico kantiano fa’ che ogni tua azione possa ergersi a massima universale, nei testi di Marx e Sartre di cambiare il mondo – noi che nel ’68 ci avevamo creduto –, in quella «nuova filosofia» non scorgevamo alcuna speranza.


          


      


      Le voci ufficiali erano mute a proposito delle periferie e delle famiglie appena arrivate, quelle che nelle case popolari si sentivano rimproverare dagli abitanti di lungo corso di non parlare e mangiare come loro. Popolazioni poco conosciute, ben al di sotto dell’idea di benessere a cui aspirava la società, gruppi di diseredati, «sfavoriti» dalla sorte che non avevano altra scelta se non quella di abitare in «gabbie da conigli» dove nessuno poteva neanche immaginare di essere felice. L’immigrazione aveva ancora il volto dello sterratore con il casco giallo che sbucava dai lavori in corso e del netturbino che raccattava i sacchi della spazzatura dai cassonetti, una ragion d’essere puramente economica. La stessa che le accordavano i nostri studenti nel corso di un anno di dibattiti in classe, convinti di avere dalla loro la migliore argomentazione possibile contro il razzismo: abbiamo bisogno di loro per i lavori che i francesi non vogliono più fare.


          


      


      Solo i fatti mostrati alla televisione davano accesso alla realtà. Tutti avevano un televisore a colori. I vecchi lo accendevano a mezzogiorno all’inizio delle trasmissioni e si addormentavano la sera davanti allo schermo fisso del monoscopio. Durante l’inverno i fedeli potevano assistere a Le Jour du Seigneur per avere la messa a domicilio. Le casalinghe stiravano guardando gli sceneggiati sul primo canale o Aujourd’hui madame sul secondo. Le madri tenevano tranquilli i bambini con Les Visiteurs du mercredi e i cartoni animati della Disney. Per tutti la televisione significava avere a portata di mano intrattenimento a basso costo, alle mogli garantiva la tranquillità di avere il marito a casa la domenica davanti ai programmi sportivi. Ci circondava di una sollecitudine costante e impalpabile, che aleggiava sui volti sorridenti e sempre comprensivi dei presentatori (Jacques Martin e Stéphane Collaro), uomini dalla faccia bonaria (Bernard Pivot, Alain Decaux). Ci univa sempre di più gli uni agli altri portandoci ad avere le stesse curiosità, le stesse paure, le stesse soddisfazioni, tutti ci chiedevamo se avrebbero preso l’odioso assassino del piccolo Philippe Bertrand, come si sarebbe concluso il rapimento del barone Empain, se Jacques Mesrine sarebbe stato arrestato, se l’ayatollah Khomeini avrebbe preso il potere in Iran. Ci dava la possibilità di citare senza sosta dati condivisi da tutti e perpetuamente rinnovati dagli eventi e dai fatti di cronaca. Forniva informazioni mediche, storiche, geografiche, faunistiche eccetera. Il sapere comune si ampliava, un sapere spensierato e senza conseguenze di cui, a differenza di quello scolastico, non si doveva rendere conto a nessuno. Nelle conversazioni ci si limitava a specificare l’ha detto la TV, da interpretare secondo i casi come una presa di distanza dalla fonte o una prova di verità.


      C’erano soltanto gli insegnanti ad accusare la televisione di distrarre i bambini dalla lettura e di inaridirne la fantasia. Ma loro non se ne curavano, cantavano a squarciagola le canzoni dei cartoni, imitavano la voce di Titti il canarino, non si stancavano di ripetere i jingle delle pubblicità, la sigla del Muppet Show, i tormentoni.


          


      


      Il censimento continuo e diversificato del mondo passava attraverso la televisione. Nasceva una memoria nuova. Di quel magma di migliaia di cose virtuali, viste, dimenticate e svincolate dal commento che le accompagnava, sarebbero sopravvissute le pubblicità più riproposte, le figure più pittoresche o più presenzialiste, le scene più insolite o più violente, in un gioco di sovrapposizioni che avrebbe poi fatto sembrare che Jean Seberg e Aldo Moro fossero morti nella stessa auto.


          


      


      La morte degli intellettuali e dei cantautori sembrava rincarare la dose di desolazione presente nell’epoca. Per Barthes, era troppo presto. Quella di Sartre ce l’eravamo prefigurata, ed era arrivata, maestosa, un milione di persone a sfilare dietro la bara, il turbante di Simone de Beauvoir che scivolava durante la sepoltura. Sartre, che aveva vissuto il doppio di Camus – nella nostra memoria già da tempo deposto accanto a Gérard Philipe in quell’unica tomba dell’inverno ’59-60.


          


      


      Le morti di Brel e di Brassens, come già era successo con Piaf, lasciavano più disorientati, come se avessero dovuto accompagnare per sempre le nostre vite, anche se non li ascoltavamo più come un tempo, uno troppo morale, l’altro un amabile anarchico, e preferivamo Renaud e Souchon. Niente a che vedere con la morte grottesca di Claude François, fulminato nella vasca da bagno alla vigilia del primo turno delle legislative – perse dalla sinistra quando tutti si aspettavano che vincesse – né con quella di Joe Dassin, stroncato all’età che avevamo quasi raggiunto, sentendoci allora, d’un sol colpo, lontanissimi dalla primavera del ’75 e dalla caduta di Saigon, da quello slancio di speranza al quale la sua canzone L’Été indien era indissolubilmente legata.


          


          


           


      


      


      


      Alla fine degli anni Settanta, durante i pranzi di famiglia di cui si perpetuava la tradizione nonostante la dispersione geografica dei vari membri, la memoria si faceva più corta.


      Intorno alle capesante, all’arrosto di manzo comprato dal macellaio di quartiere – e non al supermercato – con contorno di patate dauphine – surgelate ma buone come quelle vere, si assicurava –, la conversazione verteva sul confronto tra le varie marche di automobili, si discuteva se convenisse comprare una casa ancora in costruzione, sulle ultime vacanze, sull’uso del tempo e delle cose. Si evitavano d’istinto tutti gli argomenti che avrebbero potuto risvegliare le antiche aspirazioni sociali, le disuguaglianze culturali, preferendo concentrarsi sui dettagli del presente comune, gli attentati in Corsica, quelli in Spagna e in Irlanda, i diamanti di Bokassa, il pamphlet Hasard d’Estaing, la candidatura di Coluche alle presidenziali, Björn Borg, il colorante E123, i film, La grande abbuffata, che avevano visto tutti tranne i nonni che al cinema non andavano mai, Manhattan, visto solo da quelli che stavano al passo. Le donne si ritagliavano qualche spazio per parlare tra loro di questioni domestiche – come piegare le lenzuola con gli angoli, l’usura dei jeans all’altezza delle ginocchia, come usare il sale per pulire il vino sulla tovaglia – nel corso di una conversazione in cui la scelta degli argomenti era appannaggio degli uomini.


          


      


      Il flusso di ricordi della guerra e dell’Occupazione si era prosciugato, rianimato un poco al momento del dolce con lo champagne dai più vecchi, che ascoltavamo con lo stesso sorriso di quando evocavano Maurice Chevalier e Joséphine Baker. Il legame col passato si faceva sfocato. Trasmettevamo solo il presente.


      I genitori parlavano dei bambini, spesso e con una certa ansia, comparavano l’educazione che avevano ricevuto con quella permissiva che impartivano, il loro modo di proibire e di autorizzare (la pillola, le feste, le sigarette, il motorino). Discutevano dei meriti dell’insegnamento privato, dell’utilità di imparare il tedesco, di fare un soggiorno all’estero per imparare le lingue. Cercavano le scuole giuste, un buon indirizzo, un buon liceo, dei buoni professori – ossessionati dall’idea di circondare i figli da un’eccellenza che avrebbe infuso in loro senza farli penare i germi di un successo individuale di cui si sentivano gli unici responsabili.


      Il tempo dei figli rimpiazzava il tempo dei morti.


          


      


      Interrogati con molte cautele sui loro passatempi e sulla loro musica preferita, gli adolescenti rispondevano in maniera docile, laconica e diffidente, sicuri che, in fondo, dei loro gusti non ci importasse niente se non in quanto indizi di quel loro modo di vivere nascondendosi più o meno consapevolmente al nostro sguardo, sul quale non avevano voglia di darci spiegazioni. Non ne capivamo nulla di giochi di ruolo, di wargames e di fantasy epico, ma ci rassicurava che citassero anche Il Signore degli Anelli e i Beatles, non soltanto i Pink Floyd, i Sex Pistols, l’hard rock che ci infliggevano per tutto il giorno. A guardarli così mansueti con i loro maglioni a V sopra a una camicia a quadri, le loro pettinature ordinate, ci veniva da pensare che, almeno per il momento, erano ancora salvi, dalla droga, dalla schizofrenia, dall’ufficio di collocamento.


      Dopo il dolce, i più piccoli erano invitati a mostrare i loro quadretti realizzati con chiodini e filo colorato, a esibire la loro destrezza con il cubo di Rubik, a suonare al piano Il piccolo negro di Debussy senza che nessuno, con somma irritazione dei genitori, li ascoltasse davvero. Dopo aver tergiversato un po’ rinunciavamo a proporre un gioco di società, i giovani non giocavano a bridge, i vecchi diffidavano dello Scarabeo, il Monopoli era troppo lungo.


          


      


      E noi, sul limitare di quegli anni Ottanta in cui saremmo diventati dei quarantenni, nella soddisfazione stanca di una tradizione rispettata, percorrendo i volti della tavola che in controluce sembravano neri, eravamo presi furtivamente da un senso di estraneità nel ripetere un rito di cui adesso eravamo il perno centrale tra due generazioni. Una vertigine dell’immutabile, come se nella società non fosse cambiato nulla. Nella confusione delle voci, percepite d’un tratto come separate dai corpi, sapevamo che il pranzo di famiglia era un luogo in cui poteva sopraggiungere la follia e ci si sarebbe potuti trovare a rovesciare il tavolo urlando.


         


          


           


      


      


      


      Coniugando un nostro antico desiderio e quello dello Stato, attingevamo agli incentivi per l’acquisto immobiliare e accendevamo un mutuo per la «prima casa». La realizzazione di quel sogno, di quel successo sociale, contraeva il tempo, avvicinava le coppie alla vecchiaia: in quell’appartamento avrebbero vissuto fino alla morte. Lavoro, matrimonio, figli: avevano completato un itinerario di riproduzione che ora vedevano suggellato da contratti ventennali. Si affannavano a fare bricolage e a restaurare quadri, a mettere una nuova carta da parati. A volte, per poco, erano colti dal desiderio di tornare indietro. Invidiavano i giovani che, nell’unanime consenso, sperimentavano la possibilità di «andare a vivere insieme» come loro non avevano avuto il diritto di fare. Attorno pullulavano i divorzi. Avevano provato con i film erotici, l’acquisto di lingerie. A fare l’amore sempre con lo stesso uomo le donne avevano l’impressione di tornare vergini. L’intervallo tra un ciclo e l’altro sembrava accorciarsi. Confrontavano la loro vita con quella delle donne nubili o divorziate, osservavano malinconiche una giovane viaggiatrice seduta per terra davanti alla stazione con il suo zaino in spalla intenta a bere il latte dal cartone. Per testare la loro capacità di vivere senza il marito, un pomeriggio andavano al cinema da sole sentendo un fremito interiore, con la convinzione che il mondo intero sapesse che non erano al loro posto.


      Rientravano nel grande mercato della seduzione, si scoprivano di nuovo esposte alle avventure del mondo dalle quali il matrimonio e la maternità le avevano allontanate. Desideravano partire in vacanza senza marito né figli e si accorgevano che la prospettiva di viaggiare e trovarsi in albergo da sole le riempiva d’angoscia. A seconda dei giorni oscillavano tra la voglia e la paura di lasciare tutto, di tornare indipendenti. Per comprendere il proprio desiderio e farsi coraggio si andava a vedere Una moglie di John Cassavetes, Identificazione di una donna di Antonioni, si leggeva La donna mancina di Peter Handke, La donna fedele di Sigrid Undset. Prima di decidersi per la separazione servivano altri mesi di scenate coniugali e di stanche riconciliazioni, di conversazioni tra amiche, di annunci precauzionali ai genitori – quelli che al momento del matrimonio avevano avvertito, divorziare non si può mica. Nel percorso di rottura, l’inventario dei mobili e degli elettrodomestici da dividersi segnava il punto di non ritorno. Si stilava la lista degli oggetti accumulati in quindici anni:


      tappeto: 300 franchi


      impianto hi-fi: 10.000


      acquario: 1.000


      specchio del Marocco: 200


      letto: 2.000


      poltrona Emmanuelle: 1.000


      armadietto dei medicinali: 50


      eccetera.


          


      


      Ce li si litigava, tra valore commerciale, «questo non vale più niente», e valore d’uso, «ho più bisogno di te dell’auto». Ciò che si era desiderato assieme all’inizio, che si era stati soddisfatti di ottenere e che a poco a poco si era fuso nell’arredo o nell’uso quotidiano, ritrovava il suo status primigenio, dimenticato, di oggetto con un prezzo. Così come un tempo l’unione era stata sancita dalla lista delle cose da comprare, dalle pentole alle lenzuola, ora la rottura si materializzava nella lista di quelle da spartirsi, un elenco che metteva una pietra sopra alle curiosità e ai desideri comuni, agli ordini per corrispondenza scelti sul catalogo la sera dopo cena, alle esitazioni in un grande magazzino davanti a diversi modelli di piani cottura, al viaggio rocambolesco di una poltrona acquistata al mercato dell’usato un pomeriggio d’estate e trasportata sul tettuccio dell’auto. L’inventario ratificava la morte della coppia. Il passo successivo era l’avvocato, la trasformazione della nostra storia in un linguaggio giuridico, che in un colpo solo purgava la separazione dai suoi elementi passionali facendola rientrare nella banalità e nell’anonimato di una «dissoluzione di nucleo famigliare». Avevamo voglia di scappare da quello studio e di lasciar perdere. Ma sentivamo che era impossibile tornare indietro, eravamo pronte ad affrontare lo strazio del divorzio, l’esternazione di minacce e insulti, la meschinità, pronte a vivere con la metà dei soldi, pronte a tutto pur di ritrovare il desiderio di un futuro.


         


          


           


      


      


      


      Foto a colori: una donna, un ragazzino sui dodici anni e un uomo, distanti l’uno dall’altro, disposti a triangolo su un piazzale polveroso, bianco di sole, con le ombre al loro fianco, davanti a un edificio che potrebbe essere un museo. A destra, l’uomo, preso di spalle, le braccia sollevate, tutto in nero con una giacca alla coreana, filma l’edificio. In fondo, al vertice del triangolo, il ragazzino, di faccia, in pantaloncini e maglietta con una scritta illeggibile, tiene in mano un oggetto scuro, forse l’astuccio della macchina fotografica. A sinistra, in primo piano e di tre quarti, la donna, con un abito verde a vita alta, in uno stile tra il casual e l’hippie. In mano ha un librone spesso, forse la guida turistica. I capelli sono legati, tirati dietro le orecchie, il volto pieno e indistinto a causa della luce. Sia la donna che il bambino sembrano essere stati colti mentre camminavano, devono essersi voltati sorridendo all’ultimo momento richiamati da chi è dietro l’obiettivo. Sul retro: Spagna, luglio ’80.


      Lei è la moglie e la madre di questo piccolo nucleo famigliare, il cui quarto membro, il figlio maggiore adolescente, è quello che ha scattato la foto. I capelli tirati, le spalle curve, le pieghe informi del vestito indicano, nonostante il sorriso, stanchezza e indifferenza al desiderio di piacere.


          


      


      Lì, in pieno sole, in quel luogo non identificabile di un percorso turistico, probabilmente in lei non c’è spazio per alcun pensiero al di fuori della bolla famigliare che con il marito scarrozza, da un Parador Hotel a un bar di tapas passando per siti storici classificati con tre stelle dalla guida, a bordo di una Peugeot 305 che temono di ritrovare con le gomme bucate dall’ETA. In quel «consesso privato» all’aria aperta, con la testa sgombra dalle preoccupazioni multiformi di cui la sua agenda porta le tracce succinte – «cambiare le lenzuola», «ordinare l’arrosto», «consiglio di classe» eccetera – e perciò lasciata in balia di una coscienza esasperata, non riesce, sin da quando sono partiti dall’hinterland parigino sotto una pioggia battente, a disfarsi del suo dolore coniugale, un accerchiante misto d’impotenza, di risentimento e di abbandono. Un dolore che filtra il suo rapporto con il mondo. Accorda ai paesaggi soltanto un’attenzione distante, si limita a considerare – quando osserva le zone industriali all’entrata delle città, il profilo di un nuovo centro commerciale e la scomparsa degli asinelli – quanto sia cambiata la Spagna dalla morte di Franco. Tra i tavolini dei caffè all’aperto presta attenzione soltanto alle donne che ritiene abbiano un’età compresa tra i trentacinque e i cinquant’anni, cerca sui loro volti i segni della felicità o dell’infelicità, «come fanno loro?». Ma, a volte, seduta in fondo a un bar, nel guardare i figli che giocano con il padre ai videogiochi, si dispera all’idea di introdurre la sofferenza, divorziando, in un universo così tranquillo.


          


      


      Di questo viaggio in Spagna resteranno i momenti seguenti:


      quello sulla plaza Mayor di Salamanca, quando bevevano un bicchiere all’ombra e lei non è riuscita a staccare lo sguardo da una donna sulla quarantina, camicia a fiori, borsetta e gonna al ginocchio, l’aria da perfetta madre di famiglia, che stava adescando clienti sotto i portici


      quella notte all’hotel Escurial a Toledo, quando, svegliata da grida lamentose, è corsa preoccupata nella camera dei figli. Dormivano tranquillamente. Tornata a letto, lei e il marito hanno capito che si trattava delle interminabili urla di piacere di una donna, amplificate dalle mura del patio in tutte le camere con le finestre aperte. Non ha potuto fare a meno di masturbarsi accanto a lui che nel frattempo si era riaddormentato


      quel pomeriggio a Pamplona, dove hanno trascorso tre giorni durante la festa di San Firmino, quando, nel sonnecchiare da sola in albergo, si è sentita come a diciotto anni nella stanza dello studentato, lo stesso corpo e la stessa solitudine, la stessa svogliatezza. Dal letto sentiva andare e venire le musiche dei cortei che percorrevano la città senza sosta dietro ai giganti e ai testoni. Era l’antica sensazione di restare esclusi dalla festa.


          


      


      Durante quell’estate dell’80, il tempo della sua gioventù le appare come uno spazio illimitato, pieno di luce, del quale lei occupa tutti i punti e che ora ingloba con lo sguardo in un tutt’uno indistinto. Che quel mondo sia alle sue spalle la lascia stupefatta. Per la prima volta quell’anno ha colto il senso terribile della frase si vive una volta sola. Forse si prefigura di diventare come la vecchia di Cría cuervos – il film che l’ha turbata in un’altra estate, già così lontana, quella della «siccità», dal caldo irreale –, paralizzata, muta, abbandonata a contemplare le foto attaccate al muro, il viso coperto di lacrime mentre passano e ripassano le stesse canzoni. I film che vuole vedere, che ha visto di recente, Wanda, Una donna semplice, tracciano in lei delle linee narrative in cui cerca la propria vita, a cui chiede di disegnarle un futuro.


      Le sembra che dietro di lei ci sia un libro che si scrive da solo, semplicemente vivendo, ma non c’è niente.


           


           


           


      


      


      


      Senza accorgersene, si era usciti dal letargo.


      Le persone guardavano alla società e alla politica con l’allegria irridente di Coluche. I bambini conoscevano tutti i suoi personaggi, gli sketch, le parodie, i tormentoni, tutti ripetevano il suo «è nuovo, è appena uscito». La sua visione della Francia «piegata in due dalle risate» si confaceva alla nostra, e che volesse presentarsi alle presidenziali ci affascinava, benché non pensassimo di andare fino in fondo e votare davvero per lui, compiendo una sorta di profanazione del suffragio universale. Gongolavamo nello scoprire che lo sprezzante Giscard d’Estaing aveva ricevuto diamanti da un dittatore africano sospettato di conservare i cadaveri dei nemici nel congelatore. Senza ben capire come fosse successo, la situazione si era ribaltata e ora era Mitterrand a incarnare la verità, il progresso e la giovinezza, favorevole alle radio libere, al rimborso dell’aborto, alla pensione a sessant’anni, alle 39 ore, all’abolizione della pena di morte eccetera. Attorno a lui adesso aleggiava un’aura di sovranità, la fotografia che lo ritraeva sullo sfondo di un villaggio con un campanile conferiva alla sua nuova immagine la forza di un’evidenza di lungo corso, ben radicata nella memoria.


      Non osavamo dir nulla, per scaramanzia. Ammettere di credere che la sinistra avrebbe potuto davvero arrivare al potere rischiava di portare sfortuna. Lo slogan «elezioni trappola per coglioni» apparteneva a un’altra epoca.


           


      


      Ancora non ci credevamo nemmeno quando, la sera dei risultati, il volto stilizzato di François Mitterrand si formava a poco a poco sullo schermo del televisore. Poi ci rendevamo conto che tutta la nostra esistenza di adulti si era svolta sotto governi che non ci riguardavano, ventitré anni che, fatta eccezione per un mese di maggio, apparivano come un unico flusso senza speranza, in cui i fatti della politica non ci avevano mai dato nessuna gioia. Da quella consapevolezza proveniva del rancore, come se qualcosa della nostra giovinezza ci fosse stato rubato. Dopo tutto quel tempo, in una nebbiosa domenica sera di primavera che riscattava l’insuccesso di un altro maggio, assieme a tutta una schiera di persone, giovani, donne, operai, insegnanti, artisti, omosessuali, infermiere, fattorini, rientravamo nella Storia e avevamo di nuovo voglia di farla. Era il ’36, il Fronte popolare dei genitori, la Liberazione, un ’68 che ce l’avrebbe fatta. Avevamo bisogno di lirismo e d’emozione, della rosa e del Panthéon, di Jean Jaurès e di Jean Moulin, di canti epici di rivendicazione, da Le Temps des cerises a Les Corons di Pierre Bachelet. Di parole vibranti che ci sembravano sincere perché non le sentivamo da tanto. Prima di affrontare il futuro bisognava rioccupare il passato, riprendere la Bastiglia, ubriacarsi di simboli e di nostalgia. Le lacrime di gioia di Mendès France mentre abbracciava Mitterrand erano le nostre. Ridevamo della strizza dei possidenti che filavano in Svizzera a mettere al sicuro i loro soldi, tranquillizzavamo con condiscendenza le segretarie convinte che il loro appartamento sarebbe stato nazionalizzato. L’attentato contro Giovanni Paolo II, per mano di un turco, cascava male, l’avremmo dimenticato.


          


      


      Tutto sembrava possibile. Tutto era nuovo. Guardavamo i quattro ministri comunisti con curiosità, come una specie esotica, stupiti che non avessero un’aria sovietizzante e parlassero senza l’accento di Marchais o di Lajoinie. Ci faceva tenerezza vedere deputati con la pipa e il barbone come degli studenti degli anni Sessanta. L’aria sembrava leggera, la vita più giovane. Alcune parole tornavano a circolare, borghesia, classe sociale. Il linguaggio si sbrigliava. Sull’autostrada delle vacanze, con le cassette degli Iron Maiden sparate a palla e le avventure di David Grossexe su Radio Carbone 14, avevamo l’impressione che davanti a noi si aprisse un tempo nuovo.


