Una gavetta lunga 24 anni
Era l’inverno del 1951 e Bettino Craxi – uno spilungone di 17 anni con i capelli neri e gli occhiali spessi – tornando da scuola, raccontò al suo papà: «Ho chiesto la tessera del partito…». L’iscrizione alla sezione Lambrate del Psi sarà registrata qualche mese dopo: da quel momento trascorreranno ventiquattro anni fino al giorno in cui Bettino Craxi sarà eletto segretario del Partito socialista italiano. Un esito ovviamente imprevedibile agli albori degli anni Cinquanta e non soltanto perché nella vita i predestinati sono pochi. Ma soprattutto perché nella Prima Repubblica le ascese erano piene di incognite e non esistevano percorsi garantiti. E la strada di solito era ancor più impervia, quasi impraticabile, per chi si presentava col carattere di quel ragazzone milanese: ambizioso e determinato, non c’è dubbio, ma anche poco incline alle vie “facili” del conformismo, come quella di intrupparsi in maggioranza e poi si vedrà. Per questo la sua lunga gavetta è interessante. Perché racconta come ci si faceva strada negli anni della Prima Repubblica, e quanto lungo era il cammino. E racconta come si fece largo quel ragazzo milanese: controvento.
Un bimbo ribelle e il carattere gli resta
Benedetto Craxi – che in casa sarebbe presto diventato Bettino – nasce a Milano il 24 marzo 1934, alle cinque del mattino, nella clinica ostetrica di via Macedonio Melloni. Il padre, Vittorio Craxi, è un avvocato, originario di San Fratello, un paese della montagna siciliana che guarda verso Cefalù; la mamma, Maria Ferrari, è una bella signora, di una famiglia di commercianti e agricoltori di Sant’Angelo Lodigiano. Li chiamavano i “chiodi” per la loro ostinazione. Un padre e una madre che, come tutti i genitori, trasmetteranno tracce di sé al proprio figlio. Racconterà molti anni più tardi Bettino: «Io ho un po’ il temperamento di mia madre, che era molto aggressiva ma non aspra». E di suo padre dirà: «Non mi inculcò mai sentimenti di odio nei confronti dei vinti».
Madre tosta e padre sentimentale, ma non finisce lì. Perché nessuno è mai stato – e mai sarà – la copia conforme dei propri genitori. Se il carattere di una persona è il coacervo di suggestioni, umori ed esperienze che si addensano negli anni, è pur vero che il temperamento del piccolo Bettino si manifesta subito come quello di un bimbo estremamente reattivo. In casa – per ragioni indipendenti dalla sua indole ancora in formazione – è vivacissimo: rompe suppellettili, attira l’attenzione dei vicini. Ha da poco compiuto i due anni, quando la nonna materna, Ildegonda, consiglia una cura drastica: «Mandatelo in collegio». E in effetti a sei anni, allo scoppio della guerra, Bettino viene mandato dai preti, al “De Amicis” di Cantù.
L’indole di quel bambino tanti anni più tardi farà dire al padre Vittorio: «Da piccolo era molto discolo». E anche se le vie del carattere sono infinite, tutto lascia immaginare che proprio negli anni dell’infanzia si depositi qualcosa che andrà a formare la psicologia del Bettino adulto, quel caratteraccio, quell’orgoglio ribelle, che a ben vedere sarà la molla del suo anticonformismo, ma anche di tante asperità, di tante aggressività. Ci si mette anche la guerra. Nel 1943 la casa dei Craxi in viale Regina Margherita, a Milano, viene distrutta dai bombardamenti, i soldi per mantenere il bambino in collegio scarseggiano e Bettino deve trasferirsi assieme alla famiglia a Lambrate. Qui, frequentando l’Oratorio di San Giovanni in Laterano, si ritrova a vivere esperienze da adulto. Quando gli capita di entrare in obitorio, talora trova i corpi allineati delle persone morte nel conflitto. Cresciuto in queste atmosfere, quel bimbo fa una confidenza al padre. La racconterà il Craxi maturo, tanti anni più tardi in un bel documentario, Benedetto Craxi, ideato da Luca Josi: «In collegio ero molto legato alla ritualità, alla spiritualità, al sentimento, a tutto ciò che un bambino può apprendere dall’educazione cristiana e cattolica e quindi volevo andare avanti, sino in fondo. Volevo diventare prete».
Non andrà così, ma anche perché negli ultimi due anni di guerra, tanti eventi contribuiscono a distrarre il bambino da quella vocazione così prematura. In casa, quando è possibile, si ascolta la vietatissima Radio Londra e l’abitazione dei Craxi a Cesasco diventa luogo di passaggio e di ristoro per uomini in fuga: la madre rischia grosso dando rifugio a ebrei o a ufficiali che non avevano aderito alla Repubblica di Salò, mentre il padre Vittorio fa parte dell’esecutivo clandestino socialista di Milano. In questa atmosfera avventurosa i due fratelli Craxi – Bettino di 10 anni e Antonio di 8 – interpretano quella temperie come possono fare dei bambini. Un giorno, assieme ad altri ragazzini, insultano un corteo di balilla e un’altra volta si mettono a tirar sassi contro la casa del Fascio, sfregiando un’immagine di Mussolini.
Dopo il 25 aprile i Craxi tornano a Milano: il padre Vittorio – nel partito seguace di Lelio Basso – è nominato viceprefetto e diventa il braccio destro di Riccardo Lombardi, uomo tutto d’un pezzo, una delle figure di spicco del Partito d’Azione. Ma nel settembre del 1946 scatta la promozione: il Consiglio dei ministri nomina Vittorio Craxi prefetto di Como. Annoterà Pietro Nenni nei suoi Diari: «Per Craxi l’ho spuntata. Ma De Gasperi era molto nervoso». A Como Bettino studia poco: i genitori decidono di rimandarlo nel collegio di Cantù ma prima di ripartire, il ragazzino si infila dove non potrebbe, come ha raccontato lui stesso: «In un locale dove c’erano armi a bizzeffe, raccolsi una bellissima Colt 38. La misi in valigia e quindi nel materasso». Trasgredire, gli piace. E gli piacerà per tutta la vita.
Il comunismo reale scovato con i propri occhi
Presto anche il padre sarà costretto a lasciare Como: dopo l’aprile del 1947, le sinistre sono indotte a uscire dal governo e anche i prefetti della Resistenza devono togliere il disturbo. A quel punto Vittorio Craxi si candida, come socialista, nelle liste del Fronte popolare, ma la potenza organizzativa del Pci e gli elettori premiano i candidati comunisti. Amici e compagni dei Craxi diranno successivamente che la doppia bocciatura di Vittorio (prima da parte del ministro dell’Interno, il democristiano Scelba, e poi nelle liste del Fronte) lasciano nel giovanissimo Bettino una traccia che ne spiegherà poi la grinta sia verso i democristiani che verso i comunisti. Ci sarà del vero in quella lettura. Ma i fatti portano anche da un’altra parte e dicono che la forte tensione autonomistica di Bettino Craxi non è il riflesso esclusivo di frustrazioni famigliari, ma è segnata da un’esperienza fortemente personale.
Nei primi anni Cinquanta i socialisti vivevano in simbiosi con i comunisti, erano stalinisti come e più dei propri “cugini” e, a suggello, Pietro Nenni nel 1952 riceve il Premio Stalin direttamente dalle mani del “piccolo padre”. Sono anni nei quali nelle sezioni del Psi, spesso a mezzadria col Pci, si pensa che i compagni dell’Est stiano costruendo società socialiste. E anche Bettino lo pensa. Fino a quando uno squarcio si incunea in questa rassicurante cappa di certezze: a metà degli anni Cinquanta il ventenne Craxi partecipa a Praga a una conferenza di studenti socialisti e comunisti europei. E lì, passeggiando per strada, si sente interrogato dai praghesi più intraprendenti, quelli che parlano francese: «Guardate che qui non è come pensate in Occidente», «qui c’è un regime di polizia». Bettino, inizialmente non crede a quelle voci, ma è ansioso di capire: ne parla con un altro giovane, Carlo Ripa di Meana, che era stato inviato a Praga dal Pci per dirigere un mensile e che anni dopo ricorderà: tra i tanti di passaggio «Craxi fu l’unico che volle sapere la verità, incontrare persone e non funzionari, girare nei posti di giorno e di notte». Praga si trasforma in una di quelle illuminazioni che cambiano il senso di una vita. In quei giorni il giovanissimo Bettino assorbe il germe che farà di lui un socialista anti-comunista: una specie rarissima nella sinistra italiana. E questo percorso di conoscenza del comunismo, com’è e non come si vorrebbe, diventa quasi febbrile e culmina alla fine degli anni Cinquanta in un viaggio in Cina, dai tratti “epici” che è sfuggito all’attenzione dei biografi. Craxi, una volta lo raccontò a Beppe Scanni, che per 20 anni è stato uno dei protagonisti operativi della politica estera socialista: «Nel 1958 Bettino, in rappresentanza dell’Unuri, partì in treno per Pechino, per un viaggio che non si sarebbe limitato alla Cina e durò mesi alla ricerca del comunismo realizzato. Per lui il comunismo non fu mai un fatto libresco, didascalico, appreso nella lettura, ma qualcosa che voleva verificare di persona. E verificò. Più volte». E di quel passaggio a Pechino si trova traccia anche nel racconto di Renata Pisu, allora giovane studentessa, che sarebbe diventata anni dopo autorevole sinologa e che nel suo diario, poi trasferito nel libro La via della Cina annotò di avere incontrato nell’ottobre 1958 un giovane arrivato dall’Italia che appena la vide, le chiese: «Vouz êtes chinoise?» e lei rispose in italiano: «Ma non farmi ridere». Scrive Pisu: «L’italiano si chiama Bettino Craxi. La sera sono andata in città perché ci eravamo dati appuntamento a Tienanmen e lui mi ha cantato Nel blu dipinto di blu, una canzone nuova che in Italia, mi ha detto, ora va moltissimo, la cantano tutti».
Quella sera d’autunno in piazza Tienanmen, Bettino aveva 24 anni e Renata ne aveva 23. L’immagine sfuocata restituisce un frammento a suo modo memorabile: un tempo nel quale il tempo e le notizie scorrevano lente, nel quale canzoni famose in patria erano sconosciute a distanza, un tempo nel quale due giovani di sinistra erano lì per provare a capire con i propri occhi se i cinesi stessero realizzando in quello sconfinato Paese qualcosa che potesse somigliare al socialismo, se per caso potesse sbocciare un’alternativa allo stalinismo.
Una giovinezza in minoranza
Attraverso le organizzazioni goliardiche, che diventano per lui il primo “corso professionale” alla politica, in quegli anni conosce compagni che incrocerà per tutta la vita, alcuni dei quali – Achille Occhetto e Marco Pannella – pur diversissimi tra loro, nel congresso dell’Ugi del 1960, si coalizzano contro Craxi e lo mettono in minoranza. Venerio Cattani, un gran signore che frequentava quelle assemblee li ricorda così: «Bravi ragazzi, che studiavano poco e quasi mai portavano a termine la laurea, ma a modo loro erano colti, soprattutto intelligenti e di grosso carattere».
Ma la politica vera si fa nel partito. Nel congresso di Venezia del Psi del 1957, Bettino Craxi entra nel Comitato Centrale ad appena 23 anni, evento allora irritualissimo, ma due anni dopo, alle assise di Napoli, ne resta fuori. Uno smacco. Ma il ragazzo ha la vocazione: nel 1959 lo mandano a Sesto San Giovanni, la “Stalingrado d’Italia”, roccaforte del Pci stalinista. «Qualcuno voleva fottermi», racconterà lui venti anni dopo, ma lì conosce il compagno Armando Cossutta e si fa le ossa. Bettino (come i comunisti) è un funzionario di partito che fa politica, guadagna 40.000 lire al mese e a Sesto va su e giù in tram. Anni austeri, certo, ma il tram gli deve parere romantico, se quello stesso anno Bettino e la sua fidanzata Anna Maria Moncini, che è figlia di un ferroviere, il giorno in cui si sposano, raggiungono il Comune in tram. Da soli. Due anni dopo nasce Stefania e nel 1965 nasce Vittorio: anche per lui, come per il padre Bettino, il vezzeggiativo Bobo diventerà per tutti il suo nome.
Per qualche anno Palazzo Marino entra nella vita di Craxi: in occasione delle elezioni amministrative del 1960 riesce a infilarsi in lista. Per farsi eleggere, bisogna vincere l’ostilità dei funzionari del partito, ma lo spilungone li spiazza: si fa strada con originalissimi gettoni amaranto, preparati da un amico, dentro i quali è scritto il suo nome. Una novità che non piacerà ai benpensanti.
E non piacerà neppure la sua iniziativa di promuovere assieme ai giovani repubblicani e socialdemocratici un comunicato di apprezzamento per l’elezione a presidente degli Stati Uniti di John Fitzgerald Kennedy: da Roma Francesco De Martino gli spedisce un telegramma di richiamo. Un episodio che apre uno squarcio su un’epoca: allora per il Psi era inammissibile simpatizzare per un presidente americano, ma il minoritario Craxi anche in questo caso va controcorrente. Ma l’autonomista Craxi supera il primo, vero ostacolo della sua avventura politica e ce la fa; con 1043 preferenze è eletto in un consiglio comunale speciale: ne fanno parte anche Eugenio Scalfari, Armando Cossutta, Aldo Tortorella, Rossana Rossanda. E Craxi fa subito un altro scatto: ad appena 26 anni entra nel governo della città di Milano, nella prima, storica giunta di centro-sinistra. Assessore all’Economato e poi all’Assistenza. Si occupa di senzacasa, di refezioni per le scuole, di gerontocomi.
Così intraprendente nel cercarsi i voti, per le elezioni del 1963 si fa venire l’idea di un film: lui, Carlo Tognoli e Paolo Pillitteri (che ne è anche il regista) lo dedicano a un tema delicato, l’immigrazione meridionale a Milano, e lo chiamano Milano, o cara. E riescono persino a presentarlo alla Mostra cinematografica di Venezia. Tre anni prima, per un film dalla tematica analoga – Rocco e i suoi fratelli – un regista di sinistra come Luchino Visconti si era imbattuto nel divieto della Provincia di Milano di girare alcune scene all’Idroscalo e molti anni dopo Pillitteri ricorderà la sorpresa che lui stesso provò allora per il giudizio del giovane Bettino, che pur battezzando il regista come «“comunistissimo rampollo di una delle più antiche caste nobiliari milanesi”, aveva commentato: “avercene film così”, a dispetto di una “censura cretina”».
È l’inizio di una scalata che il giovane Bettino affronterà da posizioni quasi sempre di minoranza, ma facendo perno su un nucleo di compagni affiatati, «giovani fortemente autonomisti» ricorderà Aldo Aniasi, sindaco di Milano tra il 1967 e il 1976, «insofferenti fin da allora di qualunque egemonia comunista». Certo, nelle sezioni del Psi è tornato l’antico spirito libertario: è un partito ricco di umanità politica, pluralista e molto “formante” per i suoi dirigenti. Ugo Intini ha descritto le sezioni socialiste di quel tempo come «immutabili nell’arredamento e nell’iconografia attraverso i decenni», ma anche «una scuola di democrazia e di umiltà», perché tutti i dirigenti – da Nenni fino a Craxi – imparavano a «essere contraddetti, duramente criticati e svillaneggiati da quegli spiriti liberi, caustici e intrattabili, che sono sempre stati, per antica tradizione, i militanti socialisti».
L’altra faccia della politica
Quello spirito libertario sarà assorbito e filtrato da Bettino Craxi in modo personale e il suo ritratto più potente di quegli anni lo ha tratteggiato Claudio Martelli, che ricorda così la loro prima volta, nel 1963: «Alto, grande e grosso, quasi calvo come Nenni, Bettino dimostrava più dei suoi anni. Subito sperimentai quel suo modo di parlare franco, diretto, quasi brutale e quella maniera di trattenere l’interlocutore, prendendogli un braccio, spingendolo con la spalla, scoppiettando giudizi e proverbi popolari, fumando come un turco, tergendosi il sudore con un fazzoletto, fingendo di distrarsi se tu interloquivi, fissandoti negli occhi indagatore». E poi tre anni dopo, quando Martelli traghetta nel Psi oltre a sé stesso anche un gruppo di giovani ex repubblicani ed ex comunisti, durante la cena di reciproca conoscenza, il futuro delfino annota mentalmente un altro tratto originale: «Gli piaceva mangiare con le mani (“come gli arabi”, spiegò) e prendere bocconi e assaggi dai piatti dei vicini. Inghiottiva e deglutiva come un boa, ma intanto riusciva a parlare», parlava della politica come «lotta spietata per il potere», raccontava le «ferocie della Resistenza», «mostrandoci l’altra faccia, la faccia nuda e cruda della politica vera, non quella dei nostri sogni di ragazzi». Le descrizioni di Martelli sono memorabili perché nel 1967 Bettino Craxi ha 33 anni, in un momento della vita nel quale l’essenziale è scolpito per sempre dentro una persona.
Un demone, quello dell’andar controcorrente, che il 2 aprile 1968 gli fa pronunciare in Consiglio comunale un discorso politicamente “scorretto” . L’ala più violenta del Movimento studentesco aveva occupato la Statale a colpi di bastone e quel giorno alcuni studenti avevano fatto irruzione in Consiglio comunale, concentrando gli insulti su Craxi: «Socialdemocratico, socialfascista, socialtraditore!». In aula i comunisti assistono compiaciuti e, in coerenza con la linea di simpatia decisa dal segretario del Pci Luigi Longo, presentano un documento di adesione al Movimento. Craxi si rivolge ai comunisti: «Consiglierei di non sorridere…». E li invita a non riesumare «un bagaglio polemico che fu una delle più nefaste degenerazioni del comunismo stalinista» e nega l’appoggio a un documento del Pci, perché è sbagliata «una solidarietà indiscriminata» a un movimento nel quale «fermentano umori che sono torbidi». Un discorso indirizzato contro le compiacenze del Pci e di certi salotti progressisti milanesi verso la sinistra più violenta, un discorso per certi versi profetico, ma anche il preannuncio di un approccio anti-demagogico alla politica che nella sinistra italiana rappresenterà un tratto davvero molto atipico.
È l’anno, il 1968, nel quale Craxi trasforma piazza Duomo nella sua agorà. Al numero 19 – a pochi passi dal 23 dove avevano vissuto Filippo Turati e Anna Kuliscioff, negli stessi portici dove Engels li aveva incoraggiati – trasforma un vasto appartamento nel suo quartier generale, dove nel corso dei decenni successivi passeranno i personaggi più diversi: approdo per i compagni che gli daranno una mano nella nuova scalata: l’elezione alla Camera nel 1968. Grazie a una campagna elettorale di nuovo innovativa, mai vista nel Psi (contatti telefonici, incontri nei supermercati, nei bar, sui treni, porta a porta, cassette, gadget, fotografie del candidato affiancato a Nenni, “militarizzazione” degli attivisti), Craxi viene eletto con 23.778 preferenze, secondo dietro a Pietro Nenni, ma davanti a personaggi ricchi di storia come Riccardo Lombardi, Loris Fortuna, Giovanni Mosca, Eugenio Scalfari. Eletto deputato, non rispetta la regola dell’incompatibilità e non si dimette da segretario della Federazione di Milano: primo segno di un’invadenza e di un’arroganza che diventeranno proverbiali.
Sono anche le elezioni del mezzo flop della tardiva riunificazione tra socialisti e socialdemocratici, che in pochi mesi si risolve in una nuova separazione. Il patriarca del partito e artefice della riconciliazione, Pietro Nenni, è amareggiatissimo e in un drammatico Comitato centrale attacca le correnti, che costituiscono «partiti nel partito», dopodiché annuncia che resterà nel Psi, ma rinunciando alla presidenza.
Giramondo
Craxi, che pure è tosto di natura, accusa il colpo. È incerto, pencola verso il Psdi e comunque, l’ora della decisione diventa «una notte terribile», come ha raccontato Carlo Tognoli. In un’assemblea infuocata alla Federazione di via Lunigiana interviene anche un oltranzista Dario Fo, che alla fine viene tacitato da Corrado Bonfantini, ex capo partigiano che ricordò all’attore i suoi trascorsi nella Repubblica di Salò. E Craxi, annunciando la sua decisione, a un certo punto si commuove: «Nenni resta nel partito per rispetto della sua storia personale e ci chiede di restare nella vecchia casa socialista: io resto per rispetto a lui!».
Certo, Nenni è sempre Nenni ma nelle assemblee di base è additato come il responsabile del fallimento: per il vecchio Pietro è iniziata la stagione del declino: l’autonomismo sa di stantio, dentro il partito esprime una corrente improvvisamente minoritaria, la base invoca unità con i comunisti. E il vento del Sessantotto porta altrove. Per la prima volta, a 35 anni, l’ambizioso Bettino sembra senza un futuro, ma il ragazzone non si sposta, anche al costo di condannarsi all’emarginazione, resta autonomista.
E per capire il personaggio Craxi, bisogna seguire il racconto di un altro amico, Massimo Pini. Dopo quella batosta «i gufi dicevano che per Bettino era la fine», ma lui trascorre due settimane al mare: «Era allegrissimo o si sforzava di apparire tale: stava solo ore e ore: compariva per divorare anche tre piatti di spaghetti. La notte suonava la chitarra» e soltanto l’ultima sera disse: «Bisogna saper aspettare, io sono un orso paziente, perché credo nella forza delle idee». Nel Psi, dopo la parentesi della segreteria di Giacomo Mancini, nel 1972 Craxi accetta la proposta di Francesco De Martino di rappresentare il Psi nell’Internazionale socialista. L’intenzione è quella di non fargli toccare palla? Lui, oltre ad avere il tempo per consolidare la piccola corrente autonomista, trasforma quello “strapuntino” in un’altra occasione di emancipazione. In quegli anni Craxi acquisisce una visione internazionale sconosciuta a gran parte della classe politica italiana. Conosce François Mitterrand, Willy Brandt, Olof Palme, Mario Soares, Felipe Gonzalez. Eloquente la sintesi di Giovanni Mosca, uno dei notabili del Psi di quegli anni: «Qualcuno pensava di tirarselo fuori dai coglioni, mandandolo a spasso e invece il Bettino su quell’incarico costruì gran parte delle sue fortune».
La presa del potere
Nella notte tra il 21 il 22 giugno 1976, a risultati elettorali oramai consolidati, fu chiaro che il Psi era finito su un piano inclinato che avrebbe potuto accelerare la consunzione del più antico partito italiano. Il segretario socialista Francesco De Martino aveva impostato la campagna elettorale per le Politiche sulla richiesta di assimilare il Pci al governo e sei giorni prima del voto, nella tradizionale Tribuna elettorale, lo aveva detto chiaro davanti a milioni di telespettatori: «È interesse del Paese associare i comunisti alla maggioranza». Con un’immagine poi abusata ma efficace, si disse che i socialisti avevano scosso l’albero e i comunisti avevano raccolto i frutti: non soltanto il Psi aveva ripetuto la percentuale più bassa dell’intero dopoguerra (il 9,6 per cento del 1972), ma la Dc e il Pci (col 38,7 per cento e il 34,4 per cento) sommavano assieme il 73,1 per cento dei consensi e i socialisti – provando una sensazione persino più frustrante delle altre – erano 25 punti sotto i comunisti. I due partiti-guida del sistema italiano oramai dominavano il campo e, per la prima volta dal 1947, diventava ipotizzabile quella che sino allora era sempre stata considerata una chimera: una maggioranza, e poi un governo, che vedessero assieme democristiani e comunisti. Con un’“aggravante”: in quella estate il compromesso storico di Berlinguer e la terza fase di Moro rappresentavano le uniche opzioni politiche in campo. Per il Psi si ponevano perciò due problemi molto seri: la riconquista di uno spazio vitale e il rinnovamento del gruppo dirigente.
Lo svagato libertino spiazza tutti
Nei mesi che avevano preceduto le elezioni e fino al Comitato centrale del Psi chiamato a decidere il futuro del partito, pochi si accorgono delle mosse di Bettino Craxi. Un personaggio lontano dallo sguardo dei funamboli delle correnti: il gigante milanese non aveva mai partecipato alle innumerevoli peregrinazioni opportunistiche fra le fazioni socialiste. In questo, Craxi era personaggio originalissimo: la sua carriera – come ha scritto lo storico Silvio Lanaro, nella Storia dell’Italia repubblicana – «era stata lenta e modesta», perché apparteneva a «una sparuta minoranza», che non aveva «mai voluto abdicare ad una ferrea, quasi fanatica coerenza ideale». In effetti Craxi si presenta al Midas alla guida di una pattuglia, quella nenniana, guidata da personaggi molto solidi (il pugliese Rino Formica, il romano Mario Zagari, il presidente della Regione Toscana Lelio Lagorio) ma con una percentuale congressuale marginale.
Tra l’altro a renderlo invisibile, aveva contribuito un malore, capitatogli due settimane prima delle elezioni, quando Bettino era stato messo fuori uso da un collasso diabetico, che anni dopo sarà raccontato da Claudio Martelli, allora molto amico e presente all’episodio: Craxi «si era improvvisamente afflosciato nell’acqua della piscina» di amici, a Capiago in Brianza e portato via in ambulanza. Episodio che si rivelerà sintomatico di una salute altalenante, ma ben mascherata da una complessione psico-fisica prorompente. Bettino Craxi è altissimo – 1,89 è scritto sulla sua carta d’identità – e fa pesare quel suo fisico massiccio. «Faceva paura e lo sapeva», ha scritto Filippo Ceccarelli, nel suo Invano, balzachiano affresco del potere in Italia da De Gasperi a Grillo. Chiunque sia stato vicino a Craxi per più di cinque minuti, ricorda insistite espressioni colorite («non mi rompere i coglioni!») minacce («gli spezzerò le ossa») e sceneggiate plateali, come quella, nella Milano anni Sessanta, raccontata da Aldo Aniasi: «Durante una riunione in sezione, Craxi entrò improvvisamente urlando: “Se qualcuno ha qualcosa da dire!” E tutti ammutolirono».
Una volta a chi gli chiese il segno zodiacale, rispose: «Pesci, ascendente squalo». Per dirla con Enza Tomaselli, la sua segretaria milanese: «Era un tipo burbero». Naturalmente Craxi, sin da allora, era questo piglio e tanto altro ancora. Per dire di un dettaglio apparentemente insignificante: sulla preziosa (allora) Navicella parlamentare in quanto unica fonte ufficiale sugli onorevoli, aveva scritto una biografia di 14 righe, a malapena l’essenziale. Un segnale che resterà: egocentrico, non sarà mai esibizionista e neppure narcisista. A Roma lo conoscono in pochi, ma a Milano qualcuno lo avevo avvistato in anticipo, come Michele Achilli, deputato della sinistra socialista: «Bettino sembrava uno svagato libertino e invece studiava con caparbietà: si era preparato a fare il segretario».
Nel Psi che era arrivato così spossato alle elezioni, esercitavano ancora un’influenza determinante quattro personalità: Pietro Nenni, il patriarca che a dispetto dell’età e delle più recenti sconfitte, emanava ancora il suo antico carisma; Riccardo Lombardi che, seppur privato a suo tempo dell’uso di un polmone da un’aggressione dei fascisti e sebbene fosse guida morale di una corrente solida ma stabilmente all’opposizione, continuava a esercitare un fascino magnetico su tutta la base, come aveva confermato il suo intervento al congresso di Roma del marzo 1976, che era stato salutato da ripetute ovazioni, tra le più calde della lunga storia socialista; il napoletano Francesco De Martino – professore di Diritto romano, del quale erano proverbiali la flemma e la dirittura morale – continuava a pesare, perché capofila della corrente di maggioranza; il calabrese Giacomo Mancini, che aveva guidato il Psi per un periodo breve, con un piglio brillante e aggressivo, aveva mantenuto capacità manovriera e influenza politica. A quei tempi l’opinione pubblica non considerava come una colpa la longevità della classe politica, ma è pur vero che in quella estate 1976 Nenni aveva 85 anni, Lombardi 75, De Martino 69 e Mancini “solo” 60, sebbene con sette legislature alle spalle.
Il luogo fisico nel quale viveva quel Psi – e al tempo stesso lo simboleggiava – era la sede nazionale, in via del Corso 476: un palazzone dell’Ina nel quale, le varie correnti si erano incistate: ognuna aveva la sua stanza e i suoi funzionari. Dalla presidenza di un convegno al direttivo di sezione, «tutto era oggetto di negoziato», ha raccontato Claudio Martelli, «un suk permanente sembrava aver inghiottito metodi e obiettivi, illusioni rivoluzionarie e ambizioni riformiste». Prima delle elezioni, in chiacchierate informali, Craxi (il delfino di Nenni), Claudio Signorile (che lo era di Lombardi) e Giovanni Mosca (un ex operaio attrezzista dell’Alfa, che era la colonna milanese della corrente demartiniana), si erano trovati d’accordo su un punto: i quattro “vecchi” restavano figure venerabili ma oramai le correnti rappresentavano un ostacolo.
Il Grande Sabba del Midas
E così quando il Comitato centrale del Psi viene convocato su una collina alla periferia di Roma, all’hotel Midas (è da allora che gli albergoni faranno da sfondo a tanti eventi politici), proprio quelle chiacchierate diventano l’ordito emotivo, prima ancora che politico, sul quale prende corpo l’operazione-rinnovamento. Al Midas approdano le ambizioni di alcuni “colonnelli”, ma nessun piano ben studiato per prendere il potere. E d’altra parte in quel frangente il Psi era un tipico partito del Secondo Novecento: tanti notabili, tanti pesi e contrappesi, ma anche regole condivise e sostanzialmente rispettate da tutti. Ognuno può fare il suo gioco. Un gruppo di duecento intellettuali di area socialista, tra i quali personalità prestigiose come Giuliano Amato, Norberto Bobbio, Giorgio Galli, Giorgio Ruffolo, Paolo Sylos Labini sottoscrivono un documento di sostegno ad Antonio Giolitti, una candidatura sostenuta da Riccardo Lombardi, ma anche da Eugenio Scalfari. Sostegni vasti e autorevoli che fanno scattare nei “colonnelli” il sospetto di un’eterodirezione: «Espresso», «Repubblica» e magari pure il Pci?
Già da diversi giorni Craxi si era mosso con maggiore accortezza rispetto a tutti gli altri aspiranti alla segreteria. A Milano si era visto due volte in segreto con Enrico Manca, grande azionista della corrente demartiniana. Aveva in tasca il via libera di Claudio Signorile e di Salvatore Lauricella, il notabile che controllava le tessere siciliane. Ma per siglare l’intesa mancava un ultimo tassello. Alle cinque della sera del 16 luglio, il proprietario del ristorante Zi Maria, sulla via Appia, riceve una telefonata da un cliente abituale, il magistrato Gaetano Squillante: «Ci dai un locale dove parlare in santa pace?». Un’ora più tardi si presentano Bettino Craxi e il suo segretario Cornelio Brandini, Giacomo Mancini e il suo amico Squillante. Si accomodano nel giardino interno. In quel colloquio il quarantatreenne Craxi e il sessantenne Mancini si ritrovano a parlare la stessa lingua, quella che entrambi preferiscono da decenni: il partito si può salvare soltanto con una linea autonomista, di orgoglio socialista sia rispetto alla Dc che al Pci. Tornato al Midas, Giacomo Mancini incontra alcuni compagni fidati e tra questi Cesare Marini, segretario regionale del forte Psi calabrese e gli dice: «Rispetto a Signorile e a Manca, Craxi è autonomista ed è anche il più debole dei tre».
Lo strano connubio tra autonomisti di destra e di sinistra
In quelle parole si riassume l’abilità di Craxi, che si sta avvicinando alla meta, perché sa giostrare tonalità diversissime. Non fa nulla per togliere dalla testa dei suoi supporter una certezza: la sua sarà una leadership debole. Incoraggia la spinta degli altri quarantenni verso un ricambio generazionale. Ma non c’è solo sapiente arte machiavellica. Craxi è abile anche nel far leva su un dato politico; oltre a Mancini e alla destra nenniana, c’è un’altra corrente del Psi che non coltiva complessi di inferiorità rispetto ai comunisti: i lombardiani. Certo, i colonnelli della sinistra (Signorile, Cicchitto, De Michelis) sono tutti molto ambiziosi e questo pesa. Certo, la sinistra considera i comunisti alleati indispensabili e giudica un peccato grave quella che Signorile chiama «l’autosufficienza socialista».
Ma è altrettanto vero che nella cultura del loro capo, Riccardo Lombardi, non c’era mai stata subalternità rispetto al Pci. Subito dopo la sconfitta del Fronte popolare, nel pieno della stagione staliniana del Psi, proprio lui, ex azionista, era stato tra i principali artefici del primo tentativo di sottrare i socialisti al frontismo. Nel 1948 gli autonomisti vinsero il congresso, ma si trovarono davanti a un problema ben presto insolubile, come ha ben descritto Fabrizio Cicchitto: «Nel 1948 i soldi per fare politica in Italia li prendevi o dalla Cia, dalla Fiat e dalla Confindustria, o li prendevi dalla Lega delle cooperative e dal Kgb. Allora, Lombardi e suoi compagni non li presero né da una parte né dall’altra e, pur avendo vinto anche il successivo congresso, dovettero arrendersi e riconsegnarono il partito a Nenni e Morandi».
Certo, Lombardi aveva avuto il padre di Craxi come viceprefetto a Milano, apprezzava Bettino per quella sua sfrontatezza autonomista, ma ne diffidava perché lo considerava un «anti-comunista totale», eccessivamente atlantico e autoritario. Sta di fatto che quando Signorile gli chiede di dare il via libera, il vecchio Riccardo non oppone pregiudiziali. E il 17 luglio Bettino Craxi è eletto dalla direzione del Psi nuovo segretario, con 22 voti favorevoli, 8 astenuti (i lombardiani, che così mascherano i dubbi di Lombardi e il via libera di Signorile) e nessun voto contrario.
Ma chi è Bettino Craxi?
In quei giorni di luglio si ripete un effetto ottico, tipico di tanti momenti politici di svolta: quasi nessuno capisce chi veramente sia – e quanta strada possa fare – l’uomo nuovo. Cinque giorni dopo Manca dichiara a «Repubblica»: «È finita l’epoca dei capi carismatici… È l’epoca del lavoro collegiale». E Signorile si impegna in una previsione ancora più vincolante: «Se non marcerà, lo faremo fuori in tre mesi». Sul «Corriere della sera», Giampaolo Pansa, il giornalista che conosce meglio Craxi, scrive: «È un segretario debole». I colonnelli socialisti non possono sapere quel che accadrà negli anni successivi ma non sono degli sprovveduti e in loro pesa la memoria del passato. Sanno che Craxi non dispone di una “sua” maggioranza. In direzione sono presenti tredici ex demartiniani, sette manciniani, sei lombardiani e soltanto tre autonomisti (Lagorio e Formica, oltre al segretario): in qualsiasi momento i suoi elettori possono decidere – anche senza allearsi tutti assieme – di detronizzarlo.
Il segretario lo sa e infatti sul piano della linea politica, dei rapporti col governo e col Pci, il primissimo Craxi è attento a non produrre strappi. Tre giorni dopo essere stato eletto, incontra il segretario del Pci Enrico Berlinguer e al temine, i due partiti prendono atto di una «larga condivisione», espressione che – riletta ex post – appare rituale. E nella sua prima intervista da segretario, Craxi individua un imperativo categorico («Primum vivere»), che appare un approccio minimalista ma in realtà è un altro abbaglio: in Craxi la lotta per la sopravvivenza significherà anche aggressione agli altri “animali” della politica italiana.
Certo, non era facile capire subito che quel giovanotto senza potere avrebbe dominato le sorti della politica italiana per quindici anni. E d’altra parte lui era geloso delle cose che riguardavano la propria esistenza. Pochi sapevano chi fosse davvero Bettino Craxi. Naturalmente i compagni di Milano conoscevano le cose essenziali; che era un anti-comunista tutto d’un pezzo; che aveva un caratteraccio; che abitava in un grande appartamento di 270 metri quadrati in via Foppa, di proprietà della Bnl, dalle parti di San Vittore; che la moglie Anna era una donna riservata, che non amava esibizionismi. Che vestiva in modo casual e nelle grandi occasioni indossava cravatte rosse.
Uno, uno solo scommetteva su di lui da anni: Spartaco Vannoni, proprietario e animatore dell’hotel Raphael, dalle parti di piazza Navona a Roma, dove Craxi era approdato alla fine degli anni Sessanta e dove lo conobbe un grande giornalista e scrittore, Enzo Bettiza, che nel suo Corone e maschere ha dipinto un’immagine strepitosa del Bettino di quegli anni: «Quell’orco in jeans e maglietta, quell’omone ruvido e anonimo, un po’ zoologico, che camminava sempre con la testa voltata per scoprire l’ombra di qualche segugio immaginario alle spalle». Dall’estate del 1976 il baricentro di Craxi diventa stabilmente Roma. E l’uomo accentua alcune inclinazioni. Intanto diventa, se possibile, più abitudinario di quanto non fosse già. Abitudinario nella scansione della giornata: all’hotel Raphael, si sveglia tardi, va a pranzare in orari meridionalissimi, attorno alle 14.30 e subito dopo si concede un riposino per tirare fino alla cena, collocata attorno alle 22.30. Sempre gli stessi anche i ristoranti, rigorosamente attorno al Raphael, dove consuma pranzi suicidi per un diabetico (pasta, salumi, formaggi e gelati), cibo che digerisce senza problemi ma che alla lunga gli sarà fatale; sempre le stesse le sigarette, le North pole e le Salem al mentolo; sempre uguale il modo di scrivere articoli e discorsi (a penna, sui fogli disponibili al momento); sempre uguale la domanda «che ore sono?», visto che non porta l’orologio, ma costante anche l’estrema curiosità per le vicende e i segreti degli altri.
Il fattore umano
Con una debolezza. Come racconta Rino Formica, suo amico di una vita, Craxi era sospettosissimo verso tutti quelli che orbitavano attorno al partito, ma ingenuo verso personaggi esterni al suo mondo, dei quali era portato a fidarsi di più: un’attitudine che lo tradirà in passaggi cruciali della sua vita. E in quei primi tempi romani, Craxi dimostra un approccio emotivo ai problemi, un tratto – quello psicologico – che il giornalismo politico e gli storici confinano tra le curiosità e che invece aiutano a spiegare le scelte fondamentali dei leader. Curiosamente, ma non troppo, i migliori profili emotivi del personaggio li hanno tracciati due donne. Marina Ripa di Meana: «Era un impasto di allegria, sotto il tagliar corto. Sforbiciava i fronzoli a tutti. Era cafone, ma anche sentimentale. Era sbrigativo, ma attento, preoccupato». E la numerologa Maria Luisa Bavastro, su «Gente» del 12 agosto 1983 scrive: «Collerico ammortizzato, estroverso, sa ascoltare, ma non è realmente influenzabile», «non tollera alcun tipo di repressione», ha impennate di scontrosità «di cui occorre tener conto».
Refrattario a ogni tipo di repressione: una definizione che potrebbe riassumere il senso di una vita, o comunque la molla di tante scelte politiche. Un uomo così abitudinario, ma capace di sentimenti così contrastanti, trasferito sullo scenario politico sfoderò subito due armi non convenzionali. La prima: il gioco d’anticipo e poi sempre più di attacco, in un campo di gioco popolato da difensivisti e al massimo da contropiedisti. Una vocazione che sul breve gli consente di spiazzare nemici e compagni. Seconda arma non convenzionale. Craxi cambia schema, ma anche campo di gioco: pur restando per cinque anni – dal 1976 al 1981 – un segretario sostanzialmente di minoranza, riesce a trasferire la contesa in campo aperto. Fuori casa si susseguono eventi epocali: il 30 luglio 1976 ottiene la fiducia il governo Andreotti, il primo dal 1947 con l’astensione del Pci; il 16 marzo del 1978 viene rapito dalle Br Aldo Moro e 55 giorni dopo viene ucciso. Il Pci esce dalla maggioranza. Su tutte queste partite Craxi alza la posta, spiazza, riesce a esprimere un protagonismo. Del suo partito. E suo personale.
Vince in “trasferta” ma in casa deve difendersi
Nella primavera del 1978, una volta vinto il congresso di Torino del Psi e dopo aver sfidato Dc e Pci sulla vicenda Moro, Craxi aveva dovuto fronteggiare una nuova emergenza: le dimissioni anticipate del Presidente della Repubblica Giovanni Leone. Craxi, in vista delle votazioni per il nuovo Capo dello Stato, la sera del 30 giugno cena con Enzo Bettiza e gli confida: «Ho fatto credere ai comunisti che Sandro Pertini mi è contrario e questo li spingerà a sostenerlo…». E, infatti, dopo un informale ballottaggio tra Giolitti e La Malfa, i comunisti rilanciano Pertini che viene eletto a larghissima maggioranza. Si è discusso a lungo se Craxi abbia subìto il Presidente socialista o se ne sia servito. A sostegno della tesi del Bettino osteggiato militano anni di successive incomprensioni e anche di litigi tra lui e Pertini. Negli anni di Hammamet, Craxi confiderà: «Sandro mi detestava, però volle passare alla storia come il Presidente che aveva portato un socialista a palazzo Chigi e se lui non fosse stato al Quirinale l’incarico non lo avrei mai avuto».
Tra il 1979 e il 1980 Craxi rischia più di una volta di perdere il controllo del partito. Le elezioni del 1979 si rivelano un flop per il Psi: 9,8 per cento. Nel frattempo dentro il partito, come racconterà Claudio Martelli, «la sinistra socialista era cresciuta molto, troppo», grazie al dinamismo organizzativo del veneziano Gianni De Michelis e alle “morbidezze” di Claudio Signorile. Si apre una guerra intestina, che si gioca anche sul sospetto (messo in campo dai craxiani) di tangenti per la sinistra interna nel caso Eni-Petromin. In vista di un decisivo Comitato centrale De Michelis passa col segretario, un sostegno che non sarebbe bastato se Signorile non avesse siglato un armistizio con Craxi. A Lombardi, come garante del patto, viene assegnata la presidenza del partito. Ma alcune settimane dopo – quando il vecchio Riccardo si dimette, denunciando l’irruzione nel Psi del Fuhrerprinzip – l’allarmato richiamo viene lasciato cadere anche dai suoi compagni della sinistra: è il segno che Craxi ce l’ha fatta. Senza controllare del tutto il proprio partito e con neppure il 10 per cento elettorale, lo sconosciuto Bettino ha conquistato il centro del ring. In questi anni la politica è fatta così: le posizioni si scalano una alla volta. Alternando spregiudicatezza e politica pura.
“O scassacazzi”:
una rottura antropologica a sinistra
È il 17 luglio del 1976. Al piano nobile di Botteghe Oscure va in scena una sequenza icastica, che parla da sola. Da poche ore il Psi ha deciso di affidare quel che resta del proprio futuro a Bettino Craxi e il segretario del Pci Enrico Berlinguer riunisce i suoi più stretti collaboratori, tra cui Massimo D’Alema, e a loro consegna un giudizio lapidario: «Un gruppo di avventurieri si è impadronito del Psi». I compagni attorno al segretario hanno un sussulto: c’è qualcosa di irrituale nel tono di un personaggio abituato a calibrare pensieri e parole. E a chi gli chiede le ragioni di una valutazione così netta e così anticipata, il segretario del Pci aggiunge: «Non potete immaginare quali guasti ne conseguiranno, voi non avete idea di cos’è la loro vita personale». In quelle parole così trancianti ci sono almeno due elementi qualificanti: prima ancora che Craxi si presenti, c’è un giudizio già molto definito su di lui. Ed è un giudizio subito sprezzante. Di sicuro, il capo del Pci appare sinceramente preoccupato. Ma soprattutto – ecco il punto – appare sinceramente spiazzato: c’è qualcosa che non sa “riconoscere” in quello strano personaggio che si staglia all’orizzonte.
Autonomo, quindi un bandito
Il convincimento si rafforza nei due anni successivi, nel corso dei quali Craxi è protagonista di alcune iniziative politiche incisive: la Biennale sul dissenso nell’Est comunista, l’iniziativa umanitaria per salvare Aldo Moro, l’elezione a capo dello Stato di Sandro Pertini. A conclusione di questo ciclo, il 18 luglio 1978, il capoufficio stampa del Pci Antonio Tatò scrive a Enrico Berlinguer una di quelle note delle quali il segretario si serviva anche nella stesura dei suoi interventi, un afflusso di appunti che indica una notevole assonanza tra i due: «Tutti i compagni della segreteria» si legge nella lettera di Tatò «convengono a quattr’occhi che Craxi è un avventuriero, anzi un avventurista, uno spregiudicato calcolatore del proprio esclusivo tornaconto, un abile maneggione e ricattatore, un figuro moralmente miserevole e squallido, del tutto estraneo alla classe operaia». E poi, ai giudizi dei compagni della segreteria, Tatò aggiunge il proprio: «Con Craxi appare in Italia un bandito politico di alto livello». Il capo di accusa? È così sintetizzato: «Esasperato autonomismo programmatico».
Le date sono importanti, decisive per capire cosa stia per capitare a sinistra: per Berlinguer e Tatò, il nuovo leader socialista è un gangster politico, ma non perché sia un “tangentista” (dovranno trascorrere più di dieci anni prima che l’approvvigionamento illegale del Psi diventi di rilevanza pubblica), ma perché protagonista di una politica troppo autonoma dal Pci. Ed essendo giudizi affidati a una sfera riservata, si tratta di valutazioni che valgono doppio: sono sincere, non condizionate dalla necessaria mediazione politica e al tempo stesso anticipano temi che diventeranno polemica aperta. Il dato psicologico e politico che affiora da quei giudizi è chiaro: diffidano di Craxi perché è diversissimo da loro stessi, ma anche da tutti gli altri che lo hanno preceduto nel mondo della sinistra.
«Chillu nun lo voglio!»
E d’altra parte Craxi, prima di diventare segretario, era risultato indigesto, persino un po’ alieno, anche ai suoi compagni socialisti. A metà degli anni Sessanta il giovane Bettino chiede una mano a un personaggio speciale e influente, Venerio Cattani, autonomista storico, uomo mai retorico, «ragionamento puro» diceva di lui il giovanissimo Claudio Martelli. Craxi chiede a Cattani una mano per poter approdare a Roma, magari alla Federazione giovanile. Cattani si informa col segretario del partito, che all’epoca era De Martino. Uomo pacato, che quella volta risponde alterato: «No e no! Nun lo voglio, chillu è ’nu scassacazzi…». Cattani fa finta di non capire: «Cos’è?». E De Martino: «È uno sfasciacarrozze». Chiosò tanti anni dopo, lo stesso Cattani: «Mai visione fu più profetica: Saturno aveva identificato Giove».
Un gran temperamento, ma non solo. Appena sale alla ribalta, il quarantatreenne Craxi è espressione anche di una generazione diversa da quella che domina la politica italiana, da decenni e anche in quell’estate del 1976: Giulio Andreotti è sulla breccia da trent’anni; Aldo Moro aveva fatto la sua prima esperienza nell’Assemblea costituente; il segretario uscente del Psi Francesco De Martino aveva appena compiuto 69 anni, Enrico Berlinguer ne aveva solo 54 ma era stato “iscritto” alla direzione del Pci ben diciotto anni prima.
E neppure l’anagrafe spiega tutto, come scriverà molti anni dopo nel suo Credere, tradire, vivere Ernesto Galli della Loggia, enucleando il punto essenziale: Craxi e le personalità del nuovo corso socialista sono «uomini nuovi, rappresentanti della prima vera rottura antropologica che si fosse vista dal 1945 sulla scena pubblica italiana». Craxi in particolare è figlio di un «ambiente spiccatamente metropolitano e moderno», in lui e nella sua cerchia, «la cultura e lo stile del vecchio libertarismo socialista già erano trapassati senza problemi in uno scapestrato libertinismo borghese». Ecco il punto: Craxi è fatto di una pasta e di una cultura diversa, antropologicamente parlando è su un altro pianeta. Per diversi motivi.
Milano città aperta
Bettino Craxi è figlio anche di una certa Milano, che nella rinascita del secondo dopoguerra è una città aperta, tollerante, industriosa. Certo, come formazione Bettino è il tipico “quadro” di partito, col suo bravo cursus honorum: consigliere comunale, assessore, segretario cittadino, deputato. Ma in un partito strutturato come quel Psi, per crescere, devi frequentare e assorbire la “tua” città. Il Psi milanese tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Settanta è un partito prevalentemente di operai, ferrovieri, dipendenti comunali, professionisti e intellettuali, ma gli sono vicini anche alcuni importanti imprenditori, sia pure quelli sensibili alle questioni sociali.
Angelo Rizzoli, che crebbe al Martinitt, perché da piccolo era nullatenente e orfano di padre come Nenni, fu amico di una vita del vecchio Pietro; anche Arnoldo Mondadori, da giovane era stato socialista e proprio il Psi lo aveva aiutato a riprendersi l’azienda nel dopoguerra. Dopo la svolta anti-sovietica, a partire dal 1957, il Club Turati era diventato il ritrovo dei “giovani leoni” dell’imprenditoria milanese: Giangiacomo Feltrinelli, Aldo Bassetti, Carlo Caracciolo, Vittorio Olcese, Roberto Olivetti. Socialisti erano i più bravi pubblicitari, a cominciare da Guido Mazzali, un gran signore che durante il fascismo aveva battezzato il celebre motto “Chi beve la birra campa cent’anni” e che aveva coniato lo slogan nenniano del 1945 “Vento del nord”. Successivamente, da capo del Psi milanese, era diventato anche uno dei maestri del giovane Bettino. Ma dopo Mazzali, si erano avvicinati ai socialisti anche pubblicitari come Armando Testa.
E sempre di area socialista erano i promotori dei primi movimenti dei consumatori, come Giovanni Ghedini; o alcuni dei pionieri nella comunicazione delle imprese, come Toni Muzi Falconi. Anche la Milano del grande teatro orbitava tutta attorno al Psi: il Piccolo guidato da Giorgio Strehler e Paolo Grassi – col quale il giovane Bettino scambiò sentimenti opposti – e che diventerà nel 1977 il primo presidente della Rai dell’era Craxi. In questa Milano, ben raccontata da Bruno Pellegrino nell’Eresia riformista, pullulano vivacissimi e pluralisti club di area socialista, che facevano il controcanto alla Casa della Cultura, diretta da Rossana Rossanda, solido bastione della cultura comunista. E dunque, oltre al Turati, la Società Umanitaria, la Fondazione Brodolini, il Circolo di via De Amicis, il Centro Morandi, il Centro Internazionale di Brera, l’Istituto Ernesto De Martino. Luoghi nei quali la discussione scorreva libera, con battaglie intestine e grandi passioni. Accanto al Psi colto dei club, c’era il Psi popolare delle sezioni di periferia, con i giovani più scapigliati (tra i quali Craxi) che la sera si ritrovavano al mitico bar Giamaica: un mix di umori e di ambienti sociali, un melting-pot nel quale fermentava spirito critico, in quegli anni di ideologie contrapposte. Nei decenni successivi si assocerà, con qualche ragione, Craxi alla Milano da bere degli anni Ottanta. Ma la Milano nella quale il giovane Bettino si forma è la città aperta, a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta, che si rivelerà contagiosa ben oltre il recinto della politica: il Pirellone e la Torre Velasca, il boom economico e la costruzione della “nuova Milano”, i nuovi quartieri periferici e la stagione dell’art, del design, dei concerti allo Smeraldo. Tutti fermenti che fanno vivere alla “capitale morale” una di quelle stagioni magiche che, ogni tanto nel corso della storia, come d’incanto fanno lievitare il tono di una città e di chi ci vive.
Questa è l’aria che respira il giovane Craxi negli anni della formazione, tra i 20 e i 35 anni: naturalmente non assorbe tutto quel che circola e non tutto gli piace. Ma con un punto fisso: fu «tra i pochissimi» come ha scritto Luciano Cafagna «che non avevano mai accettato in tutti quegli anni Sessanta e Settanta compromissioni con la demagogia». Ma questa incompatibilità con la demagogia si rivelerà un tratto costante, dalla valenza antropologica: tornerà in diversi tornanti decisivi della sua vita. In uno in particolare: quando il Craxi maturo sarà chiamato a decidere se carezzare la “bestia” populista: se appellarsi o meno ai sentimenti più istintivi del popolo.
Un anticonformismo a tutto campo che gli fa sposare cause sperdute e guardate con ostilità a sinistra: la nuova frontiera di Kennedy. O la dissidenza cecoslovacca. Nel 1968 proprio Craxi trova la tipografia per stampare «Listy», la versione italiana della Literaturnaya List, l’organo degli esuli guidati da Jiri Pelikan, già direttore della radio cecoslovacca, guardato a distanza dai comunisti italiani. Eterodossa anche la compagnia degli amici più stretti del giovane Bettino: due di loro – Giorgio Gangi e Carlo Tognoli – sono impegnati nell’Unione Democratica amici di Israele, una “militanza” irrituale per la sinistra milanese di quegli anni; e anche le figure emergenti del suo giro sono eterodossi: Claudio Martelli è un ex repubblicano di cultura laica, Ugo Finetti è un ex comunista amendoliano, mentre Cornelio Brandini, che di Craxi diventa il segretario, è un ex anarchico, con una passione per l’arte e per la riscoperta di tendenze artistiche dimenticate. Nel suo Centro internazionale di Brera ospita anche giovani attori di talento: vi passeranno anche Nanni Moretti e Roberto Benigni, che una sera – con Craxi in sala – si esibì in uno show inneggiante a Berlinguer.
Un milanese a Roma: il trasgressivo Raphael
E quando si trasferisce per gran parte della settimana a Roma, Bettino fa pianta stabile all’hotel Raphael, dove via via si impasta con un’umanità di eretici, di pragmatici, di irregolari, di personaggi antropologicamente diversissimi dagli austeri notabili democristiani. O dagli integerrimi e moralisti dirigenti del Pci. Ma diversi anche dai vecchi capi socialisti, Pietro Nenni, Francesco De Martino, Riccardo Lombardi che – esattamente come Craxi – vivevano tutti e tre in case di affitto. Ma mai avrebbero abitato per quasi trent’anni in un albergo. Un luogo che aiuta a capire il personaggio Craxi.
Ospitato in un antico palazzetto coperto di foglie, in largo Febo, a due passi da piazza Navona, il Raphael era stato messo su nel 1963 da tre personaggi – Eugenio Reale, Spartaco Vannoni e l’architetto Giuseppe Perugini – accomunati dal medesimo destino: essere usciti dal Pci dopo uno strappo violento. Reale, un medico napoletano di poche parole, era stato uno degli uomini più vicini a Togliatti: tra il 1945 e il 1947 aveva fatto l’ambasciatore in Polonia, dove aveva familiarizzato con l’allora segretario di ambasciata, Spartaco Vannoni. Toscano di Ponte a Mensola, una pallottola nella gamba durante la Resistenza, Vannoni si era iscritto al Pci a 17 anni, ma da uomo sanguigno quale era, quando aveva lasciato il partito dopo i fatti di Ungheria, aveva scritto una lettera ai compagni della sua sezione: «Invito voi ad uscire da questo partito che continua ad avallare gli assassini». Il segretario della sezione lo aveva pubblicamente apostrofato come «una merda» e Vannoni era andato a cercarlo per scaricargli un pugno.
Biondo, alto, una moglie polacca e successivamente una tunisina, passionale e diffidente, nel suo Raphael Vannoni aveva accolto ospiti come Eugenio Montale e Jurij Gagarin e aveva trascorso notti intere col suo cliente Bettino Craxi a parlare della natura del comunismo realizzato. Di quel semplice deputato socialista, poi leader, era diventato confidente, anfitrione, selezionatore acuminato e ironico dei “clienti”. Al Raphael Craxi sbrigava metà del suo lavoro e vi riceveva una umanità variopinta. Non soltanto Berlinguer e Moro, ma anche ambasciatori e faccendieri, dissidenti dell’Est europeo e Licio Gelli, ministri e segretari di sezione, imprenditori e registi, attrici e giornalisti, oltre naturalmente agli amici veri delle diverse fasi della sua vita. Certo, pochi avevano accesso ai due luoghi più appartati: il ristorante “Il Convento”, dove Craxi si accomodava sul suo fratino e il loft, dove quasi tutto era sottosopra, dalle carte ai libri, il televisore era senza telecomando, ma in compenso la finestra si affacciava su un’altana dalla quale si godeva una rigenerante vista sui tetti della Roma barocca.
Uno dei frequentatori più assidui del Raphael, Massimo Pini, nella sua biografia di Craxi, ha lasciato anche un affresco affettuoso su come si spegnevano quelle giornate: molto tardi, magari tornando da una delle tantissime passeggiate in piazza Navona «qualche volta Bettino si addormentava su un divano davanti al bar e allora Vannoni lo copriva con un plaid, tutelandolo con i suoi occhi mobilissimi, mentre gli ultimi amici nottambuli come lui, lasciavano che la conversazione languisse, a bassa voce».
Come ha scritto Filippo Ceccarelli il Raphael era «casa, mensa, salotto, corte, alcova e quartier generale». E proprio perché era tante cose, quasi tutte le cose possibili per un uomo, il Raphael era diventato il caleidoscopio della weltanschauung craxiana. Era il luogo eletto della curiosità rabdomantica e pericolosa del leader per un’umanità non uniforme: talora trasgressori dichiarati, talora personaggi nei quali prevalevano gli interessi o le passioni. Personaggi uniti dal fatto di essere diversissimi tra loro. Nessun altro luogo, come il Raphael – oasi per il leader capo ma al tempo stesso porto aperto nel mare romano – misura la distanza culturale, umana e antropologica di Bettino Craxi dai due personaggi con i quali è giusto confrontarlo. Francesco De Martino che lo precede alla guida del Psi, era un professore che si separava per il periodo più breve possibile dalla sua casa napoletana, in via Aniello Falcone al Vomero, dove coltivava la sua passione per i canarini, che cinguettavano dalle loro voliere e venivano gratificati dal padrone con una frase di George Eliot: «Gli animali sono così piacevoli, non fanno domande, non criticano». E quanto al suo “nemico” Berlinguer, per anni protetto al secondo piano di Botteghe Oscure, «il suo riserbo era leggendario», come ha scritto una giornalista di casa come Miriam Mafai. Ha raccontato Valdo Spini, vicesegretario del Psi tra il 1981 e il 1984 in quota lombardiana e promotore di preveggenti progetti sulla riforma dei partiti lasciati cadere dal suo partito: «Nel self-service della Camera Berlinguer pranzava da solo e i deputati comunisti si tenevano a distanza». Protetto da Antonio Tatò, «che selezionava telefonate e incontri» e di solito incontrava lui gli esponenti dei vari partiti «per riferire poi fedelmente a Berlinguer». Il socialista Craxi viveva in uno strano suk, il comunista Berlinguer filtrava quasi tutto dal suo quartier generale di Botteghe Oscure.
Il rampantismo
Tra i segni riconoscibili della discontinuità antropologica craxiana va ascritto sicuramente il fenomeno del rampantismo, dell’arrivismo, dell’arroganza, del denaro e del potere come valori in sé. È un fenomeno che si evidenzia nella seconda metà degli anni Ottanta: tipico dei craxiani, più selettivo in Craxi. Dal punto di vista del linguaggio politico con lui finisce sicuramente la stagione delle “buone maniere”, che aveva segnato i rapporti tra tutti i grandi partiti della Prima Repubblica, pur nella divisione spesso cruenta delle parti e finisce per effetto di una cesura stilistica, semantica, di costume. Craxi usa un linguaggio diretto e senza sfumature lessicali, che spiazza sia i democristiani abituati al politichese, sia i comunisti, prima di allora mai assediati sui propri totem. Poi, nel corso degli anni la diversità dei socialisti diventerà qualcosa di diverso: diventa un costume proverbiale. Una identificazione – i socialisti sono tutti ladri – che pur nella evidente semplificazione, era opinione diffusa. E non fu contrastata. Nè correggendo i comportamenti, ma neppure inventandosi una contro-narrazione.
Un fenomeno che trascina una domanda: perché questa indifferenza all’esibizione di potere? L’analisi più scevra da opposti pregiudizi – e anche tra le più profonde – resta quella di Mariella Gramaglia che ne scrisse nel saggio Credere, tradire, vivere uscito per Einaudi. Si parte da una premessa: Craxi, per tentare di salvare Aldo Moro, affermando che lo Stato non è un fine in sé, si era misurato con «l’idea della morte come limite che nulla trascende, perché nulla ha un senso che sovrasta l’esistenza individuale». In questo c’era una traccia di una inclinazione propria di quei socialisti: «La percezione della irreparabilità della morte, così estranea alla cultura politica italiana, tutta per certi versi “religiosa”». Ma questa estrema consapevolezza del limite e della morte può produrre due effetti molto diversi tra loro: allentare «il vincolo collettivo», accelerando quello famelico del «si vive una volta sola». O invece può spingere a interpretare la modernità come valorizzazione di «meriti ed intelligenze» e come «insofferenza per un diffuso stile ministeriale» nel quale «si appiattiscono passioni e ambizioni». Il vitalismo craxiano, all’inizio, porta in tante direzioni. Diverse tra loro. Spesso opposte.
L’assillo dei soldi
I soldi. I soldi per far politica. Per Bettino Craxi è un pensiero che si porta dietro dagli anni della giovinezza e quando diventa segretario quel pensiero diventa un assillo. Un assillo che lo accompagnerà sino alla fine dei suoi giorni, trasformandosi in una maledizione, che segnerà la sua vita, ma anche la memoria che di lui si tramanda. Nella fine estate del 1976, nelle prime riunioni riservate, Craxi spiega il suo punto di vista ai compagni della segreteria: la Dc e il Pci hanno sempre avuto le loro fonti di approvvigionamento irregolare e illegale, il Psi ha avuto briciole e dunque è arrivata l’ora di conquistare l’autonomia finanziaria, che «è come l’aria per respirare». L’assioma è chiaro: senza autonomia finanziaria non c’è autonomia politica. E in effetti durante la stagione di Craxi, il Psi tornerà a respirare finanziariamente, ma un eccesso di aria porterà a una saturazione. Ad un infarto politico che è la somma di tanti disturbi. Una storia che ruota attorno a Craxi, ma è ricca di comprimari, debolezze personali, verità nascoste, sorprese.
Caro Berlinguer…
Nei primi mesi da segretario, Craxi affronta tre missioni riservatissime. La prima si consuma durante un incontro con Enrico Berlinguer e la segreteria del Pci. Craxi va subito al sodo: «Sarebbe logico che le cooperative e la Cgil dessero una mano anche a noi». Berlinguer, spiazzato da tanta franchezza, lascia cadere immediatamente: «No, Craxi, le cooperative e la Cgil non aiutano il Pci». L’intemerata craxiana era stata brutale e condividerla anche solo concettualmente avrebbe significato legarsi a quell’uomo che Berlinguer stesso pensava fosse un avventuriero.
Seconda missione. Nel novembre del 1976 Craxi è a Stoccarda per incontrarsi con Willy Brandt, l’ex cancelliere tedesco, che pur essendo stato costretto a dimettersi due anni prima per le conseguenze di un doppio scandalo, restava figura carismatica per i socialisti di tutto il mondo. Finito l’incontro, al quale partecipa anche Claudio Martelli che l’aveva organizzato, arriva il momento delle chiacchierate più opache. Craxi, in cuor suo, spera che i socialdemocratici tedeschi siano pronti a dargli una mano. Da anni la Spd finanzia i partiti socialisti in difficoltà e in effetti l’esponente socialdemocratico addetto alla bisogna, si presenta ai due italiani e annuncia un contributo da 120 milioni di lire. Craxi, col temperamento che ancora pochi gli conoscono, informa i compagni tedeschi che il loro assegno, «assieme a quello di analoga entità emesso dalla segreteria amministrativa del Psi, servirà per dare una mano ai socialisti e ai radicali cileni».
Terza missione. Nella tarda primavera del 1978, Bettino Craxi incontra il nuovo ambasciatore americano a Roma, Richard Gardner, e durante quel colloquio il segretario socialista presenta un’istanza, affrontata con una franchezza che diventerà presto proverbiale: «Da anni, caro ambasciatore, il Psi è l’unico partito che non riceve sostegni dagli Stati Uniti e saremmo interessati a sapere se siate disponibili a invertire la tendenza…». Gardner, che parla un buon italiano, è lesto nella risposta: «Proprio questa mattina il giornale del suo partito, l’Avanti!, ha accusato anche noi americani, di ingerenze» e, in ogni caso, «posso assicurarle che il presidente Carter non userà queste pratiche».
Dopo diversi mesi di sondaggi in Italia e fuori, Craxi ritiene di dover passare alle maniere forti. Certo, nessuno dei suoi interlocutori aveva il dovere di aiutare il nuovo leader socialista, sta di fatto che Craxi capisce che il Psi è considerato un parente da lasciare povero. È anche dal fallimento di queste missioni, che il nuovo leader socialista decide di cambiare spartito verso la fine del 1978. Ma per capire la novità enorme che sta per irrompere nel costume e nella prassi socialista, è necessario un passo indietro.
I soldi degli altri
Nel 1976, nelle prime riunioni di segreteria, Craxi intrattiene spesso i suoi compagni con aneddoti saporiti sulla “preistoria” del finanziamento. A cominciare da Enrico Mattei che aveva formalizzato il ruolo degli enti pubblici come cassa dei partiti e delle loro correnti, producendo un sistema che, allora e non dopo, sarebbe diventato tra i più corrotti d’Europa. I democristiani facevano la parte del leone: oltre alle grandi imprese private di riferimento, erano finanziati dalle Partecipazioni statali, dalle cui elargizioni stornavano una quota anche agli altri partiti di governo, compresi i socialisti. Craxi racconta ai suoi compagni storie tramandate da testimonianze orali ma, negli anni successivi alla sua uscita di scena, il suo racconto troverà conferma in due dati davvero clamorosi.
A fine carriera William Colby, mandato in Italia negli anni Cinquanta dalla Cia, di cui fu direttore tra il 1973 e il 1975, rivela che la quantità di dollari dispensati per l’Italia nell’immediato dopoguerra «rappresentavano la somma più alta che l’agenzia avesse mai investito in una singola operazione politica». E quando si determinavano emergenze (rischi di vittoria delle sinistre) bisognava rincarare la dose: alla vigilia delle elezioni amministrative del 1956 – ha raccontato Colby – «fui autorizzato a caricare di milioni di lire il sedile posteriore della mia Fiat e a distribuirli tramite il mio agente esterno».
Ma in quegli stessi anni anche il Pci diventa il beneficiario del più imponente investimento mai stanziato dall’Urss a favore di un partito fratello. Secondo le ricerche compiute negli archivi del Cremlino dallo storico russo Victor Zaslavsky, a partire dal 1953, il Pci – diventa e resterà fino agli anni Settanta – il più finanziato partito comunista occidentale, raggiungendo nel 1958 ad assorbire il 54 per cento del Fondo internazionale del Pcus a favore dei partiti fratelli. E chi doveva sapere, si teneva per mano: Paolo Emilio Taviani, che era stato ministro dell’Interni negli anni Cinquanta, più tardi raccontò che i finanziamenti sovietici al Pci erano noti ai governi dell’epoca, ma rivelarli, avrebbe significato «la guerra civile». E Gianni Cervetti, dirigente milanese del Pci, autore di un fondamentale libro, L’oro di Mosca, è riuscito a ricostruire un dettaglio a dir poco strepitoso: gli aiuti sovietici arrivavano in dollari, esattamente come quelli dagli Usa, e «non è affatto detto che i cambiavalute fossero sempre differenti».
L’elemosina ai socialisti
Si è scoperto soltanto a cose fatte: proprio perché l’Italia era uno strategico Paese di frontiera, i partiti più aiutati in Europa da Usa e Urss sono stati Dc e Pci. I socialisti? Poco interessanti, poco sovvenzionati. Paradossalmente, ma questo Craxi lo raccontava in modo sfumato per rispetto verso Nenni, nei primi anni del dopoguerra il flusso più costante di soldi era venuto dai comunisti russi. Come ha ricostruito Zaslavsky, dal 1950 al 1965, il Psi ottenne ogni anno dall’apposito Fondo un discreto gruzzoletto di dollari (si passò dai 100.000 dollari del 1950 ai 500.000 del 1956, bloccati dopo la nascita del centro-sinistra), ma nel 1949 l’ingerenza era stata potente e decisiva per spostare gli equilibri all’interno del partito, in una fase nella quale gli autonomisti di Lombardi e Jacometti avevano conquistato la maggioranza.
Dall’archivio della politica estera della Federazione russa è riemersa una relazione dell’ambasciatore sovietico a Roma Michail Kostylev dalla quale risulta evidente lo sforzo congiunto del Pcus e del Pci per riportare Nenni alla guida del Psi. Il 7 giugno 1949 Agostino Novella, della direzione del Pci, informa l’ambasciatore dell’escamotage utilizzato per riprendere in mano il partito: Togliatti aveva consentito l’acquisto di migliaia di tessere socialiste, militanti comunisti si erano iscritti al Psi e al congresso di Firenze di poche settimane prima, i filosovietici avevano ripreso in mano il partito, vincendo sul filo di lana: 51 per centro contro 49.
In compenso, come ha ricordato Ugo Intini, «gli americani non si sono mai fidati pienamente dei socialisti» e dunque al Psi erano restate le briciole. E d’altra parte trattare con i privati, lo ha raccontato l’ex segretario Giacomo Mancini, era considerato «peccato mortale» e questa pruderie provocava scoperte spiazzanti. Come in occasione della riunificazione Psi-Psdi del 1968: i socialisti scoprono che i socialdemocratici ricevono dalla Fiat 30 milioni al mese, una cifra molto superiore a quella che i nenniani riescono a raccogliere, battendo cassa all’Iri e all’Eni.
Certo, si trattava di partiti che vivevano, tutti, al di sopra delle proprie possibilità e in preda a quella che lo storico Piero Melograni ha definito una diffusa “megalomania”, dimostrata tra l’altro da un fenomeno unico in Europa: ogni partito aveva un giornale. Per fronteggiare scandali crescenti, nella primavera del 1974 Camera e Senato approvano in tutta fretta una legge che istituisce il finanziamento pubblico ai partiti, mettendo a disposizione 45 miliardi statali più 15 in caso di elezioni. In una lettera inedita, ritrovata molti anni dopo ad Hammamet, risulta che quando De Martino passò il testimone a Craxi, il Psi aveva un debito di 18 miliardi di lire. Un politico di lungo corso, estraneo ai superlativi come Alessandro Natta, definisce quel Psi, il Psi pre-Craxi, «un partito poverissimo».
Non si fida di nessuno e centralizza le risorse
E quando decide di rompere gli indugi, Craxi attinge a più esperienze. Anzitutto personali. È deputato da tre legislature, sa come vanno le cose nel mondo e Massimo Pini racconta che negli anni dell’ascesa era stato aiutato da importanti editori, Attilio Monti, Edilio Rusconi e Angelo Rizzoli. Ma il Craxi segretario, non dovendo pensare più a sé stesso e alla corrente ma al partito, muove da una “filosofia”, da un approccio al tema del finanziamento della politica che esula da un interesse strettamente personale. Lo ha spiegato una volta per tutte Claudio Martelli: «Craxi apparteneva a un mondo in cui i partiti erano architravi dello Stato» e agivano «come attori non perseguibili, soggetti a una legislazione privilegiata. Craxi si era formato nel dopoguerra quando era assolutamente normale che tutti i partiti avessero finanziamenti illeciti, da Est e da Ovest», «per lui non era una cosa scandalosa o amorale, era pacifico che le cose andassero così» e «considerava ipocrita chiunque negasse questa realtà». La sintesi la fa Giuseppe La Ganga, ultimo capogruppo dei deputati socialisti: «Nella sua testa il finanziamento irregolare ai partiti, come lo chiamava, era consustanziale alla Repubblica, perché lui era cresciuto dal 1945 in poi, con quella mentalità».
È tanto vero, che Craxi, in tempi non sospetti, aveva enunciato queste sue idee in pubblico nientedimeno che nel 1966, intervenendo a un dibattito organizzato dal Club Turati. Rispondendo al politologo Giorgio Galli, l’assessore socialista aveva definito un metodo che lui stesso, sin da allora, diceva di seguire «scrupolosamente» e cioè «non mettere mai il partito in condizione di dover mutare atteggiamento, o di non dover prendere la posizione che ritiene di dover prendere per un condizionamento di ordine finanziario».
In queste parole c’è tutto quel che verrà: evitare la tangente occasionale o ad hoc, perché il contributo – per non diventare condizionante – non deve essere subordinato a un appalto o a un affare specifico. In questa logica, ma qui il concetto diventa implicito, per l’imprenditore il finanziamento deve diventare una sorta di “dovere una tantum”, un contributo al sistema dei partiti. È sempre Martelli a spiegare come funzionava: «Lui non implorava la donazione di un privato, ma cercava di combinare le cose in modo da sedersi al tavolo dove si decide». Di qui una “rivelazione” che può apparire paradossale: «Bettino non è mai stato un tangentista, disprezzava il sistema delle tangenti», «che considerava indecenti, peggio delle mance umilianti» e invece era per creare dei “sodalizi” ed essere «in qualche modo socio in certe imprese e attività economiche», configurando un ruolo di “quasi cogestione” degli affari. Un finanziamento confusamente all’americana senza la (fondamentale) trasparenza di quel sistema.
Un tragico errore
Giuliano Amato ha scritto che il leader del Psi più che «innovare» perfeziona il sistema esistente, anche se con un piglio «più aggressivo». Anche se un’innovazione Craxi la porta e un decennio più tardi gli sarà fatale. Nel 1979, dopo aver intercettato – o fortemente sospettato – una maxi-tangente a favore della sinistra interna guidata da Claudio Signorile, come suggello di un affare lungo l’asse Eni-Petromin, il segretario del Psi come prima cosa disinnescò quella mina che poteva diventare insidiosa per la propria leadership. Ha raccontato Francesco Cossiga: in quella vicenda «io presidente del Consiglio e lui segretario di partito, ho potuto osservare dal vivo la sua proverbiale durezza di modi». Ma chiuso il caso, assume una decisione che – si vedrà più avanti – gli sarà fatale. Apre due canali nel finanziamento al Psi: uno che passa attraverso il segretario amministrativo e uno lo avoca a sé. Diventa lui personalmente il referente dei negoziati più importanti con i privati o con gli altri partiti, un’incombenza che nel Pci, nella Dc e in tutti gli altri partiti era competenza esclusiva dei segretari amministrativi. Craxi era per sua natura un centralizzatore, perché – come ricorda Fabrizio Cicchitto – «non si fidava di nessuno» e dunque centralizzò. Al punto che una volta Vincenzo Balzamo, segretario amministrativo dell’ultima stagione craxiana, confidò: «Buona parte dei finanziamenti li ho ricevuti da Craxi». Un metodo completamente diverso da quello della Dc. In quel partito i segretari politici conoscevano l’esistenza di una alimentazione illegale, ma ne ignoravano i dettagli che attenevano all’attività dei segretari amministrativi pro-tempore.
Nel Pci (che veniva da una tradizione clandestina), come ha scritto chi se ne occupò come Gianni Cervetti, fu attivata – a latere e separatamente dall’amministrazione “ufficiale” – una “amministrazione straordinaria”, in modo che non potesse essere coinvolto in alcun modo non solo chi aveva la guida politica, ma anche «il partito in quanto tale». Una compartimentazione a tenuta stagna: l’incarico della gestione amministrativa, reale e non formale, veniva affidato a compagni ignoti al grande pubblico, che assolvevano il compito con «dedizione esclusiva». In quel momento nessuno se ne rende conto ma Craxi ricalcherà proprio il modello comunista delle due casse separate: una ufficiale, alimentata anche da cespiti illegali e una, quella controllata da lui direttamente, con conti intestati all’estero. Con un effetto che lo storico Luciano Cafagna ha così sintetizzato: «Il partito si patrimonializzava come una monarchia premoderna». Quando la magistratura, dopo il 1992, farà un carotaggio sui conti del Psi, quella centralizzazione operata da Craxi si rivelerà per lui personalmente «un errore tragico», come sostiene Giuliano Amato.
Bettino, il lusso e i soldi per sé
Se avesse accantonato per sé miliardi e miliardi di lire ogni anno a partire dalla fine degli anni Settanta, Bettino Craxi sarebbe potuto diventare un uomo molto ricco. Finché visse, restò in affitto nella sua casa di via Foppa (per quanto ristrutturata da Gae Aulenti), rifiutò di diventare proprietario di un bellissimo appartamento a San Siro, che gli era stato offerto da Salvatore Ligresti con queste parole: «Non ti ci posso più vedere con quella casa di fronte al carcere, mi pagherai, se ne avrai la possibilità…». Sull’argomento Craxi la metteva così: «Io una casa di lusso non potrei comprarmela, neppure se ne avessi il denaro, per non suscitare pettegolezzi e maldicenze». Certo pesava il pensiero: che dirà la gente? Nel suo rapporto col denaro era parsimonioso, ma senza avere una vocazione accumulativa. Un rapporto per nulla easy. Racconta Gennaro Acquaviva, che fu uno dei suoi più stretti collaboratori al Psi e poi a palazzo Chigi: «La direzione aveva stanziato una cifra per la campagna elettorale di ogni candidato al Senato, andai da lui e mi lanciò una busta, quasi si vergognasse di toccarli!». Un rapporto difficile anche verso le comodità di tutti i giorni. Nella casa di Hammamet sarà faticoso convincerlo a realizzare una piscina, lui diceva che «era una cosa da ricchi», ma poi a cose fatte il figlio Bobo raccontò che «non era niente di eccezionale». Ma la considerava a tal punto un lusso che si oppose a realizzare un impianto di aria condizionata, alla quale si piegò soltanto nell’ultima parte della sua vita: quando di notte doveva dormire con le bombole di ossigeno vicine al letto. A suo modo eloquente quanto carpì Aldo Cazzullo, allora inviato de «La Stampa», che la notte del 22 gennaio 2000 era riuscito ad entrare in casa Craxi ad Hammamet, in un momento intimo: poche ore dopo l’inumazione del leader socialista nel cimitero cristiano. Quella notte la famiglia, provata da una giornata dolorosissima, si riunì davanti alla tv, che trasmetteva un Porta a porta speciale. In studio il segretario socialista Enrico Boselli disse: «Ieri sera ero in Tunisia, nella villa di Craxi, e non mi è parsa la casa di un uomo che si è arricchito». Da Hammamet Anna commenta: «Meno male che te ne sei accorto». E quando Porta a porta riferisce le accuse dei giudici, secondo i quali l’ex premier celava un tesoro da cento miliardi, Cazzullo annota il commento di Umberto Cicconi: «Dove li avete nascosti, in cucina?».
In una intervista a «Il Foglio» del 23 febbraio 1996, a indagini in gran parte concluse, il procuratore aggiunto di Milano Gerardo D’Ambrosio aveva allontanato dal leader socialista il sospetto più infamante: «La molla di Craxi non era l’arricchimento personale, ma la politica» e «finché non ci sia la prova di una corruzione personale, e non c’è, è un dovere dare a Craxi quel che è di Craxi, ma niente di più». Dopo la sua morte, Anna, la vedova, ogni volta che torna in Italia non ha una casa di proprietà. E neanche in affitto. Diciannove anni dopo la scomparsa del padre, vincendo un comprensibile pudore, il figlio Bobo racconterà in una intervista al «Corriere della sera» di essersi trovato «sul lastrico economico». E rivelerà: «La mia casa a Roma è finita all’asta».
Un socialista anticomunista
Se nelle elezioni politiche del giugno 1976 il Pci aveva conquistato il maggior numero di voti nella storia della Repubblica, uno degli intellettuali più prestigiosi del Paese sembrò attribuire a quel voto implicazioni più vaste. Il 14 gennaio 1977 Umberto Eco scrive sul «Corriere della sera»: «La visione marxista della società si sta imponendo come un valore acquisito», perché i suoi principii sono diventati immortali, come quelli dell’Ottantanove. La conferma che sul piano culturale e ideologico, dopo che negli anni Cinquanta – e in parte successivamente – aveva imperato «lo strano miscuglio di stalinismo e crocianesimo» (la bella definizione è di Roberto Guiducci), a sinistra l’egemonia culturale dei comunisti italiani è più solida che mai. È in questo contesto che Bettino Craxi avvia una controffensiva culturale e ideologica che si fa via via più penetrante. A fine 1976 dà il via libera al suo amico Carlo Ripa di Meana, direttore della Biennale di Venezia, intenzionato a realizzare un’iniziativa controcorrente e anche un po’ azzardata: un’edizione della Mostra dedicata alla cultura del dissenso nei Paesi dell’est europeo. Allora era difficile capire come avrebbero reagito i comunisti, che sei anni prima avevano condannato l’invasione sovietica della Cecoslovacchia, ma poi si erano dimostrati indifferenti non soltanto alle denunce dei dissidenti che continuavano a vivere nei loro Paesi, ma anche alla solidarietà concreta verso coloro che erano in esilio. La scommessa di Craxi e di Ripa di Meana si rivelerà uno dei loro azzardi più riusciti. Oltre ai notevoli riflessi internazionali e oltre a potenziare quei dissidenti che consideravano non riformabile il sistema comunista, la Biennale avrà l’effetto di avviare anche in Italia il faticoso sdoganamento di una categoria che si pensava potesse appartenere soltanto alla destra: l’anticomunismo.
La Biennale, il primo colpo al totem
L’idea di dedicare un’edizione della Biennale al dissenso nell’Est comunista era venuta nell’inverno del 1976 al responsabile Cultura del Psi Claudio Martelli che, durante una riunione a via del Corso, la suggerì a Carlo Ripa di Meana, uno dei personaggi intellettualmente più liberi e coraggiosi dell’area socialista. Ripa guidava la mostra dal 1974 e aveva dedicato quella prima edizione al Cile, con la partecipazione della vedova di Salvador Allende, a un anno dal golpe di Pinochet.
Ripa di Meana aveva annunciato la sua decisione nel gennaio del 1977 e da quel momento l’apparato sovietico aveva iniziato un potente lavoro diplomatico, per bloccarla. L’ambasciatore sovietico a Roma Nikita Rijov arriva a fare un passo ufficiale presso il governo italiano: chiede l’annullamento della manifestazione. Una pressione che produce un effetto sorprendente. Il direttore generale degli Affari culturali della Farnesina, l’ambasciatore Raimondo Manzini, convoca Ripa di Meana, cercando di demotivarlo. Ripa minaccia di dimettersi e alla fine il ministro degli Esteri Arnaldo Forlani tampona la falla.
Ma dalle carte segrete uscite dopo la caduta del Muro dagli archivi di Mosca e da quelli della Stasi, si scoprirà quanto estesa fosse l’azione di boicottaggio avviata dal Kgb e culminata in una riunione a fine settembre a Mosca della Segreteria del Comitato centrale del Pcus, alla presenza di personaggi come Ponomarev, Cernenko Suslov: viene varato un piano segreto (Misure di contrasto alla propaganda anti-sovietica in Italia), inviato al Pci, con lettera personale a Enrico Berlinguer, già allertato da mesi. La reazione del Pci è interessantissima: se nel gennaio 1977 Adriano Seroni aveva espresso «appoggio incondizionato» alla Biennale, dopo l’offensiva estiva del Kgb in un batter d’occhio Berlinguer avvia il contrordine, convocando ben tre riunioni della segreteria, l’ultima delle quali è così sinterizzata nel verbale: «Si assume l’orientamento di esprimerci criticamente» e «di questo terranno conto i compagni intellettuali». Aldo Tortorella esce allo scoperto con un’espressione («una manifestazione di propaganda anti-sovietica») che sembra la decalcomania della lettera di Mosca, ma già da tempo era partito il fuoco di interdizione da parte degli intellettuali vicini al Pci.
Gli intellettuali organicissimi
Il sindaco di Roma Giulio Carlo Argan irride il progetto della Biennale, attribuendo ai promotori «uno zelo da crocerossina» e analoghi commenti sono espressi da Renato Guttuso, Lucio Lombardo Radice e da Fortebraccio sull’«Unità». A Venezia si dimettono i due direttori di settore della Biennale di area comunista: Vittorio Gregotti e Luca Ronconi. E a riprova dell’influenza sovietica anche nel mondo imprenditoriale, in agosto negano l’uso dei locali personaggi dell’élite veneziana fuori dall’orbita comunista, come Paolo Marinotti, presidente di palazzo Grassi; Bruno Visentini, presidente della Fondazione Cini; il cattolico rettore di Ca’ Foscari Feliciano Benvenuti.
Il 15 novembre 1977, giorno dell’inaugurazione della Biennale, la Cgil proclama uno sciopero generale, sostenendo che da quel momento in poi l’Urss, per rappresaglia, avrebbe rifiutato le commesse ai cantieri di Marghera. Ma al Salone dell’Ammiragliato, l’incipit della Mostra è emozionante: da un grande schermo il saluto (registrato dieci giorni prima) di Andrej Sacharov illumina i visi delle tante personalità provenienti da tutto il mondo. Da coloro che sono riusciti ad arrivare dai Paesi dell’est (Andrej Sinjavskij, Viktor Nekrasov) fino a Leszek Kolakowski, François Fejtö, Carlos Franqui, Susan Sontag, Norberto Bobbio, Alberto Moravia, Nicola Matteucci, Dario Fo. In piedi, con un impermeabile grigio chiaro, Bettino Craxi: unico politico italiano, che subito dopo visiterà la mostra dei samizdat. Nel corso dei lavori interviene anche il futuro premio Nobel Iosif Brodskij, che per la prima volta fuori dalla Russia legge le sue poesie.
L’eco della Biennale veneziana – una raccolta di opere di pittura, scultura, spartiti musicali e samizdat – fu grande in tutto il mondo. Ed ebbe una doppia valenza: da una parte «il riconoscimento ufficiale della vasta e perseguitata rete dei “senza potere”», come ha scritto l’artefice principale di quella manifestazione, Carlo Ripa di Meana, nel suo bel libro L’ordine di Mosca. Ma soprattutto cominciò a perdere quota la corrente che, dentro il dissenso immaginava che i regimi dell’Est fossero riformabili: prevalse invece l’opinione che «il verme era nel frutto», come sostenne il filosofo polacco Kolakowski, nel corso di un intervento che Ripa definì «memorabile». Un atteggiamento che cozzava con l’opinione di gran parte dei socialisti europei, influenzati dalla Ostpolitik di Willy Brandt, i regimi comunisti andavano assecondati, nella sostanziale indifferenza per i dissidenti. Ma la politica di Brandt perderà quota, anche per effetto di una operazione congiunta che vedrà protagonisti il segretario del Psi e il nuovo leader dei socialdemocratici tedeschi Helmut Schmidt. Su una questione che si rivelerà esiziale per la sopravvivenza dell’impero sovietico: gli euromissili.
«Chiamate Pelikan!»
Dalla Biennale in poi la politica a sinistra di Craxi si sviluppa su due fronti: quello politico, di contrasto quotidiano al Pci e quello ideologico. Nel segno della contestazione del totem comunista. Craxi gioca in “casa”: riprende, allargandolo, un lavoro politico che aveva svolto per anni e anni senza clamori ma con tenacia. Dopo il decisivo viaggio a Praga, a metà degli anni Cinquanta, che gli aveva aperto gli occhi sul comunismo reale, non aveva più cambiato opinione: autonomista e anti-comunista da quando aveva 20 anni, non si era limitato a un sentimento interiore, coltivando una sia pur minoritaria rendita di posizione. Ma aveva promosso alcune iniziative ardimentose.
Come il tentativo di rompere la cortina del silenzio sul rapporto di Nikita Kruscev al congresso del Pcus. Nel febbraio del 1956, dopo che il leader sovietico aveva diffuso, tra un numero ristretto di dirigenti comunisti, il “rapporto segreto” sui crimini di Stalin, era stato l’inviato speciale dell’«Avanti!» a Mosca, Luigi Fossati che aveva subodorato la sostanza di quel terribile documento. Il mondo intero lo avrebbe conosciuto quattro mesi più tardi, grazie alle rivelazioni del «New York Times», ma intanto Fossati, tornando a Roma, allerta Nenni, che però non se la sente di lanciarsi in rivelazioni, che considera premature. Fossati, a Milano, ne parla con Craxi che invece passa all’azione. In quel momento Bettino ha 23 anni e, a dispetto di un partito ancora ingessato e sentimentalmente legato all’Urss, organizza alcune riunioni in diverse sezioni del Psi per provare ad “anticipare” il contenuto di quel documento così sconvolgente.
Quando il rapporto di Kruscev diventa pubblico, Nenni decide di rompere con i sovietici, ha inizio un’altra storia e si apre la strada che porterà, sette anni dopo, al primo governo organico di centro-sinistra. Ma è una strada politica, che non sfonda il muro del suono dei sentimenti: in una parte estesa di opinione pubblica di sinistra la parola “comunismo” resta «sacra, circondata da un timoroso sospetto», ha scritto Galli della Loggia. Negli anni Sessanta Craxi coltiva, dentro il Psi, un’ostilità solitaria verso i regimi comunisti, legge scrittori eterodossi e li consiglia ai suoi compagni. Claudio Martelli, nel raccontare le chiacchierate di quegli anni con lui e con i giovani che si erano avvicinati al Psi, ricorda: «Ripescava autori a noi poco noti come Ignazio Silone, o del tutto sconosciuti come Bruno Rizzi».
Nella notte tra il 21 e il 22 agosto del 1968 mentre i carri armati sovietici stanno occupando Praga, Craxi telefona a Carlo Ripa di Meana e gli dice: «Dobbiamo cercare Pelikan e sentiamo di cosa ha bisogno». Completata l’invasione, l’ex direttore della Radio di Praga approda in Italia e chiede l’iscrizione al Pci. Manda una lettera a Berlinguer (segretario in pectore dopo la malattia di Luigi Longo), che non lo riceve. Craxi invece scrive alle sezioni socialiste: «Aiutiamo gli oppositori cecoslovacchi».
E col suo carico così originale di anticomunismo, non ha paura di sfidare sale ostili. Come ha raccontato Giampiero Mughini, uno dei giovani intellettuali provenienti dall’estrema sinistra che a metà degli anni Settanta si stavano avvicinando alla galassia della rivista socialista «Mondoperaio»: nel 1975 aveva chiesto a Craxi, allora vice-segretario del Psi, di presentare un suo libro alla Casa della Cultura a Roma. Una “istituzione” spontaneamente filo-comunista nella quale Craxi – ha ricordato Mughini – «irruppe per dire che c’era poco da ricamare e da chiacchierare amabilmente in un’Europa nella quale c’era il Muro di Berlino». I comunisti presenti cominciarono a vociare, a dargli addosso. Lui non retrocesse e quel suo piglio anticonformista, ripetuto negli anni successivi, fece poi scrivere a Mughini: «Senza quella sua barbarie, senza quella sua energia unidirezionale ma smisurata», per tanti sarebbe stato difficile diventare «degli anticomunisti a 360 gradi», degli «ex compagni che non hanno da abbassare gli occhi innanzi a nessuna delle sinistre possibili». E un anno dopo, quando diventa segretario del Psi, quella carica antagonistica, coltivata in modo quasi solitario per oltre venti anni, ispira la sua offensiva sul piano culturale ideologico, grazie al poderoso revisionismo anti-dogmatico messo in atto dagli intellettuali di «Mondoperaio», che una dopo l’altra prenderanno di mira tutte le pagine dell’album di famiglia: Marx, Lenin, Gramsci e Togliatti.
Il Vangelo socialista
Nell’agosto 1978, in un saggio a sua firma e pubblicato dall’«Espresso» col titolo Il Vangelo socialista, Craxi accredita per la prima volta a sinistra una linea culturale e politica che, partendo da Proudhon e arrivando a Carlo Rosselli, si propone in contrapposizione a quella statalista, collettivista e liberticida della tradizione giacobina e leninista. Nel saggio Craxi si appropria di filoni minoritari nella sinistra e lo fa con un piglio, che senza essere irriguardoso o sacrilego, è molto diverso da quello paludato sino a quel momento prevalente a sinistra. Un saggio che equivale a un «colpo di cannone», così almeno lo battezza Galli della Loggia.
Un’offensiva contro la tradizione bolscevica che ha anche una ricaduta di partito: Craxi decide – col metodo del blitz, che peraltro diventerà un’abitudine – di modificare lo storico simbolo del Psi, quello che conteneva sotto il sol dell’avvenire anche la falce e martello, lì collocate nel 1919 dai massimalisti su proposta di Nicola Bombacci, come tributo alla Rivoluzione d’Ottobre. Al posto del simbolo bolscevico, Craxi inserisce un garofano rosso, già simbolo delle Leghe socialiste. Un doppio messaggio simbolico: la falce e martello non ci sono più ma al loro posto c’è un fiore rosso e nel colore c’è la continuità con un passato dal quale non ci si vuole separare del tutto.
Prima di arrivare al duello degli anni Settanta, il socialista anti-comunista Craxi e l’orgogliosamente comunista Berlinguer si annuseranno, sia pure in rare occasioni ed è molto istruttivo quel che si dicono in un incontro alla fine degli anni Settanta. In quella circostanza Craxi dice molto esplicitamente: «Enrico, ma perché non assumete una posizione di totale autonomia rispetto al campo comunista?». E Berlinguer rispose: «Perché, se lo facessimo, l’Urss favorirebbe la nascita di un forte partito comunista alla nostra sinistra».
Sta di fatto che sotto l’incalzare dell’offensiva di Craxi, il Pci non riuscirà a liberarsi dalla doppiezza coltivata per anni, quel tenere assieme l’anima “nazionale” e quella millenaristica della rivoluzione. Il sogno del comunismo restava nel cuore dei militanti, mentre l’anticomunismo rimaneva una parolaccia per milioni di italiani di sinistra. E infatti, accanto al progressivo distacco politico e finanziario da Mosca da parte del Pci, il legame sentimentale con quel mondo, con l’idea del comunismo e con i miti di quella storia sono alimentati proprio da Enrico Berlinguer. Il 2 agosto del 1978, in una intervista a Eugenio Scalfari per «la Repubblica», il segretario del Pci, dice che la lezione di Lenin è «valida», in quanto autore di una «vera teoria rivoluzionaria». Ma la risposta più inattesa, sempre Berlinguer, la darà ben sei anni dopo. Intervistato da Giovanni Minoli a Mixer, alla domanda su chi fosse la personalità internazionale da lui preferita, il segretario del Pci rispose: «Janòs Kadar». E cioè il primo ministro ungherese che nel 1956 aveva preso il posto di Imre Nagy, l’artefice della rivoluzione ungherese, che due anni dopo era stato fucilato dal regime comunista. Una risposta che racconta quanto fosse ancora profondo il legame sentimentale del Pci col comunismo realizzato e quanto provocatoria fosse considerata l’infrazione craxiana.
Gli intellettuali disorganici
Durante gli anni della guerra fredda, Palmiro Togliatti era stato il leader politico che meglio di ogni altro aveva compreso l’importanza della battaglia delle idee. Quando tornò in Italia, nel 1943, il segretario del Pci aveva saputo coniugare l’asse politico e sentimentale nei confronti di un regime molto autoritario, l’Urss di Stalin, assieme al concetto di egemonia elaborato da Antonio Gramsci. Togliatti svilupperà in modo geniale l’idea di allargare il consenso democratico, conquistando il “cervello” della società. Sul piano politico-culturale il togliattismo ebbe – come ha notato Fabrizio Cicchitto nel suo libro La linea rossa – tratti “reazionari” nello spegnere tutti i fermenti estranei agli schemi zdanoviani – dal romanzo americano alla psicoanalisi, dalla sociologia al cinema non realista – eppure Togliatti ebbe sempre l’appoggio degli intellettuali comunisti che, fatta eccezione per la parentesi del 1956, nel loro complesso assunsero posizioni spesso più conservatrici e dogmatiche di quelle del partito.
A metà degli anni Settanta fu Bettino Craxi a comprendere l’importanza della battaglia delle idee per un partito di frontiera che stava diventando corsaro. In vista del congresso di Torino del Psi, fissato per la primavera del 1978, il primo chiamato a votarlo segretario, il nuovo leader socialista si muove con uno schema spregiudicato. Sul piano interno – lui, “il destro”, “il tedesco” – stringe un patto con la sinistra lombardiana, mentre nella battaglia delle idee – interna ed esterna – asseconda l’opera revisionista di un drappello di intellettuali raccolti da tempo attorno alla rivista del partito, «Mondoperaio»: alcuni socialisti, altri simpatizzanti, altri ancora insofferenti rispetto al conformismo imperante a sinistra. Seguirà un rapporto molto discontinuo, eppure questa relazione tra Craxi e l’intellighenzia è una pagina preziosa. Perché, al suo manifestarsi, un rapporto così intenso e così libero risultava senza precedenti. È vero che si concluse con una rottura, ma sul breve produsse risultati duraturi. E nella politica italiana rimarrà senza repliche, senza imitatori.
La maggioranza allargata ai chierici disubbidienti
Per un uomo diffidentissimo come Craxi, il modello che si prepara a sperimentare si profila ardito, considerando che gli intellettuali che gravitano attorno alla rivista «Mondoperaio», prima del Midas avevano diffuso un documento a favore della candidatura di Antonio Giolitti a segretario del Psi e quindi non coltivano una simpatia istintiva per Craxi. Ma la prima novità del nuovo leader socialista si rivela proprio questa: sapersi muovere dentro e fuori il partito, creando di fatto una “maggioranza allargata” a un gruppo di intellettuali disorganici, interessati a impegnarsi in una battaglia che superi gli ideologismi del passato. Un rapporto libero.
Gli intellettuali disorganici, che Craxi inizialmente associò alla sua mission, erano confluiti dai primi anni Settanta attorno alla rivista del partito non per un impulso unico e centralizzato, ma spontaneamente, attratti da qualcosa di impalpabile, come ebbe a definirlo Furio Colombo pochi mesi prima dell’avvento di Craxi: «L’area culturale socialista è la zona della libertà a sinistra». Un patrimonio intellettuale che si era depositato attorno al Psi, anche per effetto dello spirito tollerante, libertario e accogliente emanato dal partito e dai suoi principali dirigenti: Giolitti, Lombardi, De Martino, Mancini, Nenni. Certo, non era stato un processo lineare. A cavallo tra anni Quaranta e Cinquanta – e anche dopo – la gelata stalinista aveva atrofizzato il rapporto tra il Psi e i tanti intellettuali simpatizzanti, con episodi di avvilente emarginazione, raccontati dallo scrittore e poeta Franco Fortini in un bel libro, Dieci inverni. Ma i fermenti anti-autoritari di tutta l’area laica – i ciclostilati di «Discussione» di Roberto Guiducci, «Ragionamenti» di Fortini, il «Ponte» di Calamandrei, «Comunità» di Adriano Olivetti, il «Mondo» di Pannunzio, «Movimento operaio» di Gianni Bosio – rappresentavano i tanti affluenti di un fiume che si muoveva liberamente, quasi sempre senza argini.
Neppure il fallimento dell’unificazione socialista basterà a spegnere quei fermenti e proprio Craxi, ancora lontano dalla segreteria, nel dicembre del 1975, su «Mondoperaio» incoraggia il disordinato revisionismo in atto, indirizzando «la critica socialista contro il socialismo autoritario e degenerato». Un disordine ben spiegato da Gaetano Arfè, il massimo storico del socialismo delle origini: sino ad allora il Psi aveva costituito l’ambiente intorno al quale si erano sviluppati fermenti «tra i più originali e fecondi della cultura italiana, senza mai aver avuto la capacità di esprimere una propria autonoma cultura».
Uno squadrone di cervelli
Ma le elezioni del 20 giugno 1976 propongono per la prima volta il tema dell’estinzione politica del Psi e in quella fase il più autorevole di quegli intellettuali, Norberto Bobbio, si fa interprete dei «tanti che si preoccupano del destino del Partito socialista e non si rassegnano a considerarlo un cadavere, perché una volta sepolto, si sentirebbero orfani e derelitti». Questo patrimonio disperso, ma ricco di spirito critico e di competenze si accosta spontaneamente al nuovo Psi e Craxi asseconda quei fermenti. Erano già della compagnia, o accompagneranno l’avventura, scrivendo saggi o partecipando a convegni personalità come Giuliano Amato, Luciano Cafagna, Lucio Colletti, Furio Diaz, Francesco Forte, Gino Giugni, Roberto Guiducci, Federico Mancini, Pio Marconi, Guido Martinotti, Franco Momigliano, Gianfranco Pasquino, Antonio Pedone, Luciano Pellicani, Stefano Rodotà Giorgio Ruffolo, Massimo Salvadori, Vittorio Strada, Aldo Visalberghi. Tanta “roba”, per usare un’espressione pop. Sono attratti dal nuovo corso anche tanti giovani – da Michele Salvati a Ernesto Galli della Loggia, da Paolo Flores d’Arcais a Federico Stame, da Giampiero Mughini a Gad Lerner – che poterono «uscire dalle catacombe delle rivistine di movimento», come ha scritto Luigi Covatta.
Gli uni e gli altri uniti da un tratto comune: essere slegati da un’ortodossia. La centrale operativa di questa stagione diventa la rivista «Mondoperaio» che già da anni, investendo sul disordine creativo del Psi demartiniano, ospitava contributi di qualità, concentrati principalmente sulle questioni ideologiche e storiche. Sotto la direzione di un personaggio come Federico Coen – per Galli della Loggia «autentica figura di galantuomo» – si passa all’offensiva. Saggi e articoli si susseguono sul totalitarismo sovietico, su Marx, Lenin, Gramsci, persino su un intoccabile come Togliatti. Finché sopraggiunge il pretesto per trasformare questa “guerriglia culturale” in un’operazione politica. Lo offre Enrico Berlinguer che, il 2 agosto del 1978, in un’intervista a «la Repubblica», sostiene che il Pci punta a realizzare, «qui, nell’Occidente europeo», un assetto economico e sociale «non più capitalistico». E arriva a definire «del tutto valida e vivente la lezione di Lenin». A quel punto Craxi, con mossa inattesa, piazza il colpo. Per rispondere nel modo più efficace a Berlinguer, il segretario socialista chiede una mano a Luciano Pellicani, uno degli intellettuali più attrezzati che gravitavano attorno al Psi e un testo già pronto per un altro uso, viene aggiornato e fatto proprio dal segretario socialista.
Nel saggio – pubblicato dall’«Espresso» col titolo Il Vangelo socialista – Craxi sciorina una critica serrata alla filiera Marx-Lenin, fino a quel momento del tutto intoccabile per l’ortodossia comunista. I comunisti se ne accorgono subito e Berlinguer, chiudendo poche settimane dopo la festa dell’Unità, battezza come «vociante, offensiva, denigratoria, fragorosa e confusionaria» l’offensiva che investe i profeti del comunismo. La cannonata scuote la fortezza nemica, viziata da decenni di pacifica convivenza e sul breve la replica è condotta con le stesse armi: artiglieria pesante.
Il Progetto: una Bad Godesberg dimezzata
Nella stagione che precede il suo primo congresso da segretario, Bettino Craxi non ha sua maggioranza e deve fronteggiare grandi elettori che si dimostrano inquietissimi: nel maggio del 1977 il segretario denuncia una “intentona” ai suoi danni, alludendo a una manovra ispirata da Enrico Manca per far mancare i voti a una sua relazione. Alla fine, per disinnescare la miccia, devono scomodarsi nientedimeno che due padri nobili – che certo non amano il segretario – come De Martino e Giolitti. E comunque dentro il partito Craxi continua a navigare a vista, alleandosi di volta in volta con Signorile, con Mancini, con Manca. Ma in vista del primo congresso chiamato a confermarlo segretario, Craxi si muove. È la fine del 1977 e tutto è in movimento: il governo della non-sfiducia è a un bivio, o si sfalda o il Pci entra in maggioranza; le Br continuano a colpire con ferocia e il 16 novembre uccidono il vicedirettore de «La Stampa» Carlo Casalegno. Il Psi, anche se si muove con spirito garibaldino, si trova stretto dentro la solidarietà nazionale. E il suo segretario ha un problema in più: deve conquistarsi una conferma non scontata.
È in questa atmosfera che Craxi si inventa una doppia mossa: come rileverà Antonio Landolfi, il manciniano che faceva parte dell’ufficio di segreteria, «non commise l’errore di assumere la bandiera di una posizione di contestazione della “solidarietà democratica” secondo moduli di destra» e invece prepara un congresso di “sinistra”, privilegiando i lombardiani e al tempo stesso chiede al direttore di «Mondoperaio», il giolittiano Coen, di coordinare un gruppo di lavoro di intellettuali, per preparare delle tesi congressuali da discutere nelle sezioni.
Coen consiglia a Craxi – che accetta – di affidare il coordinamento a Luigi Covatta (un altro “non allineato”), il quale chiamerà a scrivere parti del documento alcune personalità (a cominciare da Giuliano Amato) che nel corso di tanti convegni avevano contribuito ad elaborare idee destinate poi a confluire in quello che alla fine passerà alla storia come Progetto socialista. Il documento risentiva dello spirito del tempo ed era impregnato di mitterandismo, di socialismo autogestionario e di suggestioni anti-capitalistiche. Ingredienti politico-culturali che anni dopo verranno definiti «fumisterie» dallo storico Giovanni Sabbatucci. Ma oltre alle evidenti fumisterie c’era anche della sostanza, quella che interessava Craxi. Il segretario non era intervenuto nella elaborazione del Progetto, ma lo aveva sostenuto in Comitato centrale: «Non è la Bibbia di nessuno e per nessuno», ma il risultato di uno sforzo collettivo di «pensiero critico che ha visti impegnati intellettuali e dirigenti di partito e di sindacato e che impegnerà lo spirito critico del partito».
Un approccio laico, che certo per Craxi non diventerà la regola, ma che in quella occasione consentirà una larga discussione nel partito: grazie a «una memorabile campagna congressuale», come la definirà Covatta, i militanti socialisti per la prima volta cominciano a superare il complesso di inferiorità verso i comunisti. E, soprattutto, al netto dell’uso strumentale e della temperie culturale spostata a sinistra, nel Progetto sono presenti alcuni depositi che diventeranno negli anni a venire sostanza nella politica modernizzatrice craxiana. Per la prima volta la Costituzione non viene più considerata intangibile. Per la prima volta viene affermato un concetto ricco di implicazioni come quello della “democrazia governante” e si critica la pratica dell’assemblearismo. Per la prima volta si tratteggiavano politiche attive per il lavoro che saranno realizzate molti anni dopo. Tutti temi rilanciati da Craxi in congresso, in un discorso che sembra scritto nella redazione di «Mondoperaio».
Il congresso di Torino si conclude come voleva Craxi: lui è confermato segretario col 65 per cento dei voti, il suo alleato Signorile diventa vicesegretario unico. Ma dopo la tragica conclusione della vicenda Moro, si esaurisce anche il governo di solidarietà nazionale: nella primavera 1979 si apre la campagna elettorale per le elezioni politiche ed è proprio in questa occasione che si rompe l’idillio tra il segretario e gran parte degli intellettuali che nei mesi precedenti avevano accatastato idee e vis polemica. Il rapporto si spezza, secondo Federico Coen, sulla rivendicazione craxiana di una «generica governabilità», distante anni luce dalla vocazione alternativista dei chierici di «Mondoperaio», che nel frattempo si erano divisi in due gruppi: il Centro culturale che dalla fine del 1978 si contrappose alla rivista. Divisi, ma uniti da una vocazione, che non era quella dei corifei ma semmai quella dei fiancheggiatori critici. Avevano pensato di condizionare la cabina di comando del nuovo corso e di poterci restare. Si erano illusi.
Si rompe, ma non troppo
La rottura si consuma su un documento, dell’ottobre 1979, che quasi tutto il gruppo di «Mondoperaio» dedica alla «moralizzazione» della politica, chiamata a valersi di più sulle competenze, garanzia contro la corruzione. Firme prestigiose: tra gli altri, Amato, Bobbio, Cafagna, Coen, Galli della Loggia, Giugni, Guiducci, Mancini, Pellicani, Salvadori. Al di là della fronda di partito che si muoveva dietro le quinte, Craxi è l’obiettivo esplicito e infatti il segretario risponde aspramente: i professori non appartengono a un «ordine sacerdotale», «dotato del potere di condannare o assolvere», soprattutto se interpretano il proprio ruolo con arroganza. Risposta orgogliosa, ma anche sprezzante. Il gruppo replica, rincarando la dose con un nuovo documento che stavolta prende di mira il clima del partito, nel quale «ogni incontro diventa una congiura». Tra nuovi “alti” (la conferenza di Rimini del 1982) e più frequenti “bassi”, il rapporto non si interrompe ma si sfilaccia. Il magic moment è finito. Nel corso degli anni Ottanta le repliche saranno via via meno brillanti, compreso l’ultimo tentativo: la creazione di un’ampia e prestigiosa Assemblea nazionale. Un organismo che coinvolgeva testimonial non banali della società civile: tra i tantissimi, registi come Giorgio Strehler e Francesco Rosi, scienziati come Umberto Veronesi, storici come Valerio Castronovo e Vittorio Strada, scrittori come Mario Soldati, imprenditori come Marisa Belisario e Nicola Trussardi. E tanti altri ancora, come Renato Barilli, Paolo Portoghesi, Bruno Zevi, Stefano Silvestri. Personalità cooptate e senza alcun peso effettivo: un concentrato di «nani e ballerine», secondo la definizione memorabile di Rino Formica.
Ad anni di distanza la natura altalenante del rapporto con i chierici di area socialista ha lasciato aperti diversi interrogativi. Alla fin fine Craxi guardò agli intellettuali come a un fregio? Ovvero, come una massa critica che a un certo punto preferì che tornasse acritica, come quella che fiancheggiava il Pci? Come valutare l’apporto di personalità che negli anni Ottanta sarebbero ascese alla vita parlamentare, sarebbero diventati ministri, esercitando un peso effettivo nella qualità delle politiche di governo?
Dal punto di vista psicologico ma anche logico il giudizio più argomentato resta quello di Luigi Covatta: Craxi per gli intellettuali aveva interesse, «non timore reverenziale», non li usava alla maniera dei comunisti «per suonare il piffero» e li metteva nelle condizioni di esercitare un ruolo, ma se non ne condivideva le posizioni politiche li contrastava «così come contrastava l’ultimo segretario di federazione o il potente cacicco di periferia». Finì per liquidare i più ardimentosi con quel suo linguaggio sprezzante. Come fece con Ernesto Galli della Loggia («intellettuale dei miei stivali») “colpevole” di averlo criticato nella vicenda di Sigonella.
Ma proprio questa è una delle strettoie tipiche della storia politica di Craxi: da una parte la totale mancanza di complessi di inferiorità, dall’altra una reattività che sconfinò spesso nell’arroganza. Siamo davanti a due “luoghi”, a due archetipi decisivi nella vicenda craxiana. Ma il rapporto tra Craxi e i chierici di «Mondoperaio» suggerisce qualcosa che va oltre quella vicenda. Dimostra che, per un drappello di intellettuali liberi, la collaborazione con un leader difficilmente si consolida senza una condivisione ideale con un progetto, con un orizzonte. Ma quell’investimento e quel feeling durarono grosso modo per tre anni, e produssero idee e politica, furono essenziali nella contestazione democratica dell’ideologia e della politica comunista. Successivamente e in altri contesti quel tipo di rapporto non ha fatto scuola: nulla di paragonabile si è più ripetuto nella vicenda politica nazionale. È rimasto un unicum. La libertà fa sempre paura.
L’indagine parallela per salvare Moro
È il 29 aprile 1978, siamo al quarantaquattresimo giorno dal rapimento di Aldo Moro e alla portineria di via del Corso 476, sede della direzione del Psi, si presenta Sereno Freato, amico e braccio destro dello statista pugliese. Ha con sé una lettera di Aldo Moro, scritta dalla prigionia e indirizzata a Bettino Craxi: ancora nessuno l’ha letta. Freato sale al terzo piano e incontrando nel corridoio Gennaro Acquaviva, che era capo della segreteria del Psi, come in trance gli chiede: «Dove sta Craxi?». Freato viene fatto entrare nello studio del segretario e consegna la lettera. Craxi comincia a leggerla. Si imbatte subito in un’espressione di riconoscenza che il misuratissimo Moro riserva alla sua iniziativa («una forte sensibilità umanitaria»), si sente investito con insolita veemenza e famigliarità («ti scongiuro»). E nel congedo compare un’espressione affettuosa che non riserverà ad altri politici: «Grazie infinite ed affettuosi saluti. Tuo Aldo Moro».
Un attimo dopo Acquaviva entra nello studio di Craxi e resta spiazzato: «Lo trovai che piangeva. Questo “cristone” durissimo e formidabile, stava lì con quella lettera, quel foglio quadrato, era il foglio di un quaderno di scuola e piangeva». In quella commozione, privata e dunque rivelatrice, ci sono tante cose importanti. C’è il sentimentalismo di Craxi, tratto in lui interiorizzato e ogni tanto influente nelle sue scelte, anche se per tutta la vita la ragion politica sovrastò esteriormente e costantemente ogni altro sentimento.
In quella commozione affiora anche lo stress che attanagliò in quelle settimane tutti i trattativisti, isolati e anche un po’ “criminalizzati”, un’atmosfera «da Santa Inquisizione», in un «clima asfissiante, di blocco di qualsiasi iniziativa», come ricorda Acquaviva. E per un uomo della psicologia di Craxi, sensibile alla suggestione dell’“uno contro tutti”, ci deve essere anche autocompiacimento: proprio Moro, la vittima, si rivolge a lui con parole di rispetto. E d’altra parte Moro non può sapere – e gli italiani ignorano – quel che Craxi aveva già imbastito nei giorni precedenti e negli undici che seguiranno. Il segretario del Psi dietro le quinte esercitò una pressione politica e dispiegò un’indagine parallela attraverso una task force “clandestina”, il tutto con un’intensità superiore a quel che apparve. Nei 55 giorni del rapimento si manifestò per la prima volta la cultura “sostanziale” e non procedurale di Bettino Craxi. Con quel suo bordeggiare tra legalità e illegalità, finalizzato al risultato e ispirato a un principio: la politica prima di tutto. Ogni tanto anche prima delle regole e delle leggi. Quel che non fu chiaro è che, pur esercitando questa azione in modo quasi solitario, Craxi riuscirà a tessere contatti e fili (rimasti sconosciuti per decenni) e «l’iniziativa socialista fu assai più consistente» di quanto non si sia saputo e «probabilmente giunse piuttosto vicino al successo». Come ha scritto, nella distrazione dei media Giuseppe Fioroni, il presidente della Commissione Moro, in una relazione finale approvata quasi all’unanimità nel dicembre del 2017.
La suggestione di De Martino
Il 16 marzo 1978 alla Camera dei deputati era fissata una seduta che si preannunciava storica: il probabile voto favorevole del Pci al governo Andreotti, fino ad allora sostenuto con l’astensione. Ma il 16 marzo passerà alla storia per il rapimento di Aldo Moro, presidente della Dc, principale artefice di quella operazione politica. Nei successivi tredici giorni dai brigatisti e da Moro non arrivarono segnali apprezzabili, fino a quando, il 29 marzo, vengono recapitate le prime tre lettere. Due giorni dopo si apre il congresso di Torino del Psi e la tragedia condiziona il dibattito al punto che quando prende la parola l’ex segretario del partito, Francesco De Martino, è proprio lui a lanciare una suggestione che farà strada. De Martino, il cui figlio Guido era stato rapito un anno prima, si rivolge così ai compagni congressisti: «Io mi auguro che il problema venga affrontato, tenendo conto di tutti i precedenti e del modo con cui si sono comportati gli altri Stati, che hanno agito con fermezza, ma che hanno tentato con tutti i mezzi di salvare l’ostaggio».
Questo passaggio viene salutato da un applauso e nella sua replica Craxi per la prima volta apre, con misura, alla linea della trattativa. Mossa umanitaria? O tattica per aprirsi uno spazio politico? Le due cose vanno avanti di pari passo. Certo, Craxi intende infilare un cuneo nel patto Dc-Pci, forti del 75 per cento dei seggi parlamentari e unitissimi nel negare ogni trattativa con le Br. Ma uniti anche nell’ibernare il Parlamento: durante tutto il rapimento di Moro la Camera, presieduta dal comunista Pietro Ingrao, non si riunì neppure una volta. In un regime di Stato d’assedio non proclamato, le regole della democrazia formale vengono sospese.
Sulla trattativa gli ultimi personaggi carismatici del Psi sono divisi: Lombardi è per cercare una strada, Nenni è perplesso, Pertini è contrario. Ma, come Craxi fa scrivere all’«Avanti!», si impone un impegno a «salvare Moro» con l’idea strategica di «edificare oggi per domani uno Stato dal volto umano». Nelle riunioni della segreteria riservate, stimolato in particolare da Claudio Signorile, il segretario propone ragionamenti politici e uno deduttivo: «Se sinora Moro non è stato ucciso, significa che i brigatisti non sono d’accordo sul da farsi. Andiamo a cercare chi ci può fare capire come stanno le cose e può aiutarci a salvare Moro».
Su questa intuizione, a partire da metà aprile, Craxi dispiega una quantità di iniziative a tutto campo che sul momento, e poi negli anni successivi, sono rimaste in parte sconosciute e inedite. Ma dopo alcuni decenni, molto si è saputo e il semplice accostarle, racconta quanta volontà e quanta energia dispiegò il segretario socialista in quella impresa. Un’impresa imponente. Nel corso della quale mobilitò – a parte il mondo della politica – i soggetti più diversi, almeno otto. Il mondo dell’Autonomia romana vicino alle Br e quello analogo di Milano. Il capo delle Br in carcere. L’Olp. La mala milanese. Il generale Dalla Chiesa. Il Vaticano. Il Presidente della Repubblica. Bobo Craxi, che col padre ha parlato tante volte di quella vicenda negli anni di Hammamet, ricorda il contesto: «Il Psi era un partito del 9,6 per cento rispetto al 75 per cento di Dc e Pci, era fuori dal governo da quattro anni, Craxi non aveva rapporti con nessun apparato dello Stato ma fece di tutto per trovare un canale. Soltanto dopo si sarebbe saputo quanto furono attivi i Servizi delle potenze di Jalta e quanto infiltrata fosse la P2 nello Stato italiano».
La task force border line: la mala e i fiancheggiatori
Il primo personaggio al quale Craxi si rivolge si chiama Lello Liguori: è un ex anarchico che gestiva locali notturni a Milano e in Liguria, frequentati anche da personaggi al confine con la criminalità. Craxi, che lo conosce bene, prima ci parla a Milano e poi lo convoca al Raphael, lo ospita per una notte in una suite e gli affida un primo compito: «Vai nel carcere di Cuneo e prova a coinvolgere sulla vicenda Moro» sia un boss della mala come Francis Turatello, sia l’ex capo delle Br, Renato Curcio. Liguori torna da Craxi: «Nulla di rilevante, anche se Turatello consiglia di interessare la banda della Magliana…». Ma la seconda missione, riferita da Liguori a collaboratori della Commissione Moro, è ancora più interessante: «Craxi mi disse che avrei dovuto andare con due persone di sua fiducia a fare un sopralluogo in un appartamento che poteva essere stato la prigione di Moro. Voleva che ci fosse la mia presenza perché si fidava di me, dato che lo avevo aiutato già in diverse occasioni». Liguori, armato come i suoi accompagnatori, probabilmente tre agenti dei Servizi, entra «in un appartamento completamente vuoto». Racconta Liguori: «Mi portarono nella seconda stanza dove, toccando, sentii che c’era una parete di cartongesso dietro la quale doveva esserci uno spazio vuoto. Rimanemmo in quell’appartamento pochissimi minuti anche per ragioni di sicurezza. Tornato al Raphael, riferii a Craxi che effettivamente secondo me in quell’appartamento c’era un vano utilizzabile per un sequestro». Liguori ha raccontato che l’appartamento doveva trovarsi sulla via Cassia e ha aggiunto: «Ho saputo con certezza che in quell’appartamento era entrato per i medesimi miei scopi Franco Restelli, esponente di spicco della criminalità milanese, in particolare in quel periodo in cui Turatello era in carcere e di fatto Restelli fungeva da suo sostituto».
Storie inedite che raccontano due cose. La prima: per provare a liberare Moro, Craxi le provò tutte. E lo fece, servendosi anche di personaggi pronti a sporcarsi le mani. Una vicenda che segnala un tratto craxiano: la spregiudicatezza (e il coraggio) nel trattare con i “border line”. Ha scritto Enzo Bettiza, che ogni tanto frequentava le notti del Raphael: «Craxi era solito provare una simpatia singolare quanto spericolata per i personaggi doppi, pericolosi», «aveva l’istinto del giocatore, amava il rischio anche nei rapporti umani».
A un passo dalla liberazione
Un altro sentiero laterale, fuori dai riflettori, è quello che Craxi perseguì, con l’aiuto di amici milanesi. Come Walter Tobagi o l’avvocato Giannino Guiso. E come il socialista Umberto Giovine alla fine degli anni Sessanta direttore di «Critica Sociale»: a lui, nel corso del sequestro, pervennero alcune lettere di Moro attraverso la libreria Calusca di Milano e attraverso Aldo Bonomi, che anni dopo sarebbe diventato un noto sociologo. Ha raccontato Giovine: «Almeno tre copie dattiloscritte di lettere di Moro non ancora rese note» e «ogni volta che ne entravo in possesso le trasmettevamo a Craxi».
Attraverso Gennaro Acquaviva, il segretario del Psi tiene un canale sempre aperto col Vaticano, col cardinale Achille Silvestrini. Incontra riservatamente il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, all’epoca retrocesso a coordinatore del Servizio di sicurezza degli istituti di prevenzione e pena, gli chiede se sia possibile «intervenire sulla sicurezza delle carceri», in questo modo alludendo anche alla possibilità di alleggerire il regime detentivo. Per trovare qualche traccia utile Craxi parla anche col suo amico Nemer Hammad, rappresentante dell’Olp a Roma, ma come hanno raccontato Giuseppe Fioroni e Maria Antonietta Calabrò nel loro importante libro, Moro, il caso non è chiuso, dopo una iniziale collaborazione i palestinesi si ritrassero appena capirono che Moro aveva raccontato alle Br il “lodo” da lui promosso sulla libertà di transito alle armi dell’Olp in territorio italiano.
La traccia affidata a Claudio Signorile è quella che porta più lontano: lui e Antonio Landolfi cercano – attraverso Franco Piperno e Lanfranco Pace – un contatto diretto con l’ala “trattativista” delle Br. Gli incontri e lo scambio di informazioni si susseguono, la polizia ne è informata, incredibilmente nessuno pedina i due “ambasciatori” nel tentativo di arrivare alla prigione di Moro, ma alla fine si segue il canale messo a punto da Giuliano Vassalli, giurista finissimo messo in campo da Craxi. Il quale anni dopo ha messo a verbale una frase che dice tutto: «Cercavamo, come del resto Craxi diceva sempre, di agire nella legalità, o comunque senza una eccessiva lesione della legalità stessa». Bisognava trovare, per uno scambio “uno a uno”, un terrorista al quale concedere la grazia e dopo aver scartato Paola
Besuschio, Vassalli aveva individuato il “candidato” giusto nel nappista, Alberto Buonoconto.
Proprio contando su questo affidavit, il 7 maggio Signorile prova la stretta finale: chiede a Piperno se possa funzionare l’annuncio di un gesto di clemenza da parte di Amintore Fanfani e ottiene il via libera. Il presidente del Senato fa sapere che farà il suo discorso il 9 maggio davanti alla direzione della Dc. Il fronte della fermezza sta per subire uno scacco matto. Signorile telefona a Craxi, impegnato in un comizio e gli comunica: «Domani parlerà Fanfani, ci siamo». Ha raccontato Signorile alla Commissione Moro 2: «Quella telefonata è stata intercettata da chi non doveva» e la situazione precipita. Proprio in quelle ore si decide di uccidere Moro e la mattina del 9 maggio il suo corpo senza vita è abbandonato in via Caetani.
Quindici giorni prima Moro aveva scritto a Zaccagnini: «Per una evidente incompatibilità, chiedo che ai miei funerali non partecipino né Autorità né uomini di partito. Chiedo di essere seguito dai pochi che mi hanno voluto bene». La vedova e i figli di Moro, pur mortificati nel dover rispondere negativamente alle richieste in senso opposto da parte del Papa, rispettano la volontà del loro Aldo: fanno celebrare i funerali in forma privata e, annoverando Bettino Craxi tra coloro che avevano voluto bene ad Aldo Moro, lo invitano alla cerimonia. È l’unico uomo politico. E sei mesi più tardi la vedova di Moro, attraverso Sereno Freato, fa sapere a Craxi di volergli donare l’Alfetta 2000 blindata, che era stata ordinata dalla famiglia nei mesi precedenti, ma che era arrivata ai Moro con qualche giorno di ritardo. Un ritardo fatale. Craxi ringrazierà, userà l’auto negli spostamenti a Milano, ma non trasformerà quel regalo altamente simbolico in un’operazione mediatica. Una “tenuta” che, a distanza di anni, appare di un certo rilievo.
La confessione a Mitterrand
Per altri versi Craxi non cavalcherà mai la riconoscenza acquisita in casa Moro. Una questione di stile e una di opportunità politica, visto che la Dc sarebbe restata nell’orizzonte politico del Psi. Certo, nel corso degli anni e col riscontro di tante rivelazioni, Craxi si sarebbe persino rafforzato nella convinzione che la trattativa fosse un imperativo categorico. Come ha spiegato Rino Formica: nel caso Moro «non ci sono misteri» e «Craxi capiva che la linea della fermezza sul piano umano era inaccettabile, un sacrificio inutile: o si trattava, come si è sempre fatto e sempre si sarebbe fatto in seguito, come successe col caso Cirillo, oppure lo Stato doveva avere la forza di trovare Moro e liberarlo». E quanto ai comunisti, Craxi era risentito con loro perché «si erano disumanizzati per far vedere che le Br non erano una foto di famiglia».
Craxi metterà a verbale il principio che aveva mosso i socialisti e lo farà in un bel passaggio nella sua relazione al Comitato centrale del Psi che si tiene il 24 maggio: «La nostra non è stata un’iniziativa umanitaria, ma proprio perché essa aveva a fondamento la nostra concezione umana della Repubblica, è stata piuttosto un’iniziativa costituzionale. Per noi lo Stato è uno strumento di fondamentale importanza, mai un fine in sé. Rifiutiamo un affiorante fanatismo dei fini che consiste nel privilegiare un certo valore sempre. Chi lo ha fatto, ha praticato un cinismo inconsapevole e crudele, in nome di una presunta moralità più alta: falsa alternativa tra sacrificare un uomo e perdere lo Stato». Quel che realmente pensava di Dc e Pci, in pubblico non lo dirà mai, neppure negli anni di Hammamet, ma lo aveva svelato a Madrid nei giorni della prigionia di Moro a Francois Mitterrand, che poi lo scrisse nelle sue memorie: Craxi confidò pensieri terribili per i capi della Democrazia cristiana, «per molti di loro Moro è finito», «è morto», «è pazzo», «se ritornasse, vi sarebbe qualcuno di troppo». Aldo Moro non tornò, ma prima di essere rapito, aveva preparato un accordo di portata epocale. Un compromesso davvero storico con gli avversari di sempre, i comunisti. Non se ne è mai saputo nulla, perché la tragedia ha cancellato le tracce di quel dialogo arrivato molto avanti. Ora lo rivela Claudio Signorile: «Non lo dice nessuno, ma bisogna capirne le conseguenze. Moro viene rapito quando si è già deciso il governo che a novembre prevedeva l’ingresso di tre ministri comunisti».
I missili socialisti che affondano l’Urss
Tra il 1979 e il 1983, anche se in quel momento pochi se ne accorgono, Bettino Craxi entra nella “grande storia”. In quella vera e – almeno un po’ – anche in quella controfattuale che, come si sa, è un esercizio intellettuale sempre intrigante e al tempo stesso sterile, ma che in questo caso ha interpellato personalità di primo piano della politica internazionale. Attorno a due domande apparentemente retoriche: quanti anni sarebbero potuti durare i regimi del patto di Varsavia, se l’Italia non avesse aderito all’appello del cancelliere Helmut Schmidt di affiancare la Germania nel sì agli euromissili? E senza quella reazione, l’Europa sarebbe diventata una Grande Finlandia, accarezzata dall’amico russo?
Una cosa è certa: i governi italiani tra il 1979 e il 1987, guidati da Francesco Cossiga e poi da Bettino Craxi aderirono al programma dell’Alleanza atlantica di contrasto agli Ss-20 sovietici, pur avversati da oceaniche manifestazioni pacifiste. E diversi anni più tardi Zbigniew Brzezinski, Consigliere per la Sicurezza col presidente Jimmy Carter raccontò quanto pesò quella decisione (trascinata da Germania e Italia) nella dissoluzione dell’impero sovietico. Un Craxi atlantista prima ancora che anticomunista: in una stagione di gelata internazionale, il segretario del Psi comprese che non sarebbe stata sufficiente la solita appartenenza “passiva” dell’Italia all’alleanza, ma che l’appello tedesco a un ruolo protagonista e le pressioni americane non dovevano essere deluse. Ma per il neo-segretario non fu una scelta semplice. Fu una battaglia durissima. Dal punto di vista politico. Economico. Culturale.
La seconda guerra fredda
Nella seconda metà degli anni Settanta e per i primi anni Ottanta i rapporti tra i due blocchi si deteriorano e culminarono in una nuova, breve guerra fredda. La crisi polacca, l’invasione sovietica dell’Afghanistan, l’elezione di Ronald Reagan alla presidenza degli Stati Uniti rappresentano alcuni degli effetti diretti e indiretti dell’offensiva sovietica avviata a metà degli anni Settanta. Un’offensiva che si era concentrata su una iniziativa militare: produrre un nuovo missile, l’Ss-20, al ritmo intenso di otto al mese. Si trattava di un vettore in grado di colpire qualsiasi bersaglio in Europa occidentale, oltretutto accompagnato di un’“intelligenza” particolare: i sovietici sapevano che, in caso di attacchi portati da quei missili, le clausole dell’alleanza atlantica non contemplavano una risposta automatica. Un combinato disposto destinato a moltiplicare le preoccupazioni e le diffidenze europee. Ma si trattava di una strategia solo apparentemente militare. Ha scritto lo storico Ennio Di Nolfo: «Di fronte alla crisi economica che già si affacciava, di fronte alla fragilità economica strutturale dell’Unione sovietica, la classe dirigente di Mosca giustamente aveva scelto la strategia che poteva risultare vincente: intimidisco l’Europa con i missili Ss-20, la separo dagli Stati Uniti (o comunque creo un allontanamento), la minaccio e con questo spauracchio ottengo il sostegno economico e tecnologico necessario per superare la mia crisi. Una sorta di “finlandizzazione” dell’Europa».
Ma alla Nato studiano subito le contromisure, pianificando la costruzione di nuovi missili a medio raggio, i Pershing-2 e i missili terra-aria Cruise, capaci di viaggiare in territorio nemico a bassa quota, eludendo la difesa tradizionale sovietica, che sarebbe diventata inutilizzabile. A quel punto per Breznev diventava essenziale scongiurare il piano-Nato: impresa non impossibile perché la strategia di riarmo occidentale era chiamata a passare attraverso una complicatissima decisione multilaterale da parte di Paesi che si mostrarono subito recalcitranti.
Il 5 gennaio del 1979 durante un vertice a quattro, a Guadalupa, Usa, Germania, Francia e Inghilterra decidono di adottare il piano-Nato, ma tra i Paesi dell’Alleanza spuntano distinguo importanti. La protesta pacifista in Belgio, Olanda e Danimarca paralizza quei Paesi e allora il cancelliere tedesco, il socialdemocratico Schmidt, dichiara: «Se un solo grande Paese europeo si tira indietro, mi tiro indietro anche io». Il cancelliere sa che senza un “vincolo esterno” per lui diventa impossibile reggere l’opinione pacifista tedesca. In caso di risposta positiva degli alleati, la Germania federale assicura di essere pronta a ospitare 464 Cruise e 108 Pershing-2.
Da quel momento la partita diventa propagandistica e psicologica. Milioni di manifestanti, in tutte le piazze europee, si mettono in movimento, mossi da un afflato pacifista che in alcune realtà comprende una simpatia razionale o istintiva per il mondo comunista e che si esprime in slogan del tipo: “meglio rossi che morti”. Il Paese maggiormente “indiziato” per la sua sensibilità pacifista è proprio l’Italia, oltretutto guidata da un governo nel quale si preannuncia decisivo il voto del Psi, da sempre un partito spostato a sinistra tra quelli dell’Internazionale socialista. L’11 ottobre l’ambasciatore americano Richard Gardner, che un anno prima nel suo primo incontro con Craxi era stato sondato sulla disponibilità a finanziare il Psi, riceve il segretario socialista a Villa Taverna e gli sente fare discorsi molto tranquillizzanti. Come ha raccontato Gardner, «Craxi mi disse di aver trovato agghiaccianti i filmati sulle parate militari a Berlino est in occasione della visita di Breznev: vere e proprie reminiscenze del Terzo Reich». Siamo in autunno e la prima votazione parlamentare sugli euromissili è ancora lontana. Il presidente del Consiglio Cossiga si incontra con Enrico Berlinguer, suo cugino, e trova un accordo: il Pci eviterà di alimentare le manifestazioni dei movimenti pacifisti, ma in Parlamento si deciderà a scrutinio segreto. In definitiva sarà tutto in mano al Psi.
Bettino, Helmut e Willy
Ma per capirla bene, questa storia, serve un passo indietro di tre anni, tornando alle settimane nelle quali Craxi era stato eletto segretario. Nell’autunno del 1976, una delle sue prime missioni lo porta in Germania. A Stoccarda incontra Willy Brandt, che da due anni è stato sostituito da Schmidt alla Cancelleria a Bonn, ma resta il personaggio più carismatico del socialismo europeo. La cena con Brandt riserverà a Craxi una grossa sorpresa e il racconto che ne ha fatto più di trent’anni dopo Claudio Martelli nel suo Ricordati di vivere ha tratti di comicità involontaria e di forte verità politica. Brandt, ma questo Craxi lo sa benissimo, è il fautore di un dialogo con la Germania est. Ed è anche il socialdemocratico che guarda con maggior simpatia ai comunisti moderati dell’Ovest. E dunque sono da mettere nel conto ammiccamenti e segnali di attenzione verso il Pci. Ma Brandt va oltre e spiazza Craxi. Lo scontro Est-Ovest? Per il vecchio Willy soltanto ferite da rimarginare. Quando Craxi ricorda Praga, l’altro scuote la testa: «Praga è storia lontana» e, quasi irenicamente, dice di sapere che il Pcus sta preparando un’apertura verso i partiti socialisti. Nel racconto di Martelli, Craxi «schiarisce la voce, borbotta sordi mugugni», è quasi «sull’orlo di una crisi di nervi» ma si trattiene. Sino a quando non si parla d’Italia. Craxi «vorrebbe portare la nostra difficile causa, la rinascita del Psi», ma l’altro a sorpresa cita Gramsci come un comunista utopista. Difficile replicare a muso duro a Brandt, ma a un certo punto interviene Horst Hemke, un dirigente socialdemocratico: «Le posizioni del Pci – dice – corrispondono con le nostre» e anche lui assicura che i sovietici stanno aprendosi. Ma Hemke si può interrompere, non è Brandt, e Craxi ne approfitta: «Caro compagno Hemke, parli proprio come Berlinguer!». E l’altro: «Berlinguer è al bacio!». Craxi si arrende. Ma per il suo carattere è stata dura.
Il Psi e Craxi diventano decisivi per l’Occidente
Ma tre anni dopo, quando il cancelliere Schmidt, che aveva interrotto la politica di appeasement di Brandt, lancia la sua proposta sugli euromissili, l’aria è cambiata: Francia e Germania si stanno riavvicinando agli americani, tanto è vero che nel luglio 1979 la Nato aveva deciso la possibile dislocazione dei missili: in Italia, Germania, Olanda. Ma in Italia l’opposizione agli euromissili è potente. Nel mondo imprenditoriale gli amici dell’Urss sono sempre stati tanti e influenti: le poco competitive aziende di Stato prosperavano sulle commesse russe, ma anche le grandi imprese come la Fiat. Craxi – da segretario del Psi – è chiamato a trascinare il suo partito sul fronte interventista, ma in quella fase non ha la maggioranza in direzione e deve convocare un apposito incontro per convincere la sinistra interna, compreso il molto recalcitrante Riccardo Lombardi. Ma oltre al fronte interno c’è quello nel Paese: il pacifismo cattolico e quello comunista sono fortissimi. E c’è una ulteriore difficoltà: il governo Cossiga è minoritario, i socialisti lo appoggiano dall’esterno. Con gli occhi puntati dalle Cancellerie di mezzo mondo e in un clima parlamentare da guerra fredda, il 6 dicembre 1979 si vota e non mancano le sorprese: l’ex presidente del Consiglio Giulio Andreotti – chissà perché – è assente e durante le votazioni segrete mancano all’appello una ventina di socialisti, guidati da Lombardi. Una fronda che non incide sul risultato finale. È un segnale di svolta per tutti i Paesi occidentali e per coloro che denunciavano da tempo la rinnovata aggressività sovietica. E infatti passano qualche giorno e l’Urss invade l’Afghanistan. Un segnale doppio e chiarissimo: con gli Ss-20 i sovietici minacciano gli europei, mentre in Oriente si avvicinano alle vie del petrolio. Quella di Craxi si dimostra una scelta strategica.
L’ultima volta del Pci a rimorchio di Mosca
Ma la battaglia continua: una volta presa la decisione, per renderla operativa servirà un altro passaggio parlamentare. Anche perché, in vista di un negoziato con gli Usa. l’offensiva russa prosegue: diversi anni dopo aprendo gli archivi sovietici si scoprirà un massiccio intervento finanziario, attraverso il Kgb, a favore di movimenti pacifisti e cattolici. Per il Pci un bivio per certi versi drammatico: mentre sta allentando in modo significativo i suoi legami politici e finanziari con l’Urss, davanti alla rinnovata semplificazione dello scontro Est-Ovest, Berlinguer è costretto a scegliere l’antico approdo: sarà l’ultima volta nella sua storia che si allineerà ai desiderata sovietici.
E quanto a Craxi, in attesa che i negoziati avviati tra Usa e Urss diano qualche esito, prende tempo e asseconda una proposta di Claudio Signorile, impegnando il Psi sulla “clausola dissolvente”: qualora il negoziato tra sovietici e Nato fosse andato a buon fine, l’installazione dei missili sarebbe stata sospesa. I negoziati vanno avanti ma avanzano anche le manifestazioni di piazza: a Comiso, individuata come base per i missili e poi anche a Roma. Qui nell’autunno 1983 confluiscono mezzo milione di persone. Nel frattempo i negoziati arrivano al dunque proprio nella seconda metà del 1983, durante i primi mesi del governo Craxi.
Il presidente del Consiglio decide di spendersi in prima persona e nella fase finale dei colloqui di Ginevra il governo italiano svolge un ruolo di mediazione tra il segretario del Pcus Andropov e Reagan. In costante colloquio diplomatico col presidente degli Stati Uniti, Craxi scambia una significativa corrispondenza col presidente russo. Ed è proprio in questa fase che il presidente socialista salda il suo rapporto personale col presidente americano, un filo spesso che tornerà utile in frangenti critici. Il 16 novembre 1983 il Parlamento italiano approva l’installazione degli euromissili in Italia. Le manifestazioni pacifiste non fanno cambiare idea a Craxi e nell’aprile del 1984 i Cruise diventano operativi nella base siciliana di Comiso.
Il crollo dell’Urss
L’8 dicembre del 1987, anche se Craxi non era più a palazzo Chigi, poté assaporare come un successo anche suo, l’accordo firmato da Ronald Reagan e da Michael Gorbaciov, per l’eliminazione dei missili in Europa: era proprio quella “opzione zero” che l’allora segretario del Psi, aveva sostenuto prima all’interno del suo partito, poi in Parlamento e infine come presidente del Consiglio, in tutte le fasi osteggiato dal Pci e dalle piazze pacifiste. Molti anni dopo Zbigniew Brzezinski, incontrando il viceministro agli Esteri Ugo Intini gli dirà: «Senza i missili Pershing e Cruise in Europa la guerra fredda non sarebbe stata vinta; senza la decisione di installarli in Italia, quei missili in Europa non ci sarebbero stati; senza il Psi di Craxi la decisione dell’Italia non sarebbe stata presa. Il Partito socialista italiano è stato dunque un protagonista piccolo, ma assolutamente determinante, in un momento decisivo».
A Palazzo Chigi. Con la miglior élite
Il 4 agosto 1983 Bettino Craxi diventa il primo presidente del Consiglio socialista nella storia italiana, ma curiosamente lo diventa sulla scia dell’ennesimo risultato deludente del Psi alle elezioni politiche. Ma Craxi, che fortemente aveva voluto quell’approdo, non arriva a palazzo Chigi per caso: nei sette anni seguiti alla conquista della segreteria socialista, aveva lanciato sfide solitarie e spericolate, quasi tutte vinte. E quando non ce l’aveva fatta – come nel caso della liberazione di Moro – aveva polarizzato attorno a sé consensi e dissensi: dispiegando argomenti assai controversi ma destinati a lasciare traccia. In altre parole aveva mostrato tali indizi di carisma, da non rendere azzardata la chance che nell’estate del 1983, gli veniva offerta. Quella dei primi anni Ottanta è un’Italia nella quale il sistema politico regge, ma comincia a scricchiolare: nel 1981, con lo scandalo P2 si era rischiata la crisi di regime, evitata grazie a un colpo d’ala del Presidente Pertini, che aveva affidato la guida del governo al primo non-democristiano nella storia della Repubblica, Giovanni Spadolini. È un Paese sfibrato da una ingovernabilità estesa in tutti gli ambiti organizzati, come ben rappresentato da un regista visionario come Federico Fellini: Prova d’orchestra è il film dell’Italia di quegli anni, nei quali ognuno non trova più remore a suonare per conto proprio.
Craxi sfrutta l’occasione che si ritrova, scommettendo sulle doti da leader che aveva già dimostrato: l’istinto politico, la capacità di prendere decisioni, il tempismo. Mette a disposizione non un programma di governo ma semmai la promessa di una leadership forte. A queste qualità aggiunge la sua capacità di suscitare fedeltà personale, che però declina con una modalità significativa: attingendo a una platea di personalità, di partito e non, di notevole spessore. Un valore aggiunto che gli consentirà di accompagnare tutti i dossier più delicati, poggiandosi su un background di conoscenze e di competenze che gli permettono di alimentare il suo decisionismo con dossier ben istruiti, tecnicamente e politicamente. Mettendosi al riparo dalla montagna di problemi che nascono da provvedimenti mal concepiti.
1983, non moriremo democristiani
Ma arrivare a palazzo Chigi non era stato semplice. Il 30 marzo 1983 Bettino Craxi ed Enrico Berlinguer si erano incontrati alle Frattocchie, scuola quadri del Pci, e in vista di un dopo-elezioni nel quale si sarebbe potuto porre il tema della presidenza socialista, il segretario del Psi aveva fatto una proposta: «Se ci appoggiate e di fatto entrate in maggioranza, mi impegno a realizzare un asse Psi-Pci per imprigionare la Dc». Berlinguer, diffidente sulle reali intenzioni di Craxi, che per lui resta un avventuriero, lascia cadere l’offerta. E la storia va da un’altra parte. Alle Politiche 1983 il Psi avanza ma modestamente, raggiungendo l’11,4, appena l’1,6 per cento in più rispetto al 1979. Craxi vive male quel risultato e Gianni De Michelis, ventotto anni dopo, ha rivelato un dettaglio sorprendente: «Per un attimo, guardando i risultati del suo partito, pensa addirittura di dimettersi».
Ma Luigi Pintor, il più fine e il più visionario dei fondatori del «Manifesto», scrive un articolo dal titolo profetico: Non moriremo democristiani. Un’analisi più complessiva dei risultati (la Dc cade al 32,9 per cento e il Pci al 29,9 per cento è stazionario) toglie dalla testa di Craxi pulsioni dimissionarie e, anzi, come ha svelato lui stesso, «fu De Mita con mia grande sorpresa che mi propose la guida del governo». In quella occasione i due stringono il patto della staffetta («lo ideò Craxi», ha raccontato ex post De Michelis): nella fase finale della legislatura la guida del governo sarebbe passata al segretario della Dc. Ma l’approdo a palazzo Chigi di Craxi infrange una regola, non scritta ma aurea: quella di un partito che con la sua maggioranza relativa aveva assunto per decenni un portamento da maggioranza assoluta. È il primo passo verso uno dei progetti più ambiziosi di Craxi: sottrarre alla Dc l’esclusiva del potere di coalizione.
Una squadra di serie A
Il 4 agosto 1983, quando Bettino Craxi fa il suo ingresso a palazzo Chigi ha 49 anni, non ha mai fatto esperienze di governo, se non come assessore al Comune di Milano ed è il più classico degli uomini di partito: al suo si è iscritto 31 anni prima e ne è il segretario da 7. E da uomo di partito completa un altro cursus honorum tipico della Prima Repubblica: prima capo-corrente, poi capo partito e infine capo del governo. Nelle prime ore del suo noviziato c’è anche un aneddoto fanciullesco. È il 21 luglio, Craxi, in un completo grigio, scende la scalinata del Quirinale con l’incarico in tasca. Ricorda Acquaviva: «Scendemmo i gradini del palazzo felici come ragazzini», al punto che Umberto Cicconi, che era il fotografo di Craxi, si dimenticò di immortalare la scena e «già in auto tornammo indietro e ripetemmo la discesa come due attori».
Al momento della grande investitura, Craxi sconta già da tempo un vizio di immagine, confermato dagli stagnanti esiti elettorali: appare arrogante, iracondo, spregiudicato. Così è e così appare. Eppure, per quanto inesperto di questioni di governo, Craxi entra subito nel suo ruolo, mostrando una sorprendente capacità di dominare la scena. E di cancellare rancori, pur di comporre la migliore squadra possibile. Prima di giurare da Presidente, affida il compito di coordinare il programma di governo a uno di quegli intellettuali che più lo avevano indispettito con critiche affilate, tra l’altro in momenti critici: Giuliano Amato. Di quel professore torinese, che allora aveva 45 anni, Craxi apprezza le qualità decisamente fuori dall’ordinario – acume, intelligenza politica, cultura giuridica, economica e storica, capacità di trasformare un’idea politica in un provvedimento inappuntabile ed efficace – e pur di averlo al proprio fianco, come sottosegretario alla presidenza, dimentica il passato. E fa la scommessa giusta: secondo Fabrizio Cicchitto, «Amato si identificò con Craxi per circa dieci anni e ne fu il cervello culturale e giuridico». Come capo-ufficio stampa Craxi sceglie Antonio Ghirelli, giornalista di vaglia, che era stato portavoce di Pertini al Quirinale e che fu ingaggiato da Craxi col suo tipico stile. Qualche giorno dopo l’insediamento del nuovo governo, Ghirelli si sente chiedere seccamente al telefono: «Mi verresti a dare una mano a palazzo Chigi?». Anche nella scelta del consigliere diplomatico, Craxi appoggia il suo fiuto sul metodo sperimentale. Antonio Badini, diplomatico di stanza a palazzo Chigi e vicino alla sinistra Dc, era in procinto di fare le valigie, ma il presidente del Consiglio – informato sulle qualità dell’uomo – lo mette alla prova per quattro mesi e poi lo nomina suo consigliere diplomatico.
Nel corso della sua permanenza a palazzo Chigi, Craxi chiamerà in squadra molti personaggi estranei al circuito partitico: Margherita Boniver, Franco Carraro, Francesco Forte, Massimo Severo Giannini, Franco Reviglio, Antonio Ruberti, Renato Ruggiero, Giorgio Ruffolo, Giuliano Vassalli. E quanto al Psi, Craxi aveva tirato su una classe dirigente alla maniera di Togliatti: con criteri meritocratici. Tra quelli che hanno fatto gavetta al partito, Craxi si porta al governo il quarantaduenne Gianni De Michelis. Nipote di un pastore evangelico e figlio di un ingegnere di Porto Marghera, già docente di chimica all’Università, De Michelis aveva una vocazione allo studio analitico dei dossier, che studiava fino all’ultima virgola. Come capo della Segreteria Craxi vuole con sé Gennaro Acquaviva, un romano di 48 anni, sperimentato nello stesso ruolo a via del Corso, già dirigente delle Acli e dell’Mpl di Livio Labor e apprezzato per la conoscenza del mondo romano, vaticano e non solo, per l’affidabilità organizzativa, per la sincerità scanzonata dei suoi consigli.
E quanto alla squadra di governo, come sempre, è il risultato di carambole casuali e di suggerimenti ben indirizzati, ma Craxi è fortunato: la Dc gli manda come vicepresidente del Consiglio Arnaldo Forlani, sapiente ammortizzatore degli urti che verranno, agli Esteri va Giulio Andreotti, all’Interno Oscar Luigi Scalfaro, alla Giustizia Mino Martinazzoli, alle Finanze Bruno Visentini, alla Difesa Giovanni Spadolini, al Tesoro Giovanni Goria. Molti anni dopo, nel 2009, l’ex dirigente del Pci Emanuele Macaluso dirà: «Un governo di qualità. Meglio del governo D’Alema e del governo Prodi».
Restano al partito (che Craxi chiamava «l’esercito di Franceschiello») ma comunque in contatto diretto col presidente-segretario, due fuoriclasse della politique d’abord, due personaggi diversissimi tra loro, che il presidente del Consiglio interpella di continuo e separatamente: Rino Formica e Claudio Martelli. Il primo, classe 1927, negli anni del governo Craxi, svolgerà il ruolo di capogruppo alla Camera e di ministro, ma soprattutto diventa la coscienza critica del partito: una giovinezza da socialista-trotzkista, vecchio compagno d’armi di Craxi negli anni della minoranza, Formica è al tempo stesso dotato di spirito pratico (sua la gestione senza scrupoli del caso Eni-Petromin, per colpire la sinistra interna) e di capacità di lettura politica, con una vocazione per gli scenari e le battute corrosive, scagliate per lasciare traccia. Alcune sono diventate proverbiali non soltanto perché icastiche ma per la capacità di cogliere un punto di verità. A cominciare dalle celeberrime: «la politica è sangue e merda», o l’adattamento al Psi del proverbio «il convento è povero e i frati sono ricchi». In quegli anni Formica è anche uno dei pochissimi che possa alzare la voce con Craxi, senza venir meno alla lealtà di fondo. L’altro interlocutore assiduo restava Claudio Martelli, classe 1943, lombardo di Gessate, paese della pianura milanese, allievo del filosofo Mario Dal Pra, molti libri letti e digeriti, con una vita privata dispendiosa (della quale si faceva carico il partito), una capacità non comune di esporsi in modo irriverente, provocatorio, con una assoluta mancanza di timore reverenziale per chiunque, un tratto nel quale Craxi si ritrovava.
Quale fosse l’alchimia che consentì di funzionare a quel gruppo eterogeneo, che ha rappresentato la migliore élite del sistema politico dell’ultima fase della Repubblica, lo ha spiegato una volta per tutte Giuseppe La Ganga, capogruppo alla Camera dell’ultimo Psi: gli uomini attorno a Craxi avevano la caratteristica di «essere eccellenti membri di un team, ma non necessariamente con il bastone di maresciallo nello zaino».
Si comincia col Concordato
L’accoglienza degli alleati al nuovo governo non è incoraggiante: si comincia con piccole schermaglie che lasciano intendere un cammino accidentato. Craxi capisce subito che soltanto macinando risultati, potrà restare a galla. Come prima “pratica” delicata, Craxi e Amato individuano l’abolizione della Scala Mobile e la affidano al ministro del Lavoro Gianni De Michelis. Dopo una lunga trattativa si arriva al dunque il 14 febbraio del 1984, quando viene approvato l’apposito decreto, ma la vicenda avrà uno sviluppo ulteriore che la proietta in un arco temporale più lungo. E dunque in attesa che la “pratica” si completi, il presidente del Consiglio socialista firma qualcosa che oggettivamente rappresenta un passaggio storico: la revisione dell’autoritario Concordato con la Chiesa del 1929, che Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti avevano inserito per realismo nella Costituzione, promettendo una successiva revisione che non era mai maturata.
E anche in questo caso Craxi si affida a Gennaro Acquaviva. Craxi – che non è credente – è vissuto con una certa diffidenza in Vaticano. Nel 1981, riferendosi ad alcune ingerenze papali sul referendum sull’aborto, aveva sostenuto che il pontefice guardava alle vicende italiane con «occhiali polacchi». Acquaviva ottiene un appuntamento con Wojtyla il primo dicembre 1983. Non fu un incontro memorabile, ma trapelò qualche dettaglio eloquente sullo stile di Craxi: si era presentato con degli stivaletti poco protocollari e dopo aver stretto la mano al pontefice, si era seduto sulla poltrona degli ospiti, accavallando le gambe e anticipando il Papa, che era ancora in piedi. Parlando a pranzo di quell’incontro con alcuni amici, tra cui Massimo Pini, Craxi sintetizzò con una delle sue battute: «Wojtyla? È un anticomunista e un estremista come me!». Cinquantotto giorni dopo, la Camera dà mandato al presidente del Consiglio di chiudere l’accordo di revisione del Concordato. La firma è fissata il 18 febbraio 1984 e la sera prima, racconta Giuliano Amato, letta la definitiva bozza, Craxi chiuse la cartella, girò attorno al tavolo e davanti al ritratto di Garibaldi, disse: «Ti chiedo perdono!». In effetti Craxi e il segretario di Stato Agostino Casaroli firmarono una revisione che faceva dell’Italia uno Stato laico ma anche uno Stato favorevole alla Chiesa cattolica. Ogni prete diventava una sorta di funzionario della Cei, ricevendo un contributo statale sulla base dell’8 per mille, pagato anche da chi non intendeva destinare ai vescovi quella parte di imposta. In questa occasione a Craxi, lo ha spiegato Luigi Covatta, non interessava conquistare la benevolenza della gerarchia – che infatti non esitò a sfidare, candidando poco dopo don Baget Bozzo alle Europee, subito sospeso a divinis – ma invece «rassicurare la Chiesa circa il suo ruolo e la sua autonomia nell’ipotesi di un governo senza la Dc» e comunque per dimostrare il carattere non decisivo dei democristiani nel «ruolo di garante della pace religiosa».
Il Vietnam De Mita-Berlinguer
Dalla primavera 1984 ha inizio un’ininterrotta guerriglia anti-governativa, orchestrata dal leader della Dc Ciriaco De Mita, che trova incroci, ascolto e sponde nel Pci e al Quirinale. Sapiente custode e protagonista dei tanti colloqui che si intrecciano in quella fase è Antonio Tatò, braccio destro di Berlinguer. Il 6 aprile del 1984 Tatò scrive a Berlinguer un appunto nel quale gli riferisce un colloquio con Riccardo Misasi, vicinissimo a De Mita: il segretario democristiano vuole da Berlinguer una risposta alla domanda: se la Dc prende l’iniziativa di «sfasciare» la maggioranza, il Pci come reagirebbe? Il 14 aprile Tatò scrive attorno a un colloquio con Giovanni Spadolini, che a sua volta ha parlato con De Mita. Sintetizza Tatò: il convincimento di entrambi è che se Craxi arriva alle elezioni europee, avendo dato prova non solo di decisionismo, ma anche di efficienza e cioè avendo comunque approvato una manovra economica, si consoliderà in maniera difficilmente scalfibile e dunque si apre il problema di «provocare una crisi di governo in tempo». Riferisce Tatò: «Convengono entrambi che ci vuole “fantasia”». E la conclusione di Spadolini è stata chiara: lui stesso, De Mita e Berlinguer devono «colpire uniti ma marciare divisi». Per affondare Craxi.
E al Quirinale Sandro Pertini non aspettava altro. Il 13 febbraio 1984 il Presidente della Repubblica si trova a Mosca per i funerali di Jurij Andropov e la sera, nell’Ambasciata italiana, vede parlottare per conto loro Enrico Berlinguer e Giulio Andreotti, gli si avvicina e gli dice: «Mettetevi d’accordo voi due! Non ne posso più di quello là!». «Quello là», cioè il presidente del Consiglio, era sfibrato da questa guerriglia e la sera a cena agli amici ripeteva spesso lo stesso refrain: «Se continuo così, mi verrà un infarto, sento che morirò presto». E qualche mese più tardi, era il 23 gennaio 1985, disse ad Arnaldo Forlani: «Pianto tutto». Per come aveva impostato la sua battaglia politica, per la forza del suo partito, Craxi era obbligato a vincere sempre, perché una sconfitta plateale avrebbe fatto franare tutto, come ha acutamente notato Massimo Pini. E infatti per i primi due anni Craxi governò nel solo modo che conosceva e che gli era consentito: correndo.
La scala mobile, una battaglia “impopulista”
Nel giorno di San Valentino, il 14 febbraio del 1984, il governo Craxi approva il decreto che taglia tre dei dodici punti di contingenza previsti per l’anno in corso, senza l’assenso e anzi con l’ostilità aperta della Cgil e del Pci. Taglio dalle dimensioni contenute ma dall’alto valore simbolico. In quel passaggio si riassumono tre tratti fondamentali della vicenda politica di Bettino Craxi. Anzitutto la capacità di assumere d’imperio una decisione delicata, sia pure dopo aver provato – ma per davvero – a scongiurarla. In secondo luogo la natura di quella decisione: evidentemente impopolare. Craxi non ebbe il sospetto – e se lo ebbe non lo frenò – che il Pci avrebbe deciso di alzare ulteriormente la posta, raccogliendo le firme per un referendum abrogativo del decreto di San Valentino. Una sfida che il capo del governo fronteggiò, non solo rivendicando la propria scelta, ma trasformando quel referendum in un voto di fiducia sulla sua leadership. E nel merito affrontò una situazione tipica per un governante (la favorevole congiuntura internazionale), decidendo di non rinviare la somministrazione di alcune delle medicine “giuste” per curare la malattia italiana. Questo trittico – decisione, decisione impopolare e implicito voto di fiducia – riassume una vicenda ricca di implicazioni e meno lineare di quel che parve e di come fu raccontata all’epoca.
Cgil-Confindustria, la convergenza parallela
Dopo anni di decisioni altalenanti che avevano aperto per l’Italia la strada della recessione, nel 1984 la favorevole congiuntura economica internazionale offre un’opportunità all’Italia, che però è notevolmente appesantita dal carico dell’inflazione, parametro fuori quadro rispetto all’Europa che conta. In quella divaricazione pesava, in particolare nelle analisi dell’economista Ezio Tarantelli, vicino alla Cisl, l’accordo del 1975 tra Confindustria e sindacati confederali: il nuovo scatto di contingenza, unificato per operai, impiegati e dirigenti, era calcolato in modo da consentire ai salari, ma anche alle pensioni, di crescere spesso più dell’inflazione. E dunque di alimentarla.
Ha raccontato Giuliano Amato ad Antonio Funiciello nel libro Il metodo Machiavelli: «Quando arrivai a palazzo Chigi ero consapevole che dovessimo liberarci presto della scala mobile. Me ne ero convinto negli anni di lavoro alla Cgil», perché oltre a essere «uno strumento economico superato», «nuoceva soprattutto ai sindacati», perché «divorava tutto lo spazio e la capacità di contrattazione coi datori di lavoro».
Di conseguenza Craxi, convocato un apposito Consiglio dei ministri il 29 settembre, da una parte spiega che per la Finanziaria occorrerà reperire oltre 40.000 miliardi, tra tasse, tagli e condoni e dall’altra affida la questione scala mobile a Gianni De Michelis, che il presidente del Consiglio aveva voluto al ministero del Lavoro. L’obiettivo è realizzare il taglio della scala mobile entro il 14 febbraio, ultima data utile per evitare che scattino i punti per i due mesi successivi. A quel punto tutto sarebbe slittato ad aprile, compromettendo il risultato per il 1984. Si parte dall’ipotesi di lavoro preparata da Tarantelli, ma per evitare un’opposizione mirata e pregiudiziale di Cgil e Pci, si allarga il pacchetto ad altre questioni, sulle quali eventualmente trattare.
Il mandato informale di Craxi al ministro del Lavoro è chiaro: «Dobbiamo abbattere l’inflazione, ma dobbiamo farlo in accordo con tutto il sindacato», in modo – spiegherà anni dopo De Michelis – di consentire al Pci di uscire dalla logica della contrapposizione, seguita al vertice delle Frattocchie dell’anno precedente. E infatti si susseguono incontri, contatti informali con Luciano Lama, con Giorgio Napolitano, con Sergio Garavini, nei quali il tormentone di De Michelis – su mandato di Craxi – è sempre lo stesso: «Noi andremo avanti comunque, ma puntiamo a un accordo con la Cgil e col Pci, anche perché la riduzione dell’inflazione, conviene a tutti e in particolare ai lavoratori». Una sera, in casa di Donatella Pecci Blunt, De Michelis incontra Carlo De Benedetti, Eugenio Scalfari, Giovanni Spadolini, che quasi in coro ripetono lo stesso concetto: «Perché insistere? Così si sfascia tutto».
Craxi – informato dei consigli – tira dritto: o c’è un accordo, o si procede con un decreto legge. Si tiene fuori dalla trattativa ma alla fine l’accordo non c’è e nella notte di domenica 13 febbraio Renato Brunetta, per conto del governo, chiude tutti i documenti che l’indomani mattina devono essere pronti per la firma. Al momento decisivo, il 14 febbraio spunta la sorpresa: nel pomeriggio si profila una tenaglia che rischia di stritolare il presidente del Consiglio. Il primo ostacolo, la Cgil, era nelle cose, ma Craxi prova a sbloccarlo con una mossa, che spiazza anche i suoi, a cominciare dal ministro De Michelis, che mastica amaro. Chiede di vedersi a quattr’occhi con Luciano Lama e gli dice: «Senti, pur di avere la tua firma, sono pronto a dimezzare i punti di scala mobile». E la risposta di Lama è sincera: «Il problema non è dei due punti in più o in meno. So che questo provvedimento può essere utile, ma è Berlinguer che ha voluto questa linea».
Craxi si arrende e fa convocare il Consiglio dei ministri per le sette di sera. E qui si materializza la sorpresa, attraverso le parole di Giovanni Spadolini: «Guardate che Confindustria non ci sta!». Qualcuno gli risponde: «Sicuro? Devono ancora riunirsi…». Sul far della sera il presidente di Confindustria Vittorio Merloni approda a palazzo Chigi. Craxi gli chiede subito: «Come mai così tardi?». E l’altro: «C’è stata una discussione molto forte. È prevalso il sì all’accordo. Per 7 a 5…». Craxi è stupito: «E come mai?». Merloni: «C’erano De Benedetti e Romiti contro…». A favore del sì era stato decisivo il carisma di Gianni Agnelli. Il Consiglio dei ministri vara il decreto, che viene approvato in tempo utile. La tenaglia si dissolve, ma metà del gotha confindustriale aveva osteggiato un decreto che gli avrebbe portato solo vantaggi.
Un referendum molto popolare
E a questo punto le due sinistre si divaricano: la Cgil non indice uno sciopero generale, mentre gli “autoconvocati” del Pci il 24 marzo scendono in piazza, con «l’Unità» che titola Eccoci e con i manifestanti che si sfogano: “Craxi vogliamo la tua testa”, “Bettino sei sulla buona pista, anche Benito era socialista”. In Parlamento l’opposizione del Pci si fa ostruzionistica: Berlinguer la vorrebbe ancora più invalidante e si lamenta con Nilde Iotti perché la presidente della Camera non asseconda il suo partito. Nella discussione interna al Pci, a difesa dell’operato della Iotti si schiera il capogruppo alla Camera Giorgio Napolitano. La discussione diventa così aspra che Napolitano, alla fine, scrive una lettera per dimettersi dalla presidenza del gruppo parlamentare. Berlinguer attacca i socialisti con un lessico da Terza Internazionale, per lui il governo Craxi «è pericoloso per la democrazia» e il Pci si avvicina alla meta: il pacchetto di San Valentino vacilla e Craxi è costretto a varare un decreto-bis, che contiene alcune concessioni. Al Pci non bastano. Subito dopo l’approvazione del decreto legge, l’8 giugno, Enrico Berlinguer fa un annuncio clamoroso: il Pci raccoglierà le firme per il referendum abrogativo. Accusata la botta, che è forte, Craxi finisce per scherzarci su, con battute in agrodolce: «Se invitassi gli italiani a vaccinarsi contro il vaiolo, il Pci direbbe che il vaiolo fa bene alla salute!».
Ma il lancio del referendum era la conferma di un’intuizione che per primo ebbe Pierre Carniti, leader della Cisl, che poi appoggiò il decreto di San Valentino: Berlinguer considerava la rottura del patto consociativo «una sorta di violazione della Costituzione materiale», fondata sul diritto di veto da parte del Pci. E, come ha raccontato successivamente Massimo D’Alema, nel lanciare la sfida del referendum, Berlinguer fece sapere a De Mita, attraverso Alfredo Reichlin, il vero obiettivo: «È un atto dimostrativo: una volta caduto Craxi, si può immaginare un governo Dc-Pri sul quale noi potremmo astenerci…». Dunque, il Pci e Berlinguer avevano scommesso sul referendum per rovesciare Craxi e affibbiargli una sconfitta storica.
Il segretario del Pci morirà tragicamente pochi giorni dopo l’annuncio della sfida referendaria. Le procedure costituzionali necessarie per un iter abrogativo sono complesse e la consultazione verrà fissata esattamente un anno dopo, il 9 giugno 1985. Un referendum che chiedeva agli italiani di tenersi in tasca alcune migliaia di lire si profilava ad altissimo rischio per i governanti e non a caso molte Costituzioni impediscono consultazioni popolari in materia fiscale. Pierre Carniti, che un anno prima aveva spinto Craxi a tener duro, stavolta suggerisce un sotterfugio: se va a votare meno del 50 per cento degli elettori, il referendum è nullo. E propone: ci si batta per un’astensione che invalidi il referendum. Ma l’assassinio da parte delle Br dell’economista Ezio Tarantelli toglie ogni dubbio a Craxi, che prova a ribaltare il senso della sfida, giocando come sempre d’anticipo. In una conferenza stampa del 6 giugno a palazzo Chigi, il giornalista Alessandro Caprettini gli chiede: «Se i sì vincessero, lei sarebbe intenzionato a dimettersi nelle mani del Capo dello Stato?». E Craxi d’istinto: «Un minuto dopo».
Ma vince il no, con un risultato importante. Significativa è l’affluenza: la percentuale (il 78,8 per cento) è alta e in linea con i precedenti referendum del 1981. Diciotto milioni e 400.000 italiani si sono espressi per il no all’abrogazione e tra questi, si ricostruirà attraverso l’analisi del voto, la maggioranza dei lavoratori del Nord. La vittoria del No al referendum in qualche modo ristabilisce la logica di mercato, che non contempla la realtà del salario come «variabile indipendente», come l’aveva definita Bruno Trentin.
Socialista e “lumbard”
Il decreto, legittimato dal popolo, contribuirà ad abbassare l’inflazione e rappresenterà una delle leve che accompagnano la ripresa economica in Italia in atto negli anni Ottanta, sia pure tra diverse ombre. Una su tutte: il dilatarsi del debito pubblico. Ma Craxi, sin da quando era stato eletto segretario del Psi, si era appassionato a un’altra scommessa: l’ascesa sociale di una nuova classe, quella dei piccoli imprenditori, quelli che si facevano strada da soli, interpreti di una modernizzazione diversa da quella degli anni Cinquanta e Sessanta. Molto istruttivi erano stati i colloqui, a cavallo tra anni Settanta e Ottanta, che Craxi aveva intrecciato con Giuseppe De Rita, che col suo Censis aveva acceso i riflettori su un’Italia sino ad allora sconosciuta, nonostante l’Istat avesse censito tra il 1971 e il 1981 un dato sbalorditivo: le imprese erano quasi raddoppiate. Non se ne era accorto quasi nessuno, mentre tutti parlavano di fine dell’industrialismo. Ha raccontato De Rita: «Andavo a via del Corso a raccontargli in anteprima il nostro Rapporto annuale. Una volta gli dissi che era sbagliata l’idea di Berlinguer di operare per il cambiamento, perché il cambiamento era già in atto: l’economia sommersa, i distretti, la piccola impresa, cose per lui tutte estranee».
In uno di questi incontri, era il 1979, Craxi disse a De Rita: «Lei ci crede a queste cose? Se lei ha ragione io ci faccio l’onda lunga della mia politica». E in effetti, nei primi anni interpreta questa onda, con le iniziative sui distretti e le sue missioni all’estero. Per dare una spinta al nuovo corso socialista Craxi si affianca proprio alle piccole e medie imprese, i nuovi distretti industriali, che peraltro erano stati alimentati tutti dalla bassa pressione fiscale, dall’evasione e dalla svalutazione competitiva. Un blocco sociale che era cresciuto negli anni precedenti: razionalmente Craxi provava simpatia per l’imprenditore non assistito del Nord e pensava che il cambiamento andasse accompagnato. Nella visione dei problemi economici, per dirla con Luciano Cafagna, «era molto lumbard», nel senso che la sua percezione restava sul piano dell’economia aziendale e della soggettiva percezione degli imprenditori. Restò sempre sensibile alle virtù dello Stato. Ma uno Stato che aiuta, non uno Stato che preleva o regola. E alla fine poco persuaso dagli effetti positivi del mercato e della concorrenza. Per la sua formazione – che risaliva agli anni Cinquanta e Sessanta – Bettino Craxi restò sempre ideologicamente, istintivamente, integralmente un socialista del Novecento.
Sigonella e la scoperta dell’orgoglio nazionale
La lunga notte di Sigonella è passata alla storia come un evento spartiacque: la prima occasione nella quale un presidente del Consiglio italiano – tra coraggio e azzardo – respinse un’interpretazione hard del concetto di sovranità da parte degli Stati Uniti. Quella vicenda si dipanò lungo l’arco di tre settimane, costò una crisi diplomatica con Washington e una crisi politica a Roma, ma racconta più di altre la cifra della leadership di Bettino Craxi. Come ha sintetizzato Gianni De Michelis – che gli fu vicino senza mai essere “craxiano” – il leader socialista dava «il meglio di sé in episodi che prendevano tutti di sorpresa», quando «si trattava di scegliere in maniera rapida e istintiva». Ma un leader non si definisce soltanto per il tempismo e per il decisionismo. In quella occasione, oltre ad affrontare un’emergenza inattesa con soluzioni anche controverse, Craxi segnalò agli Stati Uniti, alla comunità internazionale e all’opinione pubblica italiana che si può stare dentro un’alleanza internazionale senza essere sudditi. E per questo aprì un fronte nuovo nel sentimento collettivo: la riscoperta del sentimento nazionale. Dell’orgoglio nazionale.
«Persino Craxi fu incerto…»
Lunedì 7 ottobre, alle due del pomeriggio, un operatore di Goteborg intercetta un segnale proveniente dalla nave di crociera “Achille Lauro”, che sembrerebbe esser stata sequestrata in un luogo imprecisato del Mediterraneo. A mezzanotte il governo italiano manda un equipaggio armato in una base di Cipro. L’indomani, verso sera, l’ambasciatore americano a Roma Maxwell Rabb si presenta da Craxi e fa la voce grossa. In effetti non appena si ricostruisce quel che è accaduto, tutti restano stupefatti: la “Achille Lauro”, con centinaia di turisti a bordo, era stata sequestrata per un accidente del tutto casuale: quattro terroristi palestinesi – indirizzati in Israele per compiere una rappresaglia dopo il bombardamento ordinato dal governo Rabin sul quartier generale dell’Olp a Tunisi – erano stati scoperti a bordo con le armi e a quel punto avevano deciso di prendere il comando della nave. Sequestro in acque egiziane. Craxi confessa la sua sorpresa per l’aggressione palestinese, ma assieme al ministro degli Esteri Andreotti (che sarà protagonista attivissimo in questa vicenda) prende contatti con il leader dell’Olp Arafat (senza avvertire gli americani) e con il presidente egiziano Mubarak. Grazie alla mediazione di Abu Abbas, capo del Fronte per la liberazione della Palestina, la nave approda il pomeriggio del 9 ottobre nel porto egiziano di Port Said: qui i terroristi si arrendono, i passeggeri vengono liberati e tutto sembra avviarsi verso un lieto fine.
Il presidente del Consiglio, sollevato, si presenta in conferenza stampa ma in quel frangente è raggiunto da una telefonata del comandante della “Achille Lauro”, Gerardo De Rosa, che lo informa di un evento agghiacciante accaduto a bordo due giorni prima: un anziano passeggero– Leon Klinghoffer, esponente della comunità ebraica di New York, costretto a vivere su una sedia a rotelle – era stato ammazzato con due colpi di kalashnikov e poi gettato in mare. Una storia terribile. Craxi è scosso e, come testimonierà Franco Gerardi, il giornalista dell’«Avanti!» che era tra i suoi collaboratori più stretti, in quella occasione «apparve teso, nervoso, in qualche caso anche incerto».
E quanto ad Abu Abbas era stato scelto da Arafat come mediatore soltanto perché – ma questo non era noto in quel momento – era il vero capo del gruppo dei terroristi a bordo. In quelle ore si prende coscienza del rischio di precipitare in una crisi internazionale molto seria. Craxi attiva i suoi amici in Medio Oriente, capisce che la vicenda ha mille implicazioni e in alcuni casi, per non essere intercettato nelle comunicazioni più delicate, arriva a usare le cabine dei telefoni pubblici. A Washington gli americani affidano l’operazione al colonnello Ollie North, che il 10 ottobre viene raggiunto da un’informazione destinata a complicare tutto: i quattro terroristi, più il loro capo, saranno infilati in un aereo diretto a Tunisi. Se vi arriveranno, l’impunità per loro si può considerare certa. Ma Tunisi si tira indietro e a quel punto si decide che i palestinesi saranno indirizzati a Ciampino, perché siano le autorità italiane a farsi carico di loro.
La forzatura degli Usa
Ma a North viene in mente un’idea hard: dirottare l’aereo egiziano già in rotta su Roma, verso la base militare di Sigonella, che appartiene sì allo Stato italiano, ma ospita reparti della Nato e della flotta americana. Chiede l’ok a Reagan, che lo concede. Il Boeing viene dirottato con un’azione, che lo storico Ennio Di Nolfo valuterà come «giuridicamente discutibile, se non anche sanzionabile». Un atteggiamento altamente irriguardoso: l’aereo egiziano gode di protezione diplomatica. Ma per l’atterraggio serve il nulla osta italiano. North attiva Michael Ledeen, che parla italiano e negli anni precedenti ha frequentato Craxi, ma ignora che tra i due i rapporti non sono più quelli di una volta. Mentre i due aerei volteggiano sui cieli siciliani, Ledeen attraverso la Casa Bianca, alle 23.50 si mette in contatto con l’hotel Raphael. Risponde Cornelio Brandini, che tergiversa perché sa che Craxi non intende parlare con Ledeen, che a quel punto passa alle minacce: «Brandini, se non mi passa il presidente Craxi, domani lei si troverà fotografato in prima pagina sui giornali di tutto il mondo». A quel punto Craxi risponde e dopo una breve trattativa, dà il via libera per l’atterraggio del Boeing. Ma a Sigonella atterrano anche due caccia americani con a bordo cinquanta teste di cuoio, incaricate di catturare i terroristi.
A quel punto è Reagan a prendere in mano la situazione e, nel pieno della notte italiana, chiama Craxi. Il traduttore dell’Italian Desk, che opera presso il Dipartimento di Stato, non si fa capire e occorre ricorrere, di nuovo, a Ledeen. Reagan spiega la posizione americana: vogliamo i terroristi per processarli. Risponde Craxi: per la legge italiana i magistrati sono indipendenti e il governo non ha l’autorità per consegnarli. La telefonata finisce ma si deve decidere in fretta che fare ed è uno di quei momenti nei quali, se sbagli, non c’è via di ritorno. E in quei minuti Craxi prende la decisione per lui giusta e lo fa in un brevissimo lasso di tempo. Telefona a Sigonella e ordina ai carabinieri: «Vi ci mettete voi davanti al cerchio degli americani, perché è vostra la responsabilità in territorio italiano». E a quel punto sulla pista di Sigonella va in scena una sequenza mai vista: le forze speciali americane accerchiano il Boeing e a loro volta sono circondate da avieri e carabinieri italiani. La notte si allunga, assume connotati inauditi, potenzialmente drammatici: nessuno può escludere che la parola passi alle armi. Reagan è indotto a richiamare e nella nuova telefonata Ledeen si prende qualche licenza nella traduzione, perché a un certo punto, trasforma una risposta possibilista del presidente («vogliamo almeno i due capi») in un’affermazione stentorea: «Li vogliamo tutti e quattro in carcere!».
Gli italiani prendono in consegna i quattro terroristi, che vengono internati nel carcere di Siracusa, mentre l’ambiguo Abu Abbas viene inviato a Roma, scortato da quattro aerei dell’Aeronautica militare, seguiti da un aereo americano. Da Washington arriva in tempi acceleratissimi una richiesta di estradizione per Abu Abbas, che si appoggia su intercettazioni – che provano la sua responsabilità diretta nella vicenda – ma si tratta di materiale prodotto dal Mossad e inutilizzabile per gli italiani. La strada è spianata per Abu Habbas: viene imbarcato, con nome di copertura, verso Belgrado e da qui verso l’Iraq.
«Agli americani spezzo le ossa»
La vicenda che era stata gestita con coraggio, spirito indipendente, ma anche con notevole azzardo, apre due diverse crisi: una diplomatica, con gli Stati Uniti; una politica, col ministro della Difesa, il repubblicano Giovanni Spadolini, che si dimette ma la Dc non lo segue e tutto si risolve in un rinvio alle Camere del governo per una nuova fiducia. Con gli americani la crisi formale durò poco. Qualche giorno più tardi arrivò a Roma il numero due del Dipartimento di Stato con una lettera che si apriva con un nitido «dear Bettino» e proseguì facendo appello ai «legami personali» tra i due.
Strappo che Craxi intese ricucire con equilibrio, senza cedimenti. Per restituire il carattere del personaggio e la sua tenuta sui dossier hard di politica estera, è molto istruttivo un retroscena raccontato nel libro La pagina saltata della Storia da Gennaro Acquaviva e da Antonio Badini che seguirono Craxi anche nel viaggio di riconciliazione a New York. I diplomatici della Farnesina avevano preparato una bozza per una dichiarazione congiunta Italia-Usa, che prima della partenza per gli Stati Uniti, venne portata da Acquaviva a Craxi nella sala del Consiglio di Gabinetto mentre era in corso una riunione di ministri. Il racconto merita di essere riferito in modo testuale per il gusto della narrazione e perché restituisce bene la personalità di Craxi: «Appena Acquaviva gli si avvicinò, lo guardò immediatamente di traverso; quello però che fece andare in bestia il presidente del Consiglio fu constatare che sul frontespizio di ciascuno dei tre foglietti che gli venivano riproposti, campeggiava la dizione canonica, che dichiarava il testo coperto da segreto. Parlando rumorosamente vicino all’orecchio del suo consigliere, ed esprimendosi con tono adirato, disse di riferire che lui non avrebbe accettato mai una nota conciliativa che contenesse riferimenti a quanto avvenuto a Sigonella senza darne contestualmente un giudizio di merito”, “perché egli non avrebbe accettato mai di inserire nella dichiarazione, formule di rincrescimento da parte italiana” e mentre pronunciava queste parole, il presidente brandiva tra le mani, come un’arma, le carte portategli da Acquaviva, quasi a rendere ancora più caricaturale quel “segretissimo” che spiccava in cima ai fogli; probabilmente, fu anche per questo», che Craxi non riconsegnò i fogli ma «quasi li lanciò verso Acquaviva, lasciando allibiti quelli che erano seduti intorno al tavolo e che avevano assistito alla disputa ignorandone le ragioni». Concludono i due collaboratori di Craxi: «Il fatto è che, come al solito, aveva capito meglio di noi la caratura e la collocazione delle forze in campo; più di noi aveva chiarissimo che, in quel momento, era indispensabile e comunque sommamente utile agli interessi e alla dignità dell’Italia mantenere ferma la posizione che egli aveva legittimamente assunto nei giorni precedenti».
E infatti qualche giorno più tardi, il 24 ottobre, Craxi incontra Reagan nel palazzo dell’Onu a New York e il presidente americano fa trapelare che «l’incidente è chiuso». Sul piano formale la crisi era superata. A distanza di anni è ancora difficile misurare la profondità dello strappo nelle relazioni tra i due Paesi. Ha notato Fabrizio Cicchitto: «A Sigonella Craxi non diede uno schiaffo a Reagan ma all’amministrazione americana». Ma non bisogna dimenticare Israele: il Mossad aveva fornito agli americani le intercettazioni che avrebbero potuto inchiodare Abu Abbas e tutta la vicenda fu giudicata molto negativamente dal governo presieduto da Shimon Peres.
In linea di massima Craxi sapeva misurare gli azzardi e per lui la vicenda di Sigonella si doveva inscrivere in una concezione più larga: l’idea che sulle grandi scelte geopolitiche, l’Italia dovesse restare atlantica e anti-sovietica, dunque alleata degli Stati Uniti. Ma con pari dignità. E quanto al Mediterraneo non volle «disperdere il credito politico che l’Italia aveva nei confronti del palestinesi e del mondo arabo in generale», come ha scritto Francesco Cossiga nel suo Italiani sono sempre gli altri. Azzardo e calcolo si mischiano ma al fondo c’era un istinto “autonomista” anche in questa vicenda, che è ben illustrato da uno scambio di battute con Gianni De Michelis nel pieno di una discussione a palazzo Chigi su questa difficile querelle. È il mese di ottobre del 1985 e al ministro che lo invitava alla prudenza con gli americani Craxi rispose andando su tutte le furie. Si alzò dal tavolo e disse: «Se vogliono sfidarmi, io gli spezzerò le ossa, perché l’Italia deve essere autonoma!». Certo, parole pronunciate nel chiuso di uno studio, ma Craxi era ideologicamente garibaldino e questo nucleo di orgoglio patriottico alimenterà la riscoperta di un sentimento nazionale che lui amava sintetizzare in una espressione: «L’Italia è un grande Paese».
Italia grande Paese
La tardiva composizione di una unica nazione italiana e la prevalenza nel secondo dopoguerra di due culture politiche (quella cattolica e quella comunista) in qualche modo antagoniste rispetto allo Stato, hanno a lungo impedito il radicamento di un sentimento nazionale. Non è azzardato constatare come, per diversi decenni, l’unico momento di fraterno afflato nazionalistico sia stato rappresentato dalle partite dalla Nazionale di calcio. Nella stagione dei due presidenti socialisti, Sandro Pertini e Bettino Craxi si determina un’inversione. Si moltiplicano gli atti simbolici (il Capo dello Stato che bacia la bandiera, che presenzia ed esulta alla finale dei Mondiali di calcio del 1982) ma anche la narrazione diventa più orgogliosa. Attorno a un concetto che per la prima volta è scandito proprio da Craxi: l’Italia è un grande Paese, in grado di salvarsi da solo, e semmai sono gli altri che hanno bisogno dell’Italia. E per quel che vale, e nell’immaginario collettivo certe cose valgono, il segretario socialista fa inserire nella colonna sonora di un congresso socialista, quello di Palermo del 1981, una canzone di Francesco De Gregori, Viva l’Italia, che esprime nel titolo ma anche nel testo un sentimento allegramente nazionalistico.
A questi segnali, Craxi ne aggiunge altri, certo finalizzati alla propria rappresentazione come uomo forte e che all’estero fa rispettare un’Italia che cresce. In questo senso va annoverata l’enfasi sul sorpasso dell’Italia sulla Gran Bretagna nella “classifica” mondiale dei Paesi più ricchi: il ricalcolo dei parametri del Pil, nel 1987 – a coronamento del “ciclo” craxiano – consente all’Italia anche di conquistare la sesta posizione nel mondo per Pil dopo Stati Uniti, Unione Sovietica, Giappone, Germania Ovest e Francia. Certo, aveva contribuito anche un gioco di prestigio statistico, ma sono anni nei quali l’Italia inaugura, a parole e nei fatti, una politica da “media potenza”, un’escalation che comprende anche la partecipazione ad alcune missioni di pace all’estero.
Un’ambizione che si concretizza in un abile atto di forza che Craxi volle compiere in occasione del Consiglio europeo del giugno 1985 che si svolse a Milano sotto la presidenza italiana. A dispetto dell’opposizione di Margaret Thatcher e di Francois Mitterrand e della cautela di Helmut Kohl, Craxi fece circolare un documento che metteva all’ordine del giorno anche la questione delle procedure di voto in Consiglio, arrivando a discutere della possibilità che un domani si potesse deliberare a maggioranza. Davanti al muro, Craxi lasciò cadere tutti i progetti più ambiziosi e con mossa rapida, svariò su un fronte apparentemente minore: rispolverando un articolo del Trattato istitutivo della Cee, che lo consentiva, mise ai voti un emendamento che prevedeva la nomina di una Commissione intergovernativa per la revisione dei trattati. La proposta viene approvata, per l’appunto, a maggioranza, affermando una novità procedurale, ma al tempo stesso aprendo la strada all’Atto unico del dicembre 1985, che a sua volta gettò le basi per il Trattato di Maastricht.
Non per caso la politica estera finì per occupare per Craxi uno spazio importante, che crebbe nel corso degli anni della sua presidenza. Il metodo col quale si preparava ai summit è raccontato così da Acquaviva e Badini, che lo accompagnavano: «Craxi non voleva mai impegnarsi a scatola chiusa. Diffidava degli slogan e dei paroloni: atlantismo, europeismo», non si fidava delle “veline” che soprattutto i servizi israeliani e inglesi facevano circolare servendosi della sponda americana», teneva contatti frequentissimi, spesso riservati, perché come diceva, bisogna «vedere meglio le carte», perché ogni iniziativa andava vista «nel suo merito», con un approccio che imponeva «studio, equità di oneri e di dividendi». E soprattutto «dialoghi chiari, senza fronzoli e sottintesi». In sostanza, c’era in lui una spinta, talora testarda, perché l’Italia conquistasse una maggiore influenza, con l’idea che il Paese fosse sottostimato e contasse meno del suo peso reale. Nella Seconda Repubblica la rivendicazione dell’Italia come “grande Paese” entrerà nella narrazione di molti leader politici e di quasi tutti i Presidenti del Consiglio, con accenti via via sinceri o retorici. Ma Sigonella, il sorpasso del 1987, la “forzatura” dell’Atto unico restano pietre miliari.
Sale il debito, scende l’inflazione,
l’Italia si stabilizza
Nell’estate del 1983, quando il governo Craxi si affaccia sulla scena e sembra uno dei tanti esecutivi di corto respiro, premono emergenze che, per la prima volta dagli anni del boom, si stanno trasformando in nuvoloni scuri. Inflazione a due cifre, a livelli sudamericani. Una presenza mafiosa più aggressiva. Un terrorismo in ritirata ma ancora serpeggiante. Sul piano internazionale, lampi da guerra fredda. Problemi che inducono il presidente del Consiglio a far virtù delle tante necessità da fronteggiare. Sa bene – e glielo aveva ricordato nel 1982 il politologo Gianfranco Pasquino – che negli anni del primo centro-sinistra il Psi aveva anteposto le preoccupazioni per il funzionamento del sistema a quelle relative ai vantaggi del partito e dunque stavolta si trattava di far combaciare risultati concreti e interessi partigiani. E questa è la scommessa non dichiarata del leader socialista: rimettere in sesto il Paese, incassare gli utili politici e trasferirli sul conto elettorale del proprio partito.
L’eredità degli anni Settanta
Nell’agosto del 1983 Bettino Craxi è chiamato a governare un Paese che, nel corso degli anni Settanta, aveva cominciato a vivere sopra le proprie possibilità: aumentando come mai era accaduto prima la spesa in deficit e dunque gonfiando il debito pubblico. Un boom che per diversi anni era rimasto compensato e mascherato da un’inflazione che era lievitata in modo patologico a partire dal 1972, quando la lira era arrivata a svalutarsi del 20 per cento, con punte sino al 25. I sindacati si erano fatti sentire e i governi avevano scucito: sull’onda dei cortei nel 1969 era stata approvata dal governo Rumor una riforma delle pensioni molto onerosa per le casse pubbliche e incardinata sul passaggio dal sistema contributivo a quello retributivo per il periodo finale della vita lavorativa. Nel 1975 era stato sottoscritto da Confindustria e sindacati il punto unico di contingenza. Gli addetti alle partecipazioni statali erano passati dai 460.000 del 1971 ai 600.000 del 1980. Certo, quella del deficit-spending, con la percentuale del debito sul Pil attorno al 60 per cento, era una politica ancora possibile all’inizio degli anni Ottanta, ma per la prima volta i margini dell’autonomia italiana cominciarono a restringersi.
Nei due anni che vanno dal “plebiscitario” congresso Psi di Palermo del 1981 sino alle elezioni del 1983 e poi al governo socialista, Craxi prepara l’ascesa verso la presidenza del Consiglio con una trama di alleanze politiche centrate sulla Dc del “preambolo” (Forlani, Donat Cattin, Piccoli), tenendo sotto controllo le ambizioni programmatiche dei suoi “colonnelli” e riservandosi di sperimentare sul campo se la “governabilità”, il nuovo mantra del Psi, potesse limitarsi a un semplice ritorno dei socialisti al governo, o dovesse avere un contenuto riformistico.
I meriti e i bisogni, ma Bettino non applaude
Craxi annuisce quando Claudio Martelli gli propone un’ariosa conferenza programmatica del partito, battezzata “Governare il cambiamento” e aperta, di nuovo, al contributo di tanti intellettuali di valore e di provata indipendenza. La conferenza si svolge tra il 31 marzo e il 4 aprile 1982 a Rimini e in quella occasione grazie all’apporto di diversi “tecnici” – Francesco Alberoni, Massimo Severo Giannini, Gino Giugni, Franco Reviglio, Federico Mancini, Luciano Gallino, Umberto Veronesi e altri ancora – circolano tante idee innovative, sulla riforma del Welfare. Anche nel progetto di Convenzione costituzionale è tutto un pullulare di proposte. Come la sfiducia costruttiva, la riforma dei regolamenti parlamentari. O la preferenza unica: una proposta in contrasto con le usanze del tempo. Ma lasciarla cadere costerà carissimo: undici anni più tardi, quando ne verrà proposta l’abrogazione per via referendaria, Craxi avrà una reazione negativa che lo porterà fuori strada.
Ma sul piano economico e sociale la linea prova a darla Claudio Martelli, con la sua Relazione sul merito e sul bisogno, che anni dopo lui stesso ha inquadrato così: «Volevo scrivere un manifesto del socialismo moderno», in un’epoca segnata dal trionfo del liberismo di Reagan e della Thatcher e dell’insofferenza contro lo «Stato impiccione». Una relazione che contiene importanti spunti di analisi, nuove categorie di interpretazione per mettere in campo una politica liberalsocialista. Con un asse attorno al quale ruota tutto il resto: accanto alla difesa del mondo del lavoro salariato, la classe generale cara alla sinistra, occorre affiancare la sfera del bisogno e del dolore: i carcerati, i matti, i malati cronici, le pensioni minime, ma anche i giovani che non trovano lavoro. E al tempo stesso occorre affiancare all’imprenditoria più tradizionale, anche il mondo del merito, che è socialmente più trasversale.
Un discorso interrotto da numerosi applausi e salutato alla fine da una standing ovation di inusuale durata. Ha scritto Claudio Martelli nel suo Ricordati di vivere: «Solo Craxi rimase seduto». A caldo una reazione poco generosa. Sta di fatto che di quelle idee non resterà molta traccia nelle scelte politiche che il Psi si prepara a portare nel confronto con la Dc per un governo a presidenza socialista. Come se il cambio della guida assorbisse in sé tutta la carica innovativa.
L’amico Silvio
Il merito che il governo socialista premierà prontamente e generosamente è quello di Silvio Berlusconi. Protagonista a partire dal 1970 di una escalation imprenditoriale esemplare: da Milano 2, città satellite di elevato standard edilizio e urbanistico, Berlusconi aveva iniziato a consorziare dal 1979 diverse tv locali, sinché con un escamotage era riuscito a trasmettere contemporaneamente in “interconnessione” in tutta Italia. Il 16 ottobre 1984 si muovono tre magistrati: alle reti Fininvest, in tre Regioni, viene vietata l’irradiazione nazionale. Come ha ricostruito Marco Travaglio sull’«Unità» il 20 ottobre 2004 «Berlusconi, allarmato per le fibrillazioni dei pubblicitari», va di persona da Craxi, gli chiede un decreto urgente e poco dopo, il presidente del Consiglio «da Londra convoca un Consiglio dei ministri straordinario per la sera stessa. Poi anticipa il rientro a Roma e firma a tempo di record il “decreto Berlusconi”, che annulla le ordinanze dei pretori». Prosegue Travaglio: «Provvedimento “eccezionale e temporaneo”, promettono i socialisti, in attesa della legge sulle tv, data per imminente (invece la faranno solo nel 1990: la Mammì)». E ancora: Berlusconi «flauta riconoscente» una delle sue iperboli («Craxi è un uomo provvidenziale») e aggiunge il suo personale concetto di legalità: «Il pubblico non ha sentito la nostra attività come un reato, ma anzi l’ha giudicata un beneficio che gli volevano ingiustamente togliere». Il racconto di Travaglio prosegue: «Il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi. Così, il 28 novembre la Camera, grazie ai franchi tiratori di un pezzo della Dc e del Pri, boccia il decreto perché incostituzionale: 256 voti contro 236. E il 3 dicembre i tre pretori reiterano il sequestro degli impianti». La conclusione: «Comunque, il 6 dicembre, Craxi impone un secondo decreto, il Berlusconi bis, ponendo la fiducia e minacciando la crisi di governo e le elezioni anticipate se non verrà convertito. E infatti, il 31 gennaio 1985, viene approvato a maggioranza. Berlusconi è salvo, insieme a ciò che ha di più caro: la pubblicità». Come scrive Umberto Gentiloni Silveri nella sua Storia dell’Italia repubblicana, «un gesto di sfida anche nei confronti del Parlamento. Il doppio decreto del governo Craxi conferma e rilancia le ragioni e le condizioni di una conflittualità continua e selvaggia, senza regole o freni». Ma fu anche il modo per superare l’anacronistico monopolio della Rai, che resisteva anche per la difesa di quella parte politica che aveva sempre ricevuto vantaggi dall’informazione pubblica.
Craxi e Berlusconi, tutti e due milanesi, si erano conosciuti nel 1977 e a metterli in contatto era stato Silvano Larini, amico di Bettino dagli anni dell’Università. A Craxi piacevano i self-made man, probabilmente identificandosi in quegli imprenditori che si impegnavano in scalate di successo, sfidando le grandi famiglie. E ovviamente vedeva il vantaggio di poter avere reti televisive che – slegate da obblighi di par condicio, seppur obbligate a conquistare ascolti – finirono per essere compiacenti verso il Psi. E quanto a Berlusconi, immaginava di poter lucrare dalla crescente influenza del leader socialista. Che aiutò anche con finanziamenti illegali. Tra i due si era cementata un’amicizia: il 14 dicembre 1990 Silvio Berlusconi e Veronica Lario si sposano e i coniugi Craxi fanno da testimoni.
In termini non personali ma di sistema, lo sblocco delle tv commerciali – al pari di quanto accadeva in tutti i Paesi dell’Occidente – ebbe effetti non trascurabili. Sul piano del costume, i programmi televisivi delle reti Fininvest interpretavano e alimentavano il gusto dei nuovi ceti emergenti in una stagione segnata da un maggior individualismo, da costumi meno ingessati e dall’altra favorirono, quello che Giuliano Amato e Andrea Graziosi definiscono «un nuovo blocco economico, fondato sul sostegno reciproco tra canali di Berlusconi e imprenditori», molti dei quali – non solo al Nord – ebbero per la prima volta accesso alla pubblicità televisiva, locale e nazionale.
L’inflazione, il nemico numero uno
Quando Craxi prende la guida del governo, era da dieci anni che l’inflazione appesantiva e mascherava lo sviluppo italiano. In quel periodo lo spread tra i decennali italiani e quelli tedeschi tocca la vetta record di 1175 punti base, che non avrebbe più raggiunto neppure nei periodi più neri: né durante Tangentopoli, né durante la crisi del debito sovrano. Craxi, che pure non è minimalista, ma semmai ambizioso, rinuncia a preparare o a qualificare la sua presidenza con un programma dettagliato. Decide di concentrare il massimo delle energie sulla «più iniqua delle tasse», facendo una scommessa: rimuovere il meccanismo della scala mobile che, legando gli incrementi salariali alla crescita dell’inflazione, si è a sua volta trasformato in un moltiplicatore. Su questo piano i fatti gli daranno ragione: la produzione riprende a un ritmo più intenso e tutta la società italiana ricomincia a respirare. Diversi anni più tardi Massimo D’Alema converrà: «Non sbagliava Craxi quando poneva l’esigenza di una lotta all’inflazione che liberasse il campo da automatismi superati per lo stesso esercizio della lotta contrattuale da parte del sindacato». Nel 1985 Craxi si presenta all’inaugurazione della Fiera di Milano e annuncia soddisfatto che Italia e Gran Bretagna erano gli unici due Paesi nei quali nel corso del 1984 era aumentata l’occupazione. Due anni dopo, il 31 maggio 1987, il governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi, ricordando che l’anno precedente l’inflazione era stata «piegata» e annunciando che l’occupazione era cresciuta, concedeva che questi successi erano da attribuire ad «atti di politica interna» e alla «risposta delle forze di mercato».
Ma non c’è soltanto l’inflazione. Sul piano dell’evasione fiscale, nel secondo anno di governo, Craxi rompe gli indugi e decide di sostenere il “pacchetto Visentini”, che prevede tra l’altro l’introduzione degli scontrini fiscali e del registratore di cassa per gli esercizi commerciali. Il presidente del Consiglio capisce subito che non sarà una passeggiata: Dc e Pci osteggiano più o meno esplicitamente, anche se l’opposizione più aperta viene da socialdemocratici e liberali, mentre i commercianti minacciano la serrata. Ma Craxi tiene e facendo fronte col Pri, il pacchetto passa. Con un dato trascurato in tutte le storie che riguardano questo periodo: la pressione fiscale, tra il 1983 e il 1987 diminuisce, passando dal 36,26 per cento al 35,41.
Ma il debito sale
Nel corso degli anni Ottanta i numeri dell’economia hanno una progressione molto nitida: i redditi reali crescono del 50 per cento, raggiugendo nel 1990 un livello 4,5 volte superiore al 1951, mentre nel quadriennio craxiano il Pil sale del 2,5 per cento (rispetto allo 0,8 per cento del ’78-’82), la Borsa di Milano quadruplica la propria capitalizzazione e nel 1987 l’inflazione scende al 4,6 per cento. Migliora la redditività delle grandi imprese pubbliche, Iri ed Eni, che sono affidate a guide competenti come quelle di Romano Prodi e di Franco Reviglio. Ma al tempo stesso, ed è questo il rovescio della medaglia nella stagione craxiana, è vero che aumentano le entrate della Stato (crescono di otto punti percentuali, passando dal 33,9 al 42,6 per cento del Pil), ma aumentano anche le spese: in questo caso del 12 per cento, passando dal 42,2 per cento la 54,4 per cento. Ma soprattutto esplode la percentuale del debito pubblico sul Pil: nel decennio passa dal 60 al 100 per cento, con le spese per interessi che raddoppiano, passando dal 5,1 al 10,5 per cento del Pil. Si impennano la spesa per le pensioni e per la sanità. Ed è proprio questa divaricazione tra abbassamento dell’inflazione e crescita impetuosa del debito che ha spinto economisti come Michele Salvati a qualificare come «stabilizzazione incompleta», quella avviata durante la stagione craxiana e definendo il decennio quello delle «occasioni mancate». Un’analisi in parte non condivisa da Giavazzi e Spaventa che, a suo tempo obiettarono che politiche di riduzione della spesa avrebbero depresso occupazione e crescita di quegli anni, anche se convennero che allora si differì il conto da pagare che anni dopo si è presentato con cifre macroscopiche.
Di chi la responsabilità? Del presidente del Consiglio più degli altri? In quegli anni la tradizionale alleanza competitiva (tra Psi e la Dc e tra questi e il Pci), contribuì a rompere gli argini, aprendo una corsa alla finanza allegra e spegnendo ogni velleità virtuosa nei partiti campioni nella spesa pubblica. Chi spingeva Craxi a intraprendere riforme coraggiose come quella previdenziale, incontrò «una risposta infastidita», come ha scritto Giuliano Amato, latore del consiglio. Certo, sulle responsabilità di quel debito abbandonato al suo “destino”, non tutti gli studiosi la pensano nello stesso modo: in uno studio del 2018 dedicato al rapporto debito-Pil dall’Ottocento al secondo decennio del Duemila, Roberto Artoni, ex commissario Consob e docente emerito di Scienza delle Finanze alla Università Bocconi di Milano scrive che «deve essere sottolineata la passività delle nostre autorità di politica economica, che hanno assistito inerti all’evoluzione della nostra finanza pubblica, forse soddisfatte dal fatto che a tassi di interesse reali così elevati fosse comunque possibile il finanziamento del Tesoro». E tuttavia resta un risultato combinato, di non poco conto: riduzione dell’inflazione e aumento contestuale del Pil.
Ed è pur vero che a coronamento del quadriennio craxiano, nel 1988, la crescita sfiora il 4 per cento, risultato che non sarebbe stato più raggiunto per decenni e l’Italia si aggancia alla ripresa mondiale. Risultati ottenuti certamente per effetto del deficit che continuava a gonfiarsi e di una congiuntura internazionale favorevole, ma anche grazie alla vitalità delle imprese e a un contesto interno favorevole: quello di un Paese pieno di tare e di contraddizioni, ma che nel periodo del governo Craxi complessivamente si era stabilizzato. E in ogni caso la linea di risanamento economico – che aveva portato a spegnere la spirale inflattiva prezzi-salari ed era stata gratificata dal voto referendario sul taglio dei punti di scala mobile – verrà lasciata in sospeso dai governi successivi a guida democristiana. Rendendo obbligata la cura da cavallo, alla quale fu chiamato un altro presidente socialista, Giuliano Amato.
La cultura della stabilità
Con questi fondamentali Italia si aggancia alla ripresa mondiale, anche perché con tutte le sue contraddizioni è ancora un Paese vitale. Di una vitalità diversa da quella del primo dopoguerra: gli italiani, più che nel passato, sono spinti dal perseguimento della realizzazione individuale, appaiono motivati dal guadagno, dal consumo per il consumo, dall’acquisto del bene stabile per definizione, la casa. È l’Italia delle piccole tv via cavo, che manda in onda una programmazione al tempo stesso pop e trasgressiva. In un Paese che – per effetto dell’influenza cattolica – era stato uno dei più sessuofobici d’Europa. La politica di Craxi e dei governi pentapartito ma anche il carisma di Sandro Pertini contribuiscono a mandare in soffitta gli anni di piombo, stabilizzando il Paese dopo una stagione di inquietudini e di ansia: in questi anni si intensificano i successi contro la mafia e contro il terrorismo. Successi ai quali contribuisce anche un messaggio di fondo, colto dall’acume di Gianni Baget Bozzo: «Craxi segue un modello di cultura occidentale che conduce alla regressione di tutte le matrici ideologiche comprese quelle del terrorismo. Negli anni di Craxi finiscono i miti della guerriglia urbana e del terrore rosso come mezzo di ripristino della lotta di classe: il Paese esce dalle ideologie legate al marxismo». Nel 1985 il totale delle ore di sciopero nel settore industriale è il più basso dal 1949. Il primo governo Craxi (dal 4 agosto 1983 al primo agosto 1986) risulterà il più duraturo della Prima Repubblica.
È sempre difficile misurare l’influenza di una singola personalità su un sentimento collettivo. O sui comportamenti individuali. Ma per uno storico come Piero Craveri il governo Craxi e le sue battaglie politiche nel loro complesso gettarono «le premesse di un’Italia più matura e libera da preconcetti di quella che era uscita, tre decenni prima, nel 1945, dalla guerra». Un risultato al quale non è estranea quella cultura della stabilità che, a dispetto di tutto, rappresenta uno dei lasciti più importanti della stagione craxiana.
Capo, accentratore, mai populista
C’è un paradosso da sempre trascurato nel racconto dell’avventura politica di Bettino Craxi. Notoriamente è lui il primo segretario di partito nella storia della Prima Repubblica che assuma un piglio da uomo solo al comando. Notoriamente Craxi è il primo che si impegni strenuamente nel dare un profilo accattivante alla propria immagine. Notoriamente Craxi è il primo che personalizzi il potere. Eppure, nonostante tutte queste prime volte e nonostante tutti questi “preliminari” propedeutici ad una leadership in dialogo diretto col popolo, nella sua avventura politica Craxi non passerà mai il confine oltre il quale c’è la demagogia. Non cavalcherà mai la tigre populista. Per diversi motivi, nei decenni successivi Craxi ha finito per rappresentare un controverso punto di riferimento per quel che fece e rappresentò nella costruzione e nella realizzazione di una leadership. È interessante raccontare anche quel che avrebbe potuto fare e non fece.
La concentrazione del potere, l’elogio di Sciascia
Nel corso degli anni il bonapartismo di Craxi si è alimentato di aneddoti memorabili e ha prodotto soprannomi deformanti: Bokassa, il cinghialone, l’unno. La miccia che accende tutta questa narrazione, va ricercata nel congresso socialista di Palermo del 1981, cinque anni dopo il Midas. In quella occasione Craxi riesce a far approvare una revisione statutaria – l’elezione diretta del segretario da parte dei delegati al congresso – che gli consente di conquistare il comando effettivo del partito, ribaltando la costituzione materiale e formale del Psi. Un partito nel quale, sino ad allora, la direzione composta da una trentina di membri, era in grado di condizionare e pilotare il segretario, che infatti era sempre stato un primus ma inter pares. E invece un segretario eletto dai delegati, come si dimostrò negli anni successivi, si sarebbe liberato dal condizionamento delle correnti, quelle che Riccardo Lombardi aveva chiamato «le compagnie di ventura». Diventava più autonomo, aveva una maggiore autorità, era più difficilmente rimuovibile e completò «un disegno che era di “normalizzazione” ma anche di modernizzazione», come ha scritto lo storico Gaetano Arfè, che certo non ebbe pregiudizi favorevoli verso Craxi.
Una riforma che sfidava lo spirito del tempo, in una stagione carica di ostilità verso ogni concentrazione di potere. In questo caso a spiazzare il coro è Leonardo Sciascia. All’indomani dell’approvazione della riforma statutaria, lo scrittore interviene sul «Giornale di Sicilia». Sostiene «l’elezione diretta, portatrice di una maggiore stabilità» e al tempo stesso immagina che proprio quella decisione possa mettere in sintonia Craxi e il Psi «con un’area di opinione più larga». A distanza di molti anni Claudio Signorile, che votò contro la revisione dello Statuto, ha riletto criticamente la vicenda: «In quel momento si doveva fare così, se non lo facevamo, eravamo morti: dopo tre mesi sarebbe ricominciato lo stillicidio dei gruppi, dei sottogruppi, delle correnti» e comunque da quel momento Craxi non decise tutto da solo, ma continuò a consultarsi col gruppo dirigente ristretto, perché in lui «c’erano componenti di insicurezza» che gli facevano tastare il terreno prima di decidere.
Tre anni più tardi, al congresso di Verona, Craxi è presidente del Consiglio ma non lascia la segreteria del Psi e, anzi, chiede di essere confermato per acclamazione: un colpo alle regole elementari della democrazia di partito che il filosofo Norberto Bobbio commenta severamente su «La Stampa» con un editoriale nel quale si sostiene che «l’elezione per acclamazione non è democratica», «è un’investitura». Ed è anche il congresso che nomina un’Assemblea nazionale, formata in modo tale da trasformare il segretario in un padrone: dei 473 membri, oltre ai parlamentari, entrano a farne parte 120 “esterni” indicati dal segretario e 230 invece sono espressi dalla burocrazia centrale e periferica. Per Gaetano Arfè, «una folta pittoresca assemblea, concepita come una sorta di Camera delle corporazioni», mentre Rino Formica, protesta (da solo) contro una distribuzione del potere che avrebbe accelerato «lo sgretolamento del partito». Craxi battezza “Arca di Noè” quella eterogenea Assemblea, che si riunì solo quattro volte, palesandosi presto per quel che era: fumo negli occhi. In sostanza il Psi resta nelle mani di Craxi, ma quando il presidente del Consiglio tornerà a via del Corso, nell’estate 1987, troverà un partito “disossato”: ogni istanza di dibattito era stata soffocata e in tutta Italia aveva preso spazio il “partito degli assessori”, con tutto quello che ne sarebbe conseguito non appena la magistratura si sarebbe mossa alla ricerca del malaffare: bastò cercare per trovare.
Talora questo accentramento di potere, che Craxi ottiene con armi democratiche, è accompagnato da uno stile sbrigativo, in alcuni casi insolente. Nell’ottobre del 1981 alcune personalità – tra cui il magistrato Gianfranco Amendola, Renato Ballardini, Franco Bassanini, Tristano Codignola, Elio Veltri – sottoscrivono un documento di forte denuncia per alcuni scandali che avevano lambito il Psi. I dissidenti non soltanto vengono espulsi, ma un documento li definisce «piccoli trafficanti e girovaghi della politica». Giacomo Mancini ricorda a Craxi che alla tradizione socialista «sono estranei i criteri di autoritarismo e ducismo».
Il decisionista
Dunque, accentramento e concentrazione di potere. Quando si trasferisce al governo, dovendo convivere non più con i suoi esausti compagni, ma con le vecchie volpi democristiane, Craxi decide di giocare tutte le sue carte sul decisionismo. Una vocazione che, riferita a sé stesso, lui spiegava così: «Odio il vuoto politico, ne ho paura. Quando vedo il vuoto politico, anche all’ultimo momento, so che bisogna decidere». I termini usati – vuoto, odio, paura – alludono anche a un’urgenza diversa da quella politica, un’urgenza interiore di natura psicologica, quasi che un’ansia da non-decisione, produca in lui una pulsione a decidere. Ma quel che conta, ovviamente, non è l’introspezione psicologica ma il messaggio all’opinione pubblica: Craxi, secondo la pennellata severa di un grande intellettuale socialista come Luciano Cafagna non offriva un programma, un disegno esplicito, ma «una proposta di leadership forte», «solo un ammiccamento, una allusione, ma di tempismo».
Nei primi due anni di governo Craxi dimostra più volte di saper decidere e di saperlo fare al momento “giusto” (Sigonella, decreto di San Valentino) e il messaggio arriva. Fa presa. Come dimostrano diversi sondaggi e come conferma anche un grande settimanale come «The Economist», che si spinge a definire il presidente del Consiglio italiano «the strong man in Europe». Craxi capisce e fa capire all’opinione pubblica che il decisionismo è un fattore emotivamente essenziale, uno scatto che conta quanto la qualità delle decisioni. Come dire: cari italiani, decidere si può e il solo fatto di decidere fa bene al Paese. Dunque, concentrazione del potere e decisionismo: due caratteristiche che, sapientemente comunicate in una stagione politica di traccheggiamento, avrebbero potuto trasformarsi in un moltiplicatore di consensi. Ma non fu così.
Un tric-trac di effetti speciali ma «Craxi non è un attore»
Nella storia repubblicana, prima di Craxi, nessuno aveva mai investito sul fattore-immagine, neppure un po’. Tante ragioni lo avevano sconsigliato: il sistema consensuale all’italiana, la vecchiaia intellettuale del ceto politico, la prevalenza della figura del capo-partito su quella del leader, l’idea cattolica e comunista che in fondo in fondo l’immagine sia un inganno. Nella svolta craxiana all’inizio tutto è affidato a un certo istrionismo mimico e lessicale del capo: un eloquio segnato da pause studiate (vagamente mussoliniane), l’uso di frasi secche, pronte per i titoli dei Tg e dei giornali, intercalate da proverbi popolari. L’uso del linguaggio parlato («l’olio di gomito»), il conio di termini che sarebbero entrati nel vocabolario politico («la governabilità»), l’eco agli slogan pubblicitari, la rielaborazione di titoli teatrali («Uno, dieci, cento voti di fiducia»), l’invenzione di qualche metafora suggestiva, come «l’onda lunga». Con lui – come ha scritto il linguista Giuseppe Antonelli – finisce il politichese, «la lingua artificialmente alta» della Prima Repubblica, anche non se si cade ancora nella «lingua artificialmente bassa» della stagione populista, che sarà inaugurata da Silvio Berlusconi.
Craxi è anche il primo che si impegna strenuamente nel dare un profilo accattivante alla propria immagine e sotto questo aspetto, è un innovatore, in Italia è lui il primo che comprende e adotta le armi della comunicazione. Ma devono passare cinque anni perché vada in scena il primo, vero effetto speciale: nel 1981 a Palermo, in occasione del congresso socialista, un garofano alto 15 metri viene collocato sul Monte Pellegrino e di notte illuminato a giorno. Autore di tanto azzardo era un altro dei personaggi “irregolari” che tanto piacevano al segretario-presidente: l’architetto Filippo Panseca. Palermitano, classe 1940, amante dei capelli lunghi e delle camicie rosse, artista poliedrico, qualche scatto come comparsa giovane nei fotoromanzi Supersex, personaggio lussureggiante, Panseca sarà autore anche delle piramidi e dei templi in cartapesta dei congressi socialisti di Rimini e di Milano. Tutte macchine visive, immaginate per sorprendere ma anche per alludere a un potere “superiore”, quello del leader-faraone.
Si vanno anche a scovare tecniche nuove (i maxi-schermi, gli spot personalizzati) e professionalità sino ad allora trascurate: sondaggisti, pubblicitari. Sin da quando era segretario, Craxi aveva anche un fotografo personale, altra figura professionale fino ad allora sconosciuta in politica. Anche in questo caso un ribelle: Umberto Cicconi, un ex ragazzo della borgata romana di Pietralata. Sia pure gradualmente lo staff craxiano appronta un apparato chiamato ad amplificare l’immagine considerata via via utile al consenso: il decisionismo del leader, il suo energico ottimismo, la sua modernità. Ha scritto il giornalista e scrittore Filippo Ceccarelli nel suo Invano: «Nessuno allora sospettava che le logiche dello spettacolo in prospettiva avrebbero preso la mano, annullando contenuti e progetti». Ed è vero che tutto ha inizio con Bettino Craxi. Che però si ferma un passo prima di sconfinare in una terra sconosciuta. Perché – ecco il punto – il leader socialista non sposerà mai la spettacolarizzazione di sé. Giuseppe De Rita ha sostenuto che Craxi era un leader che esprimeva «anche mediaticamente, il senso del potere, ma la medializzazione spettacolare, no». Non soltanto non aveva una vocazione mediatica, ma lasciava condurre le danze agli altri. E in effetti il Bettino con gli stivaloni del Duce, simbolo di decisionismo, fu una suggestione che paradossalmente Craxi lasciò condurre ai suoi detrattori. La sua narrazione era quella dei templi, che però alludevano – banalmente e anche in modo arrogante – a un suo potere sopra-ordinato. Il decisionismo fu raccontato – fu lasciato raccontare – più dalle vignette di Forattini più che dagli uomini-immagine di Bettino. La sua arroganza fu suggerita più dai nani e dalle ballerine cha contrastata da un’apposita contro-narrazione. Craxi non seppe e non volle contrapporsi, perché, a differenza di Berlusconi non fu mai un attore, Craxi non aveva la vocazione allo spettacolo. Lui «sa verticalizzare, sa decidere, ma non sa mediatizzare», come sintetizza De Rita. Non sa farlo e comunque nei suoi burrascosi rapporti con i media («Repubblica» ma anche «Corriere della sera») pesò la sua proverbiale suscettibilità e il suo puntiglio. A chi gli consigliava prudenza, rispose sull’«Espresso»: «C’è una cosa che non mi entra nella zucca: il fatto che quando sono gli altri a muovere qualche rilievo su di me, si dice che parlano in nome della libertà, ma appena replico io, si strilla che lo faccio in nome del potere».
Non abbracciava le vecchiette
Con uno spirito e pratiche da neofiti, Craxi e il suo staff avevano attivato alcuni dei preliminari essenziali per una leadership che si prepari a diventare populista. Ma si fermarono un attimo prima. Antonio Ghirelli, capoufficio stampa di Craxi a palazzo Chigi tra il 1983 e il 1986, ha scritto: «Craxi non era tipo da abbracciare le vecchiette», per dire una di quelle smancerie false e studiate a uso delle telecamere. Sembra un’osservazione che riguarda un tratto esteriore e non politico. Ma è vero il contrario. Uomo scorbutico e talora maleducato, spesso molto arrogante e orgoglioso come pochi altri, Craxi entrerà sempre con mille cautele nel mondo dell’ipocrisia e della falsità, faticherà a dispensare promesse impossibili. Non vellicò mai istinti, non promise mai mari e monti. Per dirla con un concetto semplice: non fece mai “il simpatico” e comunque non si preoccupò più di tanto di apparire antipatico. E infatti antipatico appariva a tanti, alla maggioranza degli italiani. Nel non voler correggere questa apparenza, in questa mancanza di umiltà c’era quell’orgoglio smisurato che è dentro tutte le sue scelte politiche, ma c’era anche un approccio politico che, in tutti i passaggi dirimenti, non lo portò mai a esagerare. Non ebbe mai un’altra caratteristica tipica del populista: la dilatazione della realtà impressa con una menzogna. Dice Rino Formica: «Bettino poteva essere reticente, ma non diceva bugie». Tagliente, spesso brutale in certe espressioni verbali, Bettino Craxi ebbe sempre un’ oratoria asciutta, quasi sempre priva di retorica. Esemplare il discorso nel quale era più facile cedere al sentimentalismo, quello che pronunciò il 3 gennaio 1980 in piazza alla morte di Pietro Nenni. Un discorso secco, vero, privo di superlativi, ricco di fatti eloquenti. A cominciare dal suo incipit: «Il compagno Nenni aveva detto più volte in questi anni, ricorrendo ad una delle sue immagini colorite: “Io non potrò mai ritirarmi. Il mio destino è di lavorare per il Partito sino a quando stramazzerò come un mulo attaccato alla carretta”. E così è stato. Sul suo tavolo di lavoro ha lasciato le note iniziali del discorso che si proponeva di pronunciare al Comitato Centrale del Partito». E al culmine di un ricordo tutto fatti e pochi svolazzi, sono bellissime perché asciutte, le parole finali scelte da Craxi per congedarsi dal patriarca del socialismo italiano: «In un suo libro sulla guerra di Spagna egli ricorda la commozione e la gioia che lo prese quando in una trincea spagnola, un connazionale, che lo aveva riconosciuto lo aveva salutato con il semplice saluto italiano che gli rivolgiamo noi tutti: “Ciao Nenni”».
In conclusione, «non è mai stato un leader popolare», come nota Claudio Martelli. Non lo è stato anche perché non fu mai sfiorato dall’idea che il senso comune dell’uomo della strada potesse orientare le scelte essenziali della politica. Craxi accentra, personalizza ma resta sé stesso. Quel suo broncio, quella percezione di antipatia e di arroganza li pagò in termini di consenso elettorale. E comunque tutte le volte che sembrò essere arrivato il momento, non fece quella “chiamata al popolo” che avrebbe rappresentato un salto nella qualità della sua leadership.
La Grande Riforma, un’araba fenice
La Grande Riforma resterà l’incompiuta, l’araba fenice di Bettino Craxi. La riforma del sistema politico stava nel dna del nuovo corso socialista, in quel “Progetto” del 1978 che mise nel mirino la pratica dell’assemblearismo e dove transitò l’espressione “democrazia governante”. Il 28 settembre 1979 è Craxi a lanciare, con un articolo sull’«Avanti!» intitolato La grande Riforma, i temi di un ammodernamento istituzionale e costituzionale, anche se il passaggio sull’elezione popolare del Capo dello Stato è molto soft: «Il “presidenzialismo” può essere considerato come una superficiale fuga verso una ipotetica Provvidenza, ma l’immobilismo è ormai diventato dannoso». Nel discorso di fiducia al governo Spadolini, nell’agosto del 1982, oltre a impostare il tema della revisione della Costituzione, che non considera intoccabile, si esprime in modo meno timido sul punto dell’elezione diretta da parte del popolo: «Può rafforzare l’istituto del Presidente della Repubblica e cioè del Capo della Nazione che interamente la rappresenta continuando a esercitare la sua funzione di arbitro e di garante della vita istituzionale con il massimo grado di prestigio e di autorità che può conferirgli un sistema democratico».
Ma da quel momento il tema languirà per una ragione politica: dopo la fine della solidarietà nazionale, Craxi aveva scelto una collaborazione, sia pur conflittuale con la Dc e si limitò a accompagnarla con l’obiettivo della Grande Riforma, la cui natura tra i socialisti rimase in sospeso tra un programma minimo e uno massimo. Da una parte, invocando importanti restauri conservativi (la riduzione del voto segreto in Parlamento, la possibilità del presidente del Consiglio di scegliersi i ministri, la corsia preferenziale per i disegni di legge governativi), dall’altra caldeggiando (il più convinto restò sempre Giuliano Amato) l’elezione diretta del Capo dello Stato, un evento che anche in caso di poteri immutati del Presidente, avrebbe favorito quella bipolarizzazione che sembrava stare ancora nelle corde di Craxi.
Ma bisognerà attendere il 1989 perché Craxi faccia esplicitamente la proposta dell’elezione diretta del Capo dello Stato, con la recondita idea che quella possa diventare una scorciatoia per coinvolgere il riottoso Pci in una prospettiva comune col Psi. Ma si arrende e corona la sua ritirata nell’autunno del 1992, quando intervenendo in Bicamerale, dice che l’elezione diretta è «una tesi che non riesce a farsi strada». Effettivamente tutti i tentativi di Craxi di aprire una discussione su questi temi non soltanto erano puntualmente caduti nel vuoto, ma avevano suscitato anatemi e accuse di plebiscitarismo da parte dei due partiti maggioritari in Parlamento, Dc e Pci. Nell’autunno del 1992 è tardi, per prendere un’iniziativa politica, Mani pulite sta “mordendo” da mesi, anche se sta avanzando anche una crescente insofferenza “antipartitica”, che esploderà di lì a poco. Claudio Signorile ne è certo: se Craxi avesse provato a forzare in quella fase, sarebbe stato «massacrato», perché la Dc e il Pci, ferocemente contrari, catalizzavano ancora il 60 per cento dei consensi.
Ex post in tanti, protagonisti e storici, si sono chiesti: prima del fatale 1992, quando è che Craxi avrebbe potuto tentare un’opzione alla De Gaulle? Rino Formica, che ha vissuto tutta quella stagione pungolando il suo amico Bettino su questo fronte, non ha dubbi: «L’occasione si era determinata nel 1979 più che nel 1989. Dopo la fine della solidarietà nazionale si apre una crisi di carattere sistemico, la Dc è azzoppata, Berlinguer non ha alternative al compromesso storico, Craxi vede tutto questo, fa l’articolo sull’«Avanti!» e poi il congresso di Palermo del 1981. Ha la decisiva intuizione di uno spazio di riforma, ma contemporaneamente apre la stagione della governabilità con la Dc. Per dirla con un proverbio popolare Cu n’uocchio frije ’o pesce e cu n’ato guarda ’a gatta. Ci si illude che il sistema si rigeneri da solo». In occasione della morte di Craxi, Stefano Folli, che è stato direttore del «Corriere della Sera» e del «Sole 24 Ore», nel gennaio del 2000 ha scritto che l’opportunità di una “chiamata” al popolo per una forte modernizzazione del Paese, avrebbe potuto manifestarsi nel 1987, in coincidenza con la fine dell’esperienza di governo, quando un sondaggio (allora erano poco frequenti e ben fatti) confermò una tendenza evidenziata già l’anno prima e diventata trend: il 65 per cento degli intervistatati dava un giudizio positivo su Craxi, mentre una percentuale decisamente più bassa era favorevole al pentapartito.
Scrive Folli: Craxi «non seppe o non volle capire che la sua figura aveva già spezzato i vincoli e le gabbie del sistema partitico (o francamente partitocratico) ormai logoro». Un’analisi che ha sempre trovato d’accordo Francesco Cossiga, il Presidente-picconatore che, pur restando un estimatore di Craxi, ne ha sottolineato «la miopia politica»: riportando al governo Andreotti nel luglio 1989, ha «spazzato dal tavolo della storia italiana la Grande Riforma». E invece, come si vedrà, il sistema era destinato ad implodere. Nel 1998, intervistato ad Hammamet da Radio Radicale, Craxi ricordò: «Mi trovai in uno stato di completo isolamento». Nell’anti-craxismo razionale e viscerale di democristiani e comunisti – lo ha scritto Ernesto Galli della Loggia giocò la sensazione «anzitutto psicologica» che il leader socialista «potesse avviare un vero e proprio salto di fase nella storia della Repubblica», risvegliando quel modello di leadership populista, che assieme a una «partitocrazia pervasiva» rappresentava una delle eredità lasciate dal fascismo alla democrazia italiana. Se quella di fine anni Ottanta fosse o meno l’occasione d’oro per assecondare un’onda anti-partitica, Craxi non la cavalcò, perché «la sua storia di militante di partito e la sua fede socialista», come ha scritto un altro protagonista di quella stagione come Giuliano Amato, «gli impedivano di trarne le conseguenze “antipartitiche” (e antipolitiche) che il Paese avrebbe presto domandato».
Alla fine restano ben tre paradossi, tutti e tre rilevanti. Nel contesto dell’Italia degli anni Ottanta, il piglio decisionista di Craxi – per essere utile a sé stesso e al Paese – avrebbe dovuto essere tramutato in «un meccanismo di nuovo governo», come sostiene Giuseppe De Rita. Un’incompiuta che apre la strada al secondo paradosso: proprio Craxi, che aveva intuito per primo l’urgenza di una svolta politica e istituzionale, al momento opportuno lascia cadere la bandiera. E, così, anziché l’“onda lunga” del consenso elettorale al Psi, tante volte evocata e mai arrivata, si produsse invece un’onda anomala. Che travolse colui che aveva iniziato a smuovere le acque. Il terzo paradosso appartiene agli effetti postumi: al livello più superficiale della discussione pubblica (quella che coinvolge la quantità più estesa di elettori-telespettatori), nei decenni successivi Craxi verrà evocato per due “trofei”: Sigonella e la Grande riforma. Della quale il leader socialista aveva intuito l’urgenza ma senza trovare la forza per avviarla. I pomposi tentativi successivamente avviati da parte di leader circondati da maggiori consensi, sono tutti falliti. Dimostrando che su questo terreno il conservatorismo del sistema è più forte di ogni volontà anche sincera di riforma.
Il duello con Berlinguer e l’irruzione dell’odio nella politica italiana
Enrico Berlinguer era nato nel 1922, dunque aveva dodici anni più di Bettino Craxi e i due – per quanto avessero entrambi un imprinting squisitamente di partito – percorsero un cursus honorum diverso: Berlinguer, dopo essersi iscritto al Pci nel 1943, appena cinque anni dopo viene chiamato a far parte (come segretario del Fronte della gioventù) della selezionatissima direzione comunista (21 membri), mentre Craxi approda allo stesso livello del cursus honorum dopo aver fatto il consigliere comunale, l’assessore, il segretario cittadino e il parlamentare. Berlinguer era figlio di Mario, parlamentare socialista per venti anni, già liberale, azionista e sardista; Craxi era figlio di Vittorio, socialista per una vita ma mai parlamentare. Enrico e Bettino si erano conosciuti negli anni Sessanta: «Una volta lo invitai a un nostro Festival a Milano» ha ricordato Craxi «eravamo molto giovani: lui venne in treno e mia moglie lo andò a prendere alla stazione». Ma non scoppiò mai un feeling. Berlinguer rimase uno dei pochi dirigenti comunisti col quale Craxi non ebbe un rapporto di confidenza e questa reciproca diffidenza è confermata dall’aspra e istintiva reazione, per quanto informale, che il leader del Pci ebbe nel luglio 1976 poche ore dopo l’elezione di Craxi a segretario del Psi. Tra i due restò per sempre un’incomunicabilità che avrebbe pesato nel rapporto tra i partiti che guidarono.
L’incomunicabilità
Tutti gli incontri successivi si svolgono all’insegna dell’incomunicabilità: quelli ufficiali, ma anche quelli informalissimi. Nell’autunno del 1979 i due si incontrano per caso allo stadio di San Siro a Milano e a fine partita chiedono al sindaco Tognoli dove si potessero fare riservatamente quattro chiacchiere. Vengono avvisati in fretta e furia i compagni della cooperativa Lampugnano, che aprono le loro porte ai due segretari. È il 29 ottobre e in quei giorni Craxi è allarmatissimo per la vicenda Eni-Petromin: chiede a Berlinguer se il Pci sia in qualche modo implicato e il segretario del Pci si mostra molto freddo. In un racconto successivo, D’Alema riferirà una frase bruciante e intimidatoria di Craxi, pronunciata probabilmente proprio nella sede della coop: «Non puntate su Signorile, altrimenti faccio un blitz e lo distruggo». E ancora: il 28 gennaio1981, durante una direzione del Pci i cui verbali sono stati successivamente “desecretati”, Berlinguer arriva ad associare Craxi al “socialfascismo”, un’espressione stalinista nella quale uno storico di cultura comunista come Francesco Barbagallo rileva una «pesantezza» pari alla sua «insensatezza politica». Un approccio che in quella occasione suscita il dissenso di Giorgio Napolitano e di Paolo Bufalini, inducendo un “centrista” come Alessandro Natta a constatare: su Craxi «bisogna cercare di ridurre le distanze tra noi».
Poche settimane dopo, a marzo, Craxi incontra Eugenio Scalfari in casa di Carlo Caracciolo e gli espone la sua idea strategica, poi riferita da Antonio Tatò a Berlinguer in uno dei suoi appunti riservati: il Psi intendeva porsi alla guida di un polo laico, capace in prospettiva di formare assieme al Pci una maggioranza parlamentare oltre il 50 per cento. In questa logica se Berlinguer avesse proposto lui una presidenza socialista per il governo, il Psi avrebbe dichiarato «in forma solenne e irrevocabile che il Pci è pienamente autonomo, avendo tutti i titoli per essere partito di governo». Altrimenti «sarà il Pci a gettarmi nelle braccia della Dc». Certo, non è mai facile capire il confine tra sincerità e tatticismo, ma Tatò in una delle sue note a Berlinguer parla di ragionamenti «di stampo mussoliniano» e aggiunge: «non trova un cane che chieda o sostenga la Presidenza socialista».
E anche nel più importante di tutti gli incontri tra socialista e comunisti, quello del 30 marzo 1983, nella scuola quadri del Pci alle Frattocchie del 1983, Craxi ripropone uno scambio politico – appoggio al futuro esecutivo socialista e ingresso del Pci nell’area di governo – ma Berlinguer non si fida e lascerà cadere. Ma tra il milanese Bettino e il sassarese Enrico si misura e si dilata una distanza antropologica, che diventa plastica proprio in quella occasione. Al vertice delle Frattocchie Berlinguer era approdato, secondo Alfredo Reichlin, nella «assoluta incomprensione» delle ragioni che «spingevano Craxi sulla scena» e che derivavano dalla spinta di «nuovi ceti e da un bisogno di modernizzazione del Paese». E aggiunse Reichlin: «Potrei raccontare con quale lucidità Craxi mi parlava nella nuova Milano e della necessità di riformare le istituzioni della vecchia Italia». E come suggello di questa distanza tra i due leader, c’è la confidenza di Craxi ai suoi compagni dopo l’incontro: «Pensate che Berlinguer non ha neppure la televisione a colori…». E in parallelo, in quelle stesse settimane, Berlinguer confida a suo cugino Francesco Cossiga: «Craxi è un pericolo per la libertà».
Trippa alla Craxi
Un crescendo di ostilità reciproche, che culmina nella vicenda del decreto di San Valentino: Berlinguer fa di tutto per osteggiarne l’approvazione perché ben oltre il merito del provvedimento che considera sbagliato, il suo vero obiettivo è quello di fare cadere il governo Craxi. Fiaccandolo con l’ostruzionismo totale e rimproverando di scarsa militanza una donna autorevole come Nilde Iotti e poi innescando col referendum. Con qualche ragione Ugo Intini ha scritto: «L’opposizione del Pci verso il governo a guida socialista si è dimostrata più dura di quella condotta nei decenni verso i governi democristiani». Quello tra Berlinguer e Craxi era diventato uno scontro durissimo, ma era pur sempre uno scontro politico. Ciò che lo trasforma in una autentica guerra civile nel campo della sinistra è l’uso delegittimante e criminalizzante delle espressioni verbali. È una di quelle circostanze nelle quali le parole entrano nell’animo dei militanti e si trasformano in sentimenti profondi e perciò irriducibili al ripensamento. Il Pci aveva sperimentato una tecnica tremendamente diffamatoria nei primi anni Cinquanta nei confronti di Valdo Magnani e Aldo Cucchi, due parlamentari comunisti emiliani “colpevoli” di aver espresso diffidenza verso l’Urss di Stalin: per l’isolamento che avvertirono attorno a loro, erano usciti dal partito, ma Togliatti volle espellerli. Una vicenda diventata l’archetipo dello screditamento verso chi la pensa diversamente all’interno di una stessa comunità. Memorabile resterà la scomunica pronunciata da Palmiro Togliatti («anche nella criniera di un nobile cavallo da corsa possono trovarsi due o tre pidocchi»), irrisorio il nomignolo inventato da Giancarlo Pajetta («Magnacucchi») ed esemplari rimangono le raccomandazioni di alcuni dirigenti del Pci, a cominciare da Antonio Roasio: «Dobbiamo farli odiare da tutti». Certo, quelli erano gli anni della guerra fredda. Certo, Craxi si era impegnato in una politica ostile nei confronti del Pci e di delegittimazione dei totem del comunismo e in lui – ha scritto Gaetano Arfè – furono costanti «la tattica del bastone e della carota» e «le provocazioni in serie». Certo, da parte di Berlinguer, non fu pianificata una campagna anti-Craxi concertata dal centro. Tutto ciò premesso, è altrettanto vero che sul leader socialista erano stati calati da parte del vertice comunista i giudizi più delegittimanti possibile: il viatico per la criminalizzazione. Di qui espressioni senza ritorno, come la «mutazione genetica», o come l’attribuzione al governo Craxi di un’etichetta squalificante: «pericoloso per la democrazia». E poiché per i comunisti le parole avevano ancora un senso, militanti ed elettori avevano preso alla lettera i propri dirigenti.
Tutto era iniziato con apparente ironia, con il cartello «trippa alla Craxi», che nel settembre 1978 si poteva leggere sotto i capannoni della Festa nazionale dell’Unità di Genova. Un testimone di cultura e di tessera socialista come Vittorio Emiliani, che nel 1987 verrà allontanato dalla direzione del «Messaggero» con la regia di Claudio Martelli, ricorda in quella occasione «risate e dileggi». Un’escalation che culmina il 24 marzo 1984: durante la manifestazione contro il decreto di San Valentino, i manifestanti urlano: «il pericolo numero uno», «il balilla fascista», «Rex-dux-Crax». In Parlamento il durissimo ostruzionismo del Pci si prolunga e il 7 aprile Berlinguer prende la parola alla Camera e afferma che «ostinarsi a mantenere in piedi il decreto rasenta i limiti di un atto osceno in luogo pubblico». Ma quel decreto era sostenuto dalla Cisl, dalla Uil, da un terzo della Cgil.
I fischi a Berlinguer, fischi fatali
È in questo contesto emotivo, che l’11 maggio si apre alla Fiera di Verona il quarantatreesimo congresso nella storia del Psi. Nei precedenti le delegazioni del Pci e il suo segretario erano stati accolti sempre con affetto e con applausi, ma questa volta la reazione è ostile: Enrico Berlinguer è salutato da fischi, da grida insolenti: «scemo, scemo» e gli accorati appelli per una buona accoglienza da parte di Mario Rigo («Compagni calma, calma, sono nostri ospiti») cadono nell’indifferenza. Poi prende la parola Craxi, con la cravatta rossa delle occasioni solenni: «Il congresso è venuto meno a un dovere di ospitalità nei confronti del compagno Berlinguer. Però quando una norma così ben conosciuta, anche da noi viene violata, ed è un fatto grave, vuol dire che avviene per una ragione grave». Craxi si spiega: l’ostilità non era diretta a una persona «ma a una politica profondamente sbagliata» e a questo punto il segretario-presidente fa un passo in più: «Se i fischi erano un segnale politico contro questa politica, io non mi sono unito a questi fischi solo perché non so fischiare».
Craxi non può immaginare le conseguenze che quella sua frase determinerà nell’immaginario collettivo per effetto di un evento in quel momento imponderabile. Quattro settimane dopo Enrico Berlinguer si sente male durante un comizio a Padova e, ancora vivo, viene ricoverato in ospedale. Il 10 giugno, quando arriva il presidente del Consiglio Craxi, il fratello di Enrico, Giovanni, raccomanda «cortesia» ai compagni che stazionano nel cortile. Poi qualcuno fa sapere a Craxi che Letizia Laurenti, la moglie del leader comunista, non desidera incontrarlo e così i figli. Un moto interiore del tutto comprensibile che non viene fatto trapelare per non enfatizzarlo. Tre giorni dopo, ai commoventi funerali di Berlinguer in piazza San Giovanni a Roma, con una folla enorme e addoloratissima, quando Nilde Iotti saluta le autorità presenti, al nome di Craxi si alzano i fischi: altra reazione emotivamente naturale, altra reazione inusuale, considerato il contesto.
Craxi capisce che dopo la tragica morte di Berlinguer, quella sua frase sui fischi e poi i dissensi indirizzati a lui in pieno funerale, sono destinati a diventare un fardello incancellabile. E fa una cosa del tutto inusuale per lui, così orgoglioso e così impermeabile a qualsiasi autocritica esplicita: al congresso socialista di Rimini, a fine marzo del 1987, ammette di avere sbagliato: «I fischi a Berlinguer furono un errore. E anche io ho sbagliato quando ho detto che non partecipavo solo perché non so fischiare. E non lo dico perché Enrico è morto».
Certo, Enrico Berlinguer – a dispetto di scelte spesso controverse – restava nell’immaginario un leader carismatico, il più carismatico sulla scena politica italiana degli anni Ottanta. Per tutto il suo popolo e anche per una porzione di opinione pubblica non comunista. Per una ragione di fondo ben spiegata da Claudio Martelli: «A un certo punto Berlinguer aveva rappresentato una speranza collettiva», «che è la cosa più bella che possa capitare a un uomo politico».
Quando Craxi parla al congresso di Rimini sono passati tre anni da quello di Verona e quella del leader socialista somiglia alle autocritiche molto postume dei comunisti, che riconoscevano qualche loro presunto errore a posteriori, solo quando gli animi si erano raffreddati. Ma la pubblica autocritica di Craxi – una delle poche della sua vita, forse l’unica – prova a suturare una ferita emotiva che era stata dilatata dalla morte tragica e prematura di Berlinguer e che continuava ad alimentare un sentimento di ostilità istintivo e insanabile del popolo comunista verso il leader socialista. Un sentimento potente, destinato a riaffiorare negli anni successivi: quando Craxi sarà più debole, l’“opinione” di sinistra andrà a ingrossare il vento che spazzerà il leader socialista.
Due leader radicali
Facendo irrompere sulla scena politica italiana un sentimento che non ammette sfumature o ripensamenti: l’odio. Perché è vero – ed è storicamente provato – quel che ha scritto Francesco Barbagallo, nella introduzione a Caro Berlinguer: «Craxi era un socialdemocratico che voleva governare con l’opportuna spregiudicatezza, il processo di modernizzazione capitalistica dell’Italia, mentre Berlinguer non voleva morire socialdemocratico», «per questo non s’intesero e non potevano intendersi», anche perché – ecco la notazione più importante – «erano entrambi radicali».
Ecco il punto: dalla loro radicalità si sprigionò un sentimento di vero e proprio odio, che a un certo punto – da parte del socialista e brevemente – colpì Berlinguer, ma poi finì per investire e travolgere Craxi. Se si escludono il 1948 e qualche frammento di guerra fredda, prima di lui nessuno dei grandi personaggi della politica italiana – Moro, Fanfani, Andreotti, Nenni, Berlinguer – aveva catalizzato così tanta ostilità. Craxi – per dirla con Ernesto Galli della Loggia – è stato il primo in ordine di tempo «a produrre l’atmosfera agitata, carica di veleni e di ostilità che dalla fine degli anni Settanta ha sempre più caratterizzato la discussione e la vita pubblica nel nostro Paese». Negli anni successivi alla sua uscita di scena, lo stesso sentimento sarà acceso da personaggi come Silvio Berlusconi, Matteo Renzi, Matteo Salvini e, in misura minore, da Massimo D’Alema e da Romano Prodi.
In politica l’odio è un sentimento che si sprigiona da due emittenti. Si può attivare a tavolino contro un leader avversario, investendo sulle oggettive diversità: esaltandole, criminalizzandole o semplicemente fotografandole. Il segreto sta nel condirle di quel sentimento ostile che poi diventa odio e compatta la tua opinione pubblica “contro” un avversario, che così si trasforma in un mostro. È quel che ha fatto il Pci di Berlinguer con Craxi. Ma poi c’è una seconda emittente di odio. Ed è il leader stesso, con un’azione maieutica, ad attrarlo. Di solito – e in Italia è accaduto questo – i capi che hanno attratto ostilità in quantità massicce, sono stati quei leader che hanno sommato due caratteristiche: la carica oggettivamente innovativa e un tratto di arroganza. Craxi, Berlusconi, Renzi e Salvini sono personalità diversissime tra loro, ma corrispondono a questo identikit. Certo, non è una “legge” ma una convincente controprova arriva da quei personaggi che hanno rappresentato una novità (Mario Segni, Gianfranco Fini, Umberto Bossi, Beppe Grillo) ma senza accompagnarla con un tratto di prepotenza. Perché nella psicologia degli italiani – oramai è provato – i leader vanno bene, i padroni no. Prima o poi arriva il rigetto.
Il finanziatore dei diritti umani
Alla fine degli anni Settanta, da segretario del piccolo partito socialista italiano, Craxi aveva reso possibile una risposta europea ai missili sovietici. A metà degli anni Ottanta, da presidente del Consiglio, Craxi aveva respinto il comportamento irriguardoso degli Stati Uniti che sul territorio italiano avevano svolto operazioni di polizia senza basi giuridiche. Ma soltanto quando Craxi cadde in disgrazia e dopo la sua morte, sarebbe via via diventata pubblica la sua attività “clandestina”, di sostegno finanziario a movimenti di liberazione, partiti in lotta contro i regimi fascisti e comunisti. E Craxi fu anche l’unico capo di governo europeo a impegnarsi, negli anni Ottanta, in una tenace solidarietà a favore dei principali oppositori dei regimi comunisti, riuscendo a ottenere la liberazione di alcuni di loro, grazie a un’energica azione personale. Un’attività imponente che soltanto molti anni dopo è possibile ricostruire nelle sue tante articolazioni. Come fu possibile concepire e sostenere tante azioni così efficaci, ma anche così diverse tra loro? In realtà, esiste un filo rosso che tiene assieme gli atlantici euromissili, l’anti-americana Sigonella, gli aiuti a Lech Walesa e quelli ai movimenti di liberazione sudamericana. Un filo rosso che si può rintracciare seguendo da vicino le scelte più originali e ardite del leader socialista.
Sul Cile diventa temerario
Prima di diventare segretario socialista la più ardimentosa delle sue missioni risaliva al settembre del 1973, quando Craxi arriva in Cile pochi giorni dopo il golpe di Pinochet, assieme a una delegazione dell’Internazionale socialista: «Mi ricordo che una mattina, in un’alba piovigginosa e nebbiosa, ci fermammo a comprare dei fiori da deporre sulla tomba di Allende e sulla strada per Vina del Mar cominciammo a vedere nei campi dei cadaveri». Ma nel cimitero, dove era stato inumato il corpo martoriato di Salvador Allende, Craxi viene fermato per alcune ore, e persino schiaffeggiato, sino al punto di essere minacciato da uno dei carabineros cileni, con una frase che il vice-segretario socialista ripeterà ai microfoni del telegiornale italiano, ad Annibale Vasile, appena sbarcato a Roma, di ritorno da Santiago: «Un paso mas y tiro», un altro passo e sparo. Un’oppressione, quella dei militari cileni, che non si toglierà più dalla testa di Craxi e che nel 1985, nella sua prima visita alla Casa Bianca, gli ispirerà col presidente Reagan un comportamento sfrontato, che spiazzerà tutti i suoi collaboratori.
Il racconto a quattro mani di quel viaggio fornito diversi anni dopo da due protagonisti-testimoni, di nuovo Acquaviva e l’ambasciatore Badini, è un altro affresco sulla personalità di Craxi e sulla sua mancanza di complessi di inferiorità. Ma anche della passionalità, che lo prendeva su vicende come questa. La prima sequenza va in scena sull’aereo che ai primi di marzo del 1985, porta la delegazione italiana a Washington: l’ambasciatore negli Stati Uniti Rinaldo Petrignani, che aveva letto in anticipo il discorso che Craxi avrebbe fatto al Congresso americano il 6 marzo, si avvicina ai consiglieri del presidente del Consiglio. Il racconto anche nei dettagli psicologici, ha momenti di spassosa ironia: E inizia così: «Abbassando il tono della voce e assicuratosi che nessun altro ascoltasse le sue parole, Petrignani, rivolgendosi a Badini, ma guardando a intermittenza Acquaviva, disse di sapere che alla Casa Bianca e al Dipartimento di Stato non era piaciuto il passaggio dell’invocazione della democrazia per il Cile, contenuto nel testo del discorso. Ascoltatemi, disse con voce grave e con un atteggiamento ammonitore, voi due avete ora una responsabilità enorme, quella di prevenire qualsiasi turbativa all’atmosfera di grande condivisione che Washington si appresta a riservare alla visita di Craxi».
Secondo Petrignani, il momento giusto per parlare di Cile sarebbe stato l’incontro a due con Reagan e lì fermarsi. Così sollecitato, Badini va da Craxi e il racconto che lui stesso ne fa, assieme ad Acquaviva, così riprende in terza persona: «Prese la cosa da lontano per saggiare e propiziare, al tempo stesso, la disponibilità del presidente ad ascoltare. Craxi, dopo qualche secondo in cui sembrava sibilare monosillabi incomprensibili, guardò Badini e gli ingiunse di andare al punto. Invito che Badini, col coraggio dei timidi», procedette ma una volta sputato il rospo, «rimase in silenzio per ascoltare la reazione del presidente: che semplicemente non ci fu, giacché Craxi che aveva nuovamente chiuso gli occhi sembrava fosse tornato ad assopirsi, come spesso amava comportarsi, un po’ furbescamente, in frangenti simili. Badini tornò a insistere e allora Craxi gli disse con un sorriso di comprensione, ho capito, Badini, grazie».
Di fronte a quella reazione il più deluso risultò Petrignani che fece una lunga smorfia e aggiunse con un pizzico di veleno: «È nei momenti decisivi che si vede la tempra del diplomatico di razza». E Acquaviva aggiunse: «Antonio, devi tornarci, e spiegar che “qui si rischia il botto”». Vale la pena riprendere di nuovo dallo spassoso racconto dei protagonisti che scrivono in terza persona: Badini, «con nelle orecchie la storia del diplomatico di razza, si decise ad alzarsi. Senza alcun entusiasmo e con un visibile timore si sedette nuovamente accanto a Craxi, che si svegliò: “Che c’è ancora Badini?”, bofonchiò allora il presidente del Consiglio. Poi dopo aver ascoltato con pazienza il nuovo messaggio, gelò l’atmosfera alzando la voce, affinché tutti sentissero e ordinò al povero Badini di smettere di importunarlo, giacché lui sapeva quel che avrebbe dovuto fare e dire e che del cosiddetto establishment e di quello che esso pensava non gli “importava nulla”». Ed esplose con una delle sue espressioni, che non è riferita nel racconto dei due collaboratori, ma che rende l’idea: «Non mi rompete i coglioni!».
Craxi fece di testa sua. Nello Studio Ovale non solo parlò del Cile con Reagan, ma fece anche un vero e proprio numero su Pinochet. Giulio Andreotti, che era presente come ministro degli Esteri e che ne aveva viste tante nella sua vita, a distanza di anni ha raccontato: «Pronunciò un autentico atto di accusa contro gli appoggi che gli americani davano al dittatore. E suggerì anche al presidente degli Stati Uniti di appoggiare il ritorno alla democrazia, puntando sul democristiano Edoardo Frei». Reagan, che ebbe un’ottima impressione di Craxi, si raccomandò però di non ripetere quei toni sul Cile in conferenza stampa. Poi, davanti al Congresso, dove era stato ospitato un solo presidente del Consiglio, De Gasperi nel 1951, Craxi ripeté l’attacco al regime cileno e quel passaggio fu a lungo applaudito.
I dissidenti e l’elogio di Havel
Un capitolo fitto e pressoché sconosciuto è quello del rapporto con esponenti e con movimenti che combatterono i regimi dell’Est comunista. L’unico che ebbe cognizione in corso d’opera di questa trama è stato Carlo Ripa di Meana, che dopo aver conosciuto Craxi a Praga a metà degli anni Cinquanta non lo aveva più perso di vista. È lui a spiegare che in una prima fase – da quei giorni fino all’agosto del 1968 – i rapporti di Craxi col mondo frastagliato del dissenso «hanno un carattere individuale, quasi di studio», ma l’elenco parla da solo: dal 1955 entra in contatto con i comitati cecoslovacchi della fronda studentesca Majales e poi con Jiri Pelikan, a Varsavia conosce Jerzy Urban che gli spiega il ruolo della rivista «Po Prostu» e Anna Bratkowska dell’Unione della gioventù polacca, a Budapest Janos Pataki del Circolo Petofi, a Parigi va a incontrare l’ungherese Francois Fejto. Sono ancora anni nei quali si coltiva l’idea della riformabilità del sistema, ma dalla Biennale del dissenso del 1977 Craxi e Ripa di Meana – contraddicendo la linea “realista” della Spd di Brandt e Lafontaine – appoggiano quei dissidenti che sfidano il comodo pensiero collettivo: quello per cui i regimi dell’Est non cadranno mai e dunque vale la pena conviverci. Come ha scritto Renzo Foa nella prefazione di L’ordine di Mosca, «il Dissenso rappresentava una sorta di turbamento dell’ordine mondiale».
Jiri Pelikan, col sostegno determinante di Craxi, diventerà nel 1979 il primo dissidente eletto nel Parlamento europeo nelle liste del Psi. Esattamente dieci anni più tardi, quando in Cecoslovacchia il regime è ancora in piedi, Carlo Ripa di Meana, in missione a Praga come Commissario europeo all’Ambiente, ottiene di incontrare Vaclav Havel, appena uscito dalla prigione dopo una condanna a quattro anni e agli arresti domiciliari. Il racconto che ne ha fatto Ripa di Meana è molto bello. Lui e sua moglie Marina, dopo essere stati accompagnati verso la casa di Havel a bordo di una Tatra nera del cerimoniale, entrano nel palazzo: «L’androne è polveroso e ha una sola lampada fioca, l’intonaco è staccato in molti punti», «saliamo a piedi perché non c’è più la cabina dell’ascensore, è rimasto il buco, le scale hanno molti gradini sbeccati, al terzo piano c’è un foglietto appiccicato con lo scotch e su scritto “Havel”». Finalmente il padrone di casa si appalesa, racconta della stentatissima solidarietà dei socialisti europei, «con l’eccezione di quelli italiani» e a quel punto Havel parla di Bettino Craxi, che lo aveva ricevuto a piazza Duomo: «Lui ha rotto il rapporto di sempre tra potere e cultura. Tra chi può e non sa, e tra chi sa e non può. Lui sa e fa». Una definizione splendida. Che da sola vale una vita.
Mosca e Varsavia, due imprese memorabili
Nel suo primo incontro alla Casa Bianca con Reagan, il 20 ottobre 1983, Craxi aveva promesso un impegno per «contribuire a separare i Paesi del patto di Varsavia dall’Urss», intento che poi perseguì con una sua Ostpolitik, anche in occasione di una doppia missione, a Mosca e a Varsavia, nel maggio 1985, durante la quale portò a termine anche due “salvataggi” per certi versi eccezionali. E lo fece aprendo un vero e proprio negoziato sui diritti umani. La visita di Craxi a Varsavia il 25 maggio 1985, preparata in gran segreto, per non suscitare reazioni in Italia e all’estero, si configura come un vero e proprio blitz sulla via per Mosca e ha la durata di tre ore. Nonostante il carattere informale della visita, il colloquio col generale Wojciech Jaruzelski procede bene, ma alla fine Craxi scarta: esprime apertamente la sua preoccupazione per la sorte di Adam Michnik, Bogdan Lis e Wladyslaw Frasyniuk. Il generale glissa. Al momento dei saluti, in aeroporto, Craxi si congeda freddamente da Jaruzelski. Ma proprio sulla scaletta dell’aereo un collaboratore del generale comunica al presidente del Consiglio che Michnik sarebbe stato liberato. Stessa sorte avrebbe gratificato Lis e Frasyniuk.
La stessa sera Craxi arriva a Mosca: è il primo capo di governo occidentale a incontrare il nuovo segretario del Pcus Michail Gorbaciov. Incontro importante e al termine della chiacchierata, davanti al caminetto del Cremlino, il presidente del Consiglio Craxi, come già aveva fatto con Jaruzelski, consegna a Gorbaciov una lettera, nella quale si chiede un gesto a favore della moglie di Andrej Sacharov, in modo da consentirle un trasferimento in Italia per curarsi gli occhi e i disturbi cardiologici, anche alla luce del fatto che la signora Sacharov era stata colpita da infarto nell’aprile 1983. Craxi parla anche di Andrej Sacharov, sostenendo che un atto di clemenza nei suoi confronti sarebbe stato apprezzato in Occidente. Al termine della serata Gorbaciov annuncia il suo sì ed è una grande sorpresa per tutti: a Mitterrand aveva detto di no. Quattro anni più tardi, nel maggio del 1989, Craxi invita i coniugi al congresso Psi dell’Ansaldo e Andrej Sacharov fece in tempo a scrivere nelle sue memorie: «Entrammo nella sala e salimmo sul palco in mezzo agli applausi. Craxi ci presentò. Io dissi che noi eravamo lì in segno di amicizia e riconoscenza, perché Craxi e socialisti italiani ci avevano aiutato negli anni difficili. Anche altri, in altri Paesi, ci hanno aiutato, ma il vostro aiuto è stato più grande». Sei mesi più tardi, il 9 novembre, viene giù il Muro di Berlino. Poche settimane dopo – è il 14 dicembre – Andrej Sacharov muore, libero, nella sua Mosca.
Il 1989 era stato il risultato di tante spinte: del costante lavorio sotto traccia dei dissidenti, che erano stati perseguitati, condannati, chiusi in isolamento; dell’azione di personalità come Ronald Reagan e Karol Wojtyla; degli operai di Danzica, ma anche di coloro che un dissidente come Natan Sharansky definì con gratitudine «politici lungimiranti che intrapresero una strada diversa» da quella «politica dell’accomodamento messa in atto da molti leader occidentali», che indipendentemente dalle loro buone intenzioni aveva avuto «l’effetto di rafforzare il regime sovietico». Tra quei pochi politici lungimiranti va annoverato, senza il minimo dubbio, Bettino Craxi.
Un internazionalismo concretissimo
Un altro tratto originale della personale politica estera di Bettino Craxi fu senza dubbio il finanziamento ai movimenti di liberazione con fondi tratti dalle tangenti del Psi. Se ne conosce a malapena la data di inizio. Il solito Ripa di Meana la colloca nel 1979 e indica diverse aree di lavoro politiche: i cecoslovacchi, la resistenza afgana, le Comunità ebraiche nell’Urss, gli oppositori cileni, argentini, cubani. Non esiste ovviamente una contabilità precisa e un elenco puntuale dei partiti e dei movimenti che ne hanno beneficiato, anche perché – come ha raccontato lo stesso Craxi nel film di Luca Josi – in quei casi, «utilizzando una parte del nostro finanziamento illegale», nell’erogare gli aiuti «non informavamo la Banca d’Italia» e «non veniva emessa regolare fattura, era un gesto fraterno per cause di libertà». In quella occasione Craxi, era il 1997, fece un elenco di forze con le quali lui personalmente aveva solidarizzato, parlando significativamente in prima persona: i socialisti spagnoli e portoghesi, movimenti e dissidenti dell’Est europeo e dell’America latina, singole personalità come il greco Alekos Panagulis e Yasser Arafat.
Ma l’elenco è più lungo. E tracce di quei finanziamenti sono riemerse nel corso degli anni, a volte casualmente. Franceso Cossiga, nel suo viaggio ad Hammamet, poche settimane prima che Craxi, morisse, raccolse alcune confidenze da parte del leader socialista ed è probabile che in quella occasione l’“esule” abbia rivelato ciò che l’ex Capo dello Stato raccontò successivamente: papa Wojtyla mantenne e manifestò sempre riconoscenza per il presidente del Consiglio socialista, non soltanto per l’8 per mille, ma perché Craxi aveva fatto «avere al movimento di Solidarnosc una valanga di quattrini e questo il papa polacco non lo dimenticò mai».
L’indipendenza, prima di tutto
Il Craxi socialista scommette su Solidarnosc e su Lech Walesa perché rappresentano una forza eversiva dell’ordine costituito polacco e al tempo stesso una forza che può facilitare il progressivo distacco dal patto di Varsavia ma successivamente, da presidente del Consiglio investe anche su un altro personaggio che può aiutare – da ben altro versante – l’autonomia della Polonia: il generale Jaruzelski. Lo spiega bene l’ambasciatore Badini, che per quattro anni affiancò Craxi in tutte le missioni diplomatiche. Il capo del governo italiano sviluppò «un approccio conciliativo nei confronti del governo polacco, soprattutto perché intravedeva in Jaruzelski la presenza di un animo fermamente nazionalista che, nei momenti decisivi, non si sarebbe scostato di molto da un costante atteggiamento di difesa degli interessi della nazione polacca». Craxi era infatti convinto che la repressione voluta dal generale e che nel dicembre 1981 aveva colpito le conquiste ottenute da Solidarnosc dopo lo sciopero ai cantieri Lenin di Danzica del 1980, era finalizzata anche a prevenire il possibile intervento dei carri armati russi.
Una contraddizione che può apparire anche nell’atteggiamento che, nel corso dei decenni, Craxi assume nei confronti dei protagonisti del conflitto arabo-palestinese. Negli anni Sessanta, sposando la simpatia di Pietro Nenni per Israele e per i suoi pionieri, in buona parte laburisti, Craxi era stato a Gerusalemme nel 1971 proprio assieme al patriarca socialista e aveva piantato un pino nella Foresta dei Martiri. Ma col passare degli anni, per una serie di ragioni, a cominciare dall’occupazione dei territori arabi da parte di Israele, il segretario socialista era stato precursore della posizione mediana che poi diventerà moneta corrente del politically correct (la teoria dei due Stati), anche se successivamente sposerà senza sfumature la causa palestinese.
E tuttavia, esemplare della sua concezione indipendentista, in base alla quale ognuno deve essere padrone a casa sua, è la posizione che Craxi esprime durante il dibattito parlamentare che segue la crisi di Sigonella. In quel caso il presidente del Consiglio scandisce concetti chiari: «Quando Israele fu minacciata, tutti fummo con Israele. Ora essa occupa da diciotto anni territori arabi che vanno restituiti in cambio della pace», «a Israele si chiedono lungimiranza e generosità». E quanto ai palestinesi fa una considerazione volutamente provocatoria: «Io contesto all’Olp l’uso della lotta armata, non perché non ne abbia diritto e non sia legittima, ma perché sono convinto che terrorismo e lotta armata non porteranno ad alcuna soluzione». A quel punto, nell’aula di Montecitorio si accende la contestazione – dai banchi del Pli, del Pri e dell’Msi – e Craxi, dopo essersi azzittito, replica: «Quando Giuseppe Mazzini, nella sua solitudine e nel suo esilio, si macerava su come affrontare il potere, lui – uomo così nobile, così religioso e così idealista – concepiva e progettava gli assassini politici!». E mentre l’aula ancora rumoreggia, Craxi definisce ancora meglio la sua concezione: «Contestare a un movimento che voglia liberare il proprio Paese da un’occupazione straniera la legittimità del ricorso alle armi, significa andare contro alle leggi della storia». E a quel punto, dai banchi di sinistra si alza – a sorpresa – un applauso non scontato da parte dei deputati del Pci.
E dunque, se per Craxi ha ragione il primo Israele, se i palestinesi e Giuseppe Mazzini hanno diritto alla lotta armata, se hanno ragione sia Walesa che il generale Jaruzelski a cercare l’autodeterminazione del proprio Paese, tutti questi segnali aiutano a rintracciare un filo rosso che tiene assieme le scelte politiche di Craxi, spesso in contraddizione tra loro. E il filo rosso, oltre ad un sentimento internazionalista, è il sostegno all’indipendentismo e alle cause di libertà, ovunque essi si manifestino. Lo ha scritto in modo esemplare lo storico Pietro Craveri: «Da Nenni, suo mentore, aveva preso l’istinto libertario di solidarietà, che era anche risorgimentale, per tutti i movimenti di liberazione» nelle varie accezioni: liberazione dal colonialismo, dal totalitarismo fascista e comunista, dai regimi militari. Negli anni della formazione, gli anni decisivi, in effetti due personaggi avevano affascinato il giovane Bettino: il socialista (già repubblicano e interventista) Pietro Nenni e Giuseppe Garibaldi, un condottiero che era stato al tempo stesso patriottico e internazionalista. Questo «modello libertario e socialista», Craxi lo aveva coniugato con le «pregiudiziali atlantiche», approdando a una prassi che lo portò a cogliere ogni volta «le ragioni di affermazione e di indipendenza nazionali». Tutto questo, condito dalla determinazione e dall’orgoglio, tratti tipici dell’uomo, in Craxi diventano un sentimento di costante avversione, una ribellione verso chi opprime il sentimento nazionale. Un sentimento che guiderà Craxi in tutta sua vita, che gli darà il coraggio per interventi in alcuni casi spericolati e controversi.
Nel suo ultimo incontro ad Hammamet con Craxi, tra le confidenze raccolte da Francesco Cossiga c’è anche una frase che, come poche altre restituisce il tratto orgoglioso e altero del carattere dell’ex presidente del Consiglio. A Cossiga che gli chiedeva se non fosse l’ora di raccontare al mondo la generosità con la quale aveva aiutato la causa dei diritti umani, proprio utilizzando le tangenti, il malatissimo ex leader, col plaid sulle gambe, rispose: «Io non posso mischiare le mie vicende giudiziarie con grandi cause di libertà e di liberazione».
L’ultimo samurai
Dopo Sigonella è come se lo stress per quella vicenda avesse svuotato il presidente del Consiglio e alzato vieppiù la forza d’interdizione della Dc: il conflitto politico si “partitizza” sino ad avvitarsi su una vicenda, quella della staffetta con De Mita per la guida del governo, che restituisce lo spirito del tempo. Da metà legislatura in poi la Dc, attraverso il suo segretario, aveva reclamato il rispetto di un patto, certo informale, ma che nell’estate 1983 era stato concordato in un incontro tra De Mita e Craxi. In quella occasione – come ha raccontato il leader Dc e confermato De Michelis – a proporre l’accordo era stato Craxi: «Metà del tempo a me, metà a te», disse allora il segretario del Psi e De Mita aveva consentito il primo tempo all’altro.
1987, cominciano a perdere tutti
Ma dopo il patto della staffetta il governo a guida Psi aveva funzionato e quella sorpresa aveva modificato i rapporti di forza. Al punto da spingere Craxi a spiazzare tutti. «Decise di non mantenere l’impegno che pure aveva preso», come ha ricordato De Michelis. La legislatura si chiude con un passaggio paradossale: pur di andare a elezioni, la Dc è costretta a votare contro il governo Fanfani. Ma a quel punto tutto è pronto per misurare la reazione degli elettori: i successi del governo Craxi hanno allungato o no l’onda socialista?
I risultati deludono tutti. La Dc, con un piccolo incremento dell’1,4 per cento, si schioda dal 32,9 per cento del 1983, ma consegue il secondo peggior risultato della sua storia; il Pci arretra di più di tre punti (peggior risultato degli ultimi 25 anni), mentre il Psi, conquistando 1 milione in più e 300.000 in più rispetto a quattro anni prima, ottiene una percentuale del 14,3 per cento, che è la migliore del dopoguerra, a parte il 1946, che fa storia a sé. Ma come sempre i numeri vanno letti e incrociati. La forbice tra elettori socialisti e comunisti è la stessa del 1953: il Pci ha quasi il doppio dei voti del Psi. Sfuma la suggestione mitterrandiana: il partito del presidente del Consiglio non ha sfondato. Craxi non lo dà subito a vedere ma è molto deluso: quel risultato è un premio troppo basso dopo un forcing durato quattro anni.
Che fare? La storia dei partiti dimostra che quando la fortuna si gira da un’altra parte, quasi sempre i leader, anziché riflettere spassionatamente e in modo autocritico su quel che non ha funzionato, tendono ad insabbiare. Ma la rimozione, come nella psiche delle persone, complica le cose: moltiplica i sintomi del malessere. Craxi non si crogiola nel sia pur parziale successo, ma se la prende col partito: «Dopo il congresso di Palermo» il Psi si è «seduto», qualcuno «ha battuto la fiacca». Come dire: mentre il governo è andato come un treno, il partito non ha proceduto alla stessa velocità e anzi ha fatto da deterrente verso elettori pur motivati.
La dieta, l’infarto, il pessimismo. Il fattore umano in politica
Ma è subito dopo le elezioni del 1987 che accade qualcosa che non riguarda la politica ed è destinato a cambiare la vita materiale di Bettino Craxi, ma anche il destino politico del Psi. Dopo la mezza vittoria elettorale Craxi si rilassa psicologicamente e fisicamente. Undici anni prima, nel 1976, dopo il coma diabetico si era messo a dieta e infatti negli anni di palazzo Chigi, nelle foto e nelle riprese televisive, si vede l’immagine di un uomo asciutto, diverso da quello di prima ma soprattutto diverso dagli anni che seguono il 1987. Il racconto di Claudio Martelli è rivelatore: «Si lascia andare» e questa trascuratezza, associata a un modo disordinato e vorace di mangiare, gli produce un secondo coma diabetico all’inizio del 1990. Con l’aggiunta di un’aggravante a lungo sottaciuta e che Martelli racconta così: «Vado a trovarlo al San Raffaele, lo vedo sul letto dell’ospedale, bianco, quasi esangue, ingrigito, lo abbraccio e pensando al precedente gli dico: Ci risiamo? Lui mi tiene la mano e con l’altra si indica il petto e mi sussurra: il cuore, questa volta mi ha preso il cuore, ho avuto un infarto».
Un colpo che gli cambia la vita. Il diabete può dare ciclotimia, con un’alternanza di alti e bassi di umore, ma anche malori invalidanti e deprimenti. Come quelli descritti quasi trent’anni dopo da Francesco Forte, che lo affiancò nell’incarico ottenuto dal Segretario generale delle Nazioni unite Perez de Cuellar l’8 dicembre 1989, per definire un Rapporto sul debito dei Paesi in via di sviluppo. Un racconto crudo ed eloquente: «Era un uomo orgoglioso e non volle far capire all’opinione pubblica ciò che a noi era tristemente evidente: il diabete lo aveva consumato, stava malissimo, aveva un arco di attenzione che non superava i venti minuti».
La somma di questi handicap – l’infarto, gli effetti materiali del diabete – finisce per intaccare un moltiplicatore decisivo per chiunque: l’umore giusto. «La sua natura che di per sé tendeva al pessimismo» ha raccontato l’ex presidente dei deputati Giusi La Ganga «riceve in quella fase della sua vita un incoraggiamento al peggio», favorendo anche un mutamento caratteriale, perché «se prima era spregiudicato, ora era diventato più prudente, quasi timoroso». Un giocatore di poker, si sa, «vince solo se non ha paura di perdere», mentre il pokerista che «ha paura, perde tutte le mani».
E infatti anche nel racconto di un altro protagonista di quella stagione, Giuliano Amato, le scelte della fase successiva al 1987 sembrano essere tutte condizionate dalla malattia, perché non si riesce a spiegare altrimenti «l’incertezza che leggevo nei suoi occhi». E comunque si andava dissipando «la caratteristica dominante del Craxi vincente», quella per cui «al momento giusto, anzi un secondo prima, piazzava la decisione giusta».
Dopo il mancato sfondamento del 1987 ha inizio una stagione di attesa e il riformista Craxi segna soltanto un risultato concreto: l’approvazione della riforma del voto segreto. Dopo la revisione (di spirito consociativo) dei regolamenti parlamentari del 1971, il voto segreto era diventato quasi la regola e durante i quattro anni di governo Craxi, la maggioranza era andata “sotto” 163 volte a opera dei franchi tiratori, in uno stillicidio di ricatti correntizi e di interessi ben celati. La riforma voluta dal Psi limita il segreto all’essenziale: le votazioni che chiamano in causa le persone, restituendo al voto palese le leggi di spesa. È l’unica riforma nel segno della governabilità.
Il forno democristiano
La vittoria dimezzata del 1987 aveva segnalato una crisi da saturazione. Craxi capì, ma reagì come gli consentirono le circostanze. Era stanco, era malato di un malessere che induce al pessimismo e dunque attinse al repertorio, al già visto, vivendo quegli anni, come la transizione verso una nuova chance da presidente del Consiglio: la cosa che gli era riuscita meglio. Come prima cosa liquida la linea movimentista impressa da Claudio Martelli, culminata con i referendum sul nucleare e sulla giustizia giusta del novembre 1987, vinti dal fronte del Sì: rispettivamente con l’80,6 e con l’80,2 per cento, con una affluenza del 65,1 per cento. Tra il 1987 e il 1989 scorrono mesi e mesi di attesa, simili a quelli raccontati da Italo Calvino nel suo La gran bonaccia delle Antille, metafora dell’immobilismo del Pci negli anni del centrismo. Sembrano tornare gli ultimi anni del centro-sinistra, quando tutti i giochi si facevano, non al governo, ma dentro i partiti: tra il 1987 e il 1992 si alterneranno tre governi a guida Dc (Goria, De Mita e Andreotti), ma quando nello Scudo crociato (col congresso di Roma del febbraio 1989) vince l’area moderata, Craxi si affretta a stringere un asse tattico col nuovo segretario Arnaldo Forlani. E anche con Giulio Andreotti, in vista del tornante del dopo-elezioni, quando saranno in palio due poltronissime: la presidenza del Consiglio e la presidenza della Repubblica. Per palazzo Chigi Craxi vede sé stesso, al Quirinale immagina un democristiano e i comunisti – non subito – al governo. Ma in quell’accordo che viene presto battezzato Caf, come fosse un patto d’acciaio, c’è un non detto: i posti in gioco sono due, gli aspiranti sono tre. Un imbuto che peserà. Eppure dopo questi due anni e mezzo di bonaccia, improvvisamente sfrecciano davanti a Bettino Craxi due treni politici, due superveloci sui quali salire e provare a rifarsi una vita: nell’autunno del 1989 cade il Muro di Berlino e si apre la possibilità di un riequilibrio socialista nel campo della sinistra, certo da costruire; dall’autunno 1990 il Capo dello Stato Francesco Cossiga esterna a ripetizione un refrain: la vecchia politica o saprà rinnovare le istituzioni o sarà travolta. Si capirà negli anni successivi che per Craxi, quei due treni sarebbero stati anche gli ultimi. E anche dentro al Psi qualcuno – Claudio Martelli, Rino Formica, Claudio Signorile – aveva cominciato a suonare la sveglia.
Il forno comunista
Il Muro di Berlino cadde il 9 novembre 1989. Bettino Craxi era stato negli anni precedenti uno dei pochissimi leader occidentali che avesse picconato quella fortificazione: potrebbe essere lui a incassare gli effetti di quel passaggio storico. Quel giorno Craxi aveva riunito l’Esecutivo del Psi e Giusi La Ganga ricorda: «Avevamo seguito sulle televisioni e sulle agenzie il precipitare positivo degli eventi. C’era commozione e fervore. Ad un certo punto Craxi chiamò il capo della portineria e gli disse di esporre la grande bandiera rossa della Direzione del partito. E aggiunse: “Ci sono bandiere rosse di cui non ci si deve vergognare”». Non sappiamo se lesse mai una frase di Georgi Arbatov, alto dirigente del Pcus, che mentre l’Urss crollava, disse: «Vi faremo, a voi occidentali, la cosa peggiore che si possa fare a un avversario: vi toglieremo il nemico». Ma sul breve a rischiare grosso è il Pci. Non ha perso soltanto la partita della storia, ma anche quella più contingente: aveva puntato tutto su Gorbaciov e sulla riformabilità del sistema comunista.
Ma appena il Muro cade, il segretario del Pci, Achille Occhetto, anzichè prendere tempo, come da tradizione comunista, il 12 novembre 1989 si presenta davanti ai veterani della Bolognina e lascia intendere che il Pci può cambiare nome. Sono passati addirittura trentatrè anni dai carri armati di Budapest, ma soltanto tre giorni dai fatti di Berlino: Occhetto si è mosso con una velocità craxiana. Craxi si muove a tentoni. Dei comunisti non si fida, ma qualche mossa la fa. Molto riservatamente – e infatti non se ne saprà mai nulla – aiuta concretamente i comunisti a risolvere una grana finanziaria sul fronte delle cooperative rosse. Nel marzo del 1990, durante la conferenza programmatica del Psi a Rimini, riceve nel suo camper Massimo D’Alema e Walter Veltroni. I due gli chiedono: «Non fare le elezioni anticipate nel 1991, non coglierci in mezzo al guado, poi ci ritroveremo assieme». Craxi ne parla con tutti i suoi e a un problematico Giuliano Amato risponde: «Non posso fare sempre il Giamburrasca, che si incaponisce da solo a chiedere lo scioglimento». Amato gli rispose «ma tu sei Giamburrasca». Non convince il capo, che alla fine decide: le elezioni non si anticiperanno.
Negli anni successivi si ripeterà che quello fu un errore grave, perché in quel momento (secondo i sondaggi) il Psi aveva completato il tanto agognato sorpasso (18 per cento contro il 16 per cento al Pci), eppure sulle ragioni che contribuirono a quella scelta, è interessante quel che sostiene Claudio Signorile: «Era pressato dalla lobby dei ministri», ma in lui gioca anche un antico “riflesso frontista”, quello del «vecchio socialista che difronte a un Partito comunista che dice: “Ma tu non ci puoi dare una pugnalata”, risponde: “Va bene non vi faccio del male”». Naturalmente nel leader socialista convive un impasto di motivazioni e di convenienze ma è vero che in lui restava un sentimento di stima per i vecchi comunisti. Come racconta Ugo Intini, «Alla fine degli anni Ottanta ebbi una polemica dai toni durissimi con Pajetta. Craxi mi telefonò e mi disse che non potevo permettermelo perché Pajetta era “un compagno” ed era molto più anziano di me».
Craxi insiste nel tener acceso anche il forno comunista: il 4 giugno 1990, in una intervista al suo “nemico” Eugenio Scalfari, anticipa la suggestione dell’unità socialista. Scalfari sembra credere a una resipiscenza e alla fine dell’intervista si lascia andare a un «Forza generale!». Craxi non capisce se sia uno sfottò, ma poi qualche mese più tardi scarta: invece di «ereditare con calma gli elettori comunisti», come sintetizza Giuliano Ferrara, inserisce la scritta “Unità socialista” nel simbolo del Psi. Una novità che viene vissuta dai dirigenti comunisti come una pulsione annessionistica.
Poco prima delle elezioni del 1992, una sera Claudio Martelli si fa invitare a casa da Bettino, per provare a schiodarlo dall’abbraccio che si preannuncia soffocante con i democristiani. Gli dice: «Se non la guidiamo noi questa transizione comunista, ci penserà qualcun altro e ancora una volta ce li ritroviamo contro: sono agitati, confusi, hanno la febbre alta…». E Craxi, dopo essersi alzato, camminando su e giù per la stanza: «Claudio, mi hanno lottato tutta la vita in modo infame, adesso che questa storia è finita, che il loro mondo gli crolla addosso, non voglio che neanche un calcinaccio di quei muri mi cada addosso». E su quelle parole la partita si chiude: sta per aprirsi una stagione nella quale il partito post-comunista farà una scelta di campo; quello opposto a Craxi, su tutto. E a nulla varrà il sofferto via libera concesso proprio da Craxi, con la spinta di De Michelis, all’ingresso del Pds nell’Internazionale socialista.
L’ultimo treno
Nell’autunno del 1990 era partito il ciclone Cossiga. Giulio Andreotti aveva rivelato la struttura segreta di Gladio, destabilizzando così il recondito desiderio del Capo dello Stato di restare al Quirinale per altri due anni. Il Presidente della Repubblica aveva avviato una sequenza di esternazioni molto provocatorie e spesso bizzarre, ma tutte centrate sul rinnovamento delle istituzioni e della Costituzione, fino a vagheggiare quella Repubblica presidenziale che Craxi, a intermittenza, aveva agitato. Ma il 25 luglio del 1991, quando il Parlamento discute sul messaggio “riformista” di Cossiga alle Camere, il segretario socialista si volta dall’altra parte. E così, proprio quando si moltiplicano i presentimenti di una crisi istituzionale, il “rivoluzionario” Craxi, diventa conservatore. E un suo antico ammiratore come Baget Bozzo sintetizza così: «Craxi oramai aveva raggiunto la filosofia di Andreotti: il potere genere il potere, la via migliore per non perderlo, è non perderlo mai».
Il segretario socialista non soltanto non prende il treno di Cossiga, ma si lascia sfuggire un’altra chance. Il politologo Gianfranco Miglio, assai prima di bussare alla porta di Bossi, va da Craxi e gli suggerisce il suo impianto di riforme istituzionali. Invano. E sarà dall’ambiente di Miglio, ma anche da quello della Fuci di Giorgio Tonini, Giovanni Guzzetta, Stefano Ceccanti, che parte l’idea di un referendum elettorale, col quale accendere la scintilla per scardinare il sistema. Uno strumento che sarà fatto proprio da Mario Segni all’inizio degli anni Novanta, quando promuoverà i referendum elettorali. Segni – una giovinezza tutta nella Dc, una simpatia per il gollismo – vuole scardinare l’orami decrepito sistema centrato sul suo partito, la Dc e in quella fase invita in casa sua Claudio Signorile, gli confida la sua simpatia per Craxi e suggerisce: «Voi dovete essere protagonisti di questi referendum». Craxi reagisce male. Non solo perché Segni gli sta antipatico. Ma a pelle capisce che, seguendo quel treno, si allontana la stazione di palazzo Chigi. Ma non si limita a ostacolare l’unico quesito ammesso dalla Consulta (quello per l’abrogazione della preferenza multipla), ma commette quello che Gianni Baget Bozzo definirà «un errore catastrofico»: nell’estate del 1991, Craxi consiglia agli italiani di «andare al mare». Assumendo il ruolo di capofila del vecchio sistema politico, mentre gli italiani videro nel disprezzo del referendum «l’alterigia di un potere ormai fondato solo su sé stesso». E quello – sempre per Baget – fu «la piccola frattura che determinò la caduta della montagna», accelerando la caduta del «Muro di Berlino edificato dalla Dc e dal Psi».
La cultura pop
La mutazione più importante nel corso degli anni Ottanta si consuma nel modo di praticare la politique d’abord: nella Dc, nel Psi e nei piccoli partiti di governo l’antico primato della politica si trasforma sempre più in primato dei partiti e dei notabili. Una mutazione che Craxi asseconda, di sicuro non osteggia e alla fine la corrente partitocratica e notabilare ingrosserà l’onda che travolgerà lui e tutta la Prima Repubblica. Come ha scritto Lucia Annunziata il leader socialista è «uno “scardinatore” che resta dentro il sistema dei partiti».
Craxi non vede arrivare la tempesta nonostante, ben prima del tornado di Tangentopoli, si fossero accesi alcuni piccoli, simbolici alert. Nel novembre 1986, poco prima della partenza per Pechino, dove una delegazione del governo guidata da Craxi avrebbe incontrato Deng Xiaoping, il ministro degli Esteri Andreotti ironizzò: «Vado in Cina con Craxi e i suoi cari», con allusione a una delegazione più nutrita del solito. La vicenda montò e Beppe Grillo, invitato da Pippo Baudo nel varietà televisivo del sabato sera, fu protagonista di un gag spumeggiante, piena di sfottò. Craxi chiese la “testa” di Grillo, ma al di là del riflesso censorio, nessuno colse la simpatia popolare che aveva accompagnato la gag. Cinque anni dopo, sempre dalla cultura pop, matura un bis, stavolta al cinema. Nel 1991 esce Il portaborse, film che prende di mira il rampantismo socialista. Altro sintomo trascurato. Rimosso.
Ma Craxi non fu l’unico a non capire che l’aria stava cambiando. Come hanno scritto Amato e Graziosi, i tre attori della partita politica, Dc, Psi e Pci, oramai da anni erano intenti «a studiare, prevenire o combattere le mosse dell’avversario politico piuttosto che a guardare la situazione del Paese e al di là dei suoi confini», in un esasperato tatticismo di corto respiro che portò i gruppi dirigenti di quei partiti ad andare incontro alla propria fine «quasi senza accorgersene». Per il leader socialista, lo stallo, era una contraddizione in termini: «Smise di essere Craxi», ha sintetizzato Giuliano Ferrara. Forse anche per questo su lui incombeva un destino diverso da quelli di tutti gli altri.
I comunisti seppero prima dei socialisti
Già prima del 1987, che quasi tutti gli storici indicano come la linea d’ombra oltre la quale si apre l’abisso, già prima di quelle elezioni si era impresso nella retina mentale degli italiani qualcosa che non si cancellerà più e anzi si dilaterà. Craxi non aveva frenato il rampantismo (e cioè «l’ambizione disgiunta dai meriti e dalla risorse» secondo la definizione di Silvio Lanaro) e soprattutto era rimasto incurante rispetto all’emergere del malaffare tra le fila socialiste. Partendo dalla premessa che non sarebbe esistita libertà politica senza libertà finanziaria, Craxi aveva apertamente rivendicato il rifornimento illegale, senza neppure coltivare, per dirla con Luciano Cafagna, l’arte ipocrita della «omertà rugiadosa». E non appena fu messo sotto accusa, nel 1992, preferì «la leale sfrontatezza» all’ipocrisia. Un approccio alla lunga fallimentare. Anche perché su questo fronte i comunisti paradossalmente si erano mossi con maggiore spregiudicatezza.
Nella storia non ufficiale un passaggio molto significativo è fissato nel novembre 1991: Gerardo Chiaromonte (uno degli ex comunisti che teneva un canale diretto e costante con Craxi), viene ricevuto nello studio del segretario socialista in via del Corso e dopo i preliminari, va al sodo e rivela: «Sappi che abbiamo fatto una riunione riservata a Botteghe Oscure e la linea, di Napolitano e mia, del dialogo con te è stata sconfitta ed è prevalsa la linea dell’opzione giudiziaria». Chiaromonte esce, entra Giusi La Ganga, Craxi gli riferisce e chiede: «Ma cosa ha voluto dire Gerardo? Come fanno ad adottare una linea giudiziaria?». Racconterà anni dopo De Michelis: «Nessuno ci ha badato, non avevamo affatto capito che il Pds sapeva qualcosa in più e si stava preparando a “incassare”».
Quel veto ad personam
Trascorrono sette mesi, siamo nella primavera del 1992 e nei giorni che precedono il conferimento dell’incarico per formare il governo post-elezioni (a dispetto del caso-Chiesa, Craxi era ancora in pista) il Tg1 con disinvoltura annuncia: «Nell’inchiesta sulle tangenti c’è anche il nome di Craxi». È un falso, Di Pietro smentisce, ma l’indomani sull’«Unità» l’ex magistrato Luciano Violante, deputato Pds, scrive testualmente: «Emerge un particolare intreccio politica-corruzione con la famiglia del leader che diventa il punto di snodo di gravi episodi corruttivi». Violante si esprime come uno che conosce cose che non dovrebbe conoscere, evoca un’implicazione della famiglia Craxi e fornisce consigli prematuri su cosa debba fare il leader socialista.
È il primo caso di concerto del “pool-tv-pds” che nei mesi successivi assumerà modalità abnormi. Passa un mese e, a dicembre, Amato – allora presidente del Consiglio – incontra Achille Occhetto a casa di Tonino Tatò e si sente dire: «Finché c’è Craxi segretario noi non collaboriamo». È la frase chiave, quella che da parte comunista risolve con una questione personale il duello a sinistra. Lo spiegherà sinceramente e chiaramente Massimo D’Alema nel 1995: «Non avevamo alternative. Eravamo come una grande nazione indiana, chiusa tra le montagne con una sola via d’uscita, un canyon, e lì c’era Craxi con la sua proposta di Unità socialista, in sostanza un progetto annessionistico. Come uscire da quel canyon?». Conclude D’Alema: «L’Unità socialista era una grande idea, ma senza Craxi».
A cose fatte talora si diventa più sinceri: gli eredi del Pci avevano espresso un veto ad personam, una novità per la loro tradizione, che li aveva portati ancora nel 1978 a non avanzare riserve sul candidato proposto dalla Dc per la guida del governo, un uomo discusso come Giulio Andreotti. Nel corso del 1993 il Pds trasformerà il veto personalizzato in guerra aperta. Si concludeva così un duello a sinistra durato sedici anni: agli occhi degli ex comunisti Craxi sarà chiamato a pagare un durissimo confronto-scontro col Pci, pagherà la deriva giudiziaria (che peraltro i suoi avversari “avvertirono” in anticipo), ma pagherà anche un accidente della storia. Sostiene Rino Formica: «Berlinguer morì poco dopo aver ricevuto dal congresso socialista di Verona quei fischi che Craxi aveva rivendicato. Questa sequenza si è impressa nella memoria di tanti militanti ed elettori di sinistra e ha finito per pesare nella vicenda politica di Craxi».
Mani pulite
Il destino di Bettino Craxi, l’uomo politico italiano più influente degli anni Ottanta, si rovescia nell’arco di ventisette mesi, tra il 17 febbraio 1992 (giorno dell’arresto del socialista Mario Chiesa) e i primi di maggio del 1994, quando il leader socialista decide di lasciare l’Italia e di rifugiarsi in Tunisia, dove vivrà gli ultimi cinque anni e mezzo della sua esistenza nella malattia e nell’angosciosa convinzione di essere diventato il capro espiatorio di un sistema violento, ipocrita e persecutorio.
Un drammatico ribaltamento di destino che non ha precedenti nella storia italiana. E che si determina per una confluenza di fattori diversissimi tra loro: politici, umani e giudiziari. Anche Craxi contribuisce alla propria dissoluzione politica. Non tanto e non solo con gli errori più marchiani, quelli più facilmente visibili a distanza di anni e fuori dal contesto.
Chiesa diventa il “mariuolo”
Dieci giorni dopo la firma del Trattato, il presidente socialista del Pio Albergo Trivulzio, Mario Chiesa, viene arrestato in flagranza di reato. Certo, la storia non si fa con i se. Ma se Chiesa (arrestato per una tangente di 7 milioni di lire,) non si fosse sentito abbandonato dal suo partito e non avesse “parlato”, c’è da chiedersi se la Prima Repubblica sarebbe egualmente caduta. Un dubbio alimentato da una sequenza paradossale: l’arresto di Chiesa, da vicenda di ordinaria amministrazione, si trasforma in un incendio per una battuta di Bettino Craxi che, interpellato dal Tg3, accusa: «Mi preoccupo di creare le condizioni perché il Paese abbia un Governo che affronti gli anni difficili che abbiamo davanti e mi trovo un mariuolo che getta un’ombra su tutta l’immagine di un partito». Mariuolo? Craxi conosceva (non bene) Mario Chiesa, sapeva che aveva dato una mano al figlio Bobo alle Comunali di Milano, sapeva che era del “giro”, eppure volle pronunciare lo stesso quell’epiteto.
Oggi sappiamo che quelle parole non lo aiutarono. Ma come gli uscirono? A ben vedere, in quella battuta c’è tanto Craxi. Anzitutto c’è la sua concezione del rapporto soldi-politica. Come ricorda La Ganga, per Craxi i “corrotti” «erano coloro che facevano una serie di pasticci in proprio, per arricchirsi», mentre altra cosa era «nella sua testa il finanziamento irregolare ai partiti, come lo chiamava» e che a suo avviso era «consustanziale alla Repubblica, perché lui era cresciuto, dal 1945 in poi, con quella mentalità lì». In linea generale Craxi era irritato, perché detestava i cacicchi che si mettevano in “proprio”, le degenerazioni correntizie, gli inquinamenti esterni e invece considerava “fisiologica” l’alimentazione anche illegale ma finalizzata al partito. Uno sdoppiamento che non funzionava: la realtà, da anni, era sotto gli occhi di tutti: il Psi – partito di piccole dimensioni rispetto al potere che gestiva a Roma e in periferia – era l’approdo di fiumi di cacciatori di nomine, di “mediatori”, di fabbricatori di tessere fittizie, di professionisti della tangente, in gran parte persone interessante al proprio vantaggio personale.
Craxi sapeva, mal sopportava ma è altrettanto vero che lasciò puntualmente cadere le denunce sulla degenerazione partitocratica e affaristica. In quegli anni furono in tanti ad alzare la voce, da Claudio Martelli a Ottaviano Del Turco, da Giorgio Ruffolo a Enzo Mattina. Qualcuno ebbe da Craxi sorrisi, qualcun altro silenzi ostili, sta di fatto, come ha notato Giuliano Amato, che l’idea di «ripulire le periferie del partito», «non era nel temperamento» del leader socialista, perché – ecco un punto decisivo – esattamente come Nenni, per lui il partito era «il piedistallo su cui poggiava per fare la sua politica nazionale». Meglio un piedistallo largo. Ma alla fine risultò corroso e infatti non appena il vento inizierà a girare, il Psi si troverà questo fianco scoperto, rispetto a chi voleva colpire il partito e il suo leader.
«In casa Craxi sono tutti impazziti?»
Nella avventata battuta sul mariuolo, c’è anche l’idea che la politica sia superiore a tutto e tutto possa manovrare. A cominciare dalla magistratura. Ha raccontato molti anni più tardi l’allora direttore de «Il Giorno», Francesco Damato, che pochi giorni dopo l’arresto di Chiesa, durante un evento nella Prefettura di Milano, incrociò il capo della Procura della Repubblica. «Borrelli mi chiese con un certo risentimento, che mi sorprese, proprio perché non ci eravamo mai conosciuti, se “a casa del presidente fossero impazziti”, alludendo a quel che aveva dichiarato Bobo Craxi, segretario cittadino del Psi, a commento dell’arresto di Chiesa». E Borrelli aggiunse: «Vorrei che il presidente sapesse che l’arresto è avvenuto in flagranza di reato, dopo mesi di indagini, per mia espressa volontà, proprio perché nessuno potesse commentarlo come ha fatto Bobo Craxi», che aveva etichettato l’inchiesta come l’avvio della campagna elettorale.
Una reazione aggressiva, quella del Psi milanese, che faceva parte della tradizione: negli anni precedenti ogni volta che esponenti socialisti erano stati presi di mira dai pm (dal caso Teardo alla metropolitana milanese) era scattato una sorta di riflesso condizionato contro la «politicizzazione della magistratura». Certo, la storia dimostrerà talora strabismo in tanti pm, ma già negli anni Ottanta la postura dei socialisti aveva restituito ai giudici e all’opinione pubblica una immagine sgradevole e controproducente: quella di un ceto politico che si riteneva al di sopra della legge. Un atteggiamento che minò l’iniziale simpatia, che la componete di Magistratura democratica aveva per il Psi e che si era trasferita sul Pci. Un’arroganza che si accompagnava, ha raccontato La Ganga, con una «ingenuità assolutamente sorprendente» da parte di Craxi sulle vicende giudiziarie e in questo ambito, conferma Claudio Martelli, «sottovalutava i rischi sino alla temerarietà». In una direzione del Psi del 1991 proprio Martelli aveva allertato sui rischi di un’inchiesta milanese sul Psi e Craxi rispose: «Ma dove a Viareggio?». E sempre a Martelli, che gli chiese se conoscesse i candidati alla Procura di Milano, tra cui Francesco Saverio Borrelli, Craxi rispose: «Francamente non li conosco, chiedi a Pillitteri».
Ma, tornando alla primavera del 1992, Chiesa, sbalestrato dall’accusa di Craxi, iniziò a “parlare” e da lì Antonio Di Pietro prese le mosse per aprire un’inchiesta a più largo raggio. Craxi qualche tempo dopo avrebbe confidato di aver sbagliato e anzi, a sentire De Michelis, se ne era «pentito amaramente». Anche se il vero evento-spartiacque che spingerà la magistratura a trovare il coraggio che non aveva avuto nei decenni precedenti, sono le elezioni del 1992: la notte del 6 aprile il quadripartito Dc-Psi-Psdi-Pli scopre di non avere più la maggioranza dei voti (48,9 per cento) ma solo quella dei seggi. Il Psi arretra, la Dc per la prima volta nella sua storia è sotto il 30 per cento e soprattutto la forza anti-sistema, la Lega di Bossi passa da 186.255 voti a 3.396.012. Il sistema è più debole. E il segnale più forte di tutti arriverà il primo maggio; gli ex sindaci di Milano Carlo Tognoli e Paolo Pillitteri sono raggiunti da un avviso di garanzia, È l’inizio della fine.
La profezia di Scalfaro: «Ti massacreranno»
Subito dopo le elezioni si era aperta la caccia grossa alle poltronissime: Presidenza della Repubblica, del Consiglio, delle Camere. Il leader socialista – pur con alcune variabili legate ai giochi interni alla Dc – parte da uno schema iniziale: sé stesso a palazzo Chigi, Forlani al Quirinale, Andreotti presidente del Senato, Gianni De Michelis a Montecitorio, De Mita agli Esteri e due anni più tardi ingresso al governo dei “comunisti” di Occhetto e D’Alema, con l’attribuzione a loro anche della Presidenza di una Camera. Occhetto, informato, oppone un no fermissimo. Ma in mancanza di un’intesa fra i partiti maggiori e tra i suoi maggiorenti si apre una delle stagioni più confuse, oscure e drammatiche nella storia della Repubblica: il presidente della Repubblica Cossiga si dimette anticipatamente e non appena si aprono i giochi per il nuovo Presidente della Repubblica, veti e contro-veti sono esasperati dalle votazioni segrete. Anche Craxi è protagonista di un tatticismo indecifrabile. Arrivando a lasciarsi suggestionare da un’altra sirena: provare la scalata al Quirinale. Il terribile attentato mafioso nel quale muore Giovanni Falcone, cambia tutto: Marco Pannella spinge sulla scena un parlamentarista come Oscar Luigi Scalfaro, democristiano conservatore di seconda fila, che era tornato in auge come ministro dell’Interno durante i governi Craxi. Agli occhi del segretario del Psi, Scalfaro aveva un grande merito, quello che lui stesso raccontò in quelle ore decisive ad alcuni dei suoi, tra cui Giulio Di Donato: «Pensate che quando mi dimisi da palazzo Chigi, Scalfaro venne al Raphael e mi disse: Bettino, io non accetterò mai l’incarico di fare un governo dopo il tuo». Concluse Craxi: «Scalfaro è mio amico».
In quelle ore non molti – tra questi Rino Formica, che non voterà Scalfaro – sconsigliano Craxi. Invano. Il vecchio leone, ferito nel fisico e nello spirito, è strattonato dai boatos. Le consultazioni per formare il nuovo governo, si svolgono in un’atmosfera appesantita da una domanda: cosa verrà fuori dalle inchieste milanesi sulla famiglia Craxi? E invece la prima sorpresa è proprio Scalfaro: non appena arriva il momento di affidare l’incarico, il nuovo Capo dello Stato non si limita a fare il notaio più o meno attivo degli eventi. E questo atteggiamento trapela chiaramente il giorno in cui salgono al Quirinale, chiamati dal Presidente, il ministro dell’Interno Vincenzo Scotti e quello della Giustizia Claudio Martelli. Subito dopo l’incontro il Capo dello Stato telefona a Salvo Andò, il socialista col quale è più in intimità e gli dice: sono venuti a candidarsi al posto di Craxi! Il segretario socialista, subito informato, esce dai gangheri: è imbufalito con Claudio Martelli. Non ci parlerà a tu per tu per molti mesi.
Cosa avessero detto esattamente i due ministri a Scalfaro, è stato oggetto di versioni non sempre collimanti, ma quella di Gennaro Acquaviva è la ricostruzione-interpretazione più convincente: Scalfaro, con «furbizia tutta da sacrestia», «utilizzò abilmente la voglia palese che lesse negli occhi dei due ministri» e li usò «per fare la sua mossa coperta contro la Dc» (che detestava dopo essere stato messo in naftalina per anni), ma soprattutto per minare le chances dell’uomo al quale non poteva dire no, cioè Craxi. Lambito da inchieste, delle quali, forse conosceva i potenziali sviluppi: lo voleva escludere senza assumersene la responsabilità.
In quelle ore si consumano diverse tempeste emotive, che fiaccano ancora di più un combattente pur abituato agli choc: la rottura umana con Martelli, che tra alti e bassi, era stato il suo delfino. Tra i socialisti Claudio era stato il “figlio” prediletto, quello che – come disse Anna Craxi – «poteva aprire il frigo» di via Foppa; un amico fraterno del quale Bettino, secondo lo scanzonato Umberto Cicconi, aveva sofferto un po’ «la vasta cultura».
Il secondo stress Craxi lo assorbe ai primi di giugno, quando sale al Quirinale per parlare con Scalfaro e quello gli dice chiaro e tondo: «Sai il bene che ti porto, ma se non ti ritiri, ti massacreranno». Davanti a tanta franchezza e alla richiesta di una terna, Craxi aveva risposto con tre nomi, Amato, De Michelis e Martelli ma «non in ordine alfabetico». De Michelis gli dice: «Bettino, hai sbagliato. Se non sei tu, meglio un democristiano, noi restiamo fuori, con le mani libere». E lui: «No! Non hai capito, non ho sbagliato, ho fatto una strambata. Così riprendo in mano le cose. Giuliano farà quel che gli dico io, dall’inizio alla fine».
Il discorso-verità
Il prescelto è infatti Giuliano Amato, che il 3 luglio si presenta alla Camera per la fiducia e in quella occasione Craxi pronuncia il suo discorso parlamentare più famoso. Di quell’intervento – anche se ricco di spunti profetici sull’Europa, sui migranti – si è tramandata, anche nei video su YouTube, la parte dedicata al finanziamento dei partiti. Dopo la premessa ricca di presagi («C’è un problema di moralizzazione nella vita pubblica che deve essere affrontato con serietà, senza ipocrisie, processi sommari e grida spagnolesche»), il passaggio più forte: «Buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale» e «se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Non credo che ci sia nessuno in quest’aula, responsabile politico di organizzazioni importanti, che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro».
Svelò in pochi minuti una verità sottaciuta, fino ad allora conosciuta solo nel Palazzo. E scomodissima. Per tutti. Certo, quel discorso era anche tante altre cose, tra di loro in contrasto. Un tentativo di difesa personale. Una chiamata di “correietà”. Un affresco che finiva per confermare autorevolmente il “piano di lavoro” della Procura di Milano. Ridotto all’essenziale, il messaggio era: siamo tutti corresponsabili e, di fatto, tutti non-colpevoli. Craxi non ebbe la forza di un passo in più. Non chiese scusa pro-quota, perché non si sentiva eccessivamente in colpa. Ma non propose rimedi immediati. Peraltro è altrettanto vero che in quella occasione Craxi non negò di far parte di un sistema criminale, discostandosi dall’atteggiamento sino ad allora tenuto dai capi politici, compreso Aldo Moro nel suo discorso passato alla storia per la frase “non ci faremo processare in piazza” e pronunciato nel 1974 in difesa di Luigi Gui, peraltro un gentiluomo proverbiale.
Eppure chi era in aula quel giorno, ricorderà per sempre il silenzio nel quale Craxi parlò: neppure un applauso, neppure dai deputati socialisti, durante l’intervento e soltanto uno finale, dai banchi del Psi e da quelli della Dc, ma si spegne quasi subito. Nessuno, in aula, disse una sola parola: né per contestare, né per approvare. Una seduta a suo modo memorabile Racconterà lui stesso diversi anni dopo: finito il discorso, «mi guardai intorno; nessuno aprì bocca. Un silenzio-verità».
Quel silenzio racconta la paura, lo choc ma anche un riflesso istintivo: gli altri partiti fanno una scommessa sulla pelle di Craxi. Nella Dc prevalse un retropensiero, che Antonio Gava confidava agli amici e che Fabrizio Cicchitto allora in aula sintetizza così: «Pensavano: Craxi ha confessato, si è esposto ora glielo consegniamo. Caso mai, se sono proprio cattivi, gli diamo anche il Psi tutto intero e così ci salviamo». Quel silenzio è il preannuncio di un rito collettivo: il capro espiatorio.
Il Quirinale esautora il Parlamento
A Craxi non resta che la via legislativa. In questo caso si ritrova davanti due nuovi nemici: la propria ansia e il suo vecchio amico Oscar Luigi. L’idea, che nasce nel Psi, è quella di un decreto che depenalizzi alcuni reati, commessi a partire dal 24 ottobre 1989, non coperti dall’amnistia del 1990 che aveva sanato le illegalità dei decenni precedenti, tranquillizzando così tutti, compreso il Pci che così aveva “tombato” fiumi di dollari illegali – e non solo – provenienti dall’Urss.
Giuliano Amato, d’accordo col Guardasigilli Martelli, pensa sia realistico intervenire soltanto sul reato di finanziamento pubblico, ma Craxi si infuria col presidente del Consiglio: «Mi prendete in giro! Un’amnistia che non sia estesa anche ai reati di concussione, corruzione e ricettazione, non serve a niente!». Craxi, condizionato da un’ansia crescente, suggerisce una via irragionevole. Amato segue la strada più realistica: il 5 marzo 1993 fa approvare dal Consiglio dei ministri una amnistia limitata all’illecito finanziamento, sulla base di un testo approvato nella prima Commissione del Senato grazie alla paziente opera di Luigi Covatta, che ricorda: «Testo approvato a maggioranza, ma senza clamorose proteste». E infatti durante la seduta del Consiglio, come ha raccontato Amato, Scalfaro telefona, suggerisce ma sostanzialmente non obietta sulla sostanza del provvedimento. L’indomani mattina l’impatto sui giornali non è devastante. «la Repubblica» titola: La nuova legge, chi sbaglia, paga tre volte. Ma l’equilibrio si doveva essere rotto già nel corso della notte, dopo una probabile consultazione tra i giudici di Milano e il Quirinale. Ancora 24 ore e «la Repubblica» ribalta la linea e Scalfaro – legato alla magistratura ma fino a quel punto dentro la “partita” – nega la firma con ragioni di opportunità costituzionale. Qualche giorno dopo Borrelli, incontrando Amato, gli spiega le ragioni della loro opposizione: «Il filo delle indagini parte dal finanziamento e se non possiamo partire da quello, non arriviamo alla corruzione». In quei giorni si era consumato uno spostamento della sovranità: dal Parlamento e dal governo al Capo dello Stato. Da quel momento si apre la caccia al “cinghialone” ed è solo una questione di tempo.
«Neppure una carta per metterci in difficoltà?»
Ovviamente anche Craxi si era accorto da tempo che la vittima sacrificale avrebbe potuto essere lui. Col personaggio simbolo di Mani pulite, Antonio Di Pietro, che è amico di diversi socialisti, prova due strade: l’intimidazione e la trattativa. La prima si concretizza nel famoso “poker d’assi” di cui parla Rino Formica al termine di una Segreteria del Psi nel settembre del 1992: si tratta di una raccolta di informazioni raccolte dal capo della Polizia Vincenzo Parisi (che voleva bene a Craxi) su Antonio Di Pietro, sulle sue amicizie e sulle sue debolezze, sulla Mercedes, sui prestiti restituiti nella scatola di scarpe. Ma, come si sa, a poker non si è mai sicuri di vincere, neppure con belle carte, anche perché quella battuta, anziché portare a un esposto in Procura (come consigliava Martelli), apre la strada a una trattativa privata e personale. Craxi e Di Pietro si incontrano più di una volta. Alla fine il segretario del Psi confida di averlo «ammansito, placato». Ma una volta ancora, su questo terreno, dimostrerà la sua ingenuità: il patto non funziona. Per ragioni che, probabilmente, nessuno conoscerà mai.
Ma la debolezza della reazione di Craxi racconta un tratto della sua condotta che non è mai stato scandagliato e che rappresenta una sorpresa spiazzante. Negli anni di palazzo Chigi Craxi non aveva provveduto a mettere da parte una sola carta, un solo dossier per tenere sotto tiro i suoi avversari. Lo raccontò a chi scrive l’avvocato Guido Calvi, legale dei dirigenti Pci-Pds durante un pranzo nel ristorante di palazzo Madama nel marzo del 2000, traendo questa convinzione dalla «palese inconsistenza» di un esposto-denuncia, presentato nel 1993 contro i dirigenti del Pds. E a distanza di molti anni l’autore materiale di quell’esposto, uno dei giovani che lavorarono col leader sino alla fine, conferma: «Serviva un’azione contro i comunisti, ma non avevamo nulla in mano e ci limitammo a collazionare alcuni ritagli di giornali, che avevano il loro punto forte su una storia che riguardava il commercio con l’Urss di alcuni vini siciliani». Bobo Craxi: «Una volta gli proposero un dossier su De Mita, rispose: non mi interessa. Nella lotta politica era duro, ma non usava le carte per ricattare gli avversari». Ma qui siamo davanti ad un’altra originalità del personaggio. Craxi, da sempre curiosissimo delle storie e delle debolezze altrui, si vantava di essere l’uomo più informato d’Italia. Una curiosità che ovviamente gli era utile per indurre gli altri alle sue ragioni. Certo, Craxi era buon amico del capo della polizia Parisi che spesso gli passò notizie di prima mano. Ma queste informazioni non venivano né stivate, né ricercate per costruire dossier di pronto uso.
Solo
Il 15 dicembre 1992 arriva il primo avviso di garanzia per concorso in corruzione in diciassette diversi episodi. E si accelera lo sfaldamento, in atto da tempo, del gruppo più ristretto attorno a Craxi, già diviso al congresso di Bari. Craxi perde il contatto fisico e umano con i suoi due migliori amici: Rino Formica e Claudio Martelli, che nel settembre del 1992 esce allo scoperto, candidandosi alla guida del Psi con un’espressione ambigua e cioè promettendo di restituire l’onore perduto ai socialisti. Nel momento più difficile della propria vita Craxi si ritrova politicamente solo. E quando la magistratura lo “stringe” in tre mesi scopre un segreto destinato a soffocare ogni suo spazio difensivo. E in questo caso la mano che lo spinge verso il baratro è di un socialista, che non lo amava più: Giacomo Mancini. In un’intervista al «Corriere della Sera» dell’8 novembre del 1992, l’ex segretario del Psi adombra l’ipotesi di una contabilità parallela nella totale disponibilità di Craxi.
Dieci giorni dopo viene interrogato da Antonio Di Pietro e da Gherardo Colombo e in quella occasione Mancini mette a verbale una frase-mannaia: «La mia convinzione è che il segretario del partito socialista ben conoscesse quel che passava dalla segreteria amministrativa ma che non fosse vero il contrario e cioè che il segretario amministrativo non fosse a conoscenza dei flussi complessivi riguardanti il partito». E quando il 7 febbraio 1993 Silvano Larini, che di Craxi era uno dei bracci operativi, si consegna al valico di Ventimiglia ad Antonio Di Pietro in persona, racconterà che i soldi delle tangenti venivano da lui portati direttamente negli uffici di Craxi di piazza Duomo 9. Claudio Martelli ha sempre pensato (e alla fine scritto) che Larini fosse fatto rientrare proprio da Craxi per tagliare le gambe proprio a lui, al suo ex delfino, rispolverando una vecchia storia: il conto Protezione. Martelli in effetti fu costretto a dimettersi, ma con la confessione di Larini veniva messo nero su bianco quel che pochissimi sapevano: Craxi aveva centralizzato sotto il proprio controllo parte della provvista finanziaria. Questo renderà più difficile la sua difesa nei processi che verranno e negli anni successivi renderà insolubile – e per certi versi misteriosa – la questione dei conti esteri del Psi. Di certo, i famigliari più stretti di Bettino Craxi (che non hanno mai navigato nell’oro) non avranno accesso a quei conti nei quali era stata stivata una quantità mai definita di miliardi di vecchie lire. L’11 febbraio, quattro giorni dopo l’arresto di Larini, Bettino Craxi si dimette da segretario del Psi: sono passati sedici anni e sette mesi dal 17 luglio 1976.
Il complotto, gli americani e il gran rifiuto a Cuccia
Nelle ultime settimane del 1992 le inchieste della Procura di Milano si fanno più stringenti, la preda diventa più debole e ad un certo punto Craxi avverte aria di accerchiamento. Ai primi di gennaio del 1993, raggiunto da un nuovo avviso di garanzia, anche lui capisce che il finale può diventare cruento. Non può ancora immaginare quanto, anche perché i precedenti non aiutavano: sino a Craxi, nella storia della Prima Repubblica, le cadute erano state temporanee e mai definitive. Amintore Fanfani, Aldo Moro, Pietro Nenni erano caduti e si erano rialzati più volte e d’altra parte nessuno può sapere quale ruolo avrebbe potuto avere Alcide De Gasperi nel caso in cui fosse vissuto più a lungo, dopo essere stato estromesso dalla guida del governo.
E invece nella vicenda di Craxi ad un certo punto il piano si inclina e si fa scivoloso, sempre di più. Si fa sempre più presente in lui e non soltanto in lui, un enigma che col tempo diventerà un’ossessione: complotto ordito in un’unica centrale? Oppure tante mani che lo sospingono fuori gioco? Il dipanarsi delle testimonianze e delle conoscenze consente di ipotizzare che il pool di Mani pulite sia stato parte di una vicenda più vasta, alla quale concorsero politicamente – e non solo – diversi soggetti: l’amministrazione americana, la sinistra post-comunista, il mondo imprenditoriale-finanziario e la sua appendice mediatica. Tanti nemici e non un solo complotto centralizzato. Ma Craxi pagò più degli altri perché gli americani avevano con lui un conto in sospeso?
«Bettino pagò più per Gheddafi che per Sigonella»
Due settimane dopo l’aspro scontro su Sigonella, il 24 ottobre 1985, Craxi aveva incontrato il presidente degli Stati Uniti a New York, in occasione di un vertice straordinario dei sette Paesi più industrializzati del mondo. Un incontro che si era risolto in modo talmente positivo, quello con Reagan, che Craxi decide di puntare proprio sul presidente degli Stati Uniti per raggiungere un obiettivo apparentemente chimerico: far avallare dai capi di Stato e di governo la trasformazione in G7 dello strategico G5 dei ministri del Tesoro. Un club che, nel corso degli anni, si era trasformato in un “Direttorio” mondiale, perché non si occupava solo di questioni economiche e valutarie, ma si era venuto configurando come un «controllore politico» dell’Occidente. Craxi, ottenuto un primo avallo da Reagan, decise di porre la questione nel vertice dei Grandi nel maggio del 1986 a Tokyo. Ma nel corso dei lavori preliminari l’opposizione di Gran Bretagna e Francia, la scarsa convinzione del ministro degli Esteri Giulio Andreotti e di quello delle Finanze Giovanni Goria portano ad un compromesso che taglia fuori l’Italia.
E a quel punto va in scena la sequenza anni dopo ripercorsa da Gennaro Acquaviva e dall’ambasciatore Antonio Badini. Fu lui, preparato d’urgenza un emendamento ad un testo finale deludente, ad entrare nella sala dove erano riuniti i sette leader. Ecco il racconto: «Craxi si alzò immediatamente dal tavolo della discussione, si fece aggiornare sulla situazione e poi fece un gesto a Reagan, che si alzò a sua volta e si unì a loro. Su richiesta di Craxi, Badini spiegò a Reagan le ragioni della nostra insoddisfazione. Egli fece allora chiamare con urgenza James Baker, il suo segretario del Tesoro, che arrivò immediatamente, trafelato e con un’espressione preoccupata. Appena lo vide, Reagan disse al suo indirizzo: Jim, I told you to get done what Bettino had asked for. What hell did it arrive at your meeting?».
Baker, meravigliato, rispose che Goria si era pronunciato a favore del compromesso, che era risultato peraltro di difficile composizione e occorreva agire con pazienza. Intanto Nakasone aveva interrotto i lavori, pregando i colleghi di pazientare. Reagan di fronte alle assicurazioni di Baker restò un momento perplesso, ma accortosi che Craxi non sembrava troppo convinto degli argomenti, gli chiese se aveva lui una formula da proporre. Riprende il racconto: «Craxi annuì e gli porse il biglietto che Badini gli aveva dato; Reagan dopo averlo scorso si rivolse a Baker dicendogli: «Jim, I want you to get this precise wording in the final communiqué».
Baker, senza discutere, ma con evidente imbarazzo lasciò il gruppo, fece riconvocare la riunione dei ministri delle Finanze, che convennero obtorto collo sulla richiesta di Baker. Ancora Badini: «Sapemmo poi che alcuni dei ministri delle Finanze avevano accolto con sconcerto i modi sbrigativi con cui la presidenza giapponese aprì e chiuse la discussione, in pratica lasciando parlare il solo Baker». L’Italia entrò nel G7. Sulla via del ritorno Craxi commentò con i collaboratori alla sua maniera: «Le battaglie bisogna vincerle, non basta solo cominciarle». Dunque, tra Craxi e Reagan un rapporto forte e d’altra parte nei documenti desecretati ed esaminati da Paolo Mastrolilli e Maurizio Molinari nel libro L’Italia vista dalla Cia di una persistente irritazione per Sigonella non c’è traccia.
In realtà l’episodio che aveva suscitato irritazione negli americani, fu un altro. Nell’aprile del 1986, subito dopo un attentato ad una discoteca di Berlino, gli Usa decisero di dare una lezione al colonnello Gheddafi, bombardando senza preavviso il quartier generale a Tripoli. Chiesero il permesso di sorvolo a Francia e Italia che lo negarono ma Craxi fece qualcosa in più: fece avvertire Gheddafi dell’attacco degli F-111 alla caserma Bab al Azizya: il colonnello riuscì a salvarsi. A tanti anni di distanza uno dei più stretti collaboratori di Bettino Craxi, uno dei pochi veramente addentro a tutti i suoi segreti e che preferisce restare nell’ombra, spiega: «Nell’ostilità americana verso Craxi, Sigonella non ebbe peso. Più irritati furono con Bettino quando fece sapere in anticipo a Gheddafi che gli americani volevano ucciderlo…».
Craxi fece una scelta di difesa dell’interesse nazionale: «Immaginava che gli americani si sarebbero potuti irritare – racconta più di trent’anni dopo il figlio Bobo – ma capiva sin da allora che avere una Libia destabilizzata non avrebbe portato nulla di buono all’Italia. E scelse di correre il rischio». Quello sgarbo pesò. Anche perché l’amministrazione degli Stati Uniti non è mai stata un monolite e tutte le sue principali articolazioni (Casa Bianca, Dipartimento di Stato, Pentagono, Cia, Fbi, Marina) pur vincolate da un mission comune, hanno una politica e una “memoria” non sempre sovrapponibili a quelle degli altri segmenti. Come accadrà con Craxi.
La scommessa americana su Falcone
Negli anni che precedono il crollo del sistema politico italiano, in merito all’interessamento americano alle vicende italiane vanno accesi i riflettori su una vicenda finora non illuminata ma estremamente interessante. Racconta Giuseppe De Tomaso, direttore della «Gazzetta del Mezzogiorno»: «Nei primi anni Novanta incontrai un altissimo esponente dell’amministrazione degli Stati Uniti che mi raccontò uno scenario mai sentito prima: nel 1989 il presidente Bush si rende conto che la proliferazione degli stupefacenti mette a rischio la possibilità di poter formare forze armate perfettamente efficienti. Convoca le principali forze investigative e dispone una drastica svolta politica: spezzare i rapporti con tutti i regimi corrotti del Centro e Sudamerica collegati col narcotraffico. In quella occasione gli viene fatto notare quanti problemi arrivino anche dalla mafia italiana che opera nel mar Mediterraneo e che è collegata ad alcuni politici italiani».
È in questo contesto che inizia lo sganciamento da un personaggio come Giulio Andreotti e l’interessamento di Bush per la figura di Giovanni Falcone, il magistrato che aveva istruito il più importante processo alla mafia nella storia italiana. Nel maggio del 1989 il presidente degli Stati Uniti, a Roma per una visita di Stato, invita Falcone ad un ricevimento a Villa Taverna, residenza dell’ambasciatore: è l’unico magistrato presente e Bush chiede di potergli parlare in privato. Qualche tempo dopo, all’amico pm Giuseppe Ayala che gli chiese cosa si fossero detti, Falcone con la sua proverbiale riservatezza si limitò a rispondere: «Ha chiesto di incontrarmi e sono andato». Ma tutti potevano vedere la grande foto di Bush che Falcone teneva nel suo ufficio e la testimonianza di De Tomaso aggiunge un passaggio in più: «Da quel che mi fu detto confidenzialmente, l’amministrazione avrebbe visto bene Falcone per la guida di un nuovo corso italiano. All’inizio era lui, non Di Pietro, l’eccellenza sulla quale puntavano gli americani».
Ma non c’è solo la droga. Nel 1991 Henry Kissinger incontrò Craxi a New York nel periodo nel quale ricevette l’incarico all’Onu da Perez de Cuellar sul debito del Terzo mondo, vicenda che l’amministrazione Bush guardava con sospetto e da quel che è dato sapere il vecchio diplomatico sondò l’ex Presidente del Consiglio anche sul futuro dell’Europa nel nuovo contesto internazionale. Dopo il crollo del Muro di Berlino, gli americani avevano avviato lo sganciamento da quei politici amici che li avevano aiutati nella lotta al comunismo, ma che erano appesantiti dalla corruzione. È una stagione nella quella la Cia viene messa in quarantena, per stemperare le collusioni col Kgb e con i servizi e con i leader europei più compromessi. In Italia – oltre ad un’attività sotterranea che sarà difficile “tracciare” – alla luce del sole si vede irrompere la punta di lancia di questo new deal, l’Fbi, che arriverà a partecipare alle indagini per la morte di Falcone. E d’altra parte quanto l’amministrazione americana guidata dai Repubblicani seguisse le vicende italiane, è stato illustrato da due illuminanti interviste realizzate da Maurizio Molinari e pubblicate su «La Stampa» nell’agosto 2012: all’ex console americano Peter Semler a Milano e all’ex ambasciatore a Roma Reginald Bartholomew.
Semler ha rivelato di aver coltivato un rapporto assai intenso – prima della stagione di Mani pulite – con Antonio Di Pietro, sostenendo che l’ex pm gli avrebbe anticipato i possibili sviluppi di un’indagine che era in corso su Mario Chiesa, con eventuali ricadute su Bettino Craxi. Di Pietro ha smentito categoricamente ogni intenzionalità preventiva sul leader socialista, ma a conferma di un rapporto confidenziale, c’è anche la rivelazione dell’ex console sul viaggio di Di Pietro negli Stati Uniti nell’autunno del 1992 «Sono stato io a suggerire all’ambasciata di Roma di invitarlo, poi fu il Dipartimento di Stato ad organizzargli il viaggio» e a Washington e New York «gli fecero vedere molta gente».
Gli Usa tagliano Bettino e puntano sui “nuovi”
Altrettanto interessante è ciò che Bartholomew, a Roma tra il 1993 e il 1997, rivelò a Molinari, in un incontro che si era svolto un mese prima che l’ex ambasciatore morisse. Primo: il nuovo presidente, il democratico Bill Clinton, e il suo staff pensavano che, dopo la cura-Mani pulite «l’Italia fosse in fase di disfacimento» e in una riunione nello Studio Ovale fu deciso che fosse tempo di invertire la politica di Bush, che era stata quella di accompagnare la destabilizzazione del sistema politico. Proprio per seguire il dossier Italia con occhi competenti il presidente sceglie come ambasciatore a Roma, non uno dei finanziatori della campagna elettorale, ma un diplomatico di carriera e colto come Bartholomew. Che cambia drasticamente rotta: si accorge che qualcosa «non quadrava» nel Consolato di Milano, con quel rapporto diretto con il pool di Mani pulite che «nell’intento di combattere la corruzione politica dilagante era andato ben oltre, violando sistematicamente i diritti di difesa degli imputati in maniera inaccettabile in una democrazia come l’Italia». E punta, incontrandoli e incoraggiandoli, su tre personaggi: Silvio Berlusconi, Massimo D’Alema e Gianfranco Fini. La lettura di Rino Formica è questa: «Dal punto di vista degli interessi Usa investire su tre personalità dal passato ingombrante fu intuizione geniale, ma ritrovarsi con tre leader “zoppi” non ha consentito all’Italia di recuperare la sovranità perduta allora». Sul breve però proprio quei tre leader, guardati con simpatia dagli americani, guideranno il fronte che porterà all’espulsione di Craxi dalla vita politica. Berlusconi con le sue televisioni: Paolo Brosio diventa la “voce” della Procura e ogni giorno dirama il bollettino degli arrestati; nel corso del 1993 Massimo D’Alema chiude ogni spiraglio che si apre nel suo partito e che possa ridare fiato al Psi. Gianfranco Fini è più defilato, ma nell’aprile 1993, quando Craxi viene raggiunto dalle monetine, uscendo dall’hotel Raphael, i nuclei più numerosi sono formati proprio da militanti del Pds e di An, i due partiti sui quali aveva puntato l’ambasciatore Bartholomew.
A distanza di anni, accostando tutti questi elementi, sin qui sconosciuti, è possibile ricostruire in modo documentale una sequenza estremamente interessante: a partire dal cruciale 1989, in occasione di riunioni strategiche nello Studio Ovale della Casa Bianca e dedicate alla politica estera, due diversi Presidenti esaminarono il caso-Italia e decisero di intervenire su quello che era stato un Paese di frontiera e non lo era più. I Repubblicani in quella fase erano spinti da una doppia pulsione – la lotta agli stupefacenti e l’urgenza di cancellare le tracce di complicità dei propri Servizi con tanti anticomunisti corrotti o tirannici – e dunque avevano iniziato a fare terra bruciata attorno ai personaggi più scomodi in tutti i continenti. In Italia – fragile sulla faglia mafiosa e poi su quella della corruzione – individuano come possibili risorse politiche, prima Giovanni Falcone e poi Antonio Di Pietro.
Dalla fine del 1992 i Democratici, con Bill Clinton, percepiscono che l’Italia, sotto la pressione di una mafia aggressiva come mai prima e con un sistema politico in disfacimento, rischia di deragliare. Decidono di chiudere la fase della destabilizzazione e investono sui “nuovi”: Berlusconi e i post-comunisti. È in questa fase finale che “tagliano” Craxi. Lo ha voluto far capire Francesco Cossiga, che per la sua inclinazione ai segreti, molti ne raccontò, ma fu sempre reticente sugli americani. Una sola volta l’ex Presidente si espose, non a caso in un ambito appartato come una lettera al quotidiano «il Riformista» del 30 gennaio 2007 e riferendosi a Craxi, scrisse: «Non ho certo le prove, ma non mi meraviglierei se domani saltasse fuori che nelle “disgrazie giudiziarie” ci sia stata la mano degli ambienti ufficiali americani».
Quel no segreto a Enrico Cuccia
Se in una fase avanzata della crisi italiana una parte dell’amministrazione Usa decide di “scaricare” dear Bettino, pochi sanno che in Italia il vecchio ordine fu tentato di affidare proprio a Craxi la guida di un nuovo corso tutto da costruire. E il sondaggio su Craxi lo fece nientedimeno che Enrico Cuccia, il “padrone dei padroni”. Negli ultimi giorni del 1989, anno che si era rivelato di svolta e preannunciava tempi nuovi, il patron di Mediobanca aveva inviato a Craxi un enigmatico biglietto di auguri con una frase di Goethe: «Da oggi comincia una nuova epoca e voi potete dire di esservi stato presente». Un segnale di attenzione che nel giro di qualche mese si trasformò in qualcosa di molto significativo: Cuccia, uomo felpatissimo e di proverbiale riservatezza, grazie alla mediazione di Salvatore Ligresti chiede di incontrare riservatamente il leader socialista.
Craxi riceve il capo di Mediobanca nel suo ufficio a piazza Duomo. È la primavera del 1990 e in quel primo incontro Cuccia trasmette a Craxi la propria preoccupazione per i cambiamenti che sarebbero intervenuti in Italia dopo l’adesione ai Trattati di Maastricht: diventava sempre più plausibile il rischio di una colonizzazione del sistema produttivo italiano e dunque era urgente una svolta politica che tenesse in primo piano gli imperativi del mercato ma in una logica nazionale. Diventava impellente privatizzare, a prezzi ragionevoli, affidando a mani italiane i rami fertili delle imprese pubbliche, riducendo la spesa pubblica e creando – in una fusione tra Mediobanca e i tre istituti di proprietà dell’Iri – una banca di respiro internazionale, capace di agire da propulsore per questa fase nuova. Naturalmente ai partiti sarebbe toccato un passo indietro e, a parere di Cuccia, l’unico che fosse in grado di guidare questo processo era proprio Bettino Craxi.
E lui a caldo come reagì? Chi lo conosceva, racconta che Craxi fu lusingato e incuriosito: chiamava Cuccia «lo gnomo di via Filodrammatici», ne conosceva l’antica militanza azionista e per lui era difficile dimenticare come si chiamasse la moglie: Idea Nuova Socialista. Ma per tanti motivi Craxi diffidava di Cuccia. In un secondo incontro, stavolta a Roma, si parlò anche di dettagli operativi – per esempio dell’appoggio che i media avrebbero garantito all’impresa – ma senza trovare un accordo. A fine giugno i due si incontrarono ancora una volta, di nuovo a Roma e in quella occasione il segretario socialista respinse l’offerta. E lo fece, attingendo al suo dna: la politica la fanno i politici, il mercato va governato.
Alle tante pressioni su di lui, Craxi risponderà col suo discorso al congresso straordinario del Psi di Bari, il 27 giugno 1991, diciotto giorni dopo la bruciante sconfitta al referendum sulla preferenza unica. In un passaggio della sua relazione è contenuta una frase, sul momento considerata pleonastica, ma che a distanza di anni si presenta ricca di significato, decisiva. Dice Craxi: «In un libro-intervista di alcuni anni fa, Giovanni Spadolini ricorda, e fa suo, un significativo monito di Ugo La Malfa: “Se capeggiassi un movimento di rivolta al sistema – mi disse – avrei tre, quattro milioni di voti. Non li potrò mai avere questi voti. Sono un uomo del sistema, della democrazia, così come è nata dopo la Liberazione, mi muovo nel quadro dei partiti. L’ansia antipartitica che sta investendo il Paese non può essere accarezzata. Il compito di noi politici, è di incanalarla, non di servirla od essere asserviti ad essa”». Finita la citazione, Craxi chiosa così: «Penso che questo sia anche il compito nostro».
E a quel punto – un anno dopo gli incontro con Cuccia – si chiude l’ultimo cerchio. Degli incontri che Craxi aveva avuto con il leader di Mediobanca (dei quali ha dato ampio conto l’ex ministro socialista Carmelo Conte nel suo Dal quarto stato al quarto partito) non è più possibile ricostruire le sfumature (in certi casi decisive) che accompagnarono l’offerta. Ma ne conosciamo l’esito: si concluse senza un accordo. Dunque, prima che il piano della “vecchia” politica si inclinasse per sempre, Craxi rifiutò l’offerta che gli era venuta da parte del più temuto e potente regista dei principali intrecci economici e finanziari del dopoguerra, il capofila di un mondo del quale il leader socialista aveva diffidato per tutta la vita. Rifiutando, restò sé stesso e non volle cambiare percorso né compagni di viaggio. Ma non volle neppure provare a correggere la sua traiettoria: riformare il sistema, alleggerire la presenza dei partiti. Nelle settimane nelle quali Craxi e Cuccia si incontrarono, nella primavera del 1990, era iniziata la raccolta delle firme per i referendum Segni in materia elettorale. Incassato il rifiuto di Craxi, Cuccia farà qualcosa di inusuale per un uomo riservato come lui: andò nella sede del «Giornale» e platealmente mise la sua firma sotto i moduli per i referendum. Un investimento ben indirizzato: i referendum avrebbero contribuito a far saltare il vecchio sistema.
Inutile immaginare cosa sarebbe accaduto se Craxi avesse detto un sì, magari condizionato, all’offerta di Cuccia. Senza eccessive fantasie si può persino ipotizzare che la crisi italiana avrebbe potuto prendere un corso diverso, a cominciare dalla vicenda di Mani pulite, in quel momento ancora lontana. Quel no, allora rimasto segreto, resta una pietra miliare nella vita di Bettino Craxi e probabilmente nella successiva storia della Repubblica.
Maastricht, tana libera-tutti per gli imprenditori
Il gran rifiuto a Cuccia non c’entra, ma qualche tempo dopo la “rivolta” degli imprenditori al sistema delle tangenti accelerò la caduta di Craxi. Le tangenti c’erano sempre state ma nel corso degli anni Ottanta si era andato consolidando una vera e propria fiscalità parallela. Con il proliferare di “consorzi” di affari tra politici e imprenditori. Finalizzati a trasformare gli appalti pubblici in una fonte di reciproco finanziamento: davanti alla certezza di poter ottenere le commesse, gli imprenditori si facevano carico dell’onere della tangente, scaricandone il costo sui conti pubblici e rientrando anche grazie agli incrementi comminati (e accettati) durante la realizzazione dell’opera. Il politico intascava la percentuale prefissata.
Nel corso di quel decennio alcune grandi imprese (Fiat, Olivetti, Pirelli, De Benedetti) avevano tentato fortuna all’estero ma con scarso successo e questo aveva indirettamente rinsaldato il sistema delle tangenti. Ma alla fine del decennio due eventi producono un infarto al sistema: da una parte l’aggravarsi dei conti pubblici e dall’altra la grande svolta di Maastricht. Nel 1989, tra i Paesi della Comunità europea si apre la strada all’unificazione monetaria, attraverso un trattato che poneva, a partire dal 1992, un potente vincolo esterno: si sarebbero dovuti adottare provvedimenti imponenti (l’aumento della pressione fiscale, tagli di bilancio, privatizzazioni), prima di poter procedere a una definitiva rettifica del valore della lira sul mercato dei cambi. In vista di questo appuntamento un Paese poco virtuoso come l’Italia viene posto davanti al bivio, perché i più avvertiti nella classe dirigente (pochissimi) capirono subito quanto esigenti sarebbero stati i parametri di finanza pubblica che avrebbero segnalato anche ai mercati, le differenze e dunque le debolezze del sistema-Italia. L’ancoraggio all’Europa avrebbe inciso sulla spesa pubblica e il sistema delle imprese pubbliche e private – che ne dipendeva così tanto – rischiava di rifare tutti i conti, di dover ridurre le spese o di non sopportare più gli “extra”.
Alla vigilia di Maastricht Bettino Craxi confessò a Gianni De Michelis, ministro degli Esteri del governo Andreotti, che avrebbe preferito un «rallentamento» del processo di integrazione. Si era fatto preparare un dossier su pro e contro da Massimo Pini, che operava nel board dell’Iri e nelle prime settimane del 1992 a chi gli chiedeva se l’ingresso nel sistema europeo non potesse essere rischioso per l’Italia, Craxi rispondeva che i vincoli esterni, per quanto gravosi, potevano essergli «utili» in vista del suo ritorno alla guida del governo. La stagione della manomorta politica stava finendo, ma a quel punto il vincolo esterno, diventato strutturale e il boom del debito pubblico moltiplicano il dispetto degli imprenditori, che diventerà uno dei propellenti inattesi dell’esplosione del sistema politico. Per dirla con un’immagine cruda di Fabrizio Cicchitto: «Il Trattato di Maastricht segnò l’ingresso “a calci in culo” del Paese nella concorrenza». Man mano che gli inquirenti vanno avanti, la collaborazione degli imprenditori diventa un fatto liberatorio. Ha raccontato Giuliano Amato: «Era sorta una difficoltà sempre più palpabile tra imprese e partiti, dovuta crescentemente all’innalzarsi del livello di corruzione», «le imprese erano diventate intolleranti» ad un punto nel quale «il colluso privato si sente col cappio al collo».
Il rito del capro espiatorio e l’agonia di Hammamet
Nella prima fase di Mani pulite si era prodotta un’iniziativa giudiziaria, apparentemente random, ma a vasto raggio e che non aveva guardato in faccia nessuno. Per qualche mese tra gli “intoccabili” della Prima Repubblica si era creata un’atmosfera sospesa: chi finirà “dentro”? I magistrati chiamavano tutti: capitani d’industria e grandi manager pubblici, notabili dei partiti di maggioranza e di opposizione. È in questa fase che tutti i poteri a rischio, per difendersi, mettono in campo quel che possono. I grandi imprenditori sotto tiro e l’ex Pci socializzano qualcosa di molto prezioso: i giornali che loro stesso controllano. E li trasformano in un originalissimo ircocervo: metà grancassa, metà scudo difensivo. Ha raccontato in un articolo pubblicato sull’«Unità» l’8 marzo 2003, Piero Sansonetti che all’epoca dei fatti ne era vicedirettore: «La società politica era allo sbando, i partiti di governo quasi non esistevano più, anche il Pci era sotto botta. Chi contava? I giornali. E nacque un’alleanza di ferro tra quattro giornali italiani: il “Corriere”, “la Stampa”, “l’Unità” e “Repubblica”. Il direttore de “l’Unità” era Veltroni, alla “Stampa” c’era Mauro. Tra i quattro giornali si stabilì un informalissimo ma inesorabile patto di consultazione che li rendeva fortissimi: ci si sentiva due o tre volte al giorno, si concordavano le campagne, le notizie, i titoli».
Gli imprenditori inquisiti schierano i loro media
Certo, già da anni il direttore di «Repubblica» Eugenio Scalfari considerava Craxi come l’uomo nero. Certo nel patto giocarono anche altri fattori (professionali, personali) ma alla fine l’asse fondamentale di quell’intesa a quattro è l’appoggio incondizionato a Mani pulite. Con un messaggio implicito: noi vi appoggiamo, i nostri padroni sono d’accordo, tenetene conto. Ma di questo patto implicito, che mirava a salvaguardare gli imprenditori di maggior peso, l’opinione pubblica nulla capisce. Attraverso i media viene irradiata una massa (talora acritica) di notizie provenienti dalla Procura di Milano: si dà conto di tante inchieste ben fondate e ben istruite, ma si glissa sia sui metodi con i quali si ottengono alcune confessioni, sulle forzature, sugli omissis e sulle ragioni che portano ai primi suicidi.
Gradualmente si determina l’uscita dai principali processi delle grandi imprese, mentre l’attenzione finisce per concentrarsi soprattutto sugli outsider (a cominciare da Raul Gardini), così come sul fronte politico sono presi di mira i democristiani moderati, i “miglioristi” del Pci e soprattutto i socialisti. E invece restano sostanzialmente fuori i vertici dell’ex Pci e la sinistra della Dc. E quanto ai i talk show televisivi e i Tg già da qualche anno erano più liberi e spregiudicati, ma con Tangentopoli i programmi dedicati di Raitre (controllata dal Pci-Pds) e di Mediaset si trasformano in tribunali televisivi e soffiano contro il “sistema”.
In Rai domina un grande professionista come Michele Santoro, capace di fare grandi ascolti con trasmissioni molto “mirate”. E quanto alle reti di Berlusconi a un certo punto cambiano musica. Il 16 luglio 1992 viene arrestato l’imprenditore Salvatore Ligresti, da anni vicino a Craxi. Gli inquirenti vogliono forse che faccia proprio quel nome? Una cosa è certa: gli altri amici di Bettino cominciano a preoccuparsi e infatti è proprio a partire da quella data che le tv di Berlusconi cambiano atteggiamento, a cominciare da Gianfranco Funari e dai principali Tg. Certo, Berlusconi fa un’operazione editoriale, ma fa anche il suo “investimento”, nella speranza che i magistrati possano essergliene grati. Craxi se ne accorge e pur avendo incoraggiato l’ingresso in politica di Berlusconi, è furibondo. E anche i giornali emergenti danno il loro contributo: Vittorio Feltri, che con una linea giustizialista favorisce l’escalation di vendite del suo «Indipendente», dopo il suicidio del deputato socialista Sergio Moroni, il 12 settembre 1992 scrive: «Nei panni di Moroni, nei quali non riesco a immaginarmi senza disagio, penso che mi sarei ammazzato due volte».
Il capro espiatorio
Sono queste le premesse “atmosferiche” che preparano e si scaricano in un evento destinato a restare nella memoria collettiva. Gli antefatti. Il 28 aprile 1993, in vista del voto della Camera sulle prime autorizzazioni a procedere a suo carico, Craxi si era preparato («Passeggiava per le strade di Marbella, facendo il conto dei voti e ripetendo “ce la devo fare”», ha scritto il figlio Bobo) convinto degli effetti benefici di un voto di ripulsa. Il 29 aprile l’aula di Montecitorio è chiamata ad esprimersi sulle richieste dei magistrati per i reati di finanziamento illecito concussione e corruzione. Il racconto asciutto di Mattia Feltri nel libro Novantatré isola i frammenti di cronaca destinati ad entrare nella storia. Marco Pannella che si avvicina a Craxi e gli dice che sarebbe meglio per lui affrontarli i processi, la Lega che con Luigi Rossi dice di aver il «diritto di essere giudice ed accusatore di questa classe politica» e i leghisti che tirano fuori i cartelli “In galera”, “ladri”; il pidiessino Correnti che dice «il processo politico è nel Paese, ed è già concluso»; Craxi che pronuncia la sua autodifesa e poi se ne va: «Che resto a fare? A votare per me?». Il voto della Camera respinge le richieste per concussione e corruzione, mentre accetta quella per finanziamento illecito. Il Pds, la Lega, An gridano allo scandalo. Annota Feltri: «È stato lì, alla Camera, che abbiamo sentito l’appello di Italia Radio, pidiessina. Dicevano alla gente di scendere in piazza, di mandare i fax con scritto “vergogna”». E ancora: «Siamo usciti e in piazza Montecitorio c’erano già i leghisti con i loro striscioni», con il loro «fantoccio con la faccia di Craxi e il vestito a strisce da galeotto». La giornata si chiude con una dichiarazione del procuratore Francesco Saverio Borrelli: «La decisione è sconcertante. Sembra studiata allo scopo di sottrarre il parlamentare ad una prospettiva di condanna». Parole più da “giocatore” in campo che da magistrato, sia sul voto espresso secondo Costituzione dai parlamentari, sia sulle prospettive processuali di Craxi. Ma alla fine è proprio il tono di questo 29 aprile ad invertire le attese di chi pensava che un respingimento delle autorizzazioni potesse contribuire a girare il vento. Accade l’esatto contrario: il vento diventa bufera e la “gente” passa dal mugugno alle vie di fatto.
Il 29 aprile, alla Camera, le richieste dai magistrati per i reati di concussione e corruzione vengono respinte e viene accettata solo quella per finanziamento illecito, che il segretario del Psi aveva ammesso. Quel voto inverte ogni attesa e produce una sorpresa. La “gente” non si limita a mugugnare. E scatta la prima rivolta popolare contro la “casta”: accade qualcosa che non si era mai visto e mai più si vedrà.
Il 30 aprile il leader del Pds Achille Occhetto tiene un veemente comizio in piazza Navona a Roma e alla fine i militanti vengono dirottati verso l’hotel Raphael. Se ne accorge un ventenne camerata, Delio Andreoli, che telefona a Teodoro Buontempo, deputato duro e puro dell’ex Msi e gli dice: «I comunisti stanno qui, schierati per una contestazione feroce…». Buontempo si precipita e prima di arrivare, si fa cambiare una banconota da diecimila lire, ricevendo in cambio tantissime monetine. Quando Craxi esce dal suo albergo, rifiutando di svignarsela dalla porta posteriore, viene investito: i missini fanno piovere monete, altri sventolano banconote, scandendo «Bettino, vuoi pure queste?», altri ancora urlano slogan («Bettino, Bettino, il carcere è vicino!»). Qualcuno invoca il suicidio. Dirà Emanuele Macaluso: «La critica e lo sberleffo sono ammessi, ma non l’oltraggio».
Al di là del legittimo sospetto sul fatto che Craxi potesse essere colpevole, quella scena primitiva si imprime nell’immaginario italiano, accelera un processo di accanimento personalizzato, fa ingresso nel sistema quella «unilateralità di persecuzione giudiziaria» così definita da un uomo prudente come Giuliano Amato: Craxi viene identificato di fatto come unico colpevole per la degenerazione partitocratica e affaristica della vita pubblica italiana. L’onda è quella, come conferma qualche mese più tardi Francesco Rutelli, che pur essendo stato radicale e dunque garantista, dice a «Repubblica»: «Voglio vedere Craxi consumare il rancio nelle patrie galere».
Nel lancio sprezzante delle monetine si condensa un fenomeno psicologico collettivo primordiale e più frequente di quanto comunemente si creda: il capro espiatorio. Fenomeno studiato dall’antropologo francese René Girard, che ha analizzato come e quando su una persona, o su un gruppo, finiscano per scaricarsi colpe che più realisticamente sarebbero da attribuire a sé stessi o da distribuire in modo più diffuso ed equo. In quel modo è come se il ritorno all’ordine e all’innocenza venissero ripristinati attribuendo tutte le colpe a uno solo. E d’altra per Girard «le distorsioni persecutorie», non sono incompatibili «con la verità letterale dell’accusa».
Nel 1994, mentre le inchieste sul malaffare erano ancora in corso, l’ex ambasciatore e storico Sergio Romano scrive su «Limes»: «Dopo aver rifiutato di considerare il fascismo un peccato nazionale ed essersi assolti, per “non aver commesso il fatto”, gli italiani stanno addebitando Tangentopoli a Bettino Craxi e a qualche centinaio di uomini politici, imprenditori, funzionari. Sanno che è una bugia, ma cederanno probabilmente alla tentazione di credervi per assolversi in tal modo anche da questo peccato». Un’autoassoluzione che deriva da un vizio tipico dell’identità italiana, quello descritto da Galli della Loggia: «Tutti gli italiani, da sempre, tendono a usare il pubblico in modo del tutto privato». Il tutto affogato in quel mito (alimentato a sinistra) della “società civile” in contrapposizione al Palazzo, un mito che produrrà qualche equivoco nel corso dei decenni successivi.
«Se resti ti limeranno le unghie…»
Dopo le monetine Craxi comincia ad arrovellarsi. In lui – come emerge dalle confidenze fatte a Umberto Cicconi, il fotografo che apprezzava per la spontaneità ribelle e che era diventato suo amico – si agitano due pulsioni. Quella iniziale è una voce di dentro molto flebile: «Mi intingeranno le dita nell’inchiostro per prendermi le impronte, tutt’al più mi faccio qualche giorno di carcere, ma presto la verità verrà a galla…». Di questa idea era un vecchio amico come Marco Pannella, che un giorno alla Camera gli dice: «Se accetti il carcere, diventerai un punto di riferimento per tutti quelli che ci stanno, ti coccoleranno, ti limeranno le unghie e ne uscirai da eroe». Ma sempre più forte si faceva l’altra voce, quella che gli faceva dire ai figli Stefania e Bobo: «Non mi farò mettere le mani addosso».
Una sera, racconta Cicconi, durante una delle passeggiate in piazza Navona, due persone poterono avvicinarsi a Craxi, curiosamente senza essere fermate (come sempre) dagli uomini della scorta: «Presidente, il momento è pericoloso, se ne vada e non le accadrà nulla…». Craxi lo interpretò come un messaggio dei Servizi e quella sera, racconta Cicconi, «continuammo a passeggiare per molto tempo, ma senza che lui dicesse più una parola». Alle fine decise che era il caso di andarsene. Per Claudio Martelli «è stata una scelta dettata da un misto di orgoglio e di paura» e il quadro psicologico lo completa Giuliano Amato: «Venne preso dall’ossessione che avrebbero finito per arrestarlo e quindi ucciderlo in carcere: andar via, perciò, divenne più importante che difendersi». Ma andare dove? Il primo maggio del 1993 è a Parigi, fa chiedere a Mitterrand se e quando sia possibile incontrarlo, il presidente lo richiama subito e lo riceve quel giorno stesso. Ha raccontato il figlio Bobo, che era con lui: «Quando ritornò era sereno e sorridente, Mitterrand gli aveva fatto un discorso da socialista e da amico». Le porte di Parigi sembravano aprirsi, ma quella sera stessa la televisione francese dette la notizia che Pierre Beregovoy, già primo ministro e uomo di Mitterrand, si era suicidato per una questione di tangenti. Una storia che avrebbe complicato tutto, anche perché il presidente francese – sensibilizzato anche dal Quirinale – fa dire a Craxi che il successivo Presidente della Repubblica avrebbe potuto revocare la concessione e dunque tanto valeva soprassedere. Alla fine Mitterrand, che era molto malato e lo fece sapere a Craxi, non se la sentì.
Ma per tutto il 1993 Craxi si tiene sulla breccia, non si ritira esplicitamente dalla vita politica e non soltanto per orgoglio. Contribuisce a tirare per le lunghe l’estenuata legislatura per una ragione finora rimasta trascurata: «Aveva saputo in anticipo da Berlusconi della sua discesa in politica ma sapeva pure che il Cavaliere aveva bisogno di tempo», racconta uno dei compagni che frequentavano il Raphael. Il calcolo di Craxi era di pura sopravvivenza: se Berlusconi avesse vinto, avrebbe potuto varare l’amnistia capace di risolvere le pendenze giudiziarie. Ecco perché ai primi del 1994 scoraggia Franco Piro che vuol presentare una lista socialista nel centrodestra: «Guai a voi, non si devono togliere voti a Berlusconi».
Prima di lasciare l’Italia, si creano le condizioni per una sua testimonianza al processo Cusani, il 17 dicembre del 1993. A interrogarlo è un Antonio Di Pietro molto rispettoso; durante le risposte più taglienti di Craxi sul Pci, il pm sorride, accarezza il microfono con le labbra. È l’ultima uscita pubblica del leader decaduto. Presentarsi alle elezioni risulta impossibile e dunque cade l’(eventuale) immunità parlamentare davanti a una richiesta di arresto. Il 5 maggio 1994 Bettino Craxi lascia per l’ultima volta il suolo italiano con direzione Tunisi. Non rivedrà più l’Italia, non rivedrà più Milano, se non nelle immagini televisive, che guardava con nostalgia.
L’agonia di Hammamet
Gli ultimi 5 anni e mezzo della sua vita Bettino Craxi li consumerà nella sua casa ad Hammamet, cittadina tunisina dove negli anni Venti avevano villeggiato Paul Klee e André Gide e dove in anni più recenti qua e là erano spuntate le hammametois, ville con splendidi interni e giardini. Ville diverse dalla residenza dei Craxi, che non ha nulla di lussuoso: certamente spaziosa e comoda, non vede il mare, sorge sulla collina che era stata «dei serpenti e degli sciacalli» e che per anni era rimasta decisamente periferica.
Saranno anni amarissimi, vissuti in solitudine, nel gorgo di due sentimenti diversi, la rabbia e l’impotenza, che vissuti assieme moltiplicarono lo stress. E infatti lo stato di salute andò sempre peggiorando: furono frequenti i ricoveri, con Antonio Di Pietro che a un certo punto ebbe la sfrontatezza di definire «foruncolone» un piede in cancrena. Cinque anni di agonia psicologica e fisica, raccontati con sincerità, senza retorica e con affetto nel libro Route el Fawara Hammamet da Bobo, il figlio che Bettino per tutto il tempo volle al suo fianco, oltre alla moglie Anna, finalmente proiettata in una dimensione famigliare dopo decenni di presenza sporadica in casa del marito che, oltretutto – e lo sapevano tutti – aveva un debole per le donne. Aveva vissuto tante avventure e anche una storia importante, quella con l’attrice Anja Pieroni, alla quale aveva regalato l’emittente romana Gbr, sulla quale – lui uomo parsimonioso – aveva investito parecchio.
All’inizio fu «totale isolamento». Al mare andava di rado, «quasi mai nella spiaggia pettinata degli alberghi», preferendo la zona di Selloum, dove alcuni pescatori gli avevano costruito una capanna per ripararsi dal sole. Al fioccare delle sentenze contrarie, «non c’era un cane che telefonasse». Lui all’ombra di un carrubo, che gli ricordava la sua Milano, faceva litografie, scriveva articoli e saggi a penna sulla «falsa rivoluzione», sugli «extraterrestri» che, pur conoscendo quanto fosse ramificata la corruzione, facevano finta di nulla. Una volta, per passare il tempo, scrisse persino un giallo. Ma la sorpresa (postuma) fu un’altra: alla sua morte, quando fu necessario riordinare le carte, Bobo scoprì anche «fogli sparsi, scritti a mano, ma in stampatello: poesie», «alcune d’amore, in versi sciolti», «le uniche carte segrete che ha lasciato». Ma complessivamente erano giornate lunghe e ripetitive. D’inverno «c’erano delle ore pomeridiane particolarmente angoscianti», la conversazione finiva per essere ripetitiva, «ormai ossessivo» era il caso Di Pietro. E quando seppe che Berlusconi gli aveva offerto un posto da ministro, Craxi si adirò e, secondo il racconto di Umberto Cicconi, spaccò il telefono, lanciandolo contro il muro. In quel momento sospettava che un ingresso al governo di Di Pietro avrebbe cancellato ogni possibilità di amnistia. In lui, la notazione amara è sempre del figlio, convivevano «un profondo male di vivere e l’ostinata incapacità di comunicarlo». Per alleviare l’angoscia, parlava molto spesso per telefono col cognato Paolo Pillitteri, ma anche con la sua segretaria Serenella Carloni, con Walter Di Ninno, con Luca Josi, talora con Gianni Baget Bozzo, con Margherita Boniver.
Il Natale si era trasformato in «qualcosa di più triste» del tran-tran, anche se una volta si fecero vivi i lavoratori del Raphael, per fare gli auguri e Craxi «trattenne a stento la commozione». Sporadiche e brevi le gratificazioni: soprattutto in macchina gli piaceva ascoltare le canzoni di Fred Buscaglione, Gilbert Becaud, Nat King Cole, Paolo Conte, Francesco De Gregori, Joao Gilberto, Caetano Veloso. Due volte si presentò in casa l’ex guerrigliero sandinista, poi presidente del Nicaragua Daniel Ortega «in abiti civili e festante», più volte arrivò Yasser Arafat, offrendo a Craxi l’ospitalità a Gaza. Una volta si presentò Lucio Dalla, che improvvisò un breve concerto. Ogni tanto suonava al cancello qualche italiano e una volta arrivarono in casa anche Davide Riondino e Vauro che gli lasciarono un sacchetto di terra italiana: Craxi apprezzò e lo lasciò sempre sul suo tavolo di lavoro.
L’unico legame fisico con l’Italia erano le telefonate, con amici e compagni, ma anche con persone che conosceva appena, alcuni delle quali si ritrovarono coinvolte in colloqui struggenti. Il 29 dicembre 1995 a Milano era morto Umberto Dragone, già dirigente della Lega delle cooperative, che aveva la stessa età di Craxi ed essendo stato un lombardiano, durante l’ascesa e l’apoteosi di Bettino, era sempre rimasto sulla sponda opposta. Certo, Dragone era considerato da tutti un compagno di valore, ma grande fu la sorpresa del figlio Marco, quando sentì suonare il telefonino all’alba: «Sono Bettino…». Parlò per venti minuti di fila, disse al figlio che suo padre «era una persona perbene», ricordò quando lui e Umberto «giocavamo a ping-ping» nelle sezioni socialiste di periferia e alle fine si congedò in un gorgo di commozione.
L’angoscia covava. Racconta Umberto Cicconi: «Una notte eravamo sulla terrazza, sdraiati sui tappeti, al buio, illuminati dalla luna», Craxi guardava verso l’Italia con un barracano addosso che usava per proteggersi dall’umidità notturna e «improvvisamente se lo strinse al viso per non farmi vedere che stava piangendo», «si avvicinò con la sua grande testa sulla mia spalla e lo abbracciai. E in quel momento scoppiò in singhiozzi».
Il salvacondotto che non arrivò mai
Craxi aveva voluto politicizzare i processi, anziché rallentarli con tattiche dilatorie, e le sentenze definitive fioccarono: alla fine del 1999 sono già due (per corruzione e finanziamento illecito al Psi) e altri quattro erano in corso. Il 23 ottobre di quell’anno il Tg2 delle 13 annuncia l’assoluzione di Giulio Andreotti nel processo di Palermo. Come raccontò il figlio Bobo, nel padre c’era «un misto di soddisfazione e di stupore». In quel momento era come se avesse capito che alla fine lui, e soltanto lui, sarebbe rimasto incastrato. A sera disse: «Non sto per niente bene». L’indomani Craxi viene ricoverato nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Tunisi. La diagnosi è molto cruda. Oltre al diabete che ha attaccato la gamba (si era arrivati a ipotizzare l’amputazione) e oltre ai seri problemi di cuore, si scopre un tumore al rene. Da quel momento l’ultimo scorcio della vita di Bettino Craxi si consuma attorno a due angosce intrecciate: la malattia e il possibile ritorno in Italia. Per il complicarsi della malattia si apre un’inevitabile diatriba su dove e su come operare. Si pensa alla Francia, ma Manuel Valls, portavoce del governo francese guidato dal socialista Lionel Jospin, spegne ogni speranza: «L’arrivo di Craxi in Francia non è desiderabile». Per l’ex leader resta il problema: curarsi decentemente ma anche tornare una volta per sempre nel suo Paese.
Si ragiona, ad Hammamet, a Roma e a Milano, attorno a tre strumenti: grazia, amnistia, salvacondotto umanitario. Per un’amnistia generalizzata non ci sono le condizioni politiche, la famiglia stessa se ne rende conto: Tangentopoli è ancora lì e le reazioni dell’opinione pubblica sarebbero molto ostili, controproducenti per tutti: per l’etica collettiva e alla fin fine per lo stesso Craxi. Restano il salvacondotto e la grazia. Stefania Craxi chiede a Giuliano Ferrara di sondare il presidente del Consiglio Massimo D’Alema. La reazione non si fa attendere: ad appena 72 ore dalla sentenza Andreotti, palazzo Chigi fa diffondere una nota che informa come il governo non abbia «certamente nulla in contrario» a un «atto umanitario» che consenta a Bettino Craxi di tornare in Italia per curarsi. Si aggiunge che non spetta al governo «decidere in materia di sospensione o differimento della pena per chi sia stato condannato con sentenze passate in giudicato», perché questa facoltà spetta alla magistratura. Una presa di posizione che ha un nesso diretto con quanto dichiarato in quelle stesse ore dal Procuratore capo di Milano Gerardo D’Ambrosio, che aveva annunciato il parere favorevole della Procura a un differimento della pena per motivi di salute.
A quel punto, siamo alla fine di settembre, si apre uno spiraglio sul quale lavoreranno per tre mesi gli amici e i figli di Craxi. Per trasformare quello spiraglio in un varco servivano atti di volontà, strappi, gesti impopolari. E bisognava convivere con l’irriducibile orgoglio di Bettino Craxi, che non era un malato qualunque: era un uomo pubblico che si sentiva vittima di una persecuzione politica e giudiziaria e dunque, al suo eventuale ritorno in Italia, non intendeva sottoporsi ad uno stato di arresto, seppur temporaneo.
Il presidente del Consiglio D’Alema lontano dai riflettori, tratta con la Procura e la risposta del Procuratore Borrelli è chiara ed è la stessa contenuta in una lettera a Don Verzé, dominus del San Raffaele: «Il rientro volontario dell’onorevole Craxi comporterebbe il suo assoggettamento ai titoli di restrizione della libertà formatisi contro di lui». Diciotto anni dopo sarà D’Alema stesso a confermare una trattativa in una intervista del 2017 al «Corriere della sera»: «Negoziai perché non lo arrestassero. Non fu possibile». In quell’autunno del 1999 ci si muove a tentoni. Per capire se sia percorribile la strada di una grazia presidenziale viene mobilitato Giuliano Vassalli, che chiarisce come stiano le cose: la grazia risolverebbe il problema solo a metà, perché rimuoverebbe gli effetti delle due sentenze che erano già passate in giudicato, ma senza cancellare i procedimenti ancora in corso, per i quali pendevano ordini di cattura non eseguiti. È in quel momento che si accarezza una suggestione, l’unica che avrebbe potuto concretizzarsi: spingere per la grazia, atto simbolico fortissimo e su quella “costruire” una sospensione della pena per i processi ancora in corso.
Per la grazia si muove Don Verzè, che scrive al Capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi: «Craxi è condannato a morte vicina» e privarlo della possibilità di tornare in Italia «equivale a spingerlo nella fossa». Ma su questa fragile ipotesi irrompe Silvio Berlusconi. Il 19 novembre davanti alla platea del congresso dei socialisti di Gianni De Michelis, pronuncia queste parole: «Credo che il capo dello Stato, che noi abbiamo contribuito a eleggere, possa mettere in campo ciò che la Costituzione assegna a lui, affinché questa vicenda possa risolversi presto. Altrimenti rimarrà una macchia sulla storia d’ Italia, ma per fortuna non sulla nostra». Bobo Craxi capisce che Berlusconi l’ha fatta grossa: «La grazia non la concede il capo dell’ opposizione». Ma la frittata, come suol dirsi, è fatta. E infatti Ciampi, tirato nella mischia, è costretto ad esporsi con una nota: «Ferma restando l’ attenzione agli aspetti umanitari della vicenda, la posizione del Capo dello Stato, impone il rispetto pieno, formale e sostanziale, delle leggi della Repubblica e delle procedure che le applicano».
Nel frattempo c’è da allungare la vita a Craxi. I famigliari, costretti a restare in Tunisia, pensano di utilizzare una struttura privata, ma c’è un ostacolo: non si possono offendere i governanti tunisini, che offrono l’ospedale militare, che però non garantisce standard accettabili.
I medici italiani del San Raffaele di Milano, che inizialmente avevano resistito all’ipotesi di intervenire in condizioni approssimative, alla fine accettano: il 30 novembre l’intervento viene realizzato in condizioni di fortuna – una lampada è tenuta a mano da un medico – ma il paziente ne esce vivo. E anche molto provato, in particolare nell’apparato cardiaco, che secondo alcuni avrebbe dovuto essere risanato prima.
Craxi è provatissimo. Per alleviarne le ultime sofferenze, non resta che farlo rientrare in Italia. Nelle ultime settimane del 1999 in Italia si lavora ad un’ultima ipotesi, che sarebbe rimasta sconosciuta anche in seguito: Craxi sarebbe dovuto rientrare a Fiumicino, di lì sarebbe stato trasportato nel carcere di Viterbo (appositamente scelto perché lontano dai riflettori), restando il tempo necessario agli arresti in infermeria, uno o due giorni, per accettare una domanda per i domiciliari. A quel punto sarebbe stato trasferito al San Raffaele di Milano.
Conferma Marco Minniti, allora braccio destro di D’Alema: «Sì, esisteva un’ipotesi di quel tipo. Tutti i margini furono esplorati senza confliggere con l’ordinamento del Paese». Ma quel corridoio non si aprì ma fu proprio Craxi – pur non conoscendo nei dettagli il piano che era stato preparato – a dire no ad un rientro «condizionato». Uno degli ultimi giorni dell’anno, con una voce flebile, telefonò a Donato Robilotta, un compagno socialista che lavorava a palazzo Chigi e gli disse: «Sono Bettino, dillo a quelli là, che io in Italia ci torno soltanto da uomo libero... Piuttosto muoio qui, in Tunisia...».
E in quel no finale c’è tutto Craxi. Piaccia o no, un uomo tutto d’un pezzo. Pronto a mettere in gioco la sua stessa vita, pur di non subire l’umiliazione di una carcerazione, anche di una sola notte, su mandato di quei magistrati di cui non riconosceva l’autorità. Protagonisti, a suo avviso, di un «complotto giudiziario». Ma rinunciando a qualsiasi via d’uscita, Craxi era pienamente consapevole a cosa stesse andando incontro. Francesco Cossiga era andato a trovarlo il 18 dicembre e da lui Bettino si era congedato al solito modo, facendo finta di avere altro da fare. Ma quella volta, con le forze che gli restavano, mentre l’altro stava uscendo, richiamò ad alta voce l’ospite oramai sulla porta: «Francesco!». Quello rientrò e Craxi disse: «Tu lo sai, vero, che questa è l’ultima volta che ci vediamo...». Era vero. Il 19 gennaio del 2000, verso le 5 della sera, la figlia Stefania, inquietata dal prolungarsi del pisolino pomeridiano del padre, entra in stanza e lo trova senza vita, con un grosso ematoma all’altezza del cuore e una smorfia di dolore sul viso, angosciosa e indimenticabile per tutti quelli che la videro anche nelle ore successive, perché risultò irriducibile per chi ricompose la salma.
Era stata «una morte amarissima, senza riscatto, profondamente disperata», come scrisse Giuliano Ferrara. Il presidente del Consiglio Massimo D’Alema offrì i funerali di Stato, la famiglia li rifiutò e dal giorno del funerale nella Cattedrale di Tunisi, Bettino Craxi riposa nel piccolo cimitero cristiano di Hammamet, in una tomba scavata nella sabbia e dominata da un eloquente epitaffio: «La mia libertà equivale alla mia vita».
Vent’anni dopo
Bettino Craxi era morto ad Hammamet il 19 gennaio del 2000 e se nei giorni precedenti fosse rientrato in Italia per curarsi, sarebbe stato accolto in aeroporto dai carabinieri, nella sua qualità di latitante. E d’altra parte se il giorno della sua scomparsa la famiglia Craxi avesse accettato l’offerta del governo italiano, la salma del leader socialista sarebbe rientrata in Italia per essere onorata con i funerali di Stato. Una contraddizione a lungo rimossa, ma che sul breve produce un effetto paradossale: le celebrazioni ufficiali per Craxi si sdoppiano e il ricordo si smembra.
I due funerali
Il 20 gennaio, in seduta straordinaria, la Camera dei deputati ricorda l’ex presidente del Consiglio con toni solenni: intervengono sia il presidente dell’assemblea, Luciano Violante, sia il presidente del Consiglio Massimo D’Alema. Due ex comunisti, che avevano osteggiato Craxi con tutte le armi disponibili e che in questa occasione dispiegano parole non di circostanza. Dopo alcune premesse per nulla scontate – come gli accenni alla battaglia craxiana contro il «conservatorismo privo di futuro» della Dc e del Pci – il presidente della Camera chiude con parole ispirate: «La tentazione di calare il sipario, pronti alla recita del giorno dopo, può fare aggio su tutto, ma questa volta non può essere così», perché «il senso complessivo della sua vita non può essere attinto» solo da processi e condanne, perché «la morte di un uomo così complesso, oggetto di tanti odi e di tanto affetto» e destinatario di apologie e di tradimenti, «come forse nessun altro italiano della nostra epoca, non è una porta che si chiude. È una porta che si apre». E Massimo D’Alema segue una traccia simile: «Non è più tempo di recriminazione, solo la storia giudicherà grandezza ed errori». Ha scritto Barbara Spinelli in un gran libro, Il sonno della memoria: «In mezzo all’emiciclo, sia pure fantasmaticamente, campeggiava la bara del defunto» e nel suo ricordo «si sprecavano i panegirici sull’imponenza del suo operato» e chi «più l’aveva vituperato a sinistra, vestiva l’abito dell’agnello».
L’indomani la cerimonia funebre è officiata da Foud Twal, vescovo di Tunisi, che a un certo punto scandisce: «Beati i perseguitati per causa della giustizia perché di essi è il Regno dei cieli». Una frase decisamente hard che viene salutata dall’applauso della folla. Fischi e anche qualche insulto pesante investono, invece, i due importanti esponenti del governo D’Alema, il ministro degli Esteri Lamberto Dini e il sottosegretario alla Presidenza Marco Minniti. Quei fischi testimoniano uno stato d’animo esacerbato, ma lo sdoppiamento delle presenze dello Stato dimostra che qualcosa si era smosso. Qualcosa che però restò a lungo limitato ai piani alti delle classi dirigenti. Nulla o quasi, per anni e anni, basta a muover le corde immobili dell’immaginario collettivo. Fisse nel giudizio “istintivo” su Craxi, sul quale ha continuato a pesare anche la fuga all’estero. Ha scritto Giuliano Ferrara: «Giuridicamente era un latitante il fuggiasco di Hammamet», «ma storicamente era un capo politico in esilio, al culmine di una campagna di odio e di linciaggio senza precedenti nella vicenda della nazione». Sul tema la battuta più vivida l’ha pensata Umberto Bossi che nel luglio del 1993, ben dieci mesi prima che Craxi lasciasse per sempre l’Italia, disse: «I re, quando scoppiano le rivoluzioni, non sono mai destinati alla galera. O salgono sulla ghigliottina o muoiono in esilio. Craxi ha già scelto l’esilio».
Il revisionismo carsico
E comunque, al di là della definizione della sua condizione in Tunisia durante la sua esistenza e negli anni seguiti alla sua morte, molto ha pesato quella che lo storico Luigi Musella definisce «la rappresentazione fortemente costruita di Craxi». In particolare da parte del giornale «la Repubblica» e del suo direttore Eugenio Scalfari, che ha potentemente contribuito a forgiare un racconto molto ben scolpito e orientato del personaggio e degli eventi.
E così, per diversi anni l’asprezza delle vecchie contese è come se avesse congelato gli opposti pregiudizi su due definizioni rassicuranti per le diverse correnti di pensiero: Craxi il ladro e il Craxi perseguitato. E la tenacia di questi sentimenti è confermata – ben dieci anni dopo – dalla reazione a un evento irrituale: la lettera aperta che il Capo dello Stato Giorgio Napolitano invia alla vedova di Craxi nel decennale della scomparsa del marito. Significativo il gesto simbolico, che rompe un lungo isolamento attorno alla figura di Craxi, ma importanti anche le espressioni usate. Una in particolare: «È un fatto che il peso della responsabilità per i fenomeni degenerativi ammessi» fosse poi «caduto con durezza senza eguali sulla sua persona». Per la prima volta, dalla più alta delle istituzioni, veniva chiamato in causa il rito del capro espiatorio. Ma per i principali quotidiani le novità concettuali proposte dal Capo dello Stato saranno lasciate cadere.
Un anno e mezzo dopo l’ex Capo della Procura di Milano Francesco Saverio Borrelli pronuncia una frase che diventa memorabile: «Non valeva la pena buttare all’aria il mondo precedente per cascare in quello attuale». Non è un’assoluzione postuma di Craxi, ma era stato il vice di Borrelli, il procuratore aggiunto di Milano Gerardo D’Ambrosio, ad aprire la strada a un revisionismo soft, alleggerendo l’ex leader dal sospetto più infamante. In una intervista al «Foglio» del 1996, D’Ambrosio aveva detto che in Craxi la propensione a violare la legge non era stato l’arricchimento personale.
Ma per vie carsiche via via qualcosa si smuove anche nell’opinione pubblica di sinistra. Su questo fronte era avanzato un “revisionismo dall’alto” inaugurato nel 2003 da Piero Fassino, in quel momento segretario dei Ds, che nel suo libro autobiografico Per passione aveva iniziato una riconsiderazione del personaggio, culminata in una definizione chiara: «Craxi è profondamente uomo di sinistra» ed ha colto «molto prima di altri, e non tra poche incomprensioni, l’esigenza di modernizzazione». Altrettanto significative, perché pronunciate da uno scrittore di successo, sono le parole di Francesco Piccolo, autore de Il desiderio di essere come tutti, autobiografia e manifesto di liberazione dai luoghi comuni della sinistra da parte di una generazione cresciuta nel mito di Berlinguer. In una intervista all’«Espresso» del novembre 2013, Piccolo racconta di essere stato da ragazzo un fan del segretario del Pci, ma il “culto” berlingueriano «per i valori perduti e il fastidio per il progresso, ci aveva condannato a essere reazionari», mentre Craxi «io l’ho odiato come tutti i comunisti, ma sbagliavo», perché il leader socialista, «all’inizio è stato un interprete acuto dei bisogni della società. Aveva una forza progressista che a noi mancava» e diceva «giustamente che Berlinguer vedeva ancora il mondo in bianco e nero». Come in occasione della guerra contro il decreto di San Valentino, «che fortunatamente abbiamo perso».
Se nella versione del Premio Strega 2014 Craxi è moderno e Berlinguer suscita pensieri reazionari, Massimo D’Alema dà il suo contributo a sfatare il più potente degli anatemi berlingueriani: quello della mutazione genetica. In una intervista al «Corriere della sera» del 27 settembre 2017 il primo presidente comunista della storia italiana afferma: «Nonostante la forte carica anti-comunista, è sempre stato un uomo di sinistra».
Allo sblocco dei ghiacciai contrapposti nel corso degli anni contribuiranno per altro verso anche il lavoro di scavo e di analisi critica, attraverso saggi e convegni, promossi dalla Fondazione Craxi guidata dalla figlia Stefania, che ha anche contribuito a tener vivo il fiero cipiglio paterno, dalla Fondazione Socialismo di Gennaro Acquaviva e dalla rivista «Mondoperaio» guidata da Luigi Covatta. Contributi che, con l’apporto di protagonisti e di storici, hanno favorito una lettura meno ingessata della storia del Psi: al netto di alcune, inevitabili pagine apologetiche, si tratta di materiali attraversati da quello spirito critico e autocritico, tipico della tradizione socialista e che di recente si è espresso in qualche misura anche sulla storia comunista e assai meno attorno alla storia della Dc.
Sulla Rete, ma anche nella discussione pubblica sui media tradizionali, un certo disgelo si è manifestato, curiosamente e inaspettatamente, in correnti di opinione assai lontane tra loro: tra i nostalgici della Prima Repubblica, con l’idea che “quelli di prima” erano comunque meglio di quelli di adesso; tra quei fautori delle forze antisistema, che di Craxi hanno riscoperto l’ostinazione nel tener duro davanti ai “poteri forti”. Lo dimostrano le centinaia di migliaia di visualizzazioni su Youtube di due video: uno che risale al 1992 e nel quale Craxi profetizzava il fenomeno delle migrazioni, definendolo «la questione sociale del nostro secolo» ed un altro – che risale ad una intervista del 1997 – nel quale, vaticinando un’Europa matrigna, auspica la revisione dei parametri di Maastricht. Persino nella Lega, che osteggiò Craxi e i leader della Prima Repubblica nel modo più lapidario (arrivando ad ostentare un cappio nell’aula di Montecitorio), sul finire del 2019, si sono manifestate tracce di simpatia molto postuma, valorizzando decisionismo e orgoglio nazionale. Un atteggiamento diverso lo dimostra anche la decisione di Rai Cinema, assunta all’inizio del 2018, di investire su un film dedicato agli ultimi anni di Craxi, affidato a un autore come Gianni Amelio e a un attore di successo come Pierfrancesco Favino.
La “politica prima di tutto”: inizio e fine di un’avventura
Nell’epitaffio che Craxi volle sul marmo della sua tomba è scritto: «La mia libertà equivale alla mia vita». Non è una semplice frase evocativa, o solo polemica col destino che gli era toccato. Lì c’è tutto Craxi. C’è il bambino “difficile” che si ribella alle costrizioni: viene mandato in collegio e non ci torna volentieri. C’è il ragazzino che in Prefettura si prende la libertà di rubarsi una Colt e di nasconderla sotto il suo materasso. C’è il ventenne che si ribella ai comunisti che dominano la sinistra a Milano ma anche nell’Est europeo. E c’è il ragazzo che non si rassegna a trasmigrare e a intrupparsi nei correntoni di maggioranza del Psi, ma resta un minoritario e da lì si conquista il suo destino.
Dagli anni Cinquanta in poi per Craxi l’affermazione della propria libertà resterà sempre la molla interiore che precede e accende tutto il resto. Per lui la leva per affermare la propria libertà sarà una sola: la politica. Gli fu naturale sposare il motto preferito da Pietro Nenni: la politique d’abord. La politica prima di tutto, la politica come sovrana della sua vita. Sarà un “di più” di politica che gli farà vincere tutte le sue battaglie più importanti, sarà un “di più” di politica che gli farà perdere le battaglie finali.
È evidente che la scommessa nel primato della politica si ritrova nel coraggio di tenere il punto dopo le ripetute sfide che gli lanciarono piazze oceaniche e moltissimo ostili: quelle dei pacifisti contro gli euromissili e quelle contro il decreto di San Valentino. Una tenuta che consolidò effetti politici irreversibili: la caduta dei regimi dell’Est europeo non è un effetto diretto della decisione dei socialisti italiani, ma – come si è visto – senza quel posizionamento, qualcosa di diverso sarebbe accaduto sullo scacchiere strategico europeo. E col referendum vinto sulla scala mobile finisce il mito del salario come variabile indipendente.
Affermare il primato della politica fu non cercare a tutti i costi l’avallo preventivo dei poteri forti: non per caso l’accordo sulla scala mobile stava per saltare per l’ostilità di mezza Confindustria. Verso le classi dirigenti nel loro complesso Craxi coltivò, quello che Galli della Loggia ha definito «un sentimento di superiorità e di diffidenza».
Naturalmente, in politica interna come in politica estera, ogni scelta era impastata anche d’altro rispetto al primato della politica o all’affermazione di uno spirito di libertà: interessi, calcoli, investimenti a futura memoria, vantaggi materiali e finanziari. Ma soltanto la persistenza di un tenace spirito indipendentista e libertario riesce a spiegare l’inspiegabile: Craxi fu al tempo stesso uno degli artefici determinanti dell’installazione in Europa degli euromissili, facendo un regalo strategico agli americani, ma poi fu quello che li sfidò a Sigonella e poi in modo indiretto anche nel Mediterraneo, quando fece avvisare dai Servizi Gheddafi che l’Air Force stava per scaricargli sulla testa missili letali.
L’altra faccia della luna
Però Craxi ad un certo punto si perse. E non per un complotto studiato da una centrale operativa, ma semmai per un concorso di mani. Pulite, meno pulite, tutte ostili. E al proprio destino contribuì anche con le proprie mani. Per Craxi la contestazione dell’egemonia comunista riassume quasi intero il senso di una vita e l’anticomunismo restò come un altoforno sempre acceso: alimentò tante scelte politiche controcorrente, dagli euromissili al decreto di San Valentino. Una “fede” che gli consentì di resistere alla sfida e all’ostilità personalizzata di tante campagne: politiche, mediatiche, di piazza. Lo spinse – caso isolato tra i governanti europei – nel sostegno esplicito e militante verso i dissidenti dei regimi dell’Est, ottenendo la libertà per alcuni di loro. Che riconobbero – da Sacharov ad Havel, da Dubcek a Walesa – che Craxi era stato uno dei pochi non solo a sostenerli, ma a non cedere alla realpolitik dei principali leader europei, socialisti compresi. Ma quando cadde il Muro di Berlino e il nemico non c’era più, Craxi pensò che bastasse la rappresentazione visiva dei calcinacci per prendersi la sinistra: aprì ai post-comunisti ma per annetterli. Non seppe attendere. Per dirla con Rino Formica non riuscì a liberarsi da un «chiodo fisso». E quelli cavalcarono Mani pulite.
Primato della politica significa anche saper impiantare una leadership popolare. Tra i due modelli machiavelliani di principe – quello che si fa amare e quello che si fa temere – Craxi scelse il secondo: «Non ebbe mai il sorriso sulle labbra», ha annotato Giuliano Ferrara. Questo non gli giovò e non si fece mai aiutare dai comunicatori per stemperare quel broncio da antipatico che sicuramente pesò assai nella conquista del consenso. Craxi non ebbe quel sorriso per indole, ma anche per scelta consapevole. Certo, personalizzò la sua leadership (fu il primo), certo provò (malamente) a comunicarla, ma non usava dir bugie, disdegnò l’ipocrisia, fu egocentrico ma non narcisista: in parole povere non sposò mai la scorciatoia della demagogia o del populismo. Craxi non potè essere mai un leader populista e neppure popolare, per uno smisurato orgoglio e per l’alta considerazione di sé, ma anche per quella sua «trasgressività indomabile al conformismo», che come ha scritto in una bella pagina Claudio Martelli, lo portava a mostrarti sempre «l’altra faccia della luna, il volto umano dei malgiudicati e degli esclusi, dei potenti sconfitti e decaduti e, all’opposto, il lato livido, oscuro, dei potenti aureolati di virtù e di successo».
E quando il vento girò, all’appuntamento con chi lo voleva morto, il capo socialista si presentò solo. La sua abilità nel combinare le coalizioni e nel far fruttare la propria rendita di posizione, in altre parole la sua arte politica, avevano finito per renderlo, certo non indifferente, ma neppure motivatissimo nella caccia al consenso elettorale. E in quella conquista, Craxi sottovalutò enormemente il peso della questione morale (che Berlinguer capì) e d’altra parte nella provvista centralizzata, estesa e illegale delle risorse per il partito, si concentrò quell’eccesso di “politica” che lo portò alla rovina.
E non valutò appieno il peso specifico dell’”intellighenzia” nella società italiana. Un segmento sociale che, nella fine analisi di Luciano Cafagna, non va confuso con gli intellettuali di area socialista e neppur con la cultura, bassa o alta che sia. Ma si identifica con quei vettori di opinione che «gli intellettuali assolvono nei mass-media, nei corpi costitutivi dello Stato, come burocrazia e magistrati e nell’insegnamento». Una “energia informazionale” che sta tra il razionale e l’emotivo, e che Craxi sottovalutò. Più in generale capì cose che avrebbero potuto portarlo a fare «una di quelle rivoluzioni che sfondano e creano un mondo nuovo» ma se non hai la tempra e il “genio” per andare sino in fondo, «il solo fatto di averle capite non basta e finisce per ucciderti».
L’ultimo leader della Prima Repubblica
Con i suoi limiti e con i suoi errori, che cari gli costarono, Craxi depositò alcuni “precedenti” che col tempo sono diventati proverbiali nell’immaginario collettivo, quasi sempre restando pietre miliari in attesa di replica. Craxi passa alla storia per il suo decisionismo, anche se la sua originalità sta nel modo in cui declinò quella vocazione: dimostrando che al momento opportuno si può scartare in modo secco. Si può decidere, anche sfidando l’opinione prevalente. Ma questa fu allora – e restò nei decenni successivi – una chance nuova: già da diversi anni i governi, di mediazione in mediazione, preferivano rinviare le scelte più impegnative e questo atteggiamento aveva contribuito a rallentare la crescita del Paese e successivamente avrebbe portato l’Italia alla stagnazione. E avrebbe portato anche ai leader-follower. E alla progressiva dispersione dei leader-leader.
Craxi ha lasciato la prova che davanti al bivio secco, si può prendere la strada più pericolosa e presidiata da meno pubblico plaudente. E alla lunga, se è fatta nell’interesse generale, quella scelta paga. Certo, il suo decisionismo si espresse in alcune situazioni particolari: davanti ad emergenze, non in modo sistematico e senza un compiuto disegno progressista. Ma Craxi, quando prese la guida del suo partito, il rapporto di forze tra il Psi da una parte e Dc-Pci era di 7 a 1. E dunque si mosse come un trapezista tra l’ostilità dei due partiti-guida. Provando al tempo stesso a produrre fatti politici e a crescere elettoralmente ai danni dei suoi concorrenti. Eppure, con i suoi limiti personali e quelli di un contesto complicato, Craxi dimostrò che una minoranza, se ci crede e conduce un’argomentata battaglia delle idee, può invertire egemonie e tendenze. Come nel caso della sua “fede” anticomunista: tenne duro, quando a cavalcarla, si rischiavano carriere e si dovevano mettere nel conto roghi polemici e l’ostilità di cortei sterminati.
Certo, scommettere sulla fagocitazione dei comunisti sconfitti, accelerò la sua caduta. Ma probabilmente quello era il destino di un personaggio che, affermando il primato della politica, aveva scelto di osare, rischiare, toccare i fili dell’alta tensione. Assieme a lui si dissipò anche il bene più prezioso della sua stagione e di chi lo aveva preceduto al governo dell’Italia: il primato della politica. Ha scritto Marco Damilano nel suo bel libro su Aldo Moro, Un atomo di verità, che Craxi e Moro furono due leader «completamente diversi, opposti», uno incarnava il potere forte e della rapidità, l’altro il potere fragile e della lentezza, eppure si ritrovarono uniti dalla fine cruenta del loro tragitto: «la Repubblica ha cominciato la sua agonia il 16 marzo 1978 e poi il 9 maggio con la morte di Moro. E terminò nel giorno del lancio delle monetine contro Craxi. Dopo è stato impossibile ricostituire un tessuto civile, sociale e politico in cui riconoscersi».
Aldo Moro provò a superare Jalta undici anni prima della caduta del Muro di Berlino ma proprio negli ultimi giorni del rapimento Craxi capì che il tentativo di salvare lo statista democristiano era caduto nell’ostilità delle super-potenze, che avevano firmato quel trattato e non volevano eccezioni. Moro e Craxi rifiutarono entrambi i funerali di Stato: erano convinti di essere diventati vittime sacrificali del rito del capro espiatorio. Tutti e due vollero riposare per sempre in cimiteri appartati. La tomba di Moro, quasi nascosta nell’angolo estremo del cimitero di Torrita Tiberina, è disadorna e soltanto il nome scolpito nel marmo, ricorda chi lì sia seppellito. Quella di Craxi, nel cimitero cristiano di Hammamet, è scavata nella sabbia, tra tombe di coloni francesi e la lapide di un bimbo che «visse tra due crepuscoli». Al cattolico in preghiera può capitare di ascoltare la voce del muezzin.
Prima di congedarsi, entrambi vollero lasciare parole destinate a turbare un ricordo pacificato della loro memoria. Moro scrisse che «sarebbe rimasto ancora come un punto irriducibile di contestazione e di alternativa». Craxi, sfidando il detto “guai ai vinti”, disse che non avrebbe lasciato scrivere la storia italiana ai vincitori. Per diversi anni la memoria di Craxi è rimasta una suggestione emotiva, ma tanti segnali dicono che è arrivato il tempo per capire ancor meglio, oltre gli opposti pregiudizi, quale sia stato tra luci e inevitabili ombre il suo contributo nel consolidamento della democrazia in Italia e nella conquista della libertà in tanti Paesi oppressi dalla dittatura.
Bibliografia
Una gavetta lunga 24 anni
Sull’infanzia, la giovinezza e i primi anni di attività politica di Craxi: G. Galli, Benedetto Bettino, Bompiani, Milano 1982; I. Pietra, E adesso Craxi, Rizzoli, Milano 1990; U. Intini, Craxi, Una storia socialista, Edizioni di Mondoperaio, Roma 2000. Ricco di fatti e di letture su personaggi ed eventi: C. Martelli, Ricordati di vivere, Bompiani, Milano 2013. U. Finetti, Storia di Craxi, BE Editore, Milano 2008. Sul primo viaggio di Craxi a Praga, decisiva la testimonianza contenuta in C. Ripa di Meana, L’ordine di Mosca. Fermate la Biennale del dissenso, Liberal, Roma 2007.
Fondamentale, non solo per i primi anni ma per tutto l’arco dell’esistenza del leader socialista, l’ampia, documentata biografia: M. Pini, Craxi, Mondadori, Milano 2007. Di solido taglio storico: L. Musella, Craxi, Salerno Editrice, 2007 Roma. Sempre su questo periodo della vita del leader socialista, testimonianze, di Craxi stesso e di suo padre, sono contenute nel documentario Benedetto Craxi, regia F. Martinez, intervista L. Josi, Eisensteinmultimedia, 2009. Sulla Milano degli anni Sessanta e l’attività dei giovani autonomisti: il documentario Milano o cara, con la regia di Paolo Pillitteri e la sceneggiatura di Bettino Craxi e Carlo Tognoli. Ma anche il saggio Milano o cara di Paolo Pillitteri in Inventario dell’archivio Craxi, a cura di G. Volpi, Fondazione Craxi, Roma 2008.
Per la storia del Psi che precede la segreteria Craxi: G. Galli, Storia del socialismo italiano, Baldini & Castoldi, Milano 2007; U. Intini, Avanti! un giornale un’epoca, Ponte Sisto, Roma 2012; S. Di Scala, Da Nenni a Craxi, Sugar.co, Milano 1991; G. Sabbatucci, Il riformismo impossibile, Laterza, Roma-Bari 1991; A. Giolitti, Lettere a Marta, il Mulino, Bologna 1992. Un libro fondamentale per la lettura critica del riformismo in Italia negli anni che precedono l’avvento di Craxi, per quelli nei quali è leader, per quelli che seguono: L. Covatta, Menscevichi, Marsilio, Venezia 2005. Alcuni spunti in: P. Nenni, Socialista libertario giacobino, a cura di Paolo Franchi e Maria Vittoria Tomassi, Marsilio, Venezia 2016.
Per inquadrare, dentro un contesto più ampio, l’intera vicenda politica di Craxi e per una lettura in profondità della storia politica, economica e sociale dell’Italia del secondo dopoguerra: G. Amato Graziosi Grandi illusioni, il Mulino, Bologna 2013. Si veda anche G. Crainz, Autobiografia di una Repubblica, Donzelli, Roma 2009.
La presa del potere
Per un’analisi puntuale dell’ascesa di Craxi, della stagione da segretario del Psi, da presidente del Consiglio e di nuovo da segretario: S. Colarizi, M. Gervasoni, La cruna dell’ago, Laterza, Roma-Bari 2005. Sul contesto politico e sociale nel quale si colloca la presa del potere da parte di Bettino Craxi e anche sugli eventi successivi imprescindibile: S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, Marsilio, Venezia 1992. Una splendida descrizione di Craxi negli anni Settanta è contenuta nell’apposito capitolo, in E. Bettiza, Corone e maschere, Mondadori, Milano 2001.
“O scassacazzi”, una rottura antropologica a sinistra
Sul salto antropologico introdotto da Bettino Craxi nella tradizione della sinistra italiana e anche per una lettura fuori dal seminato il racconto di F. Ceccarelli, Invano, Feltrinelli, Milano 2018. Con un’angolazione diversa: E. Galli della Loggia, Credere tradire vivere, il Mulino, Bologna 2016. M. Gramaglia, La morale, il linguaggio, le donne, ne La questione socialista, Einaudi, Torino 1987. Sulla discontinuità etica e di costume ma più in generale su tutta la vicenda politica e ideale di Craxi, sul rapporto con i soldi e la questione morale: L. Cafagna, Una strana disfatta, Marsilio, Venezia 1996.
Sulla Milano a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta e in particolare su quella che gravitava attorno al mondo socialista, fondamentale la ricostruzione in B. Pellegrino, L’eresia riformista, Guerini e associati, Milano 2010. Interessanti spunti in V. Emiliani, Benedetti, maledetti socialisti, Baldini & Castoldi, Milano 2001. Sul giudizio espresso da Francesco De Martino sul giovane Craxi, si veda: V. Cattani, Infanzia di un capo, in «Avanti!», 18 gennaio 2005.
Sull’atteggiamento del gruppo dirigente del Pci rispetto a Craxi: A. Tatò, Caro Berlinguer, Einaudi, Torino 2003; G. Fasanella D. Martini, D’Alema, Longanesi, Milano 1995; M. Mafai, Botteghe oscure, addio, Mondadori, Milano 1997.
L’assillo dei soldi
Sulle modalità di finanziamento dei partiti durante la Prima Repubblica: P. Melograni, Dieci perché sulla Repubblica, Rizzoli, Milano 1994. Sui finanziamenti dei sovietici al Pci e anche al Psi: V. Zaslavsky, Lo stalinismo e la sinistra italiana, Mondadori, Milano 2004. Sui rapporti finanziari tra Pcus e Pci: G. Cervetti, L’oro di Mosca, Dalai, Milano 1999.
Sul rapporto di Craxi con i finanziamenti illegali, interessanti i contributi di F. Cicchitto, C. Martelli, G. La Ganga, G. Amato contenuti tutti in Il crollo – Il Psi nella crisi della Prima Repubblica, a cura di G. Acquaviva e L. Covatta, Marsilio, Venezia 2012. Si veda anche F. Cossiga con Pasquale Chessa, Italiani sono sempre gli altri, Mondadori, Milano 2007.
Interessanti i ricordi su Ligresti e sul carattere parsimonioso del leader socialista contenuti in: B. Craxi G. Pennacchi, Route el Fawara, Hammamet, Sellerio, Palermo 2003.
Un socialista anticomunista
Per la ricostruzione puntuale di tutto ciò che precede e segue l’organizzazione della Biennale sul dissenso nei Paesi dell’Est: C. Ripa di Meana, L’ordine di Mosca, cit. Sul carattere dirompente dell’anticomunismo di Craxi nella sinistra italiana, una bella testimonianza: G. Mughini, Bettino aveva energia smisurata, era barbarico ogni suo gesto, in «Il Foglio quotidiano», 18 gennaio 2001.
Sulla politica ideologica e culturale, B. Craxi, Il Vangelo socialista, a cura di V. Dagnino, L. Pellicani, G. Scirocco, Aragno, Torino 2018.
Gli intellettuali disorganici
Sul rapporto tra Psi e intellettuali negli anni Cinquanta: F. Fortini, Dieci inverni, De Donato, Bari 1972.
Sul rapporto tra il Pci e gli intellettuali d’area o iscritti al partito, una ricostruzione esauriente e convincente in F. Cicchitto, La linea rossa, Mondadori, Milano 2012. Sulla stagione di «Mondoperaio» e sui rapporti tra il leader socialista, la rivista e gli intellettuali: P. Borioni F. Coen, Le cassandre di Mondoperaio, Marsilio, Venezia 1999. Importanti le riflessioni contenute in L. Covatta, Menscevichi, op. cit.
L’indagine parallela per salvare Moro
Sulle diverse iniziative intraprese da Craxi durante il rapimento di Aldo Moro, innovativi gli approfondimenti realizzati dalla Commissione Moro, in parte contenuti in G. Fioroni, Relazione finale sull’attività svolta approvata il 7 dicembre 2018 in Doc. XXIII. N. 29. Le risultanze più significative sono contenute in M.A. Calabrò G. Fioroni Moro, il caso non è chiuso, Lindau, Torino 2019.
Sulla vicenda politica ed umana di Aldo Moro, ma anche su alcune analogie col destino di Craxi: M. Damilano, Un atomo di verità, Feltrinelli, Milano 2018.
Interessante la testimonianza sul pensiero di Craxi contenuta in F. Mitterrand, La paglia e il grano, Marsilio, Venezia 1981.
I missili socialisti che affondano l’Urss
Sul contesto storico-politico: E. Di Nolfo in Il crollo, op. cit.; F. Cossiga, Italiani sono sempre gli altri, cit. Molto interessante la testimonianza sul pensiero dell’ex Consigliere la sicurezza del presidente Carter, Zbignew Brzezinski contenuta in U. Intini, L’occasione mancata della sinistra italiana, in «ilsocialista.com», 4 novembre 2009.
A Palazzo Chigi. Con la migliore élite
Sugli anni di palazzo Chigi e sul patto della staffetta, la testimonianza di Fabrizio Cicchitto, Gianni De Michelis, Giuseppe La Ganga in Il crollo, cit. Sulla firma del nuovo Concordato, G. Acquaviva, La grande riforma del Concordato, Marsilio, Venezia 2006. Sui rapporti tra tecnici e politici: A. Funiciello, Il metodo Machiavelli, Rizzoli, Milano 2019.
Sulla sistematica opposizione esercitata al governo dalla Dc e dal Pci interessanti le testimonianze contenute in A. Tatò, Caro Berlinguer, cit.; A. Maccanico, Con Pertini al Quirinale, il Mulino, Bologna 2014.
La scala mobile, una battaglia “impopulista”
Nella ricostruzione della vicenda della scala mobile essenziale è P. Carniti, Passato prossimo, Castelvecchi, Roma 2019. Interessante la testimonianza di Craxi nel documentario La mia vita è stata una corsa, regia di P. Pizzolante, Minerva 2012.
Sulla divisione all’interno del Pci: U. Finetti, Botteghe Oscure: il Pci di Berlinguer & Napolitano, Ares, Milano 2016. Sul pensiero e sulla prassi economica di Craxi: G. De Rita, Leadership e decisionismo nell’esperienza di Craxi, in Decisione e processo politico. La lezione del governo di Craxi (1983-1987), a cura di G. Acquaviva, L. Covatta, prefazione P. Craveri, Marsilio, Venezia 2014.
Sigonella e la scoperta dell’orgoglio nazionale
Per la ricostruzione puntuale della vicenda: F. Gerardi, Achille Lauro: operazione salvezza, Rusconi, Milano 1986. Per la lettura politica: F. Cossiga, Italiani sono sempre gli altri, cit.
Per la riconciliazione tra Craxi e Reagan e più complessivamente sulla politica estera della presidenza socialista: G. Acquaviva, A. Badini La pagina saltata della Storia, Marsilio, Venezia 2010.
Sale il debito, scende l’inflazione, l’Italia si stabilizza
Sull’andamento dell’economia e delle finanze italiane negli anni Settanta e Ottanta e sull’atteggiamento delle forze politiche, G. Amato A. Graziosi, Grandi illusioni, cit. Sui rapporti tra Craxi e Berlusconi nella fase del decreto salva-tv: M. Travaglio, Berlusconi-tv: un impero nato per decreto-Craxi, in «l’Unità», 20 ottobre 2004. U. Gentiloni Silveri, Storia dell’Italia contemporanea, Mulino, Bologna 2019.
Interessanti valutazioni di parte comunista in: M. D’Alema, A Mosca l’ultima volta, Donzelli, Roma 2004. Sul carattere stabilizzante della presidenza Craxi: G. Baget Bozzo, Cattolici e democristiani, Rizzoli, Milano 1994; P. Craveri, Prefazione, in Moro-Craxi, Marsilio, Venezia 2009.
Capo, accentratore, mai populista
Un commento fuori dal coro sul congresso Psi di Palermo in L. Sciascia, Propositi giusti, applausi sbagliati, in «Giornale di Sicilia», 28 aprile 1981, mentre su quello di Verona si può vedere N. Bobbio, La democrazia dell’applauso, in «La Stampa», 15 maggio 1984.
Oltre ad una valutazione complessiva sulla figura di Craxi, un riferimento all’attitudine leaderistica in: G. Arfè, L’audace parabola del craxismo, in «Aprile», gennaio 1999. Sul decisionismo, L. Cafagna, Una strana disfatta, cit.
Sul linguaggio usato da Craxi e dai politici della Prima Repubblica: G. Antonelli, Volgare eloquenza, Laterza, Roma-Bari 2017. Sull’attitudine alla comunicazione di Craxi e sul suo approccio alle riforme istituzionali, prezioso: G. De Rita, in Leadership e decisionismo nell’esperienza di Craxi, cit.
La prima analisi sulla comunicazione politica in Italia e in particolare su Craxi in: G. Statera, La politica spettacolo, Mondadori, Milano 1986.
Il duello con Berlinguer e l’irruzione dell’odio nella politica italiana
Sui rapporti tra Craxi e Berlinguer: F. Barbagallo, Introduzione, in Caro Berlinguer, cit.
Per una rivisitazione critica del pensiero di Berlinguer: C. Mancina, Berlinguer in questione, Laterza, Roma-Bari 2014. Sul personaggio Berlinguer: M. Mafai; Botteghe Oscure, addio, cit.; V. Spini, La buona politica, Marsilio, Venezia 2013.
Il finanziatore dei diritti umani
Sulla missione dell’Internazionale socialista in Cile nel 1973, testimonianza di Craxi nel già citato documentario Benedetto Craxi, che contiene anche le riprese Rai nel cimitero di Vina del Mar, quelle al ritorno della delegazione dell’Internazionale in Italia, ma anche il racconto del leader socialista sui finanziamenti illegali a vari partiti e movimenti di liberazione. Sull’incontro di Craxi con Reagan alla Casa Bianca, col generale Jaruzelski e con Michael Gorbaciov di nuovo G. Acquaviva A. Badini, La pagina saltata della Storia, cit. L’unica, approfondita ricostruzione dei molteplici e disordinati rapporti intrecciati da Craxi con movimenti di liberazione, esuli, esponenti della dissidenza nei Paesi dell’Est europeo è contenuta in C. Ripa di Meana, L’ordine di Mosca, cit. Sulla concezione di Craxi circa l’indipendenza dei popoli e degli Stati: P. Craveri, L’irresistibile ascesa e la drammatica caduta di Bettino Craxi, in Il crollo, cit.
L’ultimo samurai
Su tutta la fase finale della storia del Psi e il declino politico e fisico di Craxi, imprescindibili le testimonianze sotto forma di intervista dei principali protagonisti socialisti, Gennaro Acquaviva, Giuliano Amato, Salvo Andò, Giorgio Benvenuto, Fabrizio Cicchitto, Carmelo Conte, Luigi Covatta, Gianni De Michelis, Giulio Di Donato, Rino Formica, Ugo Intini, Claudio Martelli, Fabio Fabbri, Giuseppe La Ganga, Claudio Signorile, Valdo Spini, Carlo Tognoli, raccolte con rigore filologico in Il crollo, cit. Sulle scelte politiche dell’ultimo Craxi: G. Baget Bozzo, Cattolici e democristiani, cit.; R. Formica, Prima Repubblica, una storia di frontiere, Rubbettino, Soveria Mannelli 2018. A. Benzoni, Il craxismo, Edizioni Associate, Roma 1991.
Sulla salute declinante di Craxi, una testimonianza sincera e realistica in F. Forte, A onor del vero, Rubbettino, Soveria Mannelli 2017.
Mani pulite
Fondamentale, per la ricostruzione puntuale di eventi e di sentimenti: M. Feltri, Novantatré, Marsilio, Venezia 2016. Anche sulle vicende legate alle inchieste di Mani pulite, interessanti tutte le testimonianze contenute in Il crollo, cit. E anche quella proposta in F. Damato, Quella volta che Borrelli mi chiese se a casa Craxi fossero tutti impazziti, in «I graffi di Francesco Damato», 23 luglio 2019. Sulla stagione di Tangentopoli e più in generale sulla figura politica di Craxi: E. Crisafulli, Le ceneri di Craxi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006.
Sul cosiddetto decreto Conso, sulle trattative tra i diversi soggetti in campo, la ricostruzione più approfondita e convincente è in L. Covatta, Menscevichi, cit.
Per il rapporto personale di Craxi con Martelli, anche: U. Cicconi, Segreti e misfatti, Sapere, Roma 2000.
Il complotto, gli americani e il gran rifiuto a Cuccia
Sul comportamento delle amministrazioni americane tra il 1989 e il 1994 molto interessanti le due interviste pubblicate da «La Stampa» e realizzate da Maurizio Molinari all’ex ambasciatore degli Stati Uniti in Italia Reginald Bartholomew e all’ex console a Milano Peter Semler: M. Molinari, Come intervenni per spezzare il legame tra Usa e Mani pulite, in «La Stampa», 29 agosto 2012; M. Molinari, Di Pietro di preannunciò l’inchiesta su Craxi e la Dc, in «La Stampa», 30 agosto 2012.
Sull’attività della Cia in Italia: P. Mastrolilli, M. Molinari, L’Italia vista dalla Cia. 1948-2004, Laterza, Roma-Bari 2005.
Sugli incontri tra Bettino Craxi ed Enrico Cuccia interessante la testimonianza di Carmelo Conte all’interno del libro Il crollo, cit. Ma soprattutto C. Conte, Dal quarto stato al quarto partito, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009.
Il rito del capro espiatorio e l’agonia di Hammamet
Sul rito collettivo del capro espiatorio: R. Girard, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1980; R. Girard, Il capro espiatorio, Adelphi, Milano 1987. Sullo stesso argomento interessanti riflessioni in G. Orsina, La democrazia del narcisismo, Marsilio, Venezia 2018; S. Romano, Perché gli italiani si disprezzano, in «Limes», 1994, 4. Sul ruolo esercitato dai media nello scaricare sui politici colpe collettive: F. Martini, La credibilità dei media. I “supereroi” della politica e le complicità dei giornalisti, in «Rivista di Politica», 1/2019, Rubbettino. La riflessione più penetrante sull’“alleanza” implicita ed esplicita tra media e magistratura è contenuta in M. Calise, La democrazia del leader, Laterza, Roma-Bari 2016.
Sulla vicenda del lancio delle monetine davanti all’hotel Raphael, «Le monetine a Craxi? Fu un’idea di Buontempo…», in «Corriere della sera», 30 aprile 2014.
Sugli anni trascorsi ad Hammamet, fondamentale B. Craxi, G. Pennacchi, Route el Fawara, cit. Ricchi di spunti anche U. Cicconi, Segreti e misfatti, cit.; M. Franco, Hammamet, Mondadori, Milano 1995. Espressive le immagini del già citato documentario Benedetto Craxi.
Vent’anni dopo
Sulla commemorazione di Craxi in Parlamento e più in generale sulla rimozione della battaglia anti-comunista del leader socialista: B. Spinelli, Il sonno della memoria, Mondadori, Milano 2001. In ricordo di Craxi e sulla questione latitante-esule: G. Ferrara, Craxi i giorni della viltà, in Panorama, 14 gennaio 2010. Le osservazioni più penetranti sul declino della politica in Italia e in particolare su ciò che accomuna i destini di personaggi agli antipodi come Aldo Moro e Bettino Craxi in M. Damilano, Un atomo di verità, Feltrinelli, 2018 Milano.
Sulla rivalutazione della figura di Craxi: S. Rossini, Berlinguer non ti voglio bene, in «Espresso», 29 novembre 2013. Per un’analisi complessiva della figura di Craxi, dopo la morte, significativi due contributi di Luciano Cafagna: la prefazione a Menscevichi, cit.; L. Cafagna, Una strana disfatta, cit.