LO SPAZIO DELL'IMMAGINAZIONE
Ian McEwan
Il libro
Si potrebbe ragionevolmente supporre che l’autore di 1984, uno degli scrittori piú politicamente e attivamente impegnati del nostro tempo, l’accanito fumatore che immaginiamo curvo sulla macchina da scrivere come se ci fosse incatenato, avrebbe condannato in maniera categorica l’irresponsabile apatia di colleghi come Henry Miller, la cui visione politica risultava a suo modo di vedere sprovveduta, autoreferenziale, come minimo disinvolta. Eppure, nel suo celeberrimo saggio del 1940, lo scrittore inglese antifascista per antonomasia compie un gesto di autoriale generosità: riconosce agli artisti il diritto di trovare rifugio «nel ventre della balena».
A partire dall’incontro tra Orwell e Miller, e tramite incursioni nel pensiero di altri leggendari scrittori come Albert Camus e l’Italo Calvino di La giornata d’uno scrutatore, Ian McEwan ci conduce al nocciolo della questione: ammesso che alla sua base ci sia un’esperienza personale autentica, un romanzo politico potente ed efficace è possibile. E tuttavia, soprattutto all’interno del nostro mondo iperconnesso, lo scrittore non deve perdere di vista il lusso della solitudine. Negli ultimi decenni l’artista è costantemente sollecitato a staccarsi dal comodo ventre della balena per nuotare in una realtà di catastrofi, eventi politici, morti di suo celeberrimo saggio del 1940, lo scrittore inglese antifascista per antonomasia compie un gesto di autoriale generosità: riconosce agli artisti il diritto di trovare rifugio «nel ventre della balena».
A partire dall’incontro tra Orwell e Miller, e tramite incursioni nel pensiero di altri leggendari scrittori come Albert Camus e l’Italo Calvino di La giornata d’uno scrutatore, Ian McEwan ci conduce al nocciolo della questione: ammesso che alla sua base ci sia un’esperienza personale autentica, un romanzo politico potente ed efficace è possibile. E tuttavia, soprattutto all’interno del nostro mondo iperconnesso, lo scrittore non deve perdere di vista il lusso della solitudine. Negli ultimi decenni l’artista è costantemente sollecitato a staccarsi dal comodo ventre della balena per nuotare in una realtà di catastrofi, eventi venerati e fragori e turbolenze dei social media. Se questo rischia di condurlo troppo distante da quella che Henry James chiamava la «vita percepita», ovvero il dettaglio, la banalità del quotidiano, è bene che lo scrittore riesca a raggiungere di nuovo, almeno per un poco, un luogo silenzioso e riparato da cui poter osservare il mondo e immaginare.
LO SPAZIO DELL'IMMAGINAZIONE
Voglio partire da un luogo: un appartamento parigino, a Montparnasse; da un giorno: il 23 dicembre 1936; e dal regalo di uno scrittore a un altro scrittore: una giacca di velluto a coste che, per quanto ne sapeva il ricevente, mostrava ancora tracce di grasso di balena sui risvolti. Il munifico donatore era l’americano Henry Miller. Pensò che al suo ospite George Orwell, in procinto di raggiungere la Spagna per prendere parte alla guerra civile, avrebbe fatto comodo una giacca calda durante l’inverno spagnolo, anche se gli fece notare che il tessuto non era antiproiettile. Il dono, disse Henry Miller, sarebbe stato il suo contributo alla causa lealista e antifascista.
L’incontro tra i due (il quarantacinquenne americano e il trentatreenne inglese) era stato favorevolmente predisposto dalla recensione positiva di Orwell a Tropico del Cancro, il romanzo di Miller, cui aveva fatto seguito un cordiale scambio epistolare. La circostanza ci consegna, oltre all’episodio biografico dei due, lo spunto iniziale per il nucleo del celeberrimo saggio di Orwell Nel ventre della balena, pubblicato in forma di libro poco piú di tre anni dopo, nel 1940, da Gollancz. Nonostante una buona dose di reciproca ammirazione, i due autori non la pensavano allo stesso modo su molte cose. Henry Miller, esule volontario, accanito bohémien, pessimista convinto, edonista, infaticabilmente attivo a livello sessuale – o faticosamente tale, come avrebbero sottolineato le femministe della seconda ondata nel corso degli anni Settanta –, nutriva un profondo disprezzo per la politica e per ogni genere di militanza. Come scrittore era, per usare la definizione di Orwell, «nel ventre della balena». La visione politica di Miller risultava sprovveduta, autoreferenziale, scanzonata. In una lettera a Lawrence Durrell si diceva certo che sarebbe riuscito a scongiurare la nascita del nazismo e la minaccia di guerra se solo gli fossero stati concessi cinque minuti a tu per tu con Hitler per farlo ridere.
La nostra fonte per la versione dell’incontro dalla parte di Miller è lo scrittore austro-britannico, suo amico di lunga data, Alfred Perlès, il cui memoir sull’americano uscí nel 1955. Il breve accenno alla vicenda da parte di Orwell si trova nel saggio Nel ventre della balena. Sul piano estetico, come su quello politico, i due autori erano distantissimi l’uno dall’altro. Al tempo, Orwell era ovviamente uscito da un pezzo «dal ventre della balena» – impegnato a fondo nella causa antifascista e nella lotta contro l’ingiustizia sociale nel suo Paese. «Mi fece presente, – ricorda Orwell, – senza ricorrere a mezze parole che andare in Spagna in quel momento era il gesto di un idiota… che le mie idee sull’opposizione al fascismo e la difesa della democrazia ecc., ecc., erano tutte fesserie».
Miller non tentò a lungo di convincere Orwell a non partire per la Spagna. Credeva che la civiltà moderna fosse agli sgoccioli e a lui non importava un accidente. Secondo quanto leggiamo nel memoir di Perlès, Orwell confessò a Miller il proprio senso di colpa per gli anni in cui aveva prestato servizio presso la British Imperial Police in Birmania. Miller riteneva che il suo visitatore avesse ampiamente espiato la colpa, scegliendo di sperimentare la vita del clochard (a Londra e Parigi), e scrivendo La strada di Wigan Pier. Orwell disse che in Spagna si stava combattendo una battaglia essenziale per i diritti umani, e che gli sarebbe stato impossibile non prendervi parte. Libertà e democrazia garantivano l’indipendenza dell’artista – compresa quella di Miller. Orwell insistette, secondo Perlès, «che là dove sono in gioco i diritti e la vita stessa di un intero popolo non può esservi esitazione rispetto alla propria disponibilità al sacrificio. Espose le sue convinzioni con tanta passione e umiltà che Miller rinunciò a controbattere oltre, per affrettarsi a concedergli la sua benedizione». Piú tardi, gli offrí la famosa giacca: un capo molto piú pratico, a suo giudizio, dello stiloso completo blu che Orwell aveva addosso.
A quanto risulta, i due scrittori si lasciarono in buoni rapporti. In Nel ventre della balena Orwell avrebbe continuato a sostenere che a Miller doveva essere riconosciuto il diritto di rifiutare, come artista, l’impegno politico. E Miller, dal canto suo, almeno secondo Perlès, gli avrebbe regalato la giacca anche se Orwell fosse partito per la Spagna deciso a schierarsi con i fascisti.
Ho studiato diverse foto di Orwell tra le reclute, nella caserma di Barcellona, o sul fronte aragonese quell’inverno, ma non sono riuscito a individuare nessuna giacca in caldo velluto a coste, non antiproiettile. Da Omaggio alla Catalogna sappiamo che quella notte in treno Orwell indossava il suo elegante completo blu. Quando al mattino il convoglio giunse al confine, un compagno di viaggio gli suggerí di levarsi cravatta e colletto per evitare che gli anarchici di guardia alla frontiera potessero giudicarlo troppo borghese e rispedirlo indietro. È possibile che la giacca di Miller avesse trovato un padrone la sera prima, finendo sulle spalle di un senzatetto, o che Orwell l’avesse buttata in un bidone dei rifiuti di Montparnasse. Un altro diritto inalienabile dello scrittore, avrebbe potuto spiegare.
Queste differenze tra Miller e Orwell rappresentano il Nord e il Sud, l’asse di orientamento con cui ogni scrittore deve fare i conti, oggi, nel nostro tormentato presente, come nel 1936, e ancora di piú, nel 1940. Un asse lungo il quale gli autori possono spostarsi in base a specifiche esigenze, nel corso della loro carriera. Non esiste la possibilità di evitarlo – o meglio, evitarlo coincide esattamente con la libertà che Orwell è deciso a difendere nel suo saggio. Considerata la sua posizione di scrittore fra i piú politicamente e attivamente impegnati del nostro tempo, Nel ventre della balena è un dono, un altro dono di autoriale generosità. Consiste in questo il nucleo del saggio. È la fonte di quel titolo bizzarro, che a Orwell giunse per tramite di Henry Miller, da Anaïs Nin partendo da El Greco e passando per Aldous Huxley. «Eccoti lí, – scrisse Orwell, – nello spazio buio e imbottito che ti calza a pennello, con metri di grasso tra te e il mondo, in grado di mantenere un atteggiamento di indifferenza assoluta, qualsiasi cosa succeda. Una tempesta capace di affondare una flotta di navi da guerra non ti arriverebbe neppure come un’eco lontana… Se si esclude la condizione della morte, è l’ultimo, insuperabile stadio di irresponsabilità… Miller sta nel ventre della balena… non sente il minimo stimolo a modificare o controllare il processo che va subendo…»
Sarebbe del tutto ragionevole supporre che l’autore di La strada di Wigan Pier e di Omaggio alla Catalogna prima, e di La fattoria degli animali e 1984 dopo, condannasse categoricamente tanta irresponsabile apatia. Ma non era solo questione di generosità. Con Nel ventre della balena intercettiamo Orwell in un momento di profonda disillusione memorabilmente descritto da (W. H.) Auden come il tempo in cui si vedono «scadere le astute speranze | d’un decennio basso e disonesto». Il pessimismo e il disinganno di Orwell dopo il trionfo del fascismo in Spagna superano di molte misure le incuranti affermazioni di Miller e sono di gran lunga piú documentati. Orwell è stato testimone della crudeltà e del cinismo degli stalinisti, mentre combatteva dalla loro parte. In capo alla fine degli anni Trenta, la gente si era perlopiú rassegnata all’ineluttabilità di un nuovo conflitto – a cosí poca distanza dal precedente. Nel 1940, Orwell prevedeva che la Gran Bretagna potesse essere invasa dalla Germania. La militanza politica per gli scrittori di sinistra – vale a dire per quasi tutti gli scrittori – comportava l’aggrapparsi al sogno sovietico malgrado l’evidenza di fatti come il primo Piano quinquennale, la carestia ucraina, le grandi purghe e i processi farsa e, piú di recente, il Patto Molotov-Ribbentrop. Quel genere di militanza politica, per come la vedeva Orwell, coincideva con un immane mucchio di menzogne opprimenti. Nel 1940, in una recensione all’indagine storica di Malcolm Muggeridge dal titolo Gli anni Trenta, Orwell scrisse: «Ogni approccio positivo si è rivelato un fallimento. Credi, partiti, programmi di qualsiasi colore hanno semplicemente fatto fiasco». Verso la fine di Nel ventre della balena scrisse: «Quasi certamente andiamo incontro a un’era di dittature totalitarie – un’era in cui la libertà di pensiero sarà in un primo tempo un peccato capitale e, in seguito, un’insulsa astrazione». In queste righe, un tema essenziale, vale a dire il rimodellamento della mente da parte dello Stato, compare anni prima della sua trattazione estesa in 1984. La forma romanzo era pluralista, inclusiva, tollerante e istintivamente progressista mentre, secondo Orwell, ogni tendenza progressista era al tramonto. Lo scrittore se ne sta «seduto su un iceberg che si va sciogliendo». Perciò, suggerisce Orwell, smettete di lottare o di fingere di poter controllare il cammino del mondo. «… Accettatelo cosí com’è, sopportatelo, registratelo». Alla fine degli anni Trenta, in veemente reazione alle interferenze dell’ideologismo, del pensiero «corretto» tanto nella sfera privata quanto nel dibattito pubblico, pieno di disprezzo per quelli che lui chiamava «i cani da fiuto dell’ortodossia», e allarmato dai governi totalitari di Germania, Russia e Italia, Orwell vedeva se stesso coinvolto in una battaglia di civiltà. Per quattrocento anni le grandi letterature europee si erano fondate, a dispetto del predominio cristiano, sull’idea di un individuo autonomo, sul concetto di onestà intellettuale. Da qui la frequente citazione del passaggio: «La prima cosa che chiediamo a uno scrittore è che non racconti menzogne, ma che dica ciò che realmente pensa, ciò che realmente prova».
Se la battaglia è presentata in termini molto ambiziosi, il prodotto artistico nei saggi di Orwell trova espressione nell’apprezzamento dell’onesto resoconto delle semplici cose della vita, del trattare di «fatti ben noti a tutti, ma da sempre assenti nella scrittura»: cosí, in una lettera a Henry Miller dell’agosto 1936, pochi mesi prima del loro incontro. Il passo comico che cita in tono ammirato è tratto da Tropico del Cancro: «Ad esempio quando il tipo dovrebbe far l’amore con la donna ma ha una voglia matta di pisciare».
Oggi come oggi, il nome di Miller viene raramente accoppiato con quello di James Joyce, ma in entrambi gli scrittori Orwell scorgeva la poesia del quotidiano. Mi torna in mente l’espressione utilizzata da John Updike per definire il proprio obiettivo autoriale: «Assegnare all’ordinario la dose di bellezza che gli spetta». In Nel ventre della balena Orwell non aveva dubbi sul fatto che Joyce occupasse un posto di gran lunga piú ragguardevole rispetto a Miller e, se i suoi commenti sulla celebrazione dell’ordinario appaiono oggi pressoché irrilevanti, è perché l’influenza di Joyce è risultata capillare al punto da raggiungere perfino, o forse soprattutto, scrittori contemporanei che non l’hanno mai letto.
Nella narrativa di Orwell l’ordinario può risultare opprimente, talvolta. Gordon Comstock, il protagonista di Fiorirà l’aspidistra, lavora in una libreria molto simile a quella di South End Green in cui lavorava il suo creatore. Ma in quei giorni, nei primi anni Trenta, Orwell, sconosciuto e in difficoltà finanziarie, aveva già una vita decisamente piú interessante e ricca di stimoli intellettuali di quella del povero Gordon. Questi rientra nella categoria, molto in voga tra gli autori inglesi, di personaggi deliberatamente depressi, residenti di un mondo immaginario male illuminato, squallidi giovanotti sottopagati e sessualmente bisognosi che si arrabattano tra gli impedimenti di alcol, fumo, tuguri a pigione e affittacamere odiose. Antieroi assai meno eruditi e colti dei loro ideatori. La moda, vagamente autoironica, durò un quarto di secolo nell’Inghilterra postbellica, fino a quando gli ultimi anni Sessanta e i primi Settanta non spazzarono via ogni sordido eccesso di ordinarietà.
Una volta domandai al mio amico Christopher Hitchens, che ha vissuto un’intera proficua esistenza di scrittore sotto l’incantesimo di Orwell, se avesse mai pensato di scrivere un romanzo. La sua risposta fu significativa e sarebbe probabilmente piaciuta a Orwell. Hitchens disse che non aveva mai potuto scrivere un romanzo perché non era mai riuscito a non pensare in base a categorie politiche. Eppure avrebbe potuto fare tesoro della lezione del suo maestro: nel 1939, una domenica mattina alle ore 11:15, il primo ministro Neville Chamberlain annunciò per radio che la nazione era entrata in guerra con la Germania. Due giorni piú tardi, Orwell annotò sul suo diario: «Di ritorno a Wallington dopo 10 giorni di assenza, trovo uno scempio di erbacce. Rape a buon punto e qualche carota di dimensioni notevoli. Non male i fagiolini. L’ultima partita di piselli non ce l’ha fatta. Qualche zucchina. Un’unica zucca grossa come una palla da biliardo. Mele grenadier quasi mature… prime patate piuttosto misere ecc.».
C’era, nel ventre della balena, giusto lo spazio per un piccolo orto. Ma questi appunti, è ovvio, si trovano nei suoi diari privati. In quelli di guerra, che redigeva parallelamente, Orwell scrive: «A quanto pare siamo in stato di guerra da questa mattina alle 11… I Tedeschi hanno preso Danzica e invadono il corridoio da quattro punti a nord e a sud… Distribuzione gratuita di maschere antigas e la gente sembra prendere le cose sul serio… Niente panico, ma d’altro canto niente entusiasmo».
Queste due pagine di diario danno una misura del risultato conseguito da Orwell: quello di vivere e prosperare dentro e fuori il ventre della balena. Mostrano una prodigalità di attenzione al dettaglio, come accade nel celeberrimo passaggio del suo testo dal titolo Un’impiccagione. Orwell racconta di aver scortato un condannato diretto al patibolo e di aver osservato come il prigioniero, a pochi minuti dalla propria morte, avesse badato a non calpestare una pozzanghera. Nella mia personale esperienza, è su momenti luminosi come questo che gli scrittori tendono a concentrarsi quando lodano un romanzo. Nabokov elargiva suggerimenti alle sue matricole della Cornell riguardo a come leggere e scrivere la narrativa: il consiglio era di scordarsi dei grandi temi e delle «chiacchiere generiche» e di «accarezzare» invece «i dettagli».
Quando pensiamo a Orwell intento a scrivere 1984 a Barnhill, nell’isola di Jura, possiamo evocare l’immagine dell’accanito fumatore, dell’uomo alto e curvo sulla macchina da scrivere come se vi ci fosse incatenato, completamente assorto e febbrile, al lavoro in corsa contro il tempo, e deciso a ignorare i suoi polmoni sempre piú malati. Ma in quegli stessi mesi, Orwell faceva molte altre cose: usciva in barca, pescava, zappava, segava e spaccava legna, aggiustava la motocicletta, riparava le cose rotte. A Wallington, molto prima di occuparsi di una fattoria immaginaria, aveva allevato una capra e qualche gallina. Aveva anche fatto lavori al tornio e, insieme alla moglie Eileen, gestito un negozio di generi alimentari. Sapeva come si smonta un fucile e come si addestra un plotone. Conosceva le rape e i fagiolini del suo orto. Sarebbe diventato il padre premuroso del suo figlioletto. Metà della sua esistenza, la metà non dedita alla scrittura, si svolgeva in un mondo fatto di cose solide, refrattarie a qualunque astrazione. Mi piace pensare che questo tipo di impegno nel mondo materiale scaturisse dalla stessa fonte che rese possibile la qualità lucida, fattuale e pratica della sua prosa. I compiti fisici che si imponeva, anche nei periodi di piú intensa attività di scrittura, erano al tempo stesso distrazioni dalla fatica mentale e metodo di immersione totale nelle faccende ordinarie del quotidiano: collocandosi dentro e fuori il ventre della balena, sfidavano la sua stessa proficua metafora.
Nel febbraio del 1945 Orwell, in uniforme da ufficiale dell’esercito britannico, come era prassi per i corrispondenti di guerra, sedeva a un tavolo della brasserie Les Deux Magots sulla piazza Saint-Germain-des-Prés in attesa di un altro scrittore. L’incontro non sarebbe mai avvenuto, perché Albert Camus, come Orwell sofferente di tubercolosi, era troppo malato per presentarsi. Peccato, perché quasi certamente avrebbero avuto uno scambio piú intenso di quello tra Orwell e Miller, ed è probabile che tutti e due l’avrebbero riportato sui rispettivi taccuini di appunti. C’era moltissimo di cui parlare. A parte la tisi e una grave dipendenza da nicotina – robuste Gauloises per Camus e altrettanto robusto «trinciato» in cartina per Orwell – i due autori avevano la Spagna in comune. La madre di Camus aveva antenati originari delle Baleari. Sua amante era stata, e presto sarebbe tornata a esserlo, l’attrice María Casarès, figlia di Santiago Casares Quiroga il quale aveva brevemente coperto la carica di Primo ministro al tempo del golpe franchista. Camus aveva dieci anni meno di Orwell, ma era già celebre. Anche Orwell aveva una sua notorietà, ma La fattoria degli animali, il libro che l’avrebbe reso famoso a livello internazionale, era stato rifiutato da vari editori e non sarebbe uscito prima dell’agosto di quell’anno. In quanto antistalinisti, antitotalitaristi e antisovietici, Orwell e Camus si erano collocati al di fuori dell’ortodossia di sinistra. E soprattutto, Camus, come Orwell, avrebbe dedicato la sua intera carriera di scrittore a riflettere sul rapporto tra il suo pensiero politico e la sua narrativa.
Un anno fa, mentre scrivevo un romanzo vagamente politico, un collega mi spedí l’articolo di Camus, Creare a proprio rischio e pericolo. Si tratta del testo del discorso tenuto da Camus in Svezia nel dicembre del ’57, l’anno del suo Premio Nobel. Camus è particolarmente efficace nel descrivere l’anelito di ogni scrittore a far sentire la propria voce e il modo in cui una coscienza politica può compromettere o danneggiare esteticamente un romanzo. Scrivendo dodici anni dopo la fine della guerra, egli non era meno consapevole di Orwell dei fallimenti del grande esperimento sovietico. Nel 1953, la rivolta operaia nella Germania dell’Est fu soffocata con la forza. L’insurrezione ungherese del 1956 fu repressa nel sangue dall’intervento armato delle truppe sovietiche. Verso la metà del decennio gli orrori dell’Olocausto cominciavano a emergere in tutta la loro mostruosità. Il regime nazista era stato un incubo che andava al di là dell’immaginabile. Era dunque valsa la pena di vincere la guerra, una guerra non combattuta, o almeno non solo, in sostegno di una causa imperialista, come molti socialisti, Orwell compreso, avevano creduto negli anni Trenta. Ma soprattutto in Francia, il consenso alla versione sovietica dello Stato totalitario era generalmente considerato un dovere artistico. Erano tante le cose che un autore come Camus aveva da dire in proposito.
A Camus tuttavia stava a cuore anche quella che lui chiamava la «divina libertà» – vale a dire lo spazio che rischiava di andare perduto in presenza dell’«obbligo costante». A suo giudizio l’artista che meglio di ogni altro incarnava il concetto di «divina libertà» era stato Mozart. (Un marxista potrebbe ragionevolmente obiettare che tanta paradisiaca libertà subiva di fatto notevoli limitazioni a causa del mecenatismo aristocratico. Ritengo tuttavia che, a livello prettamente musicale, siamo in grado di cogliere quel che Camus intendeva).
Il conflitto tra impegno politico e integrità estetica, ammetteva lo scrittore, non è di facile risoluzione. «Sul cassero delle galere lo sappiamo, si possono sempre e dovunque cantare le costellazioni mentre nella stiva i forzati remano fino allo sfinimento; si può sempre riprodurre la conversazione mondana che prosegue sulle gradinate mentre nell’arena la vittima viene sbranata dal leone». Ma in fondo, dopo una serie di tortuosità, Camus non giunge precisamente alla conclusione di Orwell quanto a difesa del contemplatore di stelle o del pettegolezzo sugli spalti dell’arena, pur riconoscendo che la «divina libertà» è tutto. Sebbene riluttante, Camus finisce per sostenere la causa della militanza. Scrive: «Appare evidente ciò che l’arte rischia di perdere da quest’obbligo costante». I tempi, tuttavia, incalzavano con richieste urgenti. Meglio, secondo Camus, «prendere atto dell’urgenza dei tempi, visto che quest’urgenza i nostri tempi la rivendicano a gran voce, e ammettere serenamente che l’epoca dei cari maestri, degli artisti con la camelia all’occhiello e dei geni in poltrona dalle accademie è ormai finita». E tuttavia si arrovella, Camus. È da sempre proprio la libertà della grande arte a sfidare lo Stato illiberale. Scrive: «I tiranni sanno che nell’opera d’arte c’è una forza emancipatrice». E ancora: «Ogni grande opera rende il volto dell’uomo piú mirabile e piú ricco…»
Al termine del suo discorso, Camus fa una considerazione che troverà consenso in tutti coloro che ammirano la chiarezza di stile della prosa di Orwell. Citando André Gide, Camus scrive: «L’arte vive di vincoli e muore di libertà». Un pensiero facile da fraintendere. I vincoli cui Gide fa riferimento non vengono da fuori, da censori dello Stato o editori venduti. «L’arte, – scrive Camus, – vive solo dei vincoli che si impone da sé». Vincoli diversi da quelli la uccidono. D’altra parte «se non si impone dei vincoli finisce per delirare e diventare schiava delle ombre. L’arte piú libera, l’arte all’insegna della rivolta, sarà quindi quella piú classica». Le possibilità dell’arte in tempi turbolenti e pericolosi, dice Camus, dipendono «dal nostro coraggio e dalla nostra volontà di essere lucidi». Quanto piú caotico e minaccioso si fa il mondo, quanto piú informe il suo materiale, insiste Camus, tanto piú stringente sarà l’ordine necessario all’interno dell’arte, «piú la sua regola sarà rigorosa e piú lui avrà affermato la sua libertà». Posizione reazionaria, ma audace. Lo spettro che va dal reazionario al progressista in arte viene erroneamente sovrapposto alla politica. Bach, per esempio, potrebbe passare per un artista reazionario se la sua musica non smontasse di significato tale definizione. Negli anni Settanta, nelle sale da musica, gli estremismi sperimentali dell’atonalità si irrigidirono presto in ortodossia accademica – prima di fare i conti con la sfida di una nuova generazione di artisti che resuscitarono la melodia. Camus avrebbe sostenuto che uno scrittore può essere progressista nel fine, e reazionario nei mezzi. La chiarezza è tutto.
Quando Camus evoca l’artista con la camelia all’occhiello, il genio in poltrona, immediatamente io penso a Henry James. Il Maestro non era tipo da lasciarsi tormentare dal conflitto tra impegno politico e libertà artistica. Ma personalmente credo che Orwell e Camus avrebbero avuto uno slancio di simpatia per la versione di divina libertà che James introduce nel suo grande saggio del 1884 dal titolo L’arte del romanzo. I nostri due romanzieri di metà Novecento avrebbero faticato a recepire alcuni dei suggerimenti pratici che vi si trovano. «Non ragionate troppo su ottimismo e pessimismo, – raccomanda James. – Cercate di cogliere il colore della vita». Ma ci sono passaggi, altrove, che sembrano scritti da Orwell: «La salute di un’arte che si propone di riprodurre in modo tanto diretto la vita esige che sia assolutamente libera. Si nutre di esperienza e il senso stesso dell’esperienza è la libertà». Il concetto echeggia alcuni passi dell’articolo di Orwell intitolato La salvaguardia della Letteratura: «La creazione letteraria risulta impossibile se non è prima o poi attraversata dalla spontaneità». E, piú avanti: «Al momento sappiamo soltanto che l’immaginazione, come certe specie di animali selvatici, non si riproduce in cattività».
E in un punto particolarmente delicato del saggio di James, Camus avrebbe riconosciuto la sua stessa ambivalenza rispetto alla facilità con cui l’impegno politico e l’esplicita indicazione al lettore su come pensarla possano lacerare il sottile tessuto dell’opera di finzione: «L’esperienza non è mai conclusa né completa; è un immenso organismo sensibile, una sorta di enorme ragnatela fabbricata con fili della seta piú fine, sospesa nella sede della coscienza e pronta a catturare nel proprio tessuto ogni particella trasportata dall’aria. È l’atmosfera stessa della mente; e quando la mente è creativa – soprattutto se si tratta di quella di un uomo di genio – si impossessa di ogni minimo accenno di vita, converte ogni battito d’aria in una rivelazione». Non è difficile immaginare che questi fili di seta finissima sospesi a mezz’aria sarebbero turbati se non propriamente distrutti dall’uggioso schema evocato da Auden nella sua lirica Spagna, che Orwell cita in Nel ventre della balena:
Oggi l’impiego delle forze
per lo squallido opuscolo effimero e per la riunione noiosa.
Camus ha parlato e scritto spesso della necessità dell’impegno – l’epoca reclama quanto le è dovuto – senza mai perdere d’occhio la facilità con cui forti ideali possono rovinare un’opera di finzione. Orwell, molto impegnato politicamente a partire dalla metà degli anni Trenta, è stato sempre piú esplicito nel ripetere, per tutti gli anni Quaranta, quanto fosse importante per i romanzieri non dire ai propri lettori che cosa pensare. L’immaginazione deve essere libera. E questo, sebbene sia stato lui a scrivere il romanzo politico per definizione del suo e del nostro tempo. Quando, nel 2017, Kellyanne Conway, consigliera del presidente americano Donald Trump, fece riferimento a «fatti alternativi», la gente corse in libreria a procurarsi una copia di 1984. Quel romanzo ha plasmato il nostro linguaggio e i nostri pensieri consegnandoci concetti utili come la «psicopolizia» e il «bipensiero». Si è diffuso imperterrito anche fuori della balena. Nei giorni della guerra fredda era il libro all’indice che moltissimi russi, cechi e polacchi volevano leggere piú di ogni altro. Si è insinuato, modificandola, nella lingua di tutti i giorni. Come è riuscito Orwell in questa impresa, senza lacerare la ragnatela finissima del romanzo con le sue certezze politiche? Direi che ci è riuscito mantenendo intatta quella che Henry James chiamava la «vita sentita» del romanzo – il lerciume, il grigiore, il puzzo di cavolo – abbassandosi e muovendosi in assoluta libertà all’interno di un pessimismo totalizzante. In quella sfera, la vita quotidiana, tanto importante per Orwell, poteva avere luogo. Non sono d’accordo con il mio amico Salman Rushdie il quale una volta ha sostenuto che 1984 è un romanzo disfattista perché ci mostra l’inutilità delle lotte. Pensiamo solo questo: se un manipolo di eroici, onesti ribelli guidati da Winston Smith insorgessero contro il superstato di Oceania e vi avviassero il regime di socialismo democratico umano e liberale tanto caro a Orwell, 1984 perderebbe il suo potere ipnotico. Vorrebbe dire che l’immaginazione dell’autore è caduta ostaggio di uno schematismo. Lo stesso vale per La fattoria degli animali che riesce a parlarci di rivoluzione e natura umana grazie alla potenza liberatoria del suo pessimismo. Il realismo è gettato al vento in favore dell’allegoria. A fronte dell’immane misura della sua influenza, si tratta di un libro brevissimo. Ma introducendo animali da cortile che parlano inglese, Orwell è stato abbastanza saggio da onorare il detto di Samuel Johnson pronunciato dopo la lettura di Tristram Shandy: «Nessuna bizzarria può durare a lungo».
Sia il romanzo che la novella sono libri terrificanti, segnali luminosi di pericolo, accesi nello smisurato spazio di una oscura premonizione. Nessuna via di scampo per il lettore. Se è di ottimismo che siamo in cerca, nel caso di 1984, dovremo guardare oltre il romanzo e considerare un uomo morente che, fuggito dalla Londra letteraria per rifugiarsi nella balena nota con il nome di isola di Jura, lotta con una malattia debilitante per consegnarci il suo monito contro il totalitarismo. Ma c’è un secondo e piú semplice messaggio di ottimismo: qualunque sia il frangente, un romanzo politico buono e incisivo è sempre possibile.
Vogliamo fare un esempio, allora? Il primo candidato è ovviamente il romanzo distopico Il mondo nuovo di Aldous Huxley. Al posto di prepotenza, sopraffazione e tortura, lo Stato tirannico ricorre qui all’uso di droghe sia per plasmare che per rendere inoffensivi i suoi cittadini. Ma il romanzo politico straordinario che vorrei segnalare è invece un testo relativamente poco noto: La giornata d’uno scrutatore di Italo Calvino, pubblicato in Italia nel 1963 e tradotto in inglese nel 1971 con il titolo The Watcher. Non si tratta del Calvino delle incantevoli, spumeggianti fantasticherie intellettuali delle Cosmicomiche, bensí di quello cresciuto in un ambiente ateo, grande lettore di fisica non meno che di narrativa, ed eterno scettico, pur senza animosità, nei riguardi della chiesa cattolica. E non dimentichiamo che, dopo aver preso parte alla Resistenza ed essersi iscritto al Partito comunista, restituí la tessera nel 1957 in segno di protesta a seguito dell’invasione sovietica dell’Ungheria e l’emergere delle atrocità staliniste. Come Orwell e Camus, quindi, visse tra fascismo e comunismo. Come loro, era ben consapevole dei confini tra militanza politica e libertà creativa.
La giornata d’uno scrutatore è un romanzo breve il cui protagonista, Amerigo, iscritto al Partito comunista, è incaricato di controllare la correttezza delle procedure elettorali all’interno di un istituto per «incurabili» di Torino nel quale si allestisce un seggio dedicato «ai tanti infelici, ai minorati, ai deficienti, ai deformi, giú giú fino alle creature nascoste che non si permette a nessuno di vedere». È il 1953, in Italia si svolgono le elezioni politiche. È una cosa nota che conventi, istituti psichiatrici, e ospedali, tutti in mano alla chiesa cattolica, costituiscono tradizionalmente una «grande riserva di suffragi per il partito democratico cristiano». In questa sede, il Cottolengo, Amerigo deve assicurarsi che i pazienti siano in grado di votare in modo autonomo in quanto abili mentalmente. La Democrazia cristiana non deve accaparrarsi elettori a partire da presupposti fraudolenti. Amerigo è consapevole che lo attende «una giornata triste e nervosa». Il seggio viene spostato da un reparto all’altro e sistemato intorno a ogni letto. Alle monache, vale a dire al personale infermieristico, è riservato un controllo decisamente benevolo. Ci sono un presidente di seggio e qualche scrutatore di altri partiti.
A mano a mano che la squadra guadagna reparti situati ai piani piú alti dell’edificio, le deformità diventano piú vistose fino a quando il seggio mobile non raggiunge creature a stento riconoscibili come umane. Esseri immobilizzati, privi di arti, afasici. Uno di essi presenta delle branchie al posto della bocca e, come molti altri ricoverati del reparto, è in grado di emettere unicamente squittii. Si sta procedendo a sistemargli il paravento intorno al letto. Sarà compito di una monaca premurosa assistere lo sventurato alla votazione per la Democrazia cristiana. Amerigo interviene sollevando la sua prima protesta. Certo, se ne terrà debitamente conto. Il presidente chiede che le operazioni di voto siano sospese.
C’è tuttavia un’altra storia che si sviluppa, in parallelo a questa. Durante la pausa Amerigo ha una conversazione telefonica, la prima di tre, con la sua amante, Lia. Senza dirlo in modo esplicito, Lia gli fa sapere di essere incinta. Lui è furibondo, prima con lei, poi con se stesso, e la tensione tra i due si fa altissima. Si accenna all’ipotesi di un’interruzione di gravidanza, ma non se ne discute a fondo. Quel che sembra in questione è l’amore che Amerigo ha fino a quel punto dichiarato di provare per Lia.
Di ritorno alle proprie incombenze elettorali, le obiezioni sollevate da Amerigo riguardo al voto di quel particolare elettore sono tranquillamente accolte. A sostegno della decisione si racconterà la storia che le condizioni del paziente sono peggiorate dall’ultima volta che ha votato nel corso delle precedenti elezioni. Amerigo tuttavia è confuso. Che cosa cerca di evitare con l’aborto di quel bambino, a che cosa mira impedendo il voto a quella sfortunata creatura? Che differenza può mai fare? Da che cosa nascono le sue incredibili facoltà di negazione? Le responsabilità politiche e domestiche si sovrappongono per misurarsi sullo sfondo piú consueto della frode elettorale. L’integrità personale e quella politica appartengono a due sfere separate? Lessi il romanzo per la prima volta verso la metà degli anni Settanta. A colpirmi fu la sensibilità che traspare nei riguardi dei personaggi e del modo in cui risultano prigionieri delle rispettive differenze. Uscii da quella lettura con la consapevolezza che un romanzo politico non può funzionare senza il legame con una storia personale intensa e convincente.
In un saggio ingiustamente ostile su Ford Madox Ford, il critico V. S. Pritchett scrisse una volta che, se il romanziere non si era guadagnato un posto tra gli scrittori di prim’ordine, era perché non aveva talento per lo «stupore deliberato». Forse Pritchett alludeva al debole di Ford Madox Ford per la vita mondana. A mio parere sottovalutava di parecchio la qualità delle sue opere. Ma da quando l’ho letta, quell’espressione vagamente ossimorica, «stupore deliberato», non smette di ossessionarmi. Credo possa essere applicata a qualsiasi ambizioso progetto che preveda l’impiego di concentrazione e creatività durevoli, ma personalmente l’ho sperimentata soltanto per lo sforzo della durata di mesi o anni di tenere insieme gli esili fili jamesiani di un romanzo in lavorazione. Si tratta di una condizione che va cercata, una sospensione, uno stato di fiduciosa speranza riguardo a ciò che può venirci in soccorso in solitudine, alla possibile fecondità di una buona idea, o di ciò che a tutta prima sembra esserlo.
Molti fili saranno scartati, e molti andranno perduti. Una scampanellata alla porta: il classico visitatore di Porlock che pretende la nostra immediata attenzione. Nel caso degli ultimi due decenni, il famigerato visitatore ha escogitato sistemi piú raffinati per intromettersi. La macchina su cui la gran parte degli scrittori lavora al giorno d’oggi è anche un portale aperto su una porzione significativa del sapere universale, sulle ultime notizie in innumerevoli campi: avvenimenti politici, catastrofi naturali, la morte di personaggi amati, le chiassose turbolenze dei social media. Perfino un programma relativamente innocuo come quello di posta elettronica esercita un potere di intrusione che nessun visitatore di Porlock si sarebbe mai sognato. Alcune richieste possono essere meritevoli, intelligenti, e legittime. Qualcuno sta avvelenando il fiume di cui ti è capitato di scrivere. Si raccolgono fondi per un teatro, una compagnia di danza; sta per morire la lodevole iniziativa di un progetto per bambini culturalmente svantaggiati; l’ennesima libreria è in procinto di chiudere. È scoppiata una guerra. Tu da che parte stai? Un ragazzo arabo arrestato, picchiato e torturato per tre anni a causa di un commento pronunciato incautamente sarà decapitato lunedí. Intendi aiutarlo? Per dire di sí dovrai allontanarti dalla tua comoda postazione foderata di grasso e nuotare fuori dal ventre della balena. Forse dovrai scrivere un pezzo, uscire di casa e prendere un treno, raggiungere uno studio televisivo, rilasciare una dichiarazione pubblica. Al tuo ritorno, alcuni di quei fili delicati si saranno spezzati e tu rischierai di non accorgertene neppure, perché li avrai dimenticati. Ciò che è già sulle pagine potrebbe sembrarti diverso da prima. La pagina successiva sarà diversa da quella che avresti potuto scrivere se nulla ti avesse disturbato. È probabile che non sarà migliore, ma tu non lo saprai. Il tuo «stupore deliberato» risulterà svanito e potrà volerci del tempo per recuperarlo. Ogni atto creativo contiene questo aspetto contingente. Quasi un secolo fa, Cyril Connolly parlava della «carrozzina nell’ingresso» come del nemico numero uno dell’arte. Nell’attuale gestione delle cose l’espressione andrebbe probabilmente riformulata come «il passeggino nella stanza, a un passo dalla tua scrivania».
Se uno scrittore o una scrittrice si portano fuori dalla balena per occuparsi di questioni di scottante rilevanza, della condizione biologica di persone coinvolte in una transizione sessuale, di cancel culture o, di recente, della Brexit, è poco probabile che si ritrovino coinvolti in un dibattito illuminante sostenuto da idee antitetiche. Potrebbero invece finire travolti da una di quelle brevi e assurde tempeste mediatiche. E ricavarne, specie se donna, insulti, e perfino minacce di stupro o di morte, nessuna delle quali favorirà l’emergere del tipo di stupore adeguato. Ma esiste una buona ragione per prestare ascolto alla perorazione di artisti e scrittori? La solitudine è uno dei grandi lussi della civiltà. Ma è diventata, per nostra stessa distratta concessione, per il nostro volontario asservimento alle meraviglie della rete, una risorsa in progressivo calo. Ne abbiamo tutti di meno. Nel 1970, quando cominciai a scrivere, la solitudine era abbondante e gratuita, come l’acqua prima di essere privatizzata. Vale per lo scrittore ciò che è vero per chiunque altro: perfino nel ventre della balena arriva la banda larga ultraveloce. L’abolizione della solitudine è uno degli aspetti angosciosi del mondo distopico orwelliano, nel quale spegnere la tv è vietato: ecco, questa sarebbe la mia personale versione della stanza 101.
Nonostante le vergognose aggressioni della Russia ai danni dell’Ucraina, almeno nei paesi dell’Occidente non prevediamo, come Orwell, la possibilità di subire un’imminente invasione militare. Non siamo, si spera, all’alba o sull’orlo di una guerra mondiale. Ma abbiamo altre preoccupazioni globali. Al loro confronto, le questioni scottanti cui ho fatto cenno sbiadiscono trasformandosi in quelli che oggi chiameremmo ironicamente «problemi da primo mondo». O rogne locali.
Di questi tempi, gli scrittori hanno molte buone ragioni per