      Per quanto tornassimo indietro con i ricordi, non era mai accaduto che in così pochi mesi fossero concesse tante cose (e lo avremmo presto dimenticato, non potendo nemmeno concepire di tornare alla situazione precedente). La pena di morte abolita, l’interruzione di gravidanza rimborsata, gli immigrati clandestini regolarizzati, l’omosessualità autorizzata, le ferie allungate di una settimana, la settimana lavorativa accorciata di un’ora eccetera. Ma quella tranquillità s’intorbidava. Il governo reclamava soldi, ce li prendeva in prestito, svalutava la moneta, inaspriva le misure di controllo sui cambi di valuta impedendo di fatto di portarsi all’estero un po’ di franchi. L’atmosfera si faceva severa, i discorsi – in cui comparivano le parole «rigore» e «austerità» – punitivi, come se avere più tempo, denaro e diritti fosse illegittimo, come se bisognasse ritornare a un ordine naturale dettato dagli economisti. Mitterrand non parlava più del «popolo della sinistra». Ancora non ce l’avevamo troppo con lui, in fondo non era Margaret Thatcher che aveva lasciato morire Bobby Sands e aveva spedito dei soldati a farsi ammazzare alle Falkland. Però il ricordo della serata del 10 maggio diventava via via più imbarazzante, quasi privo di consistenza. Le nazionalizzazioni, gli aumenti salariali, la riduzione dell’orario di lavoro, tutto ciò che avevamo creduto essere la realizzazione della giustizia e l’avvento di un’altra società ci sembrava ora andare a inscenare una vasta cerimonia commemorativa in onore del Fronte popolare degli anni Trenta, liturgia di un culto reso a ideali perduti nei quali i celebranti, forse, non credevano più. L’evento atteso non aveva avuto luogo. Lo Stato si allontanava di nuovo da noi.


      Si avvicinava invece ai media. I politici si esibivano alla televisione in solenni messe in scena enfatizzate da una musica retorica, fingevano di sottoporsi a interviste incrociate e di dire la verità. A sentirli snocciolare tutte quelle cifre senza un attimo di esitazione, nel non vederli mai messi in difficoltà, veniva il dubbio che conoscessero in anticipo le domande. Si trattava di «essere convincenti», un po’ come nei temi. Di settimana in settimana sfilavano l’uno dopo l’altro, buonasera al ministro Georgina Dufoix, buonasera al senatore Pasqua, buonasera al candidato Brice Lalonde. Non ci restava impresso nulla, se non una «frase a effetto» alla quale in realtà non avremmo prestato alcuna attenzione se i giornalisti, che non aspettavano altro, non si fossero affrettati a farla trionfalmente circolare.


      I fatti, la realtà materiale e immateriale giungevano a noi sotto forma di cifre e percentuali, i disoccupati, le vendite di auto e di libri, le probabilità di cancro e di morte, le opinioni «favorevoli» e «contrarie». Il cinquantacinque percento dei francesi pensa che ci siano troppi arabi, il trenta percento possiede un videoregistratore. Due milioni di disoccupati. Le cifre non esprimevano altro che fatalità e determinismo.


          


          


           


      


      


      


      La Crisi, concetto oscuro e senza forma, era diventata l’origine e la spiegazione di tutto, la certezza del male assoluto. Non avremmo saputo dire quando fosse avvenuta quella convergenza unanime di interpretazione del mondo. Ma le cose stavano già senz’altro così quando Yves Montand, in abito scuro e panciotto, sostenuto da Libération –, che decisamente non era più il giornale fondato da Sartre – si metteva a spiegare che l’unico miracoloso rimedio alla Crisi era l’Impresa, la cui escatologica bellezza sarebbe poi stata incarnata da Catherine Deneuve quando, nelle pubblicità di una Banca di Suez in cerca di investitori privati, con voce suadente ci avrebbe assicurato che le sontuose porte del denaro, a differenza di quelle del Processo di Kafka alle quali ci veniva da pensare, erano pronte a spalancarsi anche per noi.


      L’impresa era la legge naturale, la modernità, l’intelligenza, avrebbe salvato il mondo. (Non capivamo allora perché le fabbriche continuassero a licenziare, a chiudere.) Non c’era niente da aspettarsi dalle «ideologie» e dal loro «ipocrita proselitismo». La «lotta di classe», l’«impegno», l’opposizione tra «capitale» e «lavoro» suscitavano sorrisi di commiserazione. A furia di non essere più utilizzate, alcune parole parevano prive di senso. Ne arrivavano altre che s’imponevano per valutare azioni e individui, la «performanza», la «competizione», il «profitto». Il «successo» assurgeva al rango di valore trascendente, definiva una «Francia vincente» in cui emergevano figure come Paul-Loup Sulitzer e Philippe de Villiers, santificava un «self-made man» come Bernard Tapie, celebrava uomini dalla parlantina sciolta.


      Di loro non ci si fidava. Davanti al binario della stazione della RER di Nanterre, accanto all’università, le grosse lettere dell’insegna dell’ufficio di collocamento, un edificio in cemento grigio, ci gelavano il sangue. Per la strada c’erano talmente tanti uomini, e adesso anche donne, a chiedere l’elemosina che si finiva col dirsi che anche quello era diventato uno sbocco professionale. Con i bancomat e le carte di credito il denaro diventava invisibile.


      La speranza veniva meno, si faceva appello al buon cuore delle persone tramite cortei, magliette, concerti e dischi contro la fame, il razzismo, la povertà, per la pace nel mondo, Solidarność, le mense popolari di Coluche, la liberazione di Mandela e di Jean-Paul Kauffmann.


          


          


          


      


      


      


      Nell’«immaginario collettivo» imperversava la confusa immagine delle banlieue, percepite come enormi blocchi di cemento in mezzo a terreni fangosi al capolinea degli autobus e delle RER che salivano verso nord, androni che puzzavano d’urina, vetri rotti e ascensori guasti, siringhe nelle cantine. I «giovani delle periferie» costituivano una categoria di persone a parte, non civilizzate, vagamente temibili, molto poco francesi anche se erano nati proprio in quelle zone, zone in cui si inoltravano ammirabili professori, poliziotti e pompieri per andare con coraggio ad «affrontarli». Il «dialogo tra le culture» si riassumeva nell’appropriarsi del loro modo di parlare e nello scimmiottare il loro accento, nell’invertire le lettere e le sillabe come facevano loro, nell’assorbire il loro slang. Avevano ricevuto un nome collettivo che ne indicava in un colpo solo l’origine, il colore della pelle, il modo di parlare: erano chiamati i beurs, i discendenti dei nordafricani. Per derisione gli si mettevano in bocca frasi come io parlare francese. Erano tanti, non li conoscevamo.


      Rispuntava un tale di estrema destra chiamato Jean-Marie Le Pen, uno che ci ricordavamo di aver visto anni prima con una benda nera sull’occhio come Moshe Dayan.


          


          


           


      


      


      


      Negli hinterland urbani, giganteschi grandi magazzini aperti di domenica vendevano migliaia di scarpe, mobili, arnesi vari. Gli ipermercati si espandevano, i vecchi carrelli erano sostituiti con altri più grandi di cui, piegandosi in avanti, si faceva fatica a toccare il fondo. Cambiavamo televisore per avere una presa scart e un videoregistratore. Il susseguirsi delle novità non creava sconcerto, la certezza di un progresso ininterrotto toglieva la voglia di immaginarlo. Gli oggetti non suscitavano né meraviglia né angoscia e venivano accolti come un sovrappiù di libertà individuale e di piacere. Con i compact disc non c’era più bisogno di alzarsi ogni quarto d’ora per cambiare il lato del vinile, il telecomando permetteva di non muoversi dal divano per tutta la serata. Le videocassette realizzavano il grande sogno del cinema a domicilio. Sullo schermo del Minitel consultavamo l’elenco telefonico e gli orari dei treni, l’oroscopo e gli annunci erotici. Era finalmente possibile fare tutto da casa propria senza chiedere nulla a nessuno e senza vergognarsi, guardare sessi e sperma in primo piano standosene spaparanzati sul divano. Lo stupore si affievoliva. Ci dimenticavamo che in passato non avremmo mai creduto di vedere tutto ciò a cui stavamo assistendo. Eppure lo vedevamo, e non succedeva niente. Soltanto la soddisfazione di avere accesso nella più totale impunità a piaceri un tempo proibiti.


           


      


      Con il walkman la musica penetrava per la prima volta il corpo, ci si poteva vivere dentro, murati dal mondo.


          


          


           


      


      


      


      I giovani erano ragionevoli, la pensavano essenzialmente come noi. Alle superiori non facevano troppo baccano, non contestavano i programmi né il regolamento o l’autorità e accettavano di annoiarsi durante le lezioni. Fuori da scuola si mettevano a vivere. Giocavano ai primi videogame sulla console Atari, ai giochi di ruolo, si entusiasmavano per gli home computer di cui avevano preteso la prima versione, l’Oric 1, alla tele guardavano Les Enfants du rock, Les Nuls, Bonsoir les clips, leggevano Stephen King e, per farci piacere, la rivista Phosphore. Ascoltavano canzoni funky o hard rock o rockabilly. Tra i dischi e il walkman vivevano un’esistenza immersa nella musica. Andavano a «spaccarsi» alle feste, senz’altro fumavano canne. Ripassavano le lezioni. Parlavano poco del loro futuro. Aprivano il frigo e le credenze per mangiare Danette, Bolinos e Nutella a qualunque ora del giorno e della notte, dormivano con la loro ragazza a casa nostra. Non avevano mai abbastanza tempo per tutto, sport, pittura, cineforum, gite scolastiche. Non ce l’avevano con noi per nessun motivo. I giornalisti li chiamavano la «generazione x».


      Promiscui sin dalla materna frequentavano scuole miste, femmine e maschi crescevano insieme in uno spazio d’innocenza e, ai nostri occhi, uguaglianza. Gli uni e le altre parlavano lo stesso linguaggio rude e volgare, si dicevano stronzo e si mandavano affanculo. Ci sembravano «disinvolti», «naturali» di fronte a tutto ciò che ci aveva tormentato alla loro età, il sesso, i professori e i genitori. Li interrogavamo con circospezione per paura di meritarci l’accusa di essere pesanti, di seccarli. Li lasciavamo fare, concedendo una libertà che a nostro tempo avremmo voluto avere anche noi, sempre continuando a esercitare su di loro, sui loro silenzi, una forma di sorveglianza discreta che ci era stata trasmessa dalle nostre madri. Ne osservavamo l’autonomia e l’indipendenza con stupore e soddisfazione: come una vittoria conquistata nella storia delle generazioni.


      Ci superavano in quanto a tolleranza, antirazzismo, pacifismo e sensibilità ecologica. Non s’interessavano di politica ma non esitavano a adottare parole d’ordine generose, slogan concepiti per loro, Non toccare il mio amico, compravano i dischi contro la fame in Etiopia, partecipavano alle manifestazioni dei beurs. Erano scrupolosi nel difendere il «diritto alla differenza». Avevano una visione morale del mondo. Ci piacevano.


           


      


      Nei pranzi dei giorni festivi, i riferimenti al passato si facevano via via più radi. Era inutile rispolverare per i più giovani le grandi narrazioni del nostro ingresso nel mondo, e ad ogni modo sia noi che loro provavamo un identico orrore per la guerra e l’odio tra popoli. Né tantomeno tiravamo in ballo l’Algeria, il Cile o il Vietnam, oppure il Maggio ’68 o le battaglie per la legge sull’aborto. Eravamo contemporanei soltanto dei nostri figli.


      I tempi andati abbandonavano le tavolate di famiglia, evadevano dal corpo e dalla pronuncia di chi li aveva vissuti per entrare invece nei programmi televisivi, in documentari commentati da voci disincarnate. Il «dovere della memoria» diventava un obbligo civico, il segno di una coscienza giusta, un nuovo patriottismo. Il beneplacito all’indifferenza nei confronti del genocidio degli ebrei era durato quarant’anni – non si poteva certo dire che il film Notte e nebbia avesse attratto le folle, non più di quanto lo avessero fatto i libri di Primo Levi e di Robert Antelme. Ora credevamo di provare vergogna, ma era una vergogna ritardata. Era soltanto guardando Shoah che la coscienza contemplava con terrore fino a che punto potesse farsi disumana.


      


      La genealogia conquistava le persone. Si recavano al­l’anagrafe delle loro città natali, collezionavano gli atti di nascita e di decesso, affascinati e delusi davanti ad archivi muti che concedevano soltanto liste di nomi, date e professioni: Jacques-Napoléon Thuillier, nato il 3 luglio 1807, bracciante, Florestine-Pélagie Chevalier, tessitrice. Ci si affezionava a vecchi oggetti, ci si stupiva di aver perso bizzeffe di foto di famiglia negli anni Settanta senza alcun rimpianto mentre oggi ci mancavano così tanto. Si sentiva il bisogno di «rigenerarsi». Dappertutto cresceva l’esigenza di trovare «le proprie radici».


      La questione dell’identità, fino ad allora relegata al documento che tenevamo nel portafoglio, si faceva sempre più pressante. Nessuno sapeva esattamente in cosa consistesse. In ogni caso, era qualcosa che bisognava possedere, ritrovare, conquistare, affermare, esprimere. Un bene prezioso e supremo.


      Nel mondo, c’erano donne che si velavano dalla testa ai piedi.


           


            


            


      


      


      


      Il corpo, di cui il jogging, la ginnastica tonificante e l’aerobica assicuravano la «forma» e l’acqua Évian e gli yogurt la purezza interiore, continuava la propria ascesa. Era lui che pensava in noi. La sessualità doveva essere «appagante». Leggevamo Il trattato delle carezze del dottor Leleu per perfezionarci. Le donne tornavano a portare autoreggenti e guêpière dichiarando di farlo innanzitutto «per se stesse». Da ogni dove giungeva l’esortazione a «soddisfarsi».


      Le coppie di quarantenni guardavano i film vietati ai minori su Canal+. Davanti a primissimi piani di piselli instancabili e vulve rasate erano presi da un desiderio tecnico, fievole scintilla senza rapporti con il fuoco che li spingeva l’uno verso l’altra dieci o venti anni prima, quando non avevano neanche il tempo di sfilarsi le scarpe. Durante l’orgasmo dicevano «vengo» come gli attori. Si addormentavano con la soddisfazione di sentirsi normali.


      La speranza, l’attesa, non era più riposta nelle cose ma nella conservazione del corpo, una giovinezza immutabile. La salute era un diritto, la malattia un’ingiustizia da riparare il prima possibile.


      Ai bambini non venivano più i vermi e non morivano quasi mai. Nascevano bimbi in provetta, i cuori e i reni dei morti rimpiazzavano quelli affaticati dei vivi.


      La merda e la morte dovevano essere invisibili.


      Si preferiva non parlare delle nuove malattie per le quali non c’era una cura. Quella col nome tedesco, Alzheimer, che stravolgeva gli anziani e faceva dimenticare i nomi, i volti. L’altra, trasmessa con la sodomia e le siringhe, punizione degli omosessuali e dei drogati, in casi estremi colpo di sfortuna durante una trasfusione.


          


           


            


      


      


      


      La religione cattolica era scomparsa dall’orizzonte quotidiano senza troppo clamore. Le famiglie non ne trasmettevano più né la conoscenza né gli usi. Eccezion fatta per qualche rito specifico, non se ne sentiva più il bisogno per affermare la propria rispettabilità. Era come se avesse prestato servizio troppo a lungo, e si trovasse ora usurata da due millenni di preghiere, di messe e di processioni. Il peccato veniale e mortale, i comandamenti di Dio e della Chiesa, la grazia e le virtù teologali appartenevano a un vocabolario inintelligibile, a uno schema di pensiero superato. La libertà sessuale aveva reso fuori moda la lussuria e con essa le vecchie storielle licenziose come quella del curato di Camaret. La Chiesa non terrorizzava più l’immaginario dei preadolescenti, non regolamentava più i rapporti sessuali, non esercitava più il dominio sul ventre delle donne. Venendo meno la sua principale sfera d’influenza, il sesso, aveva perso tutto. Al di fuori dei corsi di filosofia, l’idea di Dio non era considerata abbastanza valida da poter essere argomento di un dibattito serio. Alla scuola media un alunno aveva scritto sul legno di un banco Dio esiste, ci ho messo un piede sopra.


      La popolarità del nuovo papa polacco non cambiava le cose. Era l’eroe politico della libertà occidentale, un Lech Wałesa su scala mondiale. Il suo accento dell’Est, la sua veste bianca, i suoi «non abbiate paura» e il suo modo di baciare la terra scendendo dall’ae­reo facevano parte dello show come le provocazioni di Madonna durante i concerti.


      (E quando i genitori dei ragazzi iscritti alle scuole private confessionali avevano manifestato in massa in una calda domenica di marzo, tutti sapevano che Dio non c’entrava affatto. La fede religiosa non aveva niente a che fare con le loro rivendicazioni, si trattava di una fede profana, di assicurare ai propri figli le maggiori possibilità di successo.)


          


           


           


      


      


      


      È una videocassetta di trenta minuti, girata in una seconda liceo di Vitry-sur-Seine nel febbraio dell’85. Alla cattedra, del genere in uso in tutte le scuole sin dagli anni Sessanta, è seduta lei. Di fronte ci sono gli studenti, sparpagliati in disordine sulle sedie, una maggioranza di ragazze, molte africane, antillesi, magrebine. Alcune sono truccate, indossano maglioni scollati, anelli etnici. Lei parla di scrittura, della vita e della condizione femminile, ha una voce un po’ stridula, esita e s’interrompe, soprattutto quando le viene posta una domanda. Sembra sopraffatta dalla necessità di tenere conto di tutto, tormentata da una totalità che è lei la sola a percepire, poi pronuncia una frase senza particolare originalità. Muove le mani, grandi, se le passa spesso nella massa rossa dei capelli, ma non c’è più il nervosismo o quel muoversi a scatti che era presente nel superotto casalingo di tredici anni prima. Rispetto alla foto della Spagna ha gli zigomi più accentuati, il volto e le mascelle dal tratto più netto. Ride con una risatina leggera – accenno di timidezza o residuo incontrollato di quel modo di schernire e schernirsi della sua adolescenza popolare, di un atteggiamento da donnetta che ammette la propria insignificanza – in contrasto con la calma e la gravità del suo volto a riposo. Ha un trucco leggero, senza cipria (la pelle è lucida), un foulard rosso infilato nella scollatura di una camicia verde chiaro che la ingoffa. Il resto del corpo è coperto dalla cattedra. Non porta gioielli. Tra le domande:


      Quando aveva la nostra età, come si immaginava che sarebbe stata la sua vita? Quali erano le sue speranze?


      La risposta (lentamente): Ci vorrebbe tempo per pensarci bene… tornare a sedici anni, essere sicura… ci vorrebbe almeno un’ora. (La voce di colpo acuta, innervosita.) Voi, voi vivete nell’85, le donne scelgono di avere bambini se lo vogliono, quando vogliono, fuori dal matrimonio, vent’anni fa era impossibile!


      È probabile che in quella «situazione comunicativa» si senta scoraggiata nel toccare con mano la propria incapacità a trasmettere l’ampiezza di un’esperienza di donna, tra i sedici e i quarant’anni, con parole che non siano frasi fatte e stereotipi. (Bisognerebbe rituffarcisi dentro, indugiare a lungo sulle immagini di lei in seconda, ritrovare le canzoni e i quaderni, rileggere il diario del tempo.)


      In quella fase della vita è divorziata, vive con i due figli, ha un amante. Ha dovuto vendere la casa comprata nove anni prima, alcuni mobili, l’ha fatto con un’indifferenza che l’ha stupita. Le sue linee guida sono affrancarsi dai beni materiali e la libertà. Come se il matrimonio non fosse stato che un intermezzo, ha l’impressione di riprendere la sua adolescenza là dove l’aveva lasciata, ritrovando le stesse aspettative, lo stesso correre affannato agli appuntamenti sui tacchi alti, lo stesso scoprirsi sensibile alle canzoni d’amore. Gli stessi desideri, ma senza vergognarsi di appagarli fino in fondo, capace di dirsi ho voglia di scopare. È nella perentoria adesione al proprio corpo che si realizza ora la «rivoluzione sessuale», quel ribaltamento dei valori propugnato da un ’68 ormai lontano, con inoltre la ferma consapevolezza del fragile splendore della propria età. Ha paura di invecchiare, dell’odore del sangue che le mancherà. Poco tempo prima la comunicazione amministrativa che le confermava l’incarico nella sua scuola fino al 2000 l’ha pietrificata. Fino a quel momento era stata una data priva di realtà.


          


      


      I figli non sono tutto il tempo nei suoi pensieri, non più di quanto lo fossero i suoi genitori quando era bambina o adolescente, fanno parte di lei. Poiché non è più una moglie non è più la stessa madre di prima, piuttosto è un misto tra sorella, amica, educatrice e responsabile di una pianificazione quotidiana che dopo la separazione si è alleggerita: ognuno mangia quando vuole, un piatto sulle ginocchia davanti al televisore. Spesso li guarda stupita. Dunque quell’attesa di vederli crescere, le tazze di cereali col miele, il primo giorno alle elementari, poi alle medie, hanno condotto a questi ragazzoni di cui in fondo, forse, non sa granché. Senza di loro non saprebbe situarsi nel tempo. Quando vede qualche bambino giocare nella sabbia di un giardinetto si stupisce che le succeda già di ricordarsi l’infanzia dei suoi figli e di sentirla così lontana.


      I momenti importanti della sua esistenza attuale sono i pomeriggi che passa con l’amante in una camera d’albergo in rue Danielle-Casanova e le visite a sua madre al reparto di lunga degenza dell’ospedale. Le due cose sono talmente legate tra loro che a volte le sembrano riguardare un solo essere. Come se toccare la pelle e i capelli della madre smarrita fosse della stessa natura dei gesti erotici scambiati con l’amante. Dopo l’amore sonnecchia, intrecciata al corpo massiccio di lui, con in sottofondo il rumore d’automobili, e si mette a ripensare alle altre volte in cui, di giorno, è stata sdraiata così: la domenica a Yvetot, da piccola, quando leggeva attaccata alla schiena di sua madre; da ragazza alla pari in Inghilterra, avvolta in una coperta di fianco a un termosifone elettrico; all’hotel Maisonnave di Pamplona. E ogni volta è stato necessario tirarsi fuori da quello stato di dolce torpore, alzarsi, prepararsi, uscire, lavorare, esistere nella società. In quei momenti pensa che la sua vita potrebbe essere raffigurata da due assi perpendicolari, su quello orizzontale tutto ciò che le è accaduto, ha visto, ascoltato in ogni istante, sul verticale soltanto qualche immagine, a sprofondare nella notte.


      Poiché nella sua ritrovata solitudine riscopre pensieri e sensazioni che la vita di coppia obnubilava, le è venuta l’idea di scrivere «una sorta di destino di donna» tra il 1940 e il 1985, qualcosa come Una vita di Maupassant in cui poter percepire il passaggio del tempo in lei e fuori di lei, nella Storia, un «romanzo totale» che si sarebbe concluso con la spossessione di esseri e cose, genitori, marito, figli che se ne vanno di casa, mobili venduti. Ha paura di perdersi nella molteplicità degli oggetti che compongono quella realtà che vuole restituire. Si chiede come potrebbe organizzare quella memoria accumulata di eventi, di fatti di cronaca, di migliaia di giornate che l’hanno condotta sino al suo presente.


           


      


      Già a quella distanza l’unica immagine che le resta del 10 maggio 1981 è quella di una donna d’età che porta a spasso il cane per la strada deserta proprio due minuti prima della proclamazione a reti unificate del nome del vincitore delle presidenziali. E quella di Michel Rocard che spunta d’un tratto sullo schermo, Tutti alla Bastiglia!


      E del passato recente le immagini che conserva sono:


      la morte di Michel Foucault, secondo Le Monde per una setticemia, verso la fine di giugno, poco prima o poco dopo la grande manifestazione delle scuole private con un numero incalcolabile di gonne plissettate e camicette bianche – quella, due anni prima, di Romy Schneider, così bella ne L’amante, vista per la prima volta al cinema ne L’amore di una grande regina mentre un ragazzo le copriva in parte lo schermo baciandola, come si usava fare quando si era seduti nell’ultima fila


      i camionisti che bloccavano le strade il giorno prima dell’inizio delle vacanze di febbraio


      i siderurgici – nella sua testa associati agli operai della Lip e alle loro grandi manifestazioni degli anni Settanta – che bruciavano gli pneumatici per protesta mentre lei leggeva Le parole e le cose nello scompartimento del TGV immobile.


          


          


            


      


      


      


      Avevamo la sensazione che nulla potesse impedire alla destra di vincere le elezioni, che si dovesse compiere il destino preconizzato dai sondaggi: «la coabitazione» tra un presidente e un primo ministro di opposte fazioni, una situazione allora sconosciuta, un desiderio inconfessabile che i media, sguazzandoci, non facevano che alimentare. Il governo di sinistra sembrava non azzeccarne mai una, dai TUC per l’occupazione giovanile a Fabius tutto elegante zittito alla televisione da Chirac, da Jaruzelski in occhiali scuri da mafioso ricevuto all’Eliseo al sabotaggio della Rainbow Warrior di Greenpeace. Cascavano male anche i rapimenti in Libano, in un conflitto del quale non capivamo niente. Tutte le sere ci veniva ingiunto di non dimenticare che Jean-Paul Kauffmann, Marcel Carton e Marcel Fontaine erano ancora tenuti in ostaggio, e alla lunga la cosa cominciava a darci fastidio, che cosa potevamo farci noi? Secondo l’orientamento politico c’era chi si irritava e reagiva aggressivo e chi si limitava a costernarsi. Persino gli inverni freddissimi, con la neve a Parigi e meno venticinque gradi nella Nièvre, non facevano presagire niente di buono. L’AIDS continuava a uccidere a voce bassa, i suoi consumati superstiti ci circondavano. Ogni sera, nell’ascoltare alla radio Pierre Desproges concludere le sue Chroniques de la haine ordinaire con la tipica frase «quanto al mese di marzo, e lo dico senza secondi fini politici, mi stupirebbe che superasse l’inverno», ciò che pensavamo era che sarebbe stata la sinistra a non arrivare a primavera.


      E infatti la destra ritornava, disfaceva, denazionalizzava, sopprimeva l’autorizzazione amministrativa al licenziamento e la tassa sui grandi patrimoni. A essere contenti erano in pochi. Si tornava ad amare Mitterrand.


      Morivano Simone de Beauvoir e Jean Genet, su tutta l’Île-de-France continuava a nevicare. Quel mese di aprile proprio non ci piaceva. E così neppure maggio, benché la centrale nucleare che era esplosa in URSS non ci avesse turbato oltremisura. Si trattava di una catastrofe che i russi non erano riusciti a nascondere, che bisognava mettere sul conto della loro imperizia e – anche se Gorbaciov ci era simpatico – della loro disumanità allo stesso titolo dei gulag. All’uscita dagli esami di maturità, in un pesante pomeriggio di giugno, gli studenti apprendevano che Coluche era appena morto in un incidente di moto su una strada tranquilla.


            


      


      Nel mondo le guerre seguivano il loro corso. L’interesse che suscitavano in noi era inversamente proporzionale alla loro durata e alla loro distanza, dipendeva più che altro dall’eventuale coinvolgimento di Paesi occidentali. Non sapevamo dire quando gli iraniani e gli iracheni avevano cominciato ad ammazzarsi tra di loro, da quanti anni era che i russi cercavano di sottomettere gli afghani. E ancora meno conoscevamo i motivi di quei conflitti, persuasi nell’intimo che in fondo non se li ricordassero più neanche loro. Continuavamo a firmare petizioni ma senza entusiasmo. Facevamo confusione tra le fazioni in lotta in Libano, tra sciiti, sunniti, persino cristiani. Che ci si massacrasse per motivi religiosi andava al di là della nostra comprensione, ci sembrava semplicemente comprovare che quei popoli erano rimasti indietro, a uno stadio inferiore. Ci eravamo sbarazzati dell’idea della guerra. Ragazzi in uniforme non se ne incontravano più, fare il militare era un’incombenza che tutti cercavano di evitare. L’antimilitarismo aveva perso la propria ragion d’essere, la canzone del disertore di Boris Vian faceva riferimento a un tempo scomparso. Per far regnare la pace eterna avremmo visto di buon occhio la presenza di Caschi blu dappertutto. Eravamo evoluti e civilizzati, sempre più preoccupati della cura del corpo, prodighi consumatori di prodotti per scacciare gli odori, da sé, dalla casa. Si rideva dicendo «Dio è morto, Marx è morto, e anch’io non mi sento tanto bene». Eravamo ludici.


          


      


      Ogni tanto c’era qualche attentato, gesti isolati di terrorismo i cui autori, come Carlos, si volatilizzavano e scorrazzavano da un capo all’altro del pianeta. L’emozione generale era limitata. Del primo attentato di settembre, subito dopo l’inizio delle scuole, probabilmente non ce ne si sarebbe ricordati affatto se, a qualche giorno d’intervallo, non fossero esplose altre bombe, sempre in luoghi pubblici, non lasciandoci nemmeno il tempo di emergere dallo stupore, né permettendo alla televisione di esaurire l’attentato precedente. Più tardi, quando ci saremmo chiesti in che momento avessimo pensato che un nemico invisibile ci aveva dichiarato guerra, ci saremmo ricordati di quel caldo mercoledì pomeriggio della rue de Rennes, delle telefonate fatte ai famigliari e agli amici per assicurarci che non si trovassero davanti alle vetrine di Tati nel momento in cui esplodeva la bomba lanciata da una Mercedes che aveva ucciso alcuni passanti. Si continuava a prendere la metro o la RER, ma sui convogli l’aria si faceva più pesante. Nel metterci a sedere tenevamo gli occhi sulle sacche «sospette» ai piedi dei passeggeri, soprattutto quelli che potevano essere assimilati al gruppo implicitamente designato come responsabile degli attentati, gli arabi. Assaliti dall’ipotesi di una morte imminente, percepivamo il nostro corpo e il tempo presente con inaspettata violenza.


      Si pensava che ci sarebbero state altre carneficine, certi che il governo non avrebbe potuto far nulla per impedirle. Non succedeva niente. Con il susseguirsi dei giorni si smetteva di avere paura e di verificare sotto i sedili. La sequela di esplosioni era terminata da un momento all’altro, non sapevamo perché era finita proprio come ignoravamo perché era cominciata, ma ad ogni modo il sollievo era tale che non ce ne preoccupavamo più. Gli attentati di quella che era diventata la nostra «settimana di sangue» non costituivano un evento, non avevano cambiato l’esistenza di quasi nessuno, avevano giusto fatto sì che, per un breve periodo che si era concluso appena il pericolo era passato, fossimo colti da un sentimento di inquietudine quando eravamo fuori casa. Non avevamo imparato i nomi dei morti e dei feriti, formavano una categoria anonima, erano semplicemente «le vittime degli attentati di settembre», con una sottocategoria, «le vittime degli attentati della rue de Rennes», considerate a parte perché più numerose e perché è tanto più terribile morire in una strada frequentata da tutti. (Si conoscevano molto meglio i nomi di Georges Besse, il direttore generale della Renault, e del generale Audran, freddati dai membri di un gruppuscolo chiamato Action directe di cui ciò che si pensava era che avessero sbagliato epoca nel seguire la scia delle Brigate rosse e della banda Baader-Meinhof.)


          


           


            


      


      


      


      Abbiamo invece interpretato come un evento le manifestazioni di due mesi dopo, perché era qualcosa che avevamo conosciuto, che era già successo: gli studenti in piazza contro la riforma dell’istruzione di Devaquet. Non osavamo sperare, ci meravigliamo. Un Maggio ’68 in inverno, ci sentivamo ringiovanire. Ma ci rimettevano al nostro posto, sugli striscioni scrivevano il ’68 è passato l’86 l’ha superato. Non ce la prendevamo, erano gentili, non lanciavano sanpietrini e in TV si esprimevano con educazione, nei cortei cantavano strofe che ci rallegravano sulle arie di Petit navire e Pirouette cacahouète – bisognava davvero essere Louis Pauwels per dichiarare su Le Figaro che erano affetti da «AIDS mentale». Vedevamo per la prima volta nella sua massiccia, impressionante realtà la generazione successiva alla nostra, le ragazze in prima linea assieme ai ragazzi, i beurs, tutti in jeans. La quantità li rendeva adulti, eravamo già così vecchi? Un ragazzo di ventidue anni che sulle foto somigliava a un bambino moriva sotto i colpi di manganello della polizia in rue Monsieur-le-Prince. A migliaia sfilavamo cupi dietro gli striscioni con il suo nome, Malik Oussekine. Il governo ritirava la legge, i manifestanti ritornavano all’università e al liceo. Erano pragmatici. Non volevano cambiare la società, volevano soltanto trovarvi un posto dignitoso senza che gli si mettessero i bastoni tra le ruote.


      E noi, pur sapendo bene che un «lavoro sicuro» e un po’ di soldi non rendevano necessariamente felici, non potevamo non desiderare che conoscessero almeno quella forma di appagamento.


          


           


           


      


      


      


      Le aree metropolitane si estendevano sempre di più, la campagna si copriva di nuove cittadine colorate di rosa, senza orto né pollaio, dove ai cani era vietato vagabondare. Le autostrade suddividevano a scacchiera i paesaggi, si ingarbugliavano intorno a Parigi in una specie di ottovolante. Le persone passavano un tempo via via maggiore all’interno di abitacoli comodi e silenziosi dai grandi finestrini. Era un habitat transitorio, sempre più intimo, in cui gli sconosciuti non erano ammessi – l’autostop era scomparso –, dove si ascoltava musica, si cantava, si litigava, ci si lasciava andare a confidenze fissando la strada senza guardare il passeggero, ci si abbandonava ai ricordi. Un luogo al tempo stesso aperto e chiuso, dove l’esistenza degli altri si limitava a profili rapidi nelle automobili che sorpassavamo, creature incorporee la cui realtà riemergeva brutale nelle terrificanti immagini di manichini di carne accasciati sul sedile dopo un incidente.


      Quando guidavamo a lungo, da soli, a velocità costante, l’automatismo dei gesti faceva perdere la percezione del proprio corpo, come se avessimo inserito il pilota automatico. Le vallate e le pianure scivolavano in un movimento ampio, arrotondato. Diventavamo puro sguardo che da un abitacolo trasparente arrivava fino alla fine dell’orizzonte mobile, una coscienza immensa e fragile che riempiva lo spazio visibile e, più in là, la totalità del mondo.


      A volte ci dicevamo che sarebbe bastato lo scoppio di una gomma, un ostacolo perché, come per Michel Piccoli ne L’amante, quella stessa totalità scomparisse per sempre.


          


          


           


      


      


      


      Il tempo sempre più febbricitante dei media ci costringeva a pensare alle elezioni presidenziali, contava i mesi, le settimane che ce ne separavano. Le persone preferivano guardare il Bébête Show su TF1, disprezzato dagli intellettuali – adepti invece dei Nuls di Canal+, considerati «scurrili ma mai volgari» –, sognare le vacanze a venire ascoltando Desireless che cantava Voyage voyage. Si scopriva che l’AIDS non era solo una malattia da drogati e omosessuali, nel fare l’amore si aveva paura. Tra la fine del timore di restare incinte e l’inizio di quello dell’HIV, trovavamo che l’intervallo di tranquillità fosse stato breve.


      Rispetto all’81, ad ogni modo, la passione non c’era, l’unica speranza era quella di non trovarsi con Chirac e dunque di tenersi Mitterrand, un vecchio zio rassicurante, un uomo di centro circondato da ministri molto chic dai quali chi era di destra non aveva più niente da temere. Il Partito comunista si sfibrava, invecchiato dalla perestrojka e dalla glasnost di Gorbaciov sembrava rimasto al tempo di Brežnev. Le Pen era diventato un personaggio «che non si poteva più ignorare», i giornalisti gli gravitavano attorno affascinati e atterriti. Per moltissimi era l’unico che aveva «il coraggio di dare voce ai pensieri nascosti dei francesi» perché diceva che c’erano troppi immigrati.


          


      


      La rielezione di Mitterrand ci riconsegnava alla tranquillità. Era meglio vivere senza aspettative sotto la sinistra che farsi venire il nervoso tutto il tempo sotto la destra. Nell’irreversibilità dei giorni, quelle elezioni presidenziali non sarebbero state una pietra miliare, ma solo il fondale politico della primavera in cui avevamo appreso della morte di Pierre Desproges per un cancro e riso come non ci succedeva da tempo con i Groseille e i Duquesnoy in un film che sembrava fatto apposta per andare a votare Mitterrand. Avremmo conservato appena il ricordo di avvenimenti sopraggiunti proprio durante la nomina – la liberazione degli ostaggi in Libano, una vicenda interminabile, il massacro dei Kanak nella grotta di Ouvéa – o del dibattito televisivo in cui Chirac aveva intimato a Mitterrand di ribadire guardandolo negli occhi quella che probabilmente era una menzogna, inquieti e poi sollevati nel vedere quest’ultimo non batter ciglio come sua abitudine.


      Non succedeva nulla di concreto, se non un tentativo di pianificare la povertà con il salario minimo garantito e la promessa di «ridipingere i vani delle scale» nei quartieri dormitorio – l’ordinamento della vita di un gruppo di persone troppo numeroso per ricevere la denominazione di esclusi. La carità si istituzionalizzava. I questuanti uscivano dalle grandi città, raggiungevano le porte dei supermercati di provincia, le spiagge estive. Si inventavano nuove tecniche – inginocchiarsi con le braccia incrociate, richiedere una moneta a voce bassa, con discrezione –, nuovi argomenti, nuovi discorsi che sbiadivano più in fretta del sacchetto di plastica vuoto erto a emblema dell’indigenza. I «senza fissa dimora» facevano parte del paesaggio urbano, come le pubblicità. Ci si scoraggiava – troppi poveri –, ci si irritava della propria impotenza – come fare a dare qualcosa a tutti? –, si allungava il passo davanti ai corpi immobili sui marciapiedi, sdraiati nei corridoi della metropolitana. Sulle frequenze della radio di Stato, le industrie lanciavano messaggi celestiali, Benvenuti nel mondo Rhône-Poulenc, un mondo di sfide, e ci si domandava a chi si rivolgessero.


          


      


      Guardavamo altrove. La condanna a morte da parte dell’imam Khomeini di uno scrittore di origine indiana, Salman Rushdie, accusato di aver offeso Mao­metto in un suo libro, faceva il giro del mondo e ci lasciava di stucco. (Anche il papa condannava a morte proibendo il preservativo, ma quelle erano morti anonime, in differita.) All’improvviso tre ragazze che si ostinavano a venire a scuola con un foulard in testa sembravano diventate le depositarie dell’integralismo islamico, oscurantista e misogino, e offrivano finalmente un pretesto per pensare e suggerire che gli arabi fossero diversi dagli altri immigrati. Le persone si scoprivano troppo buone, lo stesso Rocard alleggeriva innumerevoli coscienze dichiarando che «la Francia non può accogliere tutta la miseria del mondo».


          


      


      Il nuovo veniva dall’Est. Non si finiva più d’estasiarsi di quelle parole magiche, perestrojka e glasnost. La nostra percezione dell’URSS cambiava, i gulag e i carrarmati di Praga venivano dimenticati, censivamo tutti i segni che avvicinavano i sovietici a noi e all’intero Occidente, la libertà di stampa, Freud, il rock e i jeans, il taglio di capelli e i begli abiti alla moda dei «nuovi russi». Ci aspettavamo, o auspicavamo, una sorta di fusione tra comunismo e democrazia, tra libero mercato e pianificazioni leniniste, una Rivoluzione d’ottobre a lieto fine. Ci entusiasmavamo per gli studenti cinesi assembrati in piazza Tienanmen con i loro occhialetti tondi in metallo. Credevamo in loro, finché non arrivavano altri carrarmati e un ragazzo si faceva avanti, solo e minuscolo – un’immagine che avremmo poi visto decine di volte, come fosse l’ultima scena, sublime, di un film –, nella stessa domenica in cui Michael Chang vinceva il Roland Garros, sicché lo studente di Tienanmen e il giocatore di tennis, pur così snervante con tutti quei segni della croce, si sarebbero poi sovrapposti nella memoria.


      Il 14 luglio dell’89, di sera, alla fine di una giornata grigia di afa, sul divano da cui guardavamo la sfilata cosmopolita di Jean-Paul Goude con i commenti fuori campo di Frédéric Mitterrand, avevamo l’impressione che tutte le rivolte e le rivoluzioni del mondo fossero state opera nostra, dalla fine della schiavitù alla piazza di Pechino passando per gli scioperi nei cantieri di Danzica. Abbracciavamo con un unico sguardo tutti i popoli del pianeta, le lotte passate, presenti e future, tutte e per sempre figlie della Rivoluzione francese. Quando il soprano statunitense Jessye Norman intonava La Marsigliese nel suo abito blu, bianco e rosso agitato da un vento artificiale, eravamo colti da un sentimento antico e scolastico, un glorioso afflato della Storia.


          


      


      I tedeschi dell’Est attraversavano le frontiere, facevano processioni con le candele intorno alle chiese per far cadere Honecker. Il Muro di Berlino crollava. Era un’epoca rapida con tiranni giustiziati dopo processi di un’ora, cadaveri terrosi ostentati all’interno di fosse comuni. Ciò che succedeva superava l’immaginazione – avevamo dunque considerato il comunismo immortale – e le nostre emozioni non riuscivano a stare al passo con la realtà. Ci sentivamo superati dagli eventi, invidiavamo i cittadini dell’Est che stavano vivendo momenti come quelli. Poi li vedevamo precipitarsi nei negozi di Berlino Ovest e provavamo pietà per i loro vestiti disastrosi e i loro sacchetti di banane. La loro inesperienza del consumo faceva tenerezza. Ma lo spettacolo di quella sfrenata fame collettiva di beni materiali senza discernimento finiva per contrariarci. Non si mostravano all’altezza della libertà, pura e astratta, che avevamo modellato per loro. L’afflizione che c’eravamo abituati a provare nei confronti dei popoli «sotto il giogo comunista» si trasformava nello sguardo giudicante con cui li biasimavamo per l’uso che facevano della loro libertà. Li preferivamo allineati in lunghe file per un po’ di salame e qualche libro, privi di tutto, così da lasciarci modo di assaporare la gioia e la superiorità di appartenere al «mondo libero».


      La fumosa indifferenziazione che aveva avvolto i Pae­si «oltre la cortina di ferro» lasciava il campo a una serie di nazioni ben distinte. La Germania, di cui François Mauriac aveva detto: l’amo talmente che sono contento ce ne siano due, era riunificata. Si diffondeva un clima d’escatologia politica. Si annunciava l’avvento di un «nuovo ordine mondiale». La fine della Storia era vicina, la democrazia si sarebbe propagata su tutto il pianeta. Mai si era creduto al nuovo, nel cammino del mondo, con così tanta convinzione. Poi arrivava una notizia che scuoteva dal torpore della placida calura estiva delle vacanze. Il titolo enorme sulle prime pagine dei giornali, «Saddam Hussein invade il Kuwait», ne faceva venire in mente un altro di cinquantun anni prima, con la stessa data, che avevamo visto riprodotto spesso: «La Germania invade la Polonia». In pochi giorni le potenze occidentali si schieravano in assetto di guerra dietro gli Stati Uniti, la Francia faceva la smargiassa sfoderando la portaerei Clemenceau e prendeva in considerazione di richiamare i soldati di leva come ai tempi dell’Algeria. Erano tutti sicuri che se Saddam Hussein non si fosse ritirato dal Kuwait sarebbe scoppiato il terzo conflitto mondiale.


      Si respirava un bisogno di guerra, come se alle persone mancassero eventi importanti da troppo tempo, costrette ad assistere da spettatori a quelli che vedevano accadere in televisione. C’era un desiderio di riallacciare i legami con la vecchia tragedia. Al seguito del più spento dei presidenti americani si andava a combattere il «nuovo Hitler». A chi si proclamava pacifista veniva subito ricordata la Conferenza di Monaco. Prese dall’incantesimo delle semplificazioni dei media, le persone si convincevano della delicatezza tecnologica delle armi, credevano a una «guerra pulita», alle «bombe intelligenti» e agli «attacchi chirurgici», Libération parlava di «conflitto civilizzato». Si alzava un vento di guerra e di virtù. «Fare il culo a Saddam» era una causa giusta, la «guerra del diritto» e anche l’occasione legittima, benché inconfessata, di farla finita con tutte le complicazioni di quel mondo arabo al quale appartenevano i giovani delle periferie e le ragazze col velo, che di tanto in tanto davano ai nervi e che era meglio se ne stessero per i fatti loro.


      


      A noi che avevamo rotto con Mitterrand quando l’avevamo visto apparire sullo schermo per dire con voce piatta «saranno le armi a parlare», che non sopportavamo gli entusiasmi propagandistici per la «Tempesta nel deserto», per sollevarci il morale non restavano altro che i pupazzi dei Guignols de l’info tutte le sere in televisione e la satira della Grosse Bertha ogni settimana in edicola. Nel gennaio freddo e nebbioso, le strade erano deserte, vuoti i cinema e i teatri.


      Saddam prometteva una misteriosa «madre di tutte le battaglie» che non arrivava. Gli obiettivi della guerra erano sempre meno chiari. Le bombe facevano migliaia di morti a Baghdad, invisibili. Le ostilità cessavano una domenica di febbraio, nella vergogna, con i soldati iracheni in ritirata persi nella sabbia. Tutto quello strepito finiva senza finire, il «diavolo» Saddam Hussein era sempre là, veniva deliberato l’embargo contro l’Iraq. Ci sentivamo mortificati per esserci lasciati convincere, umiliati per aver dedicato intere giornate di pensieri ed emozioni a una farsa orchestrata dalla propaganda della CNN. Del «nuovo ordine mondiale» non volevamo più sentir parlare.


          


      


      L’URSS, quasi dimenticata, risvegliava l’estate con un fallimentare colpo di stato a opera di vecchi boiardi stalinisti. Gorbaciov era screditato, il caos annunciato, poi scongiurato in poche ore grazie a una specie di bruto dagli occhi piccoli comparso come per miracolo sopra un carrarmato, acclamato come l’eroe della libertà. Tutto si svolgeva con efficacia, L’URSS scompariva, diventava la Federazione russa, Boris Eltsin ne era il presidente, Leningrado tornava a chiamarsi San Pietroburgo, più pratico per orientarsi in Dostoevskij.


          


           


           


      


      


      


      Le donne costituivano più che mai un gruppo sorvegliato, i cui comportamenti, gusti e desideri erano oggetto di una discussione costante, di un’attenzione al contempo inquieta e trionfale. Si riteneva che avessero «ottenuto tutto», che «fossero dappertutto» e che «a scuola avessero maggior successo dei ragazzi». Come al solito i segni della loro emancipazione erano ricercati nel loro corpo, nella loro audacia sentimentale e sessuale. Che dicessero «rimorchiare gli uomini», svelassero le loro fantasie, si chiedessero su Elle se fossero «brave a letto» era la prova di un’acquisita libertà e parità con gli uomini. L’immancabile presenza di cosce e di seni nelle pubblicità doveva essere apprezzata come un omaggio alla loro bellezza. Il femminismo era una vecchia ideologia vendicativa e senza ironia, non se ne sentiva più il bisogno e le ragazze ne parlavano con condiscendenza, senza dubitare un istante della propria forza e di un’uguaglianza considerata acquisita. (Ma continuavano a leggere più romanzi degli uomini, come se avessero bisogno di dare alla loro vita una forma immaginaria.) «Grazie, uomini, di amare le donne» recitava il titolo di una rivista femminile. Sulle loro lotte, mai commemorate ufficialmente, cadeva l’oblio.


      Con la pillola erano diventate le padrone della vita, di questo non se ne parlava.


          


      


      Noi che avevamo abortito nelle cucine, che avevamo divorziato, che avevamo creduto che i nostri sforzi per liberarci sarebbero serviti ad altre, noi provavamo una grande stanchezza. Non sapevamo più se la rivoluzione delle donne ci fosse stata davvero. Continuavamo a vedere il sangue anche dopo i cinquant’anni. Non aveva più lo stesso odore né lo stesso colore di prima, una specie di sangue illusorio. Ma quella scansione regolare del tempo che potevamo conservare fino alla morte ci rassicurava. Indossavamo jeans, pantaloncini e magliette come le quindicenni, come loro dicevamo «il mio moroso» per parlare del nostro amante regolare. Invecchiando non avevamo più età. Ascoltavamo Only You o Capri c’est fini su Radio Nostalgia, invase da una dolcezza giovane, il presente si allargava fino a comprendere i nostri vent’anni. Rispetto alle nostre madri, sudate e rinchiuse nella loro menopausa, avevamo l’impressione di vincere contro il tempo.


          


      


      (Le donne più giovani sognavano di legarsi a un uomo, le ultracinquantenni che già ne avevano avuto uno non ne volevano un altro.)


          


      


      I figli, soprattutto i maschi, lasciavano a fatica la casa di famiglia, il frigo pieno, la biancheria lavata, il rumore di fondo delle cose dell’infanzia. Facevano l’amore con candore nella camera vicina alla nostra. Si assestavano all’interno di una lunga giovinezza, il mondo non li stava aspettando. E noi, continuando a nutrirli e a preoccuparci per loro, avevamo l’impressione di vivere sempre nello stesso tempo, senza fratture.


          


           


           


      


      


      


      È la foto di una donna inquadrata di fronte dalla vita in su davanti a dei cespugli. I capelli lunghi tra il biondo e il rosso sono sparsi sul colletto di un pesante cappotto nero, ampio, di uno stile lussuoso. Il lembo di una sciarpa rosa confetto, incongruamente sottile rispetto al cappotto, è gettato sulla spalla sinistra. Tiene in braccio un gatto bianco e nero della razza più comune e sorride guardando l’obiettivo, la testa un po’ inclinata, in un atteggiamento di dolcezza seduttrice. Le labbra appaiono di un rosa intenso, probabilmente messe in risalto da un rossetto intonato alla sciarpa. La riga che separa i capelli, più chiara, evidenzia la ricrescita. La pienezza dell’ovale e gli zigomi alti sono in contrasto con i segni dell’invecchiamento, le borse sotto gli occhi e il fine reticolo di rughe sulla fronte. L’ampiezza del cappotto non permette di determinare se sia ingrassata, ma le mani e i polsi che sbucano dalle maniche per tenere il gatto sono magre, quasi ossute. È una foto d’inverno, la luce di un sole pallido sulla pelle del viso e delle dita, i ciuffi d’erba secca, i rami spogli su uno sfondo indistinto di vegetazione con in lontananza una linea di edifici. Sul retro, Cergy, 3 febbraio ’92.


      Trasmette un’impressione di controllato abbandono, di «appagamento», come dicono le riviste femminili per le donne tra i quaranta e i cinquantacinque anni. La foto è stata scattata nel giardino della casa in cui vive sola con quel gatto, una micia di un anno e mezzo. Dieci anni prima ci viveva con suo marito, due adolescenti, di tanto in tanto sua madre, ed era il perno di una ruota che senza di lei non avrebbe potuto girare, dalla decisione di cambiare le lenzuola alla prenotazione dell’albergo per le vacanze. Suo marito è lontano, risposato e con un bambino, sua madre è morta, i figli abitano altrove. Constata questa perdita di possesso sugli altri serenamente, come una traiettoria ineluttabile. Quando fa la spesa da Auchan non ha più bisogno di un carrello, un cestino le basta. Ritrova la sua funzione di nutrice soltanto il fine settimana quando i figli tornano a casa. Al di fuori dei suoi impegni di lavoro, le lezioni da preparare e i compiti da correggere, il tempo è consacrato alla gestione dei gusti personali e dei desideri, libri, film, telefonate, lettere e avventure amorose. L’incessante preoccupazione materiale e morale per gli altri che caratterizzava la sua vita coniugale e famigliare si è ormai allontanata da lei. L’ha sostituita un interesse per le cause umanitarie, più leggero. In quella dissoluzione degli obblighi e apertura dei possibili sente che il suo tragitto coincide con quello dell’epoca per come è tracciato da Elle o Marie Claire negli articoli sulle donne della classe media che abbiano superato la trentina.


           


      


      Le capita di osservarsi nuda, nello specchio del bagno, il busto e il seno minuto, la vita ben delineata, una leggera pancia, le cosce pesanti rigonfie sopra il ginocchio, il sesso ben visibile adesso che i peli sono meno folti, una fessura piccola rispetto a quelle esposte nei film porno. Due striature azzurrine vicino all’inguine, tracce delle smagliature delle gravidanze. Si stupisce: è lo stesso corpo da quando, verso i sedici anni, ha smesso di crescere.


          


      


      In quel momento in cui guarda l’obiettivo con dolcezza – a scattare la foto è probabilmente un uomo – pensa a se stessa soprattutto come alla donna che tre anni prima ha vissuto una violenta passione per un russo. La fase del desiderio e del dolore è terminata, ne percepisce ancora la forma, ma il volto di quell’uomo si fa sempre più lontano e afflitto. Vorrebbe rammentarsi in che modo si ricordava di lui quando se ne è andato dalla Francia, quale ondata d’immagini la sommergeva mentre custodiva la sua presenza dentro di sé come in un tabernacolo.


           


      


      Di sua madre ricorda gli occhi, le mani, il profilo, la voce no, o altrimenti in maniera astratta, senza grana. La vera voce è perduta, non ne conserva alcuna traccia materiale. Ma spesso alle labbra le affiorano spontaneamente – per la prima volta, le pare – alcune frasi che utilizzava lei, dice cose come «che tempo fiacco», «m’ha attaccato un bottone», «uno alla volta per carità». È come se parlasse attraverso la sua bocca, e con lei un’intera stirpe. Altre volte vengono fuori le frasi che pronunciava quando era malata d’Alzheimer, la cui incongruenza ne rivelava l’alterazione mentale, «portami degli stracci per asciugarmi il didietro». In un lampo, ne vede il corpo, ne sente la presenza. A differenza di quelle prime frasi di uso consueto, queste sono uniche, per sempre appannaggio di un solo essere al mondo, sua madre.


          


      


      A suo marito non pensa quasi mai, eppure porta in sé l’impronta della loro vita comune e dei gusti che le ha lasciato, Bach e la musica sacra, la spremuta d’arance mattutina eccetera. Quando è attraversata da immagini di quella vita – come quando cercava affannata nei negozietti della città vecchia di Annecy il necessario per il cenone della vigilia, lei aveva venticinque anni, era il loro primo Natale con il bambino – si chiede «vorrei essere ancora là?». Le piacerebbe rispondere di no, ma sa che la domanda non ha senso, che nessuna domanda ha un senso applicabile alle cose del passato.


          


      


      In coda alla cassa del supermercato le capita di pensare a tutte le volte in cui si è trovata così, in fila, con il cestino più o meno pieno di vettovaglie. Guarda figure vaghe di donne, sole o accompagnate da figli che trotterellano intorno al carrello, donne senza volto, dissimili solo per la pettinatura – una crocchia bassa, capelli corti, di media lunghezza, a caschetto – e i vestiti – il maxi cappotto degli anni Settanta, il trequarti nero degli anni Ottanta –, e le vede come immagini di se stessa, staccate, disincastrate le une dalle altre come parti di un’unica matriosca. Si raffigura lì, dieci o quindici anni dopo, il cestino pieno di dolciumi e giocattoli per nipoti che non sono ancora nati. Quella donna le pare altrettanto improbabile quanto agli occhi della ragazza di venticinque anni lo era la donna di quaranta che non poteva neanche immaginare di essere un giorno e che non è già più.


           


      


      Quando è insonne cerca di ricordarsi nei minimi particolari le camere in cui ha dormito, quella che ha condiviso con i genitori fino ai tredici anni, quella dello studentato, quella dell’appartamento di Annecy, di fronte al cimitero. Comincia dalla porta, ripercorre metodicamente le pareti. Gli oggetti che emergono nella memoria sono sempre associati a un gesto, un episodio, nella camera della colonia estiva lo specchio sopra il lavandino sul quale altri educatori avevano scritto, con il suo dentifricio rosso Émail Diamant, «viva le puttane», la lampada blu nella stanza di Roma che le dava la scossa ogni volta che l’accendeva. In quelle camere non riesce mai a percepire se stessa con la nitidezza di una foto, ma si vede in modo confuso – come un film su un canale criptato, una sagoma, una pettinatura, dei movimenti – affacciarsi alla finestra, lavarsi i capelli, seduta a una scrivania o sdraiata su un letto, talvolta giunge a risentirsi nel suo corpo di un tempo, ma non come accade nei sogni, piuttosto come in una sorta di corpo glorioso, quello della religione cattolica, chiamato a risuscitare dopo la morte senza provare né dolore né piacere, né freddo né caldo o bisogno di urinare. Non sa che cosa stia cercando in quegli inventari, forse, a furia di accumulare ricordi di oggetti, vuole ridiventare ciò che era stata.


      Vorrebbe unificare la molteplicità di quelle immagini di sé, separate, non accordate tra loro, tramite il filo di un racconto, quello della sua esistenza, dalla nascita durante la Seconda guerra mondiale fino a oggi. L’esistenza di un singolo individuo, dunque, ma allo stesso tempo fusa nel movimento di una generazione. All’atto di cominciare incappa sempre negli stessi problemi: in che modo rappresentare sia il fluire del tempo storico, il cambiamento delle cose, delle idee, dei costumi, sia l’intimità di quella donna, come far coincidere l’affresco di quarantacinque anni e la ricerca di un io fuori dalla Storia, quello dei momenti sospesi su cui scriveva poesie a vent’anni, Solitudine, eccetera. La sua principale preoccupazione è scegliere tra «io» e «lei». C’è nell’«io» troppa continuità, un che di ristretto e soffocante, nel «lei» troppa esteriorità, troppa distanza. L’immagine che ha di questo suo libro che non esiste ancora, l’impressione che dovrebbe lasciare, è quella che ha conservato dalla lettura di Via col vento a dodici anni, poi di Alla ricerca del tempo perduto, recentemente di Vita e destino, una colata di luce e ombra su dei volti. Ma non ha trovato gli strumenti per riuscirci. Spera, se non in una rivelazione, almeno in un segno, fornito dal caso, come la madeleine inzuppata nel tè per Marcel Proust.


      Più che questo libro, il futuro è il prossimo uomo che la farà sognare, comprare dei vestiti nuovi, attendere, una lettera, una telefonata, un messaggio in segreteria.


          


           


            


      


      


      


      L’eccitazione per gli avvenimenti nel mondo era venuta meno. L’inatteso stancava. Eravamo trascinati da qualcosa di impalpabile. Lo spazio dell’esperienza perdeva i suoi contorni familiari. Nell’accumularsi degli anni si sbiadivano fino a cancellarsi proprio quelli che avevamo usato come punti di riferimento, il ’68 e l’81. La nuova cesura era la caduta del Muro, si diceva l’evento senza bisogno di specificare la data. Non fissava la fine della Storia, ma solo di quella che si poteva raccontare.


      I Paesi dell’Est e dell’Europa centrale – fino ad allora assenti dal nostro immaginario geografico – sembravano moltiplicarsi, si dividevano in «etnie», termine che li distingueva da noi e dalle popolazioni serie veicolando un’arretratezza di cui la rinascita delle religioni e dell’intolleranza costituivano la prova.


      La Jugoslavia era a ferro e fuoco, i proiettili di cecchini invisibili striavano le strade. Ma per quanto le granate ammazzassero a caso i passanti e riducessero in polvere ponti millenari, per quanto gli ex nouveaux philosophes redarguissero e si affannassero a ripetere che «Sarajevo è solo a due ore da Parigi» per tener desto un sentimento di vergogna, eravamo vinti dalla fatica, avevamo dato troppo a livello emotivo durante la guerra del Golfo, e a sproposito. La coscienza si riplasmava. Ce l’avevamo con i croati, i kossovari eccetera, che si uccidevano tra loro come selvaggi invece di prendere noi a modello. Non ci sentivamo parte della stessa Europa.


      L’Algeria era un bagno di sangue. Nei volti coperti dei membri del Gruppo islamico armato vedevamo quelli del Fronte di liberazione nazionale. Neanche gli algerini avevano fatto buon uso della loro libertà, ma era passato tanto tempo ed era come se a partire dall’indipendenza avessimo deciso una volta per tutte di non pensarci più. Avevamo ancora meno voglia di interessarci a ciò che succedeva in Ruanda, non sapendo distinguere chi fossero i buoni e chi i cattivi tra gli hutu e i tutsi. Da sempre pensare all’Africa riempiva di torpore. Si conveniva tacitamente sul fatto che fosse collocata in un tempo anteriore al nostro, dalle usanze barbare, con dittatori sanguinari che compravano castelli in Francia. I suoi mali sembravano destinati a non aver mai fine. Era il continente dello scoraggiamento.


          


      


      Votare a favore o contro Maastricht era un gesto astratto che ci stavamo quasi dimenticando di compiere, anche a dispetto delle esortazioni al voto di un gruppo di pressione, le cosiddette «personalità», che non capivamo perché dovesse essere più avveduto di noi sulla questione. Era diventata un’abitudine che le persone in vista dettassero cosa conveniva fare e pensare. La destra avrebbe senz’altro sconfitto la sinistra alle legislative di marzo per dare inizio a una nuova coabitazione con Mitterrand, ormai un vecchio esausto dagli occhi infossati troppo brillanti, dalla voce monocorde, una salma seduta di capo di Stato. Le confessioni sul cancro e la figlia segreta chiamavano a non vedere più in lui l’uomo politico ma soltanto l’incarnazione terribile del «tempo che resta», costringendoci di conseguenza a chiudere un occhio sui suoi astuti maneggi e sui compromessi a cui era sceso. Quando il suo ex primo ministro Pierre Bérégovoy si sparava un proiettile in testa sulle rive della Loira, lui trovava la forza di accusare i giornalisti d’essere dei «cani», ma sapevamo bene che il piccolo russo non si era suicidato a causa di un chiacchierato appartamento ma perché aveva tradito per denaro le proprie origini e i propri ideali sottoponendosi servile a ogni umiliazione.


           


      


      L’anomia regnava. Il linguaggio si scollava dalla realtà come un segno di distinzione intellettuale. Competitività, precarietà, occupabilità, flessibilità andavano per la maggiore. Vivevamo in discorsi ripuliti. Li ascoltavamo appena, il telecomando aveva accorciato la durata della noia.


      La rappresentazione della società si atomizzava in «soggetti» definiti innanzitutto secondo criteri sessuali. Lo scambismo, i transessuali, l’incesto, la pedofilia e i seni nudi in spiaggia mettevano sotto gli occhi delle persone fatti e comportamenti di cui esse non avevano quasi mai un’esperienza personale e che, chiamate a dichiararsi favorevoli o contrarie, supponevano essere diffusi dappertutto, se non addirittura la norma condivisa. Le confidenze travalicavano i confini delle rubriche della posta del cuore o delle trasmissioni radiofoniche notturne come Allô Macha, e cessavano di essere intime testimonianze anonime per incarnarsi in corpi reali, in volti in primo piano dai quali non riuscivamo a staccare gli occhi, sbigottiti dal fatto che tanti individui osassero raccontare le loro vicende private a migliaia di spettatori, felici di scoprire tutte quelle cose sulle vite degli altri. La realtà sociale era un flebile sottofondo coperto dall’euforia della pubblicità, dai sondaggi, dall’andamento della Borsa, «l’economia riparte con il piede giusto».


           


      


      Respinti per quanto possibile dalle leggi del ministro Pasqua, ammassati all’hotel Arcade di Roissy, arrivavano inesorabili i «clandestini», minaccioso appellativo che comprendeva chiunque venisse dal terzo mondo e dall’ex blocco dell’Est. Ci si era dimenticati dei vari slogan, «non toccare il mio amico», «immigrazione, ricchezza di Francia». Adesso bisognava «lottare contro l’immigrazione selvaggia», «preservare la coesione nazionale». La frase di Michel Rocard sulla miseria del mondo circolava come se si trattasse di una verità autoevidente di cui la maggior parte capiva l’indicibile sottinteso, ossia che di immigrati ce n’erano già ben più che abbastanza.


      Tra le idee che si volevano negare c’era quella di essere entrati nella società dell’immigrazione. Per anni le persone avevano continuato a credere che le famiglie dell’Africa nera e del Maghreb stipate ai confini delle città fossero solo di passaggio, che sarebbero ripartite un giorno per il posto da cui erano venute assieme alle loro nidiate, lasciandosi alle spalle una scia d’esotismo e di rimpianti, come le colonie perdute. Ora si sapeva che sarebbero rimaste. La «terza generazione» appariva a tutti gli effetti come una nuova ondata migratoria, un’immigrazione interna che gonfiava le città, le circondava, sovraccaricava le scuole dell’hinterland, gli uffici di collocamento, i vagoni della RER della periferia a nord di Parigi e gli Champs-Élysées il 31 dicembre. Una popolazione pericolosa di cui si voleva ignorare l’esistenza e che però si teneva sempre sott’occhio. Ci indispettiva che il nostro immaginario fosse rivolto altrove, a cause lontane, all’Algeria o alla Palestina. Ufficialmente venivano chiamati «i figli dell’immigrazione», nel linguaggio corrente si diceva gli arabi e i neri, oppure, in maniera più virtuosa, i beurs o i blacks. Informatici, segretarie o vigili urbani, in segreto si riteneva assurdo che si definissero francesi, quasi fosse un titolo d’onore usurpato al quale non avevano ancora diritto.


          


           


           


      


      


      


      I centri commerciali diventavano più grandi e si moltiplicavano persino nelle campagne, adesso costellate da quei parallelepipedi di cemento fitti di pannelli leggibili fin dall’autostrada. Luoghi di puro consumo in cui l’atto dell’acquisto si eseguiva in maniera asettica, blocchi di costruzioni alla sovietica contenenti ciascuno, in quantità mostruosa, la totalità degli oggetti disponibili di una stessa tipologia, scarpe, indumenti, bricolage, e un McDonald’s come ricompensa per i bambini. L’ipermercato accanto dispiegava i suoi duemila metri quadri di alimentari e di prodotti declinati in una decina di marche per ogni categoria. Fare la spesa richiedeva più tempo, implicava più complicazioni, soprattutto per coloro che potevano contare soltanto sul salario minimo. L’opulenza occidentale si metteva in mostra per essere vista e toccata in corridoi paralleli di merci. All’altezza della corsia centrale lo sguardo si perdeva, ma raramente alzavamo la testa.


      Era un luogo di emozioni rapide e sempre nuove, di curiosità, perplessità, sorpresa, voglia, disgusto – di veloci conflitti tra le pulsioni e la ragione. Durante la settimana era la meta di un’escursione pomeridiana, un’occasione per uscire a disposizione delle coppie di pensionati che andavano a riempire senza fretta il loro carrello. Il sabato vi si riversavano famiglie intere a godere indolenti della prossimità degli oggetti del desiderio.


      La vita gravitava sempre più intorno all’acquisto delle cose – di cui poi si diceva di «non poter più fare a meno» – effettuato, a seconda dei giorni, con piacere o affanno, spensierati o nervosi. Ascoltando l’ultima canzone di Souchon, Foule sentimentale, era come se contemplassimo noi stessi con lo sguardo di qualcuno che sarebbe vissuto cent’anni dopo, e avevamo l’impressione malinconica di essere determinati dall’esterno in ogni nostro desiderio.


      Eppure eravamo riluttanti ad acquistare un nuovo apparecchio, «finora ho vissuto benissimo senza», del quale bisognava darsi la pena di leggere le istruzioni, imparare i comandi. Finivamo per sottoporci a quello sforzo sotto le insistenze degli altri che ne vantavano i meriti, «vedrai, ti cambierà la vita», come un prezzo da sopportare per godere di una dose maggiore di libertà e gioia. Il primo utilizzo intimidiva, poi arrivavano sensazioni nuove subito dimenticate nell’abitudine: il turbamento provocato dai messaggi sulla segreteria telefonica, voci che potevano essere archiviate e riascoltate decine di volte, lo stordimento nel veder comparire sul foglio bianco del fax parole d’amore appena scritte, quella strana presenza degli esseri assenti, tanto forte da suscitare un senso di colpa quando non alzavamo la cornetta e lasciavamo scattare il messaggio registrato, pietrificati dall’insensata paura di essere sentiti se avessimo fatto rumore.


      Nonostante si proclamasse che tutti, prima o poi, si sarebbero «dati all’informatica», non avevamo intenzione di prendere un computer. Il primo oggetto di fronte al quale ci sentivamo inferiori. Ne lasciavamo il dominio agli altri, invidiandoli.


           


          


            


      


      


      


      Di tutte le paure repertoriate, quella dell’AIDS era la più forte. I volti emaciati e trasfigurati dei malati celebri, da Hervé Guibert a Freddie Mercury – talmente più bello nel suo ultimo video rispetto a prima, con quei denti da coniglio –, manifestavano il carattere soprannaturale del «flagello», primo segno di una maledizione lanciata sul finire del millennio, un giudizio universale. Ci si teneva a distanza dai sieropositivi – tre milioni sul pianeta – e lo Stato si sforzava di convincerci, con le pubblicità progresso, a non considerarli come appestati. La vergogna dell’AIDS ne sostituiva un’altra, dimenticata, quella della ragazza madre. Il solo sospetto di essere stati contagiati equivaleva a una condanna, Isabelle Adjani ha l’AIDS? Anche solo fare il test suscitava diffidenza, la confessione di una colpa indicibile. Lo si faceva di nascosto all’ospedale, anonimi, senza guardare i vicini nella sala d’attesa. Solo chi era stato contagiato dieci anni prima da una trasfusione aveva diritto alla pietà, si tentava di esorcizzare la paura del sangue altrui applaudendo alla notizia che alcuni ministri e un medico erano stati citati in giudizio con l’accusa di «avvelenamento». Ma, a conti fatti, ci si adattava, si prendeva l’abitudine di tenere nella borsa un preservativo. Al momento buono lo lasciavamo dov’era, la sola idea di tirarlo fuori sembrava d’un tratto inutile, un insulto al partner – salvo poi pentircene subito dopo, e andare a fare il test, vivendo l’attesa del risultato con la certezza che saremmo morti. Quando scoprivamo di no, esistere, camminare per la strada era di una bellezza e di una ricchezza senza nome. Proprio nell’epoca in cui era imperativo godere in tutti i modi, la libertà sessuale ritornava a essere impraticabile.


      Di notte gli adolescenti interagivano con Doc e Difool su Fun Radio, vivevano il sesso custodendo i loro segreti.


          


      


      C’erano tanti disoccupati in Francia quanti sieropositivi sull’intero pianeta. Nelle chiese, sulle suppliche ai piedi delle statue c’era scritto «fa’ trovare un lavoro a mio padre». Tutti reclamavano la fine della disoccupazione, un altro «flagello», ma non ci credeva nessuno, era diventata una speranza irrazionale, un ideale che non si sarebbe più realizzato in questo mondo. Immortalati da strette di mano come quella tra Arafat ed Ehud Barak, si susseguivano i segnali «forti» (di pace, di ripresa economica, di aumento dei posti di lavoro). Che fossero veri o falsi interessava poco. Nulla valeva la tranquillità, la sera, dopo aver sgomitato per salire per primi sul vagone affollato della RER, essersi fatti largo per arrivare il più vicino possibile ai sedili del corridoio centrale e aver aspettato in piedi per tre stazioni, di potersi finalmente sedere e chiudere gli occhi – o fare le parole crociate.


            


      


      Nel sollievo generale era stata trovata un’attività inutile per i senzatetto, vendere Le Réverbère, La Rue, giornali dal contenuto tanto stantio quanto gli abiti del venditore, li gettavamo senza leggerli. Un simulacro di occupazione che permetteva di fare la cernita tra i clochard buoni, desiderosi di lavorare, e gli altri, accasciati a smaltire una sbornia infinita sulle panchine della metropolitana o su un marciapiede accanto al loro cane. L’estate migravano verso sud. I sindaci proibivano di sdraiarsi nelle strade pedonali destinate al buon funzionamento del commercio. Molti morivano di freddo d’inverno, di caldo l’estate.


          


            


            


      


      


      


      Arrivavano le elezioni presidenziali, non ci avrebbero stravolto la vita (collettiva, e in assoluto), Mitterrand aveva logorato la speranza. Il solo che ci sarebbe piaciuto era Jacques Delors, se non avesse rinunciato dopo averci tenuto sulla corda. Non si trattava più di un evento, era un intermezzo ludico, uno spettacolo di cui gli attori più riproposti dalla televisione erano tre figure piuttosto mediocri, due tristi – l’impettito Balladur e l’imbronciato Jospin – e uno stravagante esagitato, Chirac, come se la solennità e la gravità delle elezioni fossero scomparse insieme a Mitterrand. In seguito, più che dei candidati e dei loro discorsi, ci saremmo ricordati dei burattini che li parodiavano tutte le sere su Canal+ – Jospin come un innocuo pupazzo nella sua macchinina lungo i tornanti di un paese incantato, Chirac come l’Abbé Pierre nel suo saio di lana, Sarkozy nelle vesti dell’astuto traditore, piegato in due dalla deferenza davanti a un gozzuto Balladur, Robert Hue con la sua borsa a tracolla degli anni Settanta che i ragazzi trattavano da buffone – e dello sketch in cui i Guignols de l’info si scatenavano sulle note del successo del momento, The Rhythm of the Night. Non confidavamo in niente, ma quando abbiamo intuito dalle facce soddisfatte dei giornalisti che Chirac era stato eletto, quando abbiamo visto i giovani vestiti eleganti e le signore dei quartieri bene urlare di gioia, abbiamo capito che il momento buono era finito. C’era un sole che pareva di essere in piena estate, le famiglie si attardavano nei bar all’aperto, l’indomani non bisognava andare a lavorare. Sembrava quasi che le elezioni non ci fossero neanche state.


      Sentendo parlare Chirac bisognava fare uno sforzo per convincersi che fosse davvero il presidente, ci si doveva disabituare a Mitterrand. La successione dei singoli anni di cui lui era il fondale d’epoca si coagulava in un unico blocco. Ne erano passati quattordici, non volevamo essere invecchiati così tanto. I giovani questi calcoli non li facevano e non si emozionavano. Mitterrand era il loro de Gaulle, erano cresciuti con lui. Quattordici anni, bastavano e avanzavano.


          


           


           


      


      


      


      A metà degli anni Novanta, alla tavola dove si era riusciti a riunire una domenica a pranzo i figli quasi trentenni con amici e amiche che già non erano gli stessi dell’anno precedente – solo di passaggio in una cerchia famigliare dalla quale erano usciti come erano entrati – davanti a un cosciotto d’agnello – o a un qualunque altro piatto che sapevamo che per conto loro non mangiavano, per mancanza di tempo, soldi o capacità – e a una bottiglia di saint-julien o di chassagne-montrachet – per educare il palato di quei bevitori di birra e Coca-Cola – il passato lasciava indifferenti. La conversazione, dominata dalle voci maschili, aveva come argomento più solenne le prestazioni dei loro computer, si confrontavano i PC e i Mac, le «memorie» e i «programmi». Attendevamo, bonari, che la finissero con il loro scoraggiante linguaggio iniziatico pieno di neologismi, che non avevamo voglia di farci spiegare, e che tornassero a chiacchierare di faccende comuni. Parlavano dell’ultimo numero di Charlie Hebdo, dell’ultima puntata di Arrêt sur images, della serie X-Files, citavano film americani e giapponesi, ci consigliavano di andare a vedere Il cameraman e l’assassino e raccontavano con entusiasmo la prima scena de Le iene, prendevano affettuosamente in giro i nostri gusti musicali, impresentabili, e proponevano di passarci l’ultimo disco di Arthur H. Commentavano l’attualità con la derisione dei Guignols di Canal+, la loro quotidiana fonte d’informazione insieme a Libé, rifiutavano di impietosirsi di fronte alle disgrazie individuali con un definitivo «a ciascuno i suoi casini». Tenevano il mondo a distanza su un registro ironico. Le loro battute pronte, la velocità e la scioltezza delle loro repliche ci affascinavano e ci mortificavano, temevamo di sembrare lenti e pesanti. Stando con loro facevamo scorta delle parole che circolavano tra i giovani, rinnovavamo il nostro repertorio. Ce ne spiegavano l’uso corretto, permettendoci di poter integrare nel nostro vocabolario «smanettone» e «sclerare», e di partecipare alla loro stessa enunciazione delle cose.


      Nutrendoli di rado, li osservavamo con soddisfazione mentre mangiavano e chiedevano il bis di ogni portata. Più tardi, al momento delle bollicine, passavano in rassegna ricordi di trasmissioni televisive, prodotti, pubblicità e mode dei tempi della loro infanzia e adolescenza, lunghe elencazioni dove trovavano posto i passamontagna di lana, le toppe sulle ginocchia dei pantaloni, carne bovina in gelatina, le scope elettriche, le crostatine della LU, La corsa più pazza del mondo, il cartone di Kiri il Clown, Zegut lo zio del rock, la sigla di Stanlio e Ollio eccetera. Facevano a gara di citazioni, fomentandosi in quella rievocazione di oggetti di un passato comune, una memoria inesauribile e futile che li faceva sembrare dei ragazzini.


      La luce del pomeriggio era cambiata. Le ondate di eccitazione dopo il pasto si facevano più rade. Ragionevolmente, la proposta di una partita a Scarabeo, fonte certa di litigi, veniva scartata. Nell’odore del caffè e delle sigarette – le canne si fumavano di nascosto – sentivamo tutta la dolcezza di un rito che in passato ci era risultato così pesante da volerlo fuggire per sempre, ma di cui, in quella domenica di primavera del 1995, dopo la rottura coniugale, la morte dei nonni, la dispersione generale, assicuravamo la continuità con una tovaglia bianca, l’argenteria e un pezzo di carne scelta. E osservando, ascoltando quei bambini diventati adulti, ci domandavamo cosa fosse a legarci, non il sangue né i geni, solo un presente fatto di migliaia di giorni insieme, di parole e di gesti, di pasti, di tragitti in auto, di esperienze condivise che avevano lasciato dentro di noi una traccia senza che nemmeno ce ne rendessimo conto.


      Al momento di andarsene ci baciavano quattro volte sulle guance. La sera ci ricordavamo del piacere che avevano avuto nel mangiare da noi assieme ai loro amici – felici di aver potuto ancora provvedere al più antico e fondamentale dei bisogni, il cibo. Provavamo per loro una profonda inquietudine, resa ancora più intensa dalla convinzione che noi alla loro età fossimo più forti. Li sentivamo fragili in un futuro informe.


          


           


           


      


      


      


      Nella calura di fine luglio apprendevamo che una bomba era esplosa alla stazione Saint-Michel, con Chirac stavano tornando gli attentati, e con essi il riflesso di telefonare subito ai propri cari, persuasi che, tra tutti i posti possibili, fosse proprio lì, su quella linea e quel vagone della RER B, che il caso aveva voluto che si trovassero in quel preciso istante. C’erano morti e feriti, gambe maciullate. Ma si stava per partire per le vacanze di agosto, non avevamo voglia di angosciarci. Camminavamo nei corridoi della metropolitana accompagnati da una voce che ci ingiungeva di segnalare borse e pacchi abbandonati. Ognuno, in cuor suo, affidava il proprio destino alle misure di sicurezza.


      Qualche settimana più tardi, quando l’attentato di Saint-Michel era ormai scivolato via dalla memoria, venivano sventate le esplosioni di una strana combinazione di pentole a pressione, chiodi e bombole del gas, seguivamo come in un film l’inseguimento di un giovane della periferia di Lione, «il misterioso Kelkal», e lo vedevamo morire sotto i proiettili della polizia prima che potesse dire una parola. Per la prima volta l’ora legale continuava fino alla fine di ottobre. Era un autunno di luce e di calore. Chi, esclusi i parenti delle vittime, i superstiti, si ricordava dei morti di Saint-Michel, il cui nome non era scritto da nessuna parte – probabilmente per non spaventare i passeggeri già abbastanza stressati per i ritardi «dovuti a un problema tecnico», per un «incidente grave occorso a un passeggero» –, morti dimenticati più in fretta di quelli della rue de Rennes di nove anni prima, e di quelli persino precedenti della rue des Rosiers? I fatti si eclissavano ancor prima di diventare narrazione.


      Cresceva l’impassibilità.


           


            


            


      


      


      


      In televisione il mondo della merce, degli spot pubblicitari, e quello di discorsi politici coesistevano senza incontrarsi. Nell’uno regnavano la facilità e gli inviti al piacere, nell’altro i sacrifici e le costrizioni, le formule via via più minacciose, «la globalizzazione del commercio», «la necessità di modernizzarsi». Ci avevamo messo del tempo per tradurre in immagini della vita quotidiana le misure liberiste del piano Juppé e capire che ci stavano fregando, ma ne avevamo abbastanza della maniera altezzosa e condiscendente con cui ci rimproveravano di non essere «pragmatici». Le pensioni e l’assistenza sanitaria erano doveri dello Stato, gli ultimi rimasti, una sorta di irrinunciabile punto fisso.


      I ferrovieri e i postini sospendevano il lavoro, e con loro gli insegnanti e tutti i dipendenti pubblici. Ingorghi inestricabili costellavano Parigi e le grandi città, c’era chi per muoversi si comprava una bicicletta, i più camminavano in lunghe colonne frettolose nel freddo delle sere di dicembre. Era uno sciopero di inverno e di adulti, scuro e calmo, senza violenza né esaltazione. Ritrovavamo il tempo sfasato delle grandi serrate, con il ritardo erto a norma comune, il doversi arrangiare, fare programmi provvisori. Nei corpi e nei gesti riviveva una certa mitologia, camminare con ostinazione per Parigi senza autobus né metropolitana era un atto di memoria. Alla Gare de Lyon la voce di Pierre Bour­dieu tracciava collegamenti tra il ’68 e il ’95. Tornavamo a credere, infervorati da parole nuove e pacate, «un altro mondo è possibile», «fare l’Europa Sociale». Le persone ripetevano di non essersi parlate così da anni, se ne meravigliavano. Lo sciopero era parola, più che azione. Juppé ritirava il suo piano. Arrivava Natale. Bisognava tornare a se stessi e ai regali, alla pazienza. Le giornate di dicembre si interrompevano, non giungevano a farsi narrazione. Restava solo l’immagine di una fiumana di persone ad arrancare nell’oscurità della sera. Non sapevamo se si trattasse dell’ultimo grande sciopero del secolo o dell’inizio di un risveglio. Per noi era qualcosa che cominciava, ci ricordavamo dei versi di Éluard, erano in pochi / su tutta la terra / ognuno si credeva solo / furono folla a un tratto.


          


      


      Tra ciò che non è ancora e quello che è, la coscienza resta vuota un breve istante. Guardavamo senza comprendere l’enorme titolo sulla prima pagina di Le Monde, FRANÇOIS MITTERRAND È MORTO. Come a dicembre, in place de la Bastille, la sera tornava ad assembrarsi la folla. Avevamo ancora bisogno di restare insieme e ci sentivamo soli. Ci tornava in mente che la sera del 10 maggio 1981, nel municipio di Château-Chinon, Mitterrand, nell’apprendere di essere appena stato eletto presidente della Repubblica, aveva mormorato «che storia».


          


           


            


      


      


      


      Avevamo i nervi a fior di pelle. Ondate di paura, indignazione, allegria increspavano il consueto corso dei giorni. Non si mangiava più carne per via della «mucca pazza» che sembrava dovesse uccidere migliaia di persone nel decennio a venire. L’immagine di un’ascia che sfondava la porta della chiesa in cui si erano rifugiati dei sans-papiers creava scandalo. Un improvviso sentimento d’ingiustizia misto a vampate d’affetto e sussulti della coscienza faceva scendere in strada le persone. Centomila manifestanti sfilavano gioiosamente contro la legge Debré che progettava di facilitare l’espulsione degli stranieri, sfoggiavano sugli zaini spillette con una valigia nera e la scritta «chi è il prossimo?», rientrati a casa le riponevano in un cassetto come souvenir. Firmavamo petizioni di cui dimenticavamo tanto le cause quanto il fatto stesso di averle firmate, chi fosse quell’Abu-Jamal non avremmo più saputo dirlo. Ci si stufava dall’oggi al domani. L’entusiasmo si alternava all’apatia, la protesta al consenso. La parola «lotta» era stata screditata, quasi puzzasse di un marxismo ormai messo in ridicolo, il termine «difesa» designava innanzitutto quella dei consumatori.


          


      


      Alcuni sentimenti, come il patriottismo e l’onore, cadevano in disuso, non li provavamo più, sembravano assurdi, riservati a tempi meno evoluti e a popolazioni più ingenue. La vergogna – si invocavano gogne su ogni fronte – era diversa da quella di un tempo, ridotta a una vessazione provvisoria, a una ferita momentanea dell’ego. Il rispetto, prima di tutto un’esigenza di riconoscimento di quello stesso ego da parte degli altri. Espressioni come «di buon cuore» e «brave persone» non si sentivano più. Alla fierezza di ciò che si faceva si sostituiva quella di ciò che si era, donna, gay, di provincia, ebreo, arabo eccetera.


      La sensazione più incoraggiata era quella di una pericolosità diffusa che aveva come protagonisti indistinti il «rumeno», il «teppista» delle periferie, lo scippatore di borsette, il violentatore e il pedofilo, il terrorista dalla carnagione scura, e come spazio d’azione i corridoi della metropolitana, la Gare du Nord, il dipartimento della Senna-Saint-Denis – una sensazione che le trasmissioni di TF1 e di M6, gli annunci degli altoparlanti, «fate attenzione ai vostri effetti personali», «siete pregati di segnalare ogni oggetto abbandonato», accreditavano come determinata da una realtà effettiva: l’insicurezza.


           


      


      Non esisteva un nome preciso per quell’impressione di trovarsi al contempo nella stagnazione e nel cambiamento. Nell’incapacità di comprendere ciò che succedeva, una parola cominciava a passare di bocca in bocca, i «valori» – senza precisare quali –, una sorta di generico biasimo nei confronti dei giovani, dell’educazione, della pornografia, del progetto dei PACS, della cannabis e dei sempre più frequenti errori di ortografia. Altre voci si alzavano per farsi beffe di quel «nuovo ordine morale», del «politicamente corretto», del «prêt-à-penser», tessevano le lodi della trasgressione e applaudivano il cinismo di Houellebecq. Negli studi televisivi i diversi linguaggi cozzavano tra loro senza troppi clamori.


      Si attingeva sbocconcellando a una girandola di spiegazioni dell’io, da Mireille Dumas a Delarue, dalle riviste femminili al mensile Psychologies, un sapere che non insegnava granché ma che autorizzava ciascuno a addossare responsabilità sul conto dei propri genitori, che consolava permettendo di confondere il proprio vissuto con quello degli altri.


           


      


      In virtù del fatto che Chirac si toglieva lo sfizio di sciogliere l’Assemblea nazionale, la sinistra vinceva le elezioni e Jospin diventava primo ministro. Si rimediava alla delusione di quella sera del maggio ’95, era il ritorno al minore dei mali e a provvedimenti che avevano il sapore della libertà e dell’uguaglianza, della generosità, in sintonia con il nostro desiderio d’avere diritto, tutti, alle cose buone dell’esistenza, alla salute grazie alla CMU, la Copertura medica universale, a più tempo per sé grazie alle trentacinque ore di lavoro, anche se tutto il resto rimaneva come prima. Non saremmo entrati nel nuovo millennio governati dalla destra.


          


           


           


      


      


      


      La logica mercantile si faceva via via più pressante, imponeva un ritmo frenetico. I prodotti muniti di codici a barre passavano dal nastro trasportatore al carrello con un bip discreto che in un secondo faceva sparire il costo della transazione. Gli articoli di cartoleria per l’inizio della scuola comparivano sugli scaffali prima ancora che i bambini andassero in vacanza, i giocattoli di Natale all’indomani di Ognissanti, i costumi da bagno a febbraio. Il tempo delle cose ci risucchiava, ci costringeva a vivere sempre con due mesi d’anticipo. Le persone accorrevano alle «aperture straordinarie» della domenica, a quelle «prolungate» fino alle undici di sera, il primo giorno di saldi costituiva un avvenimento che rimbalzava sui media. «Fare un affare», «approfittare delle promozioni» erano principi indiscutibili, un obbligo. Il centro commerciale, con il suo ipermercato e le sue gallerie di negozi, diventava il luogo principe dell’esistenza, quello della contemplazione inesauribile degli oggetti, del godimento calmo, senza violenza, protetto da guardie giurate dai muscoli forti. I nonni vi accompagnavano i nipoti per vedere capre e galline esposte nelle loro lettiere inodori sotto la luce artificiale, attrazioni che sarebbero state rimpiazzate il giorno dopo da specialità bretoni o da collane e statuette in serie di una cosiddetta «arte africana», tutto ciò che restava della storia coloniale. Per gli adolescenti – soprattutto quelli che non potevano contare su nessun altro strumento di distinzione sociale – il valore personale era stabilito dai vestiti, dalle marche, L’Oréal perché io valgo. E noi, accigliati detrattori della società dei consumi, cedevamo alla tentazione di un paio di stivali che, come un tempo i primi occhiali da sole, la minigonna, i pantaloni a zampa d’elefante, davano la breve illusione di sentirsi una creatura nuova. Più che il possesso, era quella sensazione che le persone cercavano tra i bancali di Zara e di H&M, una sensazione procurata, immediatamente e senza sforzo, dall’acquisto delle cose: un supplemento dell’essere.


           


      


      E non invecchiavamo. Nessuna delle cose che avevamo attorno durava abbastanza per diventare vecchia, sostituita in fretta e furia dal modello più recente. La memoria non aveva il tempo di associare gli oggetti a delle fasi dell’esistenza.


           


      


      Di tutte le novità il «telefono cellulare» era la più miracolosa, la più sconcertante. Non avremmo mai immaginato che un giorno ci saremmo trovati a passeggiare con un telefono in tasca e a fare chiamate in qualunque posto e in qualunque momento. Ci faceva specie che le persone parlassero da sole per la strada, con il telefono all’orecchio. La prima volta che dalla borsa sentivamo squillare la suoneria mentre ci trovavamo su un treno, in metropolitana, o alla cassa di un supermercato, sobbalzavamo, cercavamo febbrilmente il tastino verde con una specie di vergogna, di disagio, il nostro corpo di colpo portato al centro dell’attenzione degli altri, e rispondevamo pronto, sì, e altre parole non destinate a chi ci stava attorno. D’altro canto, quando di fianco a noi si alzava la voce di uno sconosciuto che rispondeva a una chiamata, ci infastidiva essere schiavi di qualcuno che considerava nulla la nostra esistenza e ci infliggeva l’insignificanza del quotidiano, la banalità di preoccupazioni e desideri che fino ad allora erano rimasti confinati nelle cabine telefoniche o negli appartamenti.


           


      


      Il vero coraggio tecnologico consisteva nel tentare di «capirci qualcosa» di computer, chi ci trafficava godeva di un’intelligenza diversa, nuova, di un accesso di grado superiore alla modernità. Si trattava di un oggetto imperioso che esigeva riflessi rapidi, gesti della mano di una precisione inusuale, e proponeva in un inglese incomprensibile tutta una serie di «opzioni» tra le quali bisognava scegliere senza indugi – un oggetto implacabile e malefico che ci nascondeva, andandola ad archiviare nei suoi anfratti più reconditi, la lettera che avevamo appena scritto e ci faceva sentire costantemente persi, spaesati. Un oggetto che umiliava. Contro il quale ci si esasperava, «e adesso cosa gli prende?!». Di quello smarrimento ce ne si sarebbe presto dimenticati. Compravamo un modem per avere internet e un indirizzo di posta elettronica, ammirati e stupiti di poter «navigare» in tutto il mondo su AltaVista.


          


      


      C’era nei nuovi oggetti una violenza nei confronti del corpo e dello spirito che l’uso cancellava in fretta. Diventavano leggeri. (Come al solito i bambini e gli adolescenti li utilizzavano senza esitazioni, con facilità.)


           


      


      La macchina da scrivere, il suo ticchettio e i suoi accessori, il bianchetto, i trasferibili e la carta carbone ci sembravano ormai appartenere a un’epoca lontana, impensabile. Eppure, nel tornare con la mente a qualche anno prima, quando ci ripensavamo in un bar nell’atto di chiamare chicchessia dal telefono di fianco alla toilette, di scrivere una lettera a P. battendola su un’Olivetti, dovevamo riconoscere che l’assenza del cellulare e della mail non avevano alcun peso sulla felicità o sulla sofferenza.


          


           


            


      


      


      


      Sullo sfondo di un pallido cielo azzurro e di una spiaggia sabbiosa quasi deserta, striata da solchi come un campo arato, si staglia un piccolo gruppo compatto di due uomini e due donne, i quattro volti, vicini l’uno all’altro, sono tagliati a metà dalla luce del sole che viene da sinistra. I due uomini al centro si assomigliano, entrambi sulla trentina, stessa taglia e stessa forma delle spalle, una calvizie incipiente per l’uno, avanzata per l’altro, stessa barba di qualche giorno. Quello più a destra cinge le spalle di una ragazza giovane, bassa, con le guance piene e gli occhi incorniciati dai capelli neri. All’estrema sinistra, l’altra donna, più matura ma dall’età incerta – qualche ruga sulla fronte illuminata, il fard rosa sulle guance, il contorno del viso non più sodo –, porta i capelli a caschetto, un maglione beige con un foulard annodato largo, orecchini di perle, una borsa a tracolla. Il prototipo della cittadina agiata che passa i week-end sulle coste della Normandia.


      Sulle labbra ha il sorriso dolce e distante di chi, genitore o insegnante, è fotografato in mezzo a persone più giovani (quasi a mostrare che le differenze generazionali non sono un peso).


      Tutti e quattro sono rivolti verso l’obiettivo, i corpi e i volti fissati nella postura tipica delle origini della fotografia, per attestare di essere stati lì insieme, nello stesso luogo e nello stesso giorno, con lo stesso unico desiderio di «stare bene». Sul retro, Trouville, marzo 1999.


          


      


      La donna con il fard è lei, i due trentenni sono i suoi figli, la giovane è la ragazza del fratello maggiore, quella del minore sta scattando la foto. Grazie allo stipendio da insegnante e agli aumenti ottenuti per gli «avanzamenti di ruolo» può permettersi di offrire a tutti, ogni tanto, un week-end al mare, animata dal desiderio di continuare a essere la dispensatrice della felicità materiale dei suoi figli, compensandone così l’eventuale dolore di vivere di cui si sente responsabile per averli messi al mondo. Si è arresa all’idea che, nonostante le lauree, vivano di contratti a tempo determinato, sussidi di disoccupazione, collaborazioni occasionali, galleggiando in un puro presente fatto di musica, serie americane e videogiochi, come se perpetuassero all’infinito un’esistenza da studenti o da artisti squattrinati, in una generalizzata bohème d’altri tempi lontanissima da quel «doversi sistemare» che imperversava quando aveva la loro età. (Non sa dire quanto la loro spensieratezza sociale sia reale o simulata.)


          


      


      Stanno rientrando dopo una passeggiata alle Roches Noires, la scalinata verso il mare che porta il nome di Marguerite Duras. In quella lentezza, nella contemplazione indefinita di una deambulazione di gruppo, nell’incedere ora interrotto ora ripreso, ascoltando le voci profonde dei figli, osservandoli camminare al fianco delle loro ragazze, deve aver provato una sorta di incredulità. Com’è possibile che quei due uomini siano i suoi bambini? (L’averli portati nel ventre non le pare sufficiente come spiegazione.) Forse, senza rendersene bene conto, ha cercato di riprodurre l’esistenza dei suoi genitori, di avere davanti a sé ciò che aveva alle spalle, per godere dello stesso radicamento nel mondo. E, su quella spiaggia, le è forse tornata in mente l’esclamazione ricorrente di sua madre, che ogni volta che la vedeva camminare tra i suoi figli adolescenti se ne usciva con un «che ragazzoni!» pieno di un’ammirazione sbalordita, come se fosse assurdo che sua figlia fosse la madre di due marcantoni già più alti di lei di tutta la testa, e quasi sconveniente che nel corpo di quella che era pur sempre la sua bambina fossero cresciuti due maschi invece di due femmine.


           


      


      Di certo, trovandosi a esercitare quel ruolo di madre che ormai riveste in maniera episodica nelle cadenzate occasioni in cui è con loro sente che il solo legame materno non le basta, percepisce la necessità di avere un amante, di quel tipo di intimità che si realizza soltanto nell’atto sessuale e che le è di conforto nei suoi passeggeri conflitti con i figli. Il giovane uomo con cui trascorre gli altri week-end spesso l’annoia, passa la domenica mattina a guardare Téléfoot, ma rinunciare a lui significherebbe smettere di comunicare a qualcuno le azioni e gli incidenti insignificanti di ogni giorno, cessare di verbalizzare il quotidiano. Vorrebbe anche dire non aspettare più, guardare le mutandine di pizzo e le calze di nylon nel comò dicendosi che non servono più a niente, ascoltare Sea, Sex and Sun sentendosi esclusa da un mondo di gesti, di desiderio e di fatica, essere privata di futuro. In quel momento, se prova a immaginarsela, quella privazione le suscita un violento attaccamento a quel ragazzo, come fosse un «ultimo amore».


      Quando ci riflette sa che per quanto la riguarda l’elemento decisivo della loro relazione non è il sesso: quel ragazzo le serve a rivivere cose che pensava appartenere per sempre al passato. Quando la porta a mangiare da Jumbo, la accoglie con i Doors e fanno l’amore su un materasso posato per terra nel monolocale gelido di lui ha l’impressione di replicare scene della sua vita da studentessa, di riprodurre momenti che hanno già avuto luogo e che ora riaccadono quasi per finta. Allo stesso tempo è proprio quella ripetizione che le fa sentire reale la sua giovinezza, le prime esperienze, quelle «prime volte» che, nello stupore stordito della loro irruenza, erano rimaste prive di un senso. Non che ce l’abbiano ora, ma la reiterazione colma il vuoto e conferisce l’illusione di un adempimento. Sul diario: «Mi ha strappata dalla mia generazione. Ma non sono entrata nella sua. Non sono in nessun tempo. È l’angelo che fa rivivere il passato, che rende eterni».


      Nel dormiveglia che segue l’amore, la domenica pomeriggio, attaccata al suo corpo, cade spesso in uno stato particolare. Non sa più da dove, da quale città, provengano i rumori di auto, di passi, di voci che si sentono da fuori. Confusamente, pensa di essere nella sua stanzetta allo studentato, in una camera d’albergo – in Spagna nell’estate dell’80, a Lille con P. in inverno –, nel letto, bambina, raggomitolata accanto alla madre dormiente. Si rivive in diversi momenti della sua vita, fluttuanti uno sull’altro. Un tempo di una natura sconosciuta s’impadronisce della sua coscienza e del suo corpo, un tempo nel quale il passato e il presente si sovrappongono senza confondersi, dove le sembra di raggiungere fuggevolmente tutte le forme dell’essere che è stata. Le è già capitato di vivere questa sensazione – forse anche le droghe la provocano ma lei, che ha sempre preferito il piacere della lucidità, non ne ha mai fatto uso –, e ora la esperisce in maniera più estesa e rallentata. Le ha dato un nome, l’ha chiamata «sensazione palinsesto», anche se, a fare affidamento sulla definizione del dizionario, «manoscritto raschiato per poterci riscrivere sopra», palinsesto forse non è il termine più adatto. Vi ci vede un possibile strumento di conoscenza, non soltanto per se stessa, ma in maniera più generale, quasi scientifica – di cosa, non saprebbe dirlo. Nel suo progetto di scrittura su una donna vissuta dagli anni Quaranta a oggi, progetto che ha sempre più timore di non realizzare, fino a sentirsene in colpa, vorrebbe, forse influenzata da Proust, utilizzarla come chiave d’accesso, per il bisogno di fondare la sua impresa su un’esperienza reale.


      È una sensazione che la risucchia gradualmente lontano dalle parole e da ogni linguaggio, verso i primi anni senza ricordi e il tepore rosa della culla, che le fa attraversare una serie di stanze dentro ad altre stanze – quelle di Compleanno, il quadro di Dorothea Tanning –, cancella le sue azioni e gli eventi collettivi, abolisce tutto ciò che negli anni ha imparato, pensato, desiderato e l’ha condotta fin lì, in quel letto, con quell’uomo più giovane, è una sensazione che sopprime la sua storia. E invece quello che vorrebbe fare nel suo libro è proprio salvare tutto, tutto ciò che è stato attorno a lei, sempre, salvare le circostanze. Ma forse l’esistenza stessa di questa sensazione dipende proprio dalla Storia, dai cambiamenti nella vita delle donne e degli uomini occorsi nel tempo e che ora le permettono di esperirla trovandosi a cinquantotto anni al fianco di un uomo di ventinove senza provare nessun senso di colpa né, d’altra parte, nessun orgoglio particolare. Non è sicura che la «sensazione palinsesto» abbia una valenza euristica superiore rispetto agli altrettanto frequenti episodi in cui sente la sua esistenza, i suoi «io», prendere vita dentro i personaggi di libri e di film, quando sente di essere la donna di Sue e Claire Dolan, visti da poco, oppure Jane Eyre, o Molly Bloom – o Dalida.


          


      


      Andrà in pensione tra un anno. Si sta già sbarazzando di un po’ del materiale che le è servito a preparare le lezioni, appunti su libri e opere varie. Si sta spogliando di ciò che ha costituito l’involucro della sua vita, come per lasciare campo libero al suo progetto di scrittura, poiché non avrà più scuse per rimandarlo ancora. Facendo ordine, è capitata su una frase dell’inizio della Vita di Henry Brulard: «Sto per compiere cinquant’anni, sarebbe ora di sapere chi sono». Quando l’ha ricopiata aveva trentasette anni – nel frattempo ha raggiunto e sorpassato l’età di Stendhal.


          


          


            


      


      


      


      Si avvicinava il 2000. Non riuscivamo a credere che ci fosse stato concesso di vederlo. Ci dispiaceva per tutti coloro che erano morti prima. L’ipotesi che si sarebbe trattato di un capodanno come gli altri non era neanche presa in considerazione, e infatti era stato annunciato un «bug» informatico, una disfunzione planetaria, una specie di buco nero precursore della fine del mondo, di un ritorno alla ferocia degli istinti. Il Novecento si chiudeva alle nostre spalle a colpi di bilanci, tutto era repertoriato, classificato, valutato, le scoperte, le opere letterarie e artistiche, le guerre, le ideologie, come se si dovesse entrare nel nuovo millennio con la memoria immacolata. Un’entità temporale solenne e accusatoria, «il secolo», incombeva sulle nostre teste, ci chiedeva il conto, ci privava di ricordi che erano soltanto nostri, di ciò che non avevamo mai percepito come una totalità compatta ma piuttosto come uno scivolare di un anno dentro il successivo, tra periodi più o meno salienti a seconda dei cambiamenti occorsi nelle nostre vite. Nel secolo che si apprestava a cominciare, le persone che avevamo conosciuto nell’infanzia e che non c’erano più, genitori e nonni, sarebbero morte definitivamente.


           


      


      Gli anni Novanta che giungevano al termine non a­­ve­vano avuto alcuna valenza particolare, anni di disincanto. Considerata la situazione in Iraq – che gli Stati Uniti affamavano e tenevano sotto la costante minaccia di attacchi aerei, dove i bambini morivano per mancanza di medicine – oppure a Gaza e in Cisgiordania, in Cecenia e in Kosovo o in Algeria eccetera, tanto valeva dimenticarsi della stretta di mano a Camp David tra Arafat e Clinton, dell’annunciato «nuovo ordine mondiale» o di Eltsin sul suo carrarmato. Di fatto restava ben poco da ricordare se non le sere nebbiose del dicembre del ’95, ormai lontane, durante quello che fu forse l’ultimo dei grandi scioperi del secolo. E semmai la bella e sfortunata principessa Diana uccisa in macchina sotto il pont de l’Alma e il vestito azzurro di Monica Lewinsky macchiato dello sperma di Bill Clinton. Ma soprattutto ci si ricordava dei Mondiali di calcio. Le persone avrebbero voluto rivivere le settimane d’attesa, gli assembramenti davanti ai televisori nelle città silenziose attraversate dai pony express delle pizzerie a domicilio, un’attesa che, di partita in partita, aveva condotto a quella domenica di luglio, a quel clamoroso momento estatico in cui si sarebbe potuti morire tutti insieme dalla gioia – solo che si trattava dell’esatto contrario della morte –, completamente abbandonati in un solo desiderio, una sola immagine, un solo racconto – le giornate abbaglianti di cui i manifesti pubblicitari dell’acqua Évian e dei supermercati Leader Price con il volto di Zidane sulle pareti della metropolitana costituivano le irrisorie vestigia.


      Davanti a noi non c’era niente.


           


      


      L’ultima estate – tutto accadeva per un’ultima volta – stava per arrivare. C’era un altro motivo per ammassarsi. Per vedere la luna oscurare il sole in pieno giorno le persone sfrecciavano in macchina verso le scogliere sulla Manica, si assembravano nei parchi di Parigi. Si alzava una frescura, calava un crepuscolo. Avevamo fretta che il sole ricomparisse e allo stesso tempo avevamo voglia di restare in quella strana notte, con la sensazione di vivere a velocità accelerata l’estinzione dell’umanità. Davanti ai nostri occhi schermati da lenti scure passavano milioni di anni cosmici. I volti ciechi alzati al cielo sembravano in attesa della venuta di un dio o del cavaliere bianco dell’Apocalisse. Il sole ricompariva, si alzavano applausi. L’eclissi solare successiva sarebbe stata nel 2081, noi non l’avremmo vista.


          


      


      Eravamo passati all’anno 2000. A parte i fuochi d’artificio e un’ordinaria euforia urbana non era successo nulla di rilevante. Eravamo delusi, il previsto «bug» si era rivelato una bufala. Il vero evento aveva avuto luogo sei giorni prima, con quella che già veniva chiamata «la grande tempesta», spuntata fuori come dal nulla. In poche ore, nella notte, aveva abbattuto migliaia di piloni, raso al suolo foreste, strappato via i tetti, proseguendo la sua corsa da nord a sud e da ovest a est, limitandosi a uccidere una decina di persone che si trovavano nel posto sbagliato. Al mattino il sole si era alzato con la consueta calma su un paesaggio mutilato, con quella particolare forma di bellezza propria delle devastazioni. Era lì che cominciava il nuovo millennio. (Si faceva strada l’ipotesi di una misteriosa vendetta della natura.)


      Nulla cambiava, era solo strano dover scrivere un 2 al posto dell’1, e ogni volta che si datava un assegno o un documento si incorreva nel lapsus consueto. Nel prosieguo di un inverno mite e piovoso come i precedenti, tra il richiamo alle «direttive europee» di Bruxelles e il «boom delle startup», al posto dell’entusiasmo che ci si sarebbe aspettati aleggiava una specie di malinconia. I socialisti governavano senza che vi fosse nulla di rilevante da segnalare. Le manifestazioni erano meno partecipate. A quelle dei sans-papiers non andavamo più.


      Con qualche mese di ritardo sull’inizio del secolo, l’aereo dei ricchi, quello che nessuno del nostro ambiente aveva mai preso, si schiantava a Gonesse e scompariva dal nostro orizzonte, relegato in fretta, nella memoria, all’epoca di de Gaulle. Un uomo glaciale, dall’ambizione impenetrabile, con un nome per una volta facile da pronunciare, Putin, e che aveva preso il posto di Eltsin l’ubriacone, prometteva di «accoppare i ceceni inseguendoli nelle latrine». La Russia non era più portatrice né di speranze né di paure, ma soltanto di un perpetuo senso di desolazione. Aveva abbandonato il campo del nostro immaginario, ormai occupato tutto dagli americani, anche nostro malgrado, come un gigantesco albero che dispiegava i suoi rami sull’intera superficie della terra. Ci davano sempre più fastidio con quei loro discorsi moralizzatori, gli azionisti e i fondi pensione, l’inquinamento planetario e il disgusto per i nostri formaggi. Per rendere l’idea della congenita pochezza della loro superiorità, fondata sulle armi e sull’economia, solitamente si utilizzava un’unica parola: «arroganza». Conquistatori senza altri ideali oltre ai dollari e al petrolio. I valori e i principi di cui si facevano portatori – contare solo su se stessi – davano speranza soltanto a loro, mentre noi sognavamo «un altro mondo».


           


           


           


      


      


      


      Di primo acchito era qualcosa che non poteva essere creduto – come poi avrebbe mostrato il filmato in cui si vedeva un George W. Bush senza reazioni, come un bambino smarrito, mentre qualcuno gli sussurrava la notizia all’orecchio – né pensato né sentito, soltanto visto e rivisto sullo schermo di un televisore, le torri gemelle di Manhattan a crollare una dopo l’altra in quella giornata di settembre – a New York era mattina, ma per noi sarebbe per sempre rimasto pomeriggio –, come se quelle immagini potessero diventare reali soltanto a forza di rivederle. Non riuscivamo a scuoterci dallo sbigottimento, ci chiamavamo al cellulare per condividere l’accaduto con il maggior numero possibile di persone.


      Un flusso ininterrotto di discorsi e analisi si riversava nelle case. La purezza dell’avvenimento si dissolveva. Protestavamo contro il proclama di Le Monde «Siamo tutti americani». In un colpo solo era stata sovvertita la rappresentazione del mondo, alcuni fanatici venuti da Paesi oscurantisti armati solo di taglierini avevano raso al suolo in meno di due ore i simboli della potenza americana. L’impresa lasciava stupefatti. Ci si rimproverava un’illusione, aver creduto che gli Stati Uniti fossero invincibili. Si rievocava un altro 11 settembre e l’assassinio di Allende. Dei conti venivano saldati. Il tempo per provare compassione e pensare alle conseguenze sarebbe arrivato più avanti. Ciò che contava era dire dove, come, da chi o da che cosa si era appreso dell’attacco alle Twin Towers. I pochissimi che non ne erano stati informati il giorno stesso avrebbero poi conservato l’impressione di un appuntamento mancato con il resto del mondo.


           


      


      Tutti cercavano di ricordare in che attività fossero impegnati nel momento esatto in cui il primo aereo aveva colpito la torre del World Trade Center, mentre coppie che si tenevano per mano si gettavano nel vuoto. Non c’era nessun rapporto tra l’occupazione quotidiana di ciascuno e quello che era successo a New York, se non che eravamo stati vivi nello stesso momento di quei tremila esseri umani che stavano per morire ma lo ignoravano fino a un quarto d’ora prima. Nella rievocazione di quell’istante – ero dal dentista, stavo guidando, leggevo sul divano –, nello sbalordimento della contemporaneità, comprendevamo la separazione delle persone sulla terra e i legami che ci univano in un’identica precarietà. L’ignoranza di ciò che stava succedendo in quel secondo preciso a Manhattan mentre al museo d’Orsay ci soffermavamo davanti a un quadro di Van Gogh era la stessa che avevamo del momento della nostra morte. Tuttavia, quell’ora che conteneva al contempo le torri esplose del World Trade Center e un appuntamento dal dentista o un salto in officina per il tagliando dell’auto era scampata allo scorrere insignificante dei giorni.


      L’11 settembre diventava la data spartiacque. Nella stessa maniera in cui si era detto «dopo Auschwitz» ora si diceva «dopo l’11 settembre», un giorno unico. Lì cominciava qualcosa, non sapevamo cosa. Anche il tempo si globalizzava.


          


      


      Più tardi, nel ripensare a fatti che con qualche esitazione avremmo situato nel 2001 – una tempesta a Parigi il week-end del 15 agosto, la carneficina alla Cassa di risparmio di Cergy-Pontoise, la prima stagione francese del Grande Fratello, la pubblicazione de La vita sessuale di Catherine M. – ci saremmo sorpresi nell’accorgerci che erano tutti accaduti prima dell’11 settembre, colpiti dal constatare che nulla li differenziava da quelli che avevano avuto luogo dopo, in ottobre o novembre. Avevano ripreso a fluttuare liberamente nel passato, senza ancoraggi con un evento che ora bisognava ammettere di non aver vissuto in prima persona.


           


      


      Senza avere il tempo di riflettere ci si ritrovava immersi nella paura. Una forza oscura si era infiltrata nel mondo, pronta a scatenare le azioni più atroci in ogni angolo del pianeta. Buste riempite di una polverina bianca uccidevano i loro destinatari, Le Monde titolava «La nuova guerra». Il presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, scialbo erede del padre, eletto in maniera grottesca dopo un interminabile riconteggio dei voti, proclamava la guerra di civiltà, del Bene contro il Male. Il terrorismo aveva un nome, Al-Qaida, una religione, l’Islam, un Paese, l’Afghanistan. Non si potevano più dormire sonni tranquilli, bisognava stare all’erta fino alla fine dei tempi. L’obbligo di far propria la paura degli americani raffreddava i sentimenti di solidarietà e di compassione. Ci si beffava della loro incapacità di catturare Bin Laden e il mullah Omar, volatilizzatosi in motocicletta.


      La rappresentazione del mondo musulmano si capovolgeva. Quella nebulosa di uomini con la tunica e di donne velate come sante vergini, di cammellieri, danze del ventre, minareti e muezzin, passava dallo stato di oggetto lontano, pittoresco e arretrato a quello di forza moderna. Si faceva fatica a coniugare l’idea di modernità con i pellegrinaggi alla Mecca, le ragazze in chador con le tesi di dottorato discusse all’università di Teheran. Non potevamo più ignorare i musulmani. Un miliardo e duecento milioni di persone.


      (Il miliardo e trecento milioni di cinesi con come unico credo la turbinante economia alla base di oggetti a basso costo destinati al mercato occidentale era soltanto un silenzio lontano.)


           


      


      Ritornava la religione, ma non era la nostra, quella in cui non credevamo più, che non avevamo voluto trasmettere, e che in fondo restava l’unica realmente legittima, la migliore, se si fossero dovute classificare. Quella che aveva lasciato nel museo della nostra infanzia una decina di rosari, i venerdì di magro e i canti di chiesa, i cieli e la terra sono pieni della tua gloria.


      La distinzione tra i cittadini di «ceppo francese» – espressione che bastava a spiegare tutto, l’albero, la terra – e i «figli dell’immigrazione» non cambiava. Quando il presidente della Repubblica faceva riferimento in un suo discorso al «popolo francese», era chiaro che intendesse un’entità – generosa, al di sopra di ogni sospetto di xenofobia – che comprendeva Victor Hugo, la presa della Bastiglia, i contadini, gli istitutori e i preti, l’Abbé Pierre e de Gaulle, Bernard Pivot, Asterix, la Mère Denis e Coluche, le Marie e i Patrick. Non includeva le Fatima, gli Ali e i Boubacar, chi faceva la spesa al reparto halal dei supermercati e che osservava il ramadan. E ancora meno i «giovani delle banlieue» con il cappuccio della felpa sulla testa, la cui andatura indolente era intesa come segno inequivocabile di furberia e pigrizia, sicuri prodromi di un qualche brutto scherzo. Erano oscuramente percepiti come gli indigeni di una colonia interna sulla quale non si esercitava più alcun potere.


      La lingua contribuiva con costanza a costruire questa separazione tra un noi e un loro, li circoscriveva in «comunità», in «branchi» che operavano all’interno dei «loro quartieri» tra «territori di spaccio» e «zone di stupro», li imbarbariva. I francesi sono preoccupati, affermavano i giornalisti. Secondo i sondaggi – che dettavano le emozioni – il principale assillo delle persone era l’insicurezza, il cui volto inconfessato era quello di una popolazione dalla pelle scura che viveva nell’ombra e ne usciva soltanto per rapide scorrerie tese ad alleggerire la brava gente dei suoi telefonini.


           


      


      Il passaggio all’euro distraeva da tutto ciò, ma per poco, la curiosità di vedere da dove provenissero le monete si smorzava nel giro di una settimana. Era una valuta fredda, dalle banconote piccole e tutte nuove, prive di portati metaforici, un euro era un euro, nient’altro – una valuta quasi irreale, senza peso e ingannatrice, che ridefiniva i prezzi e dava l’impressione che nei negozi costasse tutto meno, salvo poi sentirsi più poveri davanti alla busta paga. Ci sembrava così strano immaginare la Spagna senza le pesetas di fianco alle tapas e alla sangria, l’Italia senza le sue centomila lire per una stanza doppia. Ci mancava il tempo per avere nostalgia delle cose. Moriva l’intellettuale Pierre Bourdieu, spirito critico di una società che lo conosceva così poco, e non sapevamo nemmeno che fosse malato. Non ci aveva dato modo di prepararci, di prevedere la sua assenza. Una strana tristezza circolava in maniera sommessa tra coloro che nel leggerlo si erano sentiti liberati. Temevamo che la sua parola ci si cancellasse dentro a poco a poco come era già successo con quella, ormai lontanissima, di Sartre. Che il mondo delle opinioni avesse la meglio su di noi.


          


      


      La campagna per le presidenziali di maggio aumentava il senso di scoraggiamento. Una replica delle elezioni del ’95, con gli stessi candidati, Chirac e Jospin (sempre più vicino a Blair, con la sua ripugnanza a utilizzare la parola «socialismo», e grande favorito). Ci stupiva ricordare la tensione e la durezza dei primi mesi dell’81. Nella nostra memoria ci sembrava che all’epoca stessimo andando da qualche parte. Perfino il ’95 sembrava preferibile. Non sapevamo dire se ci sentissimo più logorati dai media – con i loro sondaggi, quanta fiducia le ispirano i seguenti personaggi, i loro commenti formulati con superiorità, i politici che promettevano di aumentare i posti di lavoro, tappare i buchi di bilancio – o dalle scale mobili della stazione sempre fuori servizio, dalla coda all’ufficio postale o alla cassa del Carrefour, dai mendicanti rumeni, tutte quelle cose per le quali infilare la scheda elettorale in un’urna era un gesto irrilevante quanto lasciar cadere una scheda di partecipazione nella scatola di un concorso a premi del supermercato. E i Guignols di Canal+ non erano più divertenti come un tempo. Poiché nessuno ci rappresentava, allora tanto valeva togliersi qualche sfizio. Votare diventava una questione privata, affettiva. Per scegliere si aspettava l’ultimo momento, lo si faceva d’istinto, Arlette Laguiller, Christiane Taubira o i Verdi. Bisognava affidarsi all’abitudine, al ricordo di un antichissimo «dovere elettorale», per prendersi il disturbo di andare ai seggi una domenica d’aprile, nel bel mezzo delle vacanze di primavera.


          


      


      Il sole brillava e il clima era mite, questo è tutto ciò che ci sarebbe rimasto di quella domenica. Delle altre occupazioni svolte nelle ore precedenti all’annuncio del responso delle urne, stranamente, non avremmo conservato nessuna traccia nella memoria, se non l’attesa di una serata diversa dal solito da passare davanti ai risultati elettorali. Dunque era successo. L’autore di dichiarazioni aberranti, antisemite e razziste, il demagogo dal ghigno velenoso che faceva il suo show da vent’anni annientava Jospin in scioltezza. Fine della sinistra. La leggerezza politica della vita svaniva. Dove avevamo sbagliato? Cosa avevamo fatto? Forse, invece di votare Laguiller, dovevamo allinearci all’elettorato di Jospin sin dal primo turno. Presi da mille ripensamenti ci sentivamo affondare nel baratro che separava l’innocenza con cui avevamo infilato la scheda nell’urna e l’indiscutibilità del risultato collettivo. Avevamo seguito fino in fondo i nostri desideri ed eravamo stati puniti. Era un evento immorale, e la vergogna diventava il discorso dominante, sostituiva quello dell’insicurezza che aveva tenuto banco fino al giorno prima. Partiva la caccia ai responsabili: il sensazionalismo dei telegiornali, con tutto il risalto che avevano dato all’affaire Paul Voise, un «nonnetto» maltrattato da teppisti che gli avevano persino bruciato la casa, oppure gli astensionisti, o chi aveva votato i verdi, i trotskisti, i comunisti. I media «davano la parola» alle voci mute che avevano scelto Le Pen. Gli operai e le cassiere usciti dall’ombra venivano intervistati con un’attenzione nuova ai fini di una comprensione immediata e senza domani.


      Ma non c’era il tempo di riflettere che già si era trascinati in una frenetica mobilitazione generale per salvare la democrazia, la parola d’ordine era andare alle urne per il ballottaggio e votare Chirac (con tanto di consigli per salvarsi l’anima, turarsi il naso e mettersi i guanti, meglio un voto che puzza di un voto che uccide). Ci immergevamo docili nella folla unanime che si riversava nelle piazze, virtuosa, carica di biasimo. Nei cortei del Primo Maggio quell’anno gli slogan erano tutti per lui, Stop al Fuhrer Le Pen, Non abbiate paura entrate nella Resistenza, J’ai les boules I’ve got the balls Tengo las bolas Ne ho le palle piene, 17,3% sulla scala Hitler. Ai giovani, rientrati dalle vacanze scolastiche di primavera, quelle manifestazioni così imponenti ricordavano quelle successive alla vittoria ai Mondiali di calcio di qualche anno prima. Sotto il cielo grigio di una place de la République piena come un uovo, in coda a un corteo così gremito che non si sarebbe mai mosso da lì, il dubbio ci attanagliava. Ci sentivamo come comparse ingaggiate nelle riprese di un film sugli anni Trenta, si respirava un’aria di falsità consensuale. Poi, piuttosto che astenerci ci rassegnavamo a votare Chirac. All’uscita dal seggio avevamo l’impressione di avere compiuto un gesto sconsiderato. La sera, vedendo in televisione quella marea di volti che inneggiavano adoranti al loro amato Chichì mentre la manina gialla di SOS Razzismo ballonzolava sopra alle loro teste, avevamo pensato: che coglioni.


           


      


      In seguito, di quelle elezioni sarebbe rimasto nella memoria soltanto il giorno e il mese del primo turno, il 21 aprile, come se quel forzato 80 percento di preferenze andato a Chirac nel ballottaggio non contasse nulla. Votare era ancora possibile?


           


      


      Guardavamo la destra tornare a occupare tutte le poltrone. I soliti discorsi di chi chiedeva di adattarsi al mercato, alla globalizzazione, le stesse esortazioni a lavorare di più e più a lungo riaffioravano sulle labbra di un primo ministro che dal nome, Raffarin, dall’andatura ricurva e dalla stanca affabilità ricordava un notaio degli anni Cinquanta intento a passeggiare pensoso sul parquet scricchiolante del suo studio. Quasi non ci si indignava neanche nel sentirlo dividere la società in una «Francia di sotto» e una «Francia di sopra» come nell’Ottocento. Si girava la testa dall’altra parte. Persino la nazionale, in Corea, si era fatta battere in malo modo ai Mondiali. Si tornava a se stessi.


      Il sole di agosto scaldava la pelle. Le palpebre chiuse, sulla sabbia, la stessa donna, lo stesso uomo. Il corpo con cui facevamo il bagno era sempre quello dell’infanzia sui ciottoli della Normandia, delle vecchie vacanze in Costa Brava. Ancora una volta risuscitati dal tempo in un sudario di luce.


      Aprivamo gli occhi e vedevamo una donna entrare in mare vestita dalla testa ai piedi, con la sua gonna lunga e un velo da musulmana a coprirle i capelli. Un uomo a torso nudo, in pantaloncini, la teneva per mano. Era una visione biblica la cui bellezza rendeva immensamente tristi.


          


           


           


      


      


      


      I luoghi destinati all’esposizione della merce erano sempre più grandi, belli, colorati, puliti con meticolosità, in contrasto con il degrado delle stazioni della metropolitana, degli uffici postali e delle scuole pubbliche. Ogni mattina rinascevano nello splendore e nell’abbondanza del primo giorno dell’Eden.


      Al ritmo di un vasetto al giorno, un anno non sarebbe bastato a provare tutte le varietà di yogurt e dessert cremosi proposti nel reparto latticini. C’erano creme depilatorie differenti per ascelle maschili e femminili, salvaslip per perizoma, interi scaffali dedicati ai gatti, con salviette, «ricette creative» e «bocconcini arrosto» divisi in prodotti per felini adulti, cuccioli, senior, d’appartamento. Niente del corpo umano, delle sue funzioni, sfuggiva alla lungimiranza degli industriali. Gli alimenti erano sempre «senza» o «con l’aggiunta di» sostanze invisibili, vitamine, omega 3, fibre. Qualsiasi cosa, l’aria, il caldo e il freddo, l’erba e le formiche, il sudore e il russare, avrebbe potuto generare merci per la cui manutenzione si sarebbero creati altri specifici prodotti in un’infinita parcellizzazione della realtà e con conseguente moltiplicazione degli oggetti stessi. L’immaginazione commerciale era senza limiti. Inglobava tutti i linguaggi declinandoli a suo favore, quello ecologico, quello psicologico, si fregiava di umanesimo e di desiderio di riscatto sociale, ci spronava a «lottare contro il caro vita», prescriveva: «cedete alla voglia», «approfittatene». Imponeva di celebrare le feste tradizionali, Natale e San Valentino, accompagnava il ramadan. Era una morale, una filosofia, la forma incontestata delle nostre esistenze. La vita. Quella vera. Auchan.


      Era una dittatura dolce e felice contro la quale non in­sorgevamo, bisognava soltanto proteggersi dai suoi eccessi, educare il consumatore, prima definizione del­l’individuo. Per tutti, compresi gli immigrati clandestini stipati su un barcone in direzione della costa spagnola, la libertà aveva le fattezze di un centro commerciale, di ipermercati pronti a implodere sotto il peso dell’abbondanza. Nessuno si scandalizzava del fatto che i prodotti arrivassero dal mondo intero e circolassero liberamente mentre gli uomini erano respinti alle frontiere. Per attraversarle alcuni si chiudevano nei container, si facevano merce, inerte, morivano asfissiati, dimenticati dal camionista in un parcheggio di Douvres sotto il sole di giugno.


          


      


      La sollecitudine della grande distribuzione arrivava perfino a mettere a disposizione dei poveri appositi reparti di prodotti accatastati alla rinfusa di bassa qualità, senza marca, carne in scatola, paté in tubetto, che ai più danarosi ricordavano la penuria e l’austerità degli ex Paesi dell’Est.


           


      


      Ciò che era stato previsto negli anni Settanta dai vari Debord e Dumont – non ne parlava anche un romanzo di Le Clézio? – si era dunque realizzato. Come avevamo potuto lasciare che accadesse? Ma non tutte le profezie si erano avverate, non ci eravamo ricoperti di bolle, la pelle non cadeva dai volti come a Hiroshima, non avevamo bisogno di maschere antigas per la strada. Al contrario, eravamo più belli di prima, godevamo di una salute migliore, quasi non si prendeva più in considerazione l’idea di morire di malattia. C’era di che lasciar scorrere gli anni Duemila senza stare a pensarci troppo.


          


      


      Una pubblicità recitava: I soldi, il sesso, la droga, scegliete i soldi.


           


      


      Passavamo al lettore DVD, alla macchina fotografica digitale, all’MP3, all’ADSL, allo schermo piatto, non smettevamo mai di passare a qualcos’altro. Smettere di farlo significava accettare di invecchiare. E più l’usura del tempo segnava la pelle, logorava impercettibilmente il corpo, più il mondo ci reidratava con novità incessanti. Il nostro disfacimento e il cammino del mondo procedevano in direzioni opposte.


      Le questioni sollevate dalla comparsa delle nuove tecnologie si dissolvevano una dopo l’altra in un utilizzo diventato ormai naturale e che non lasciava spazio a riflessioni. Erano sempre meno le persone incapaci di usare un computer o un lettore MP3, scomparivano poco a poco come era successo a chi, un tempo, non sapeva servirsi del telefono o della lavatrice.


          


      


      Nelle case di riposo, davanti agli occhi scoloriti delle degenti, sfilava un’ininterrotta parata di pubblicità di prodotti e apparecchi di cui loro non avevano mai sospettato l’esistenza e che non avrebbero mai posseduto.


           


      


      Eravamo sopraffatti dal tempo delle cose. Si era rotto l’equilibrio mantenuto a lungo tra la loro attesa e la loro comparsa, tra la privazione e il possesso. La novità non suscitava più dibattiti né entusiasmo, non ossessionava più l’immaginario. Era integrata nel quadro consueto dell’esistenza. Forse un giorno sarebbe scomparso il concetto stesso di nuovo, come già, inesorabilmente, stava scomparendo quello di progresso. S’intravedevano possibilità illimitate in ogni cosa. I cuori, i fegati, i reni, gli occhi, la pelle passavano dai morti ai vivi, gli ovuli da un utero a un altro, donne di sessant’anni partorivano. Sui volti il tempo era fermato dal lifting. Mylène Demongeot, alla televisione, era la stessa bambola incantevole che avevamo visto in Fatti bella e taci, conservata intatta dal 1958.


      Eravamo colti da vertigine al pensiero della clonazione, dei figli cresciuti in grembi artificiali, degli impianti cerebrali, dei dispositivi wearables – l’inglese aggiungeva un effetto di straniamento e di dominazione –, di una sessualità completamente indifferenziata, dimenticando che tutte quelle cose avrebbero continuato, almeno per un certo tempo, a coesistere con quelle a cui eravamo abituati.


      Eppure, talvolta, ci si meravigliava ancora, con stupore si diceva, di un nuovo oggetto lanciato sul mercato, «è geniale».


           


      


      Prevedevamo che nell’arco di una vita sarebbero apparse cose inimmaginabili alle quali la gente si sarebbe abituata come già, in pochissimo tempo, si era abituata ai telefonini, ai computer, all’iPod e al GPS. Ciò che turbava era non potersi prefigurare come sarebbe stata la vita in capo a dieci anni, e ancor meno noi stessi alle prese con tecnologie ancora sconosciute. (Saremmo mai arrivati a vedere, nel cervello di un uomo, tutta la sua storia, tutto ciò che aveva fatto, detto, visto e sentito?)


          


      


      Si viveva nella sovrabbondanza, di ogni cosa, delle informazioni, degli «esperti». Opinioni si formavano su fatti appena accaduti, su come comportarsi, sul corpo, l’orgasmo e l’eutanasia. Tutto veniva discusso e decodificato. «Dipendenza», «resilienza», «elaborazione del lutto», c’era profusione di termini e linguaggi per mettere in parole vita ed emozioni. Depressione, alcolismo, frigidità, anoressia, infanzia difficile, niente era più vissuto invano. La comunicazione delle esperienze e delle fantasie intime conteneva la coscienza. L’introspezione collettiva offriva modelli alla verbalizzazione dell’io. Il bacino di conoscenze comuni si allargava. Aumentava la rapidità intellettuale, le fasi dell’apprendimento si facevano sempre più precoci e la lentezza dei ritmi scolastici esasperava i ragazzi che digitavano SMS a tutta velocità.


           


      


      Nella mescolanza dei concetti era sempre più difficile trovare una frase per sé, la frase che, pronunciata in silenzio, aiuta a vivere.


          


      


      Su internet bastava scrivere una parola chiave per essere travolti da migliaia di «siti», per attingere in disordine a pezzi di frasi che ci trascinavano verso altri brandelli di testi in una caccia al tesoro eccitata, piccole scoperte, rilanciate all’infinito, di ciò che non stavamo cercando. Sembrava che si potesse far propria la totalità della conoscenza, che si potesse penetrare nella molteplicità di tutti i punti di vista esposti nei blog con una lingua nuova e brutale. Raccogliere informazioni sui sintomi del cancro alla gola, sulla ricetta per la moussaka, sull’età di Catherine Deneuve, sul meteo a Osaka, sulla coltivazione delle ortensie e della cannabis, sull’influenza dei giapponesi nello sviluppo della Cina – giocare a poker, scaricare film e dischi, comprare qualunque cosa, topolini bianchi e revolver, Viagra e vibratori, vendere e rivendere tutto. Discutere con sconosciuti, insultare, corteggiare, inventarsi un’identità. Gli altri erano disincarnati, senza voce né odore né gesti, la loro sorte non ci toccava. Ciò che contava era quello che si poteva fare con loro, la legge dello scambio, il piacere. Si realizzava un grande desiderio di potenza e impunità. Evolvevamo nella realtà di un mondo di oggetti senza soggetti. Internet operava la straordinaria trasformazione del mondo in discorso.


          


      


      Il clic saltellante e rapido del mouse scandiva la misura del tempo.


           


      


      In meno di due minuti si potevano ritrovare: delle amiche del liceo Camille-Jullian di Bordeaux, classe seconda C2, anno 1980-81, una canzone di Marie-Josée Neuville, un articolo del 1988 uscito su L’Huma. La ricerca del tempo perduto passava dal web. Gli archivi e tutte le cose passate che non immaginavamo neanche di poter ritrovare un giorno ci si facevano incontro nell’istante stesso in cui le cercavamo. La memoria era diventata inesauribile, ma la profondità del tempo – quella che ci veniva trasmessa dall’odore e dall’ingiallimento della carta, dal fruscio delle pagine, dalla sottolineatura di un paragrafo a opera di una mano sconosciuta – era scomparsa. Eravamo in un presente infinito.


      Lo volevamo «salvare» di continuo, in una frenesia di foto e filmati di cui facevamo un rinnovato utilizzo sociale. Centinaia d’immagini disperse ai quattro angoli del nostro mondo di amicizie trasferite sui computer e archiviate in cartelle che finivamo per non aprire quasi mai. Ciò che contava era aver scattato la foto, aver captato e raddoppiato l’esistenza, averla registrata in diretta, i ciliegi in fiore, una camera d’albergo a Strasburgo, un neonato. Luoghi, incontri, scene, oggetti, era la conservazione totale della vita. Con il digitale esaurivamo la realtà.


          


      


      Sulle foto e sui filmati ordinati per data che facevamo scorrere a schermo, al di là della diversità delle scene e dei paesaggi, delle persone, si diffondeva la luce di un tempo unico. Il passato prendeva un’altra forma, fluida, a basso tasso di ricordi reali. Le immagini erano troppe per riuscire a soffermarsi su ciascuna di loro per rivivere le circostanze dello scatto. Vivevamo in loro un’esistenza leggera e trasfigurata. La moltiplicazione delle nostre tracce aboliva la sensazione del passare del tempo.


      Ci straniva il pensiero che, con i DVD e altri supporti, le generazioni successive avrebbero saputo tutto della nostra vita quotidiana più intima, dei nostri gesti, di come mangiavamo, parlavamo e facevamo l’amore, tutto sui nostri mobili e la nostra biancheria. L’oscurità dei secoli precedenti, diradata a poco a poco dai vari apparecchi, da quelli sul treppiede nello studio del fotografo fino alla macchina digitale utilizzata in camera da letto, stava per scomparire per sempre. Eravamo risuscitati in anticipo.


           


      


      E avevamo in noi una grande memoria confusa del mondo. Di pressoché ogni cosa conservavamo soltanto parole, dettagli, nomi, tutto ciò che faceva dire, sulla scia di Georges Perec, «mi ricordo»: il rapimento del barone Empain, le praline Picorettes, i celebri calzini di Bérégovoy, il progetto di legge di Devaquet, la guerra delle Falkland, la polvere di cacao da sciogliere nel latte della Benco. Ma non erano veri ricordi, continuavamo a chiamare così qualcosa d’altro: erano i segni di un’epoca.


           


      


      I media si facevano carico di assicurare la dinamica di alternanza tra memoria e oblio. Commemoravano il commemorabile, l’appello dell’Abbé Pierre, la morte di Mitterrand e di Marguerite Duras, l’inizio e la fine delle guerre, il primo uomo sulla Luna, Černobyl, l’11 settembre. Ogni giorno aveva una ricorrenza da celebrare, una legge, l’apertura di un processo, un crimine. Segmentavano il tempo in periodi prefissati, anni yé-yé, il ’68, l’epoca dell’AIDS, raggruppavano le persone in generazioni, quella di de Gaulle, quella di Mitterrand, i figli dei fiori, il baby-boom, i nativi digitali. Noi eravamo in tutte, non ci trovavamo in nessuna. Gli anni che sentivamo nostri lì dentro non c’erano.


            


      


      Stavamo mutando. Non conoscevamo la nostra nuova forma.


           


      


      Quando di notte alzavamo la testa verso la luna, percepivamo in noi la vastità del mondo, la sentivamo brillare immobile sopra il brulichio ininterrotto di miliardi di individui. La coscienza si dilatava nello spazio totale del pianeta, verso altre galassie. L’infinito smetteva di essere immaginario. Ecco perché era inconcepibile dirsi che un giorno saremmo morti.


           


           


           


      


      


      


      Se si provava a fare un censimento di ciò che era accaduto fuori di sé, a partire dall’11 settembre si vedeva un susseguirsi di eventi rapidi, una successione di attese e paure, di tempi interminabili e di esplosioni che colpivano con violenza, paralizzavano, sbigottivano – il leitmotiv era «niente sarà più come prima» –, e che poi svanivano, dimenticate, irrisolte, commemorate un anno dopo, un mese dopo, come storia già lontana. I risultati del primo turno del 21 aprile, la guerra in Iraq – a cui per fortuna la Francia non aveva partecipato –, l’agonia di Giovanni Paolo II, poi un papa di cui non riuscivamo a tenere a mente il nome e ancor meno il numero, la stazione madrilena di Atocha, la grande serata festosa del NO al referendum sulla Costituzione europea, le notti rosse di fiamme nelle banlieue, il rapimento e la liberazione di Florence Aubenas, gli attentati di Londra, la guerra in Libano tra Israele e Hezbollah, lo tsunami, Saddam Hussein stanato dal suo buco, impiccato non sapevamo quando, fosche epidemie, la SARS, l’influenza aviaria, la chikungunya. Nell’immensa estate di quella che ormai veniva chiamata «la grande canicola», ai soldati americani morti in Iraq rispediti a casa avvolti in sacchi di plastica si sovrapponevano gli anziani crepati per il caldo, stipati in celle frigorifere al mercato di Rungis.


           


      


      Ci si sentiva schiacciati. Gli Stati Uniti erano i signori del tempo e dello spazio, lo occupavano a piacere secondo i loro bisogni e interessi. Dappertutto i ricchi erano più ricchi e i poveri più poveri. C’erano persone che dormivano in tende posizionate lungo la tangenziale. I giovani se la ridevano, «benvenuti in un mondo di merda», e ogni tanto insorgevano, ma per poco. Solo i pensionati erano soddisfatti e cercavano il modo di tenersi occupati e spendere il loro denaro, facevano viaggi in Thailandia, andavano su eBay, su Meetic. Da dove poteva arrivare la rivolta?


           


      


      Di tutte le informazioni quotidiane, la più interessante, quella che ci importava di più, riguardava il tempo che avrebbe fatto l’indomani, il refrain fabello-fabrutto sugli schermi delle stazioni della RER, quella preveggenza da almanacco che permetteva ogni giorno di rallegrarsi o di lamentarsi, quella concomitanza di elementi di imprevedibilità e di invariabilità tipica del meteo, i cui cambiamenti causati dalle attività umane suscitavano scandalo e indignazione.


           


      


      Un discorso cattivo si faceva strada, colpiva liberamente, incontrava il consenso della grande maggioranza dei telespettatori che non si scomponeva nel sentir dire al ministro dell’Interno di voler «fare piazza pulita» della racaille, la teppa, la feccia delle banlieue. Si rispolveravano vecchi valori, l’ordine, il lavoro, l’identità nazionale, branditi come vessilli minacciosi contro nemici che si lasciava alle «persone per bene» il compito di identificare, disoccupati, giovani dei quartieri popolari, immigrati clandestini, irregolari, ladri, stupratori eccetera. Era da moltissimo tempo che un numero di parole così ristretto non veniva propagato con tale frequenza – parole alle quali la gente si abbandonava come stordita da quella messe incessante di analisi e informazioni, nauseata dall’esistenza di sette milioni di poveri, dai senzatetto, dalle statistiche sulla disoccupazione, parole alle quali ci si affidava in cerca di un po’ di semplicità. Il 77% degli intervistati sostiene che il sistema giudiziario sia troppo clemente con i delinquenti. Gli ex nouveaux philosophes riciclavano in televisione i loro vecchi discorsi, l’Abbé Pierre era morto, i Guignols non facevano più ridere e Charlie Hebdo si limitava alla gestione ordinaria delle sue indignazioni. Non vedevamo più ostacoli all’elezione di Sarkozy. C’era una nuova voglia di servilismo, il desiderio di obbedire a un capo.


          


          


          


      


      


      


      I ritmi commerciali contraddicevano spudoratamente quelli del calendario. È già Natale, si sospirava sin da inizio novembre nel veder comparire nei grandi magazzini giocattoli e dolci, spossati dalla certezza di non poter sfuggire per settimane all’assedio della festività principale, una ricorrenza che costringeva a pensare a chi si era, alla propria solitudine e al proprio potere d’acquisto rispetto a quello del resto della società – come se la sera di Natale fosse il fine ultimo della vita intera. Era una visione che faceva venir voglia di addormentarsi un mese prima per risvegliarsi all’inizio dell’anno successivo. Entravamo nel periodo peggiore di desiderio e di ripugnanza per le cose, l’apogeo del gesto consacrato al consumo – che tuttavia compivamo, nella calca in attesa alle casse, detestando quel nostro sottostare al dovere di spendere, un rito vissuto come un sacrificio offerto a chissà quale dio per chissà quale salvezza, rassegnandoci a «organizzare qualcosa per Natale», a pensare alla decorazione dell’albero, al menu.


           


      


      A metà di quel primo decennio del XXI secolo, che non chiamavamo mai anni Zero, attorno alla tavola dove avevamo riunito i figli quasi quarantenni – anche se con i jeans e le Converse ai piedi continuavano a sembrare degli adolescenti –, i loro amici – gli stessi da diversi anni –, le loro compagne, i nipoti e anche l’uomo passato dallo status transitorio di amante segreto a quello di compagno stabile, ammissibile alle riunioni famigliari, sulle prime ci si rimbalzava una sequela di domande sul lavoro – precario o minacciato da un incombente programma di razionalizzazione dell’azienda –, sulle ferie, sui mezzi di trasporto, sul numero di sigarette fumate al giorno e la decisione di smettere, sul tempo libero, sulle foto, la musica, i file scaricati, sugli acquisti delle novità, la più recente versione di Windows, l’ultimo telefonino, il 3G, sul rapporto con i consumi e sull’impiego del tempo. Tutto ciò che permetteva di aggiornare la conoscenza reciproca, di valutare gli stili di vita rafforzando in segreto la convinzione che il proprio fosse migliore di quello degli altri.


          


      


      Confrontavano i loro punti di vista sui film, incrociavano le recensioni di Télérama e Libé, quelle di Technikart e Les Inrocks, esprimevano il loro entusiasmo per le serie americane, Six Feet Under, 24, ci spronavano a guardare almeno un episodio, sicuri che non l’avremmo fatto. Volevano insegnarci ma senza accettare insegnamenti, lasciavano trasparire la loro certezza che il nostro sapere delle cose non fosse più in sintonia con il mondo quanto il loro.


      Parlavamo delle future elezioni presidenziali. Facevano a gara a chi rincarava di più la dose sulla vacuità della campagna, sul tormentone Ségo-Sarko, canzonavano gli slogan della candidata socialista, l’«ordine giusto» e il «tutti vincitori», la sua maniera molle e educata di infilare frasi vuote, temevano il talento populista di Sarkozy e la sua irresistibile ascesa. Convenivamo sull’incapacità di scegliere tra Bové, Voynet e Besancenot, veniva voglia di non votare per nessuno. Quelle elezioni non avrebbero cambiato la vita, si poteva forse sperare, al massimo, che con la socialista le cose non sarebbero peggiorate. Poi si passava all’argomento di conversazione privilegiato, i media, il loro modo di manipolare l’opinione pubblica, i metodi per aggirarli. Loro accordavano credibilità soltanto al web, a YouTube, Wikipedia, alla controinformazione di Rezo.net, di Acrimed.org. La critica dei media era più importante dell’informazione in sé.


      Ci si prendeva gioco di tutto in una sorta di gioioso fatalismo festivo. Prima o poi le banlieue sarebbero tornate a esplodere, il conflitto israelo-palestinese non si sarebbe mai sanato. E con il surriscaldamento del pianeta, lo scioglimento dei ghiacciai e la morte delle api il mondo andava a rotoli. Qualcuno «sul pezzo» esclamava, e l’aviaria? e Ariel Sharon, sempre in coma?, dando il via a un’elencazione di eventi troppo trascurati, e la SARS?, e l’affaire Clearstream?, e il movimento dei disoccupati? – più per fustigare la dominazione dei media sull’immaginario che per riconoscere una collettiva amnesia. La dissoluzione del passato più recente lasciava stupefatti.


      Non c’era né memoria né narrazione, solo un richiamo a quegli anni Settanta che apparivano tanto desiderabili, a noi che li avevamo vissuti, a loro che erano stati troppo giovani e ne conservavano soltanto il ricordo di oggetti, trasmissioni, musiche: le toppe alle ginocchia, Kiri il Clown, il mangiadischi, Travolta e La febbre del sabato sera.


      Nella vivacità degli scambi di battute non c’era abbastanza pazienza per i racconti.


           


      


      Ascoltavamo centellinando gli interventi, con lo scrupolo di mantenere un ruolo di mediazione per impedire che gli «elementi acquisiti» si sentissero esclusi dal dialogo, ponendoci al di sopra delle connivenze di coppia e di filiazione, facendo attenzione a intercettare le avvisaglie di discordia, tollerando le prese in giro sulla nostra ignoranza tecnologica. Ci sentivamo la matrona indulgente e senza età di una tribù uniformemente adolescente – che fossimo nonna era una cosa che proprio non ci entrava in testa, come se quel titolo fosse riservato per sempre soltanto ai nostri di nonni, una sorta di qualità dell’essere che la loro scomparsa non aveva cambiato di una virgola.


      Una volta di più, nella vicinanza dei corpi, nel passaggio di tartine e di foie gras, nel sottrarsi a ogni gravità tra un boccone e una facezia, si costruiva la realtà immateriale del pranzo di festa. Realtà della quale – quando ci allontanavamo qualche minuto per fumare una sigaretta o sorvegliare la cottura del tacchino per poi tornare alla tavolata già estranei al nuovo argomento di conversazione – percepivamo la forza e la densità. Qualcosa dell’infanzia si rallegrava. Una scena antica e dorata, con persone sedute dai volti sfumati, in un brusio indistinto di voci.


           


      


      Dopo il caffè installavano entusiasti la nuova console Nintendo, la Wii, facevano partite virtuali di tennis e di boxe, si agitavano gridando e imprecando davanti allo schermo del televisore mentre i piccoli giocavano instancabilmente a nascondino per tutta la casa, ignorando i regali della vigilia sparsi sul pavimento. Si ritornava a tavola per rinfrescarsi con una Perrier o una Coca. Momenti di silenzio annunciavano l’imminente partenza. Guardavamo l’ora. Uscivamo dal tempo senza lancette del pranzo di festa. Venivano radunati i giocattoli, i peluche, tutto l’armamentario che accompagnava ogni spostamento con i bambini. Dopo le effusioni e i ringraziamenti di prammatica, l’ordine ai bambini di salutare con un bacio e l’immancabile domanda «abbiamo preso tutto?», gli universi privati delle coppie si richiudevano e si disperdevano nelle rispettive automobili. Il silenzio ci cadeva addosso. Toglievamo la prolunga dalla tavola, facevamo andare la lavastoviglie. Raccoglievamo il vestitino di una bambola abbandonato sotto una sedia. Ci sentivamo nella pienezza stanca di avere, una volta ancora, «ben accolto», di avere assicurato con armonia ogni tappa di un rito del quale rappresentavamo adesso la colonna più anziana.


           


           


            


      


      


      


      Su questa foto, prelevata tra le centinaia contenute nelle bustine Photo-service o archiviate nelle cartelle del computer, una donna di una certa età dai capelli tra il biondo e il rosso con un golf nero scollato è sprofondata su una grande poltrona e tiene in braccio una bambina in jeans e maglione verde pallido con la mezza zip, seduta di traverso sulle sue gambe accavallate, delle quali soltanto una è visibile, calzata di nero. I volti sono ravvicinati, quello della donna, pallido e un po’ emaciato, con un vago rossore da fine pasto, è sorridente e ha la fronte segnata da rughe sottili; quello della bambina, dalla carnagione più scura, con grandi occhi marroni, è serio mentre dice qualcosa. La sola somiglianza è nei capelli disordinati, della stessa lunghezza, con ciocche che a entrambe scendono davanti al collo. Le mani della donna, ossute, quasi nodose, in primo piano sulla foto, sembrano sproporzionate. Da come sorride, fissa l’obiettivo, stringe la bambina – un gesto più di offerta che di possesso – si ricostruisce un momento di trasmissione famigliare, lo stabilirsi di una discendenza: la nonna che presenta sua nipote. Sullo sfondo, gli scaffali di una libreria con i riflessi della luce catturata dai dorsi plastificati dei volumi della Pléiade. Si distinguono due nomi, Pavese, Elfriede Jelinek. Arredamento tipico della casa di un’intellettuale, in cui i libri sono separati dagli altri supporti culturali, DVD, videocassette, CD, come se non appartenessero allo stesso ambito o non avessero lo stesso statuto di dignità. Sul retro, Cergy, 25 dicembre 2006.


           


      


      Lei è la donna della foto e quando la guarda può dire, con una certa sicurezza, giacché quel volto è pressoché indistinguibile da quello presente, giacché null’altro è stato perso (accadrà, inevitabilmente, ma preferisce non pensare al quando, al come): sono io = non ho segni ulteriori d’invecchiamento. Sono segni ai quali di solito non pensa, più che altro perché vive nel rifiuto generale non tanto della sua età, sessantasei anni, quanto di ciò che essa rappresenta per i più giovani, e non si sente diversa dalle donne di quarantacinque, cinquant’anni – illusione che queste distruggono, senza malevolenza, nel semplice corso di una conversazione, facendole intendere che non appartiene alla loro generazione e che la considerano alla stessa stregua di come lei considera le donne di ottant’anni: vecchia. All’opposto che nell’adolescenza, quando aveva la certezza di non essere la stessa da un anno all’altro – e a volte bastava anche un mese – mentre il mondo attorno restava immutato, è lei adesso a sentirsi immobile in un mondo che corre. Di fatto, tra la foto precedente, sulla spiaggia di Trouville, e questa, del Natale del 2006, sono comunque avvenuti un certo numero di eventi, la cui lista, omettendo il grado e la durata dello sconvolgimento che hanno prodotto, le possibili concatenazioni di causa effetto degli uni rispetto agli altri, si compone come segue:


           


      


      la separazione da colui che chiamava il giovane, perseguita da tempo e in segreto con lenta tenacia e poi decisa irrevocabilmente un sabato del settembre del ’99 nel guardare una carpa appena pescata dibattersi sull’erba per svariati minuti prima di morire tra gli spasmi, carpa che poi la sera aveva mangiato con lui, disgustata


           


      


      il suo pensionamento, che tanto a lungo aveva rappresentato il limite estremo della sua immaginazione, come già era successo, in precedenza, con la menopausa. Da un giorno all’altro tutti i fogli e gli appunti presi per preparare le lezioni non erano più serviti a niente. Venendo meno un motivo professionale, si era cancellata in lei la terminologia erudita che aveva acquisito per spiegare i testi letterari – obbligandola, nel cercare senza trovarla la denominazione di una figura di stile, a dire ciò che diceva sua madre a proposito di un fiore di cui non ricordava il nome: «l’ho saputo»


           


      


      la gelosia nei confronti della nuova matura compagna del giovane, gelosia che ha coltivato come un lavoro per settimane, come se avesse sentito il bisogno di occupare in qualche maniera il tempo libero della pensione – o di ritornare «giovane» per tramite di una sofferenza amorosa che lui non le aveva mai procurato quando stavano insieme –, fino a non volere più che una sola cosa, sbarazzarsene


           


      


      la diagnosi di un tumore al seno, di una tipologia frequente nelle donne della sua età, che aveva appreso come fosse quasi normale perché le cose che fanno più paura finiscono per accadere. Nello stesso momento aveva ricevuto la notizia che un bambino si stava formando nel ventre della compagna del figlio maggiore – una femmina, avrebbe poi rivelato l’ecografia quando a lei erano già caduti tutti i capelli per via della chemio. Quella sostituzione rapida, senza intervalli, di lei nel mondo, l’aveva turbata molto


           


      


      in quel periodo sospeso tra una nascita certa e la sua morte possibile, l’incontro con un uomo più giovane che l’aveva attratta per la sua dolcezza e il suo gusto per tutto ciò che fa sognare, i libri, la musica, il cinema – un caso miracoloso che le aveva dato la possibilità di trionfare sulla morte grazie all’amore e all’erotismo –, e poi la loro storia prolungata in una relazione di presenza e assenza alternate, in residenze diverse, unico schema adatto alla loro difficoltà di essere – e non essere – insieme


           


      


      la morte a sedici anni della gatta bianca e nera di razza comune – tornata a essere, dopo anni di ciccia sballottante, magra come nella foto dell’inverno del ’92 –, che lei ha ricoperto con la terra del giardino, in piena canicola estiva, mentre i vicini schiamazzavano nella loro piscina. Con quel gesto, compiuto per la prima volta, le era parso di seppellire tutti i suoi morti – i genitori, l’ultima zia materna, l’uomo più anziano che era stato il suo primo amante dopo il divorzio, e poi rimastole amico, morto d’infarto due anni prima – e anticipare la sua stessa sepoltura.


      Lieti o nefasti, questi eventi, quando li confronta con altri più lontani della sua vita, non le sembrano aver modificato in niente il suo modo di pensare, i suoi gusti e i suoi interessi per come si sono costituiti intorno ai cinquant’anni, in una specie di solidificazione interiore. La successione di vaste lacune che distanziano l’una dall’altra tutte le immagini di lei nel passato si interrompe là. Quello che è cambiato di più, in lei, è la percezione che ha del tempo, di come la sua vita si colloca nel flusso temporale. Così constata con stupore che Colette era ancora viva quando lei, da ragazzina, faceva dettati a partire dai suoi brani, e che sua nonna, dodicenne alla morte di Victor Hugo, doveva aver beneficiato del giorno di festa accordato per i funerali dello scrittore (anche se a quell’età probabilmente lavorava già nei campi). E più aumenta la distanza che la separa dalla perdita dei genitori, venti e quarant’anni, più ha l’impressione di avvicinarsi a loro, malgrado la totale diversità del suo modo di vivere e di pensare – li farebbe «rivoltare nella tomba». Il tempo diminuisce davanti a lei, ma si allunga sempre più, ben al di qua della sua nascita e ben al di là della sua morte: immagina che, nell’arco di trenta o quarant’anni, di lei si dirà che aveva conosciuto la guerra d’Algeria proprio come dei suoi bisnonni si diceva «hanno visto la guerra del ’70».


      Ha perso il senso del futuro, quella specie di schermo senza limiti sul quale proiettava gesti e azioni, l’attesa di cose sconosciute e belle che la colmava nel camminare in autunno sul boulevard de la Marne verso l’università, nel terminare di leggere I Mandarini, e, in seguito, nel salire sulla Mini Austin alla fine delle lezioni per andare a prendere i bambini a scuola, e più tardi ancora, dopo il divorzio, dopo la morte di sua madre, nel partire per la prima volta per gli Stati Uniti con in testa le note e le parole di L’Amérique di Joe Dassin, e infine, soltanto tre anni prima, nel gettare una monetina nella Fontana di Trevi esprimendo il desiderio di tornare a Roma.


           


      


      Lo sostituisce un sentimento d’urgenza, struggente. Ha paura che, invecchiando, la memoria torni a essere nebulosa e muta come nei primi anni dell’infanzia – anni di cui non si ricorderà più. Già adesso, quando cerca di tornare con la mente ai colleghi del liceo di montagna in cui ha insegnato per due anni, visualizza delle sagome, dei volti, talvolta anche con un’estrema precisione, ma le è impossibile «appiccicarci sopra un nome». Si accanisce, si sforza invano, cerca di ritrovare quel nome mancante, di farlo combaciare con l’immagine che serba di quella persona, ma è come collegare due metà separate. Forse un giorno saranno le cose e la loro denominazione a essere scollegate e lei non potrà più nominare la realtà, ci sarà soltanto un reale indicibile. È adesso che deve mettere in forma attraverso la scrittura la sua futura assenza, realizzare quel libro – migliaia di appunti ancora allo stato di abbozzo – che da più di vent’anni raddoppia la sua esistenza e che ha dovuto coprire via via un arco temporale sempre più lungo.


          


      


      Quella forma, che avrebbe dovuto contenere la sua vita, ha rinunciato a ricavarla dalla sensazione che prova – al sole sulla spiaggia con gli occhi chiusi, in una camera d’albergo – quando le pare di moltiplicarsi ed esistere fisicamente in più luoghi della sua vita, di accedere a un tempo palinsesto. Finora quella sensazione non l’ha portata da nessuna parte, né nella scrittura, né nella consapevolezza di alcunché. Come i minuti che seguono l’orgasmo, è una sensazione che le fa venir voglia di scrivere, nulla più. E in un certo senso, cancellando le parole, le immagini, gli oggetti e le persone, già si prefigura, se non la morte, almeno lo stato in cui si troverà un giorno, inabissandosi nella contemplazione – più o meno confusa per via della «degenerazione maculare legata all’età» – degli alberi, dei figli e dei nipoti, come fa chi è molto vecchio, una contemplazione spogliata di ogni cultura e storia, la propria e quella del mondo, o alzheimeriana, inconsapevole del giorno, del mese, della stagione, del presente.


          


      


      Al contrario, ciò che conta per lei è afferrare la durata che costituisce il suo passaggio sulla terra in una determinata epoca, il tempo che l’ha attraversata, il mondo che ha registrato in sé semplicemente vivendo. Ed è in un’altra sensazione che ha potuto intuire la forma che avrà il suo libro, quella che la invade quando, a partire da un’immagine fissa del ricordo – su un letto di ospedale con altri bambini operati alle tonsille dopo la guerra o su un autobus che attraversa Parigi nel luglio ’68 –, le sembra di fondersi in una totalità indistinta di cui arriva a isolare, con uno sforzo della coscienza critica, i singoli elementi che la compongono, gli abiti, i gesti, le parole eccetera. Il minuscolo momento del passato s’ingigantisce, sfocia in un orizzonte più ampio, di uno o molti anni, mobile e uniforme al contempo. Ritrova allora, con una soddisfazione profonda, quasi abbagliante – che la sola immagine di un ricordo personale non le procura –, una sorta di vasta sensazione collettiva nella quale è preso tutto il suo essere, la sua coscienza. Allo stesso modo in cui, guidando in autostrada, da sola, si sente presa nella totalità indefinibile del mondo presente, dal vicinissimo al lontanissimo.


         


      


      La forma del suo libro può dunque emergere soltanto da un’immersione nelle immagini della sua memoria per esporre in dettaglio i segnali specifici dell’epoca, dell’anno, più o meno certo, nel quale esse si situano – per collegarle tra loro e ad altre ancora, e sforzarsi di riascoltare le parole delle persone, i commenti sui fatti e sugli oggetti estrapolati dalla massa fluttuante dei discorsi, quel vociare che apporta senza tregua le continue formulazioni di ciò che siamo e dobbiamo essere, pensare, credere, temere, sperare. Di ciò che il mondo ha impresso in lei e nei suoi contemporanei se ne servirà per ricostituire un tempo comune, quello che è trascorso da un’epoca lontana sino a oggi – per restituire, ritrovando la memoria della memoria collettiva in una memoria individuale, la dimensione vissuta della Storia.


           


      


      Non sarà un lavoro di rievocazione nel senso più consueto, ossia volto alla stesura narrativa di una vita, a una spiegazione di sé. Si guarderà dentro solo per ritrovarci il mondo, la memoria e l’immaginario dei suoi giorni passati, per cogliere i cambiamenti di idee, credenze e sensibilità, la trasformazione delle persone e del soggetto, ciò che lei ha conosciuto, ciò che forse non rappresenterà nulla per quanti conosceranno sua nipote, per tutti i viventi del 2070. Stanare delle sensazioni che sono già lì, ancora senza nome, come quella che la fa scrivere.


         


      


      Sarà una narrazione scivolosa, in un imperfetto continuo, assoluto, che divori via via il presente fino all’ultima immagine di una vita. Un fluire interrotto, tuttavia, da foto e sequenze di filmati che a intervalli regolari coglieranno la forma corporea e le posizioni sociali successive del suo essere, fermi-immagine della memoria e allo stesso tempo resoconti sull’evoluzione della sua esistenza, ciò che l’ha resa singolare, non in virtù degli elementi esterni della sua vita (traiettoria sociale, professione) o di quelli interni (pensieri e aspirazioni, desiderio di scrivere), ma per la combinazione degli uni e degli altri, unica in ciascun individuo. A questo «continuamente altro» delle foto corrisponderà, a specchio, il «lei» della scrittura.


      In quella che vede come una sorta di autobiografia impersonale non ci sarà nessun «io», ma un «si» e un «noi», come se anche lei, a sua volta, svolgesse il racconto dei tempi andati.


          


      


      Quando desiderava scrivere, un tempo, nella sua camera di studentessa, alla stregua di una veggente sperava di trovare un linguaggio sconosciuto che avrebbe svelato cose misteriose. Si immaginava anche il libro finito come la rivelazione agli altri del suo essere profondo, una conclusione superiore, una gloria. Cosa non avrebbe dato per diventare «scrittrice», così come da bambina sognava, addormentandosi, di svegliarsi nei panni di Rossella O’Hara. In seguito, in classi selvagge di quaranta studenti, dietro a un carrello del supermercato, sulle panchine del giardino pubblico accanto a una carrozzina, questi sogni l’hanno abbandonata. Non c’era nessun mondo ineffabile che sarebbe comparso per magia grazie a parole ispirate, e la lingua in cui avrebbe scritto sarebbe stata quella di tutti, il solo strumento con il quale contava di agire su ciò che la faceva ribellare. Il libro da scriversi allora rappresentava uno strumento di lotta. Quell’ambizione non l’ha abbandonata, ma adesso vorrebbe più che altro poter cogliere la luce che bagna volti ormai invisibili, tavole imbandite di vivande scomparse, quella luce che già c’era nelle narrazioni domenicali dell’infanzia e che non ha smesso di depositarsi sulle cose appena vissute, una luce anteriore. Salvare


          


      


      il balletto delle automobiline nell’autoscontro di Bazoches-sur-Hoëne


          


      


      la camera d’albergo in rue Beauvoisine, a Rouen, non lontano dalla libreria Lepouzé in cui Cayatte aveva girato una scena di Morire d’amore


          


      


      il distributore di vino sfuso al Carrefour di rue du Parmelan, ad Annecy


          


      


      mi sono appoggiata alla bellezza del mondo / e ho tenuto l’odore delle stagioni tra le mani


          


      


      il maneggio del parco termale di Saint-Honoré-les-Bains


          


      


      la ragazzina con il cappotto rosso che accompagnava un uomo barcollante sul marciapiede, un uomo che aveva raccattato al bar Le Duguesclin, in un inverno passato a La Roche-Posay


          


      


      la «gente senza importanza» del film Appuntamento al chilometro 424


          


      


      la locandina osé mezzo strappata del servizio di incontri «3615 Ulla» alla fine della discesa di Fleury-sur-Andelle


          


      


      un bar e un juke-box che suonava Apache, a Telly O Corner, Finchley


         


      


      una casa in fondo a un giardino, al 35 dell’avenue Edmond Rostand di Villiers-le-Bel


           


      


      lo sguardo della gatta bianca e nera nel momento in cui si addormentava per l’iniezione


          


      


      l’uomo che stava ogni pomeriggio in pigiama e pantofole nell’atrio della casa di riposo di Pontoise, che piangeva chiedendo ai visitatori di chiamare suo figlio allungando un pezzo di carta sporco su cui era scritto un numero


          


      


      la donna della foto del massacro di Hocine, Algeria, che somigliava a una pietà


         


      


      il sole accecante sui muri di San Michele visto dall’ombra delle Fondamenta Nuove


         

 

 


      Salvare qualcosa del tempo in cui non saremo mai più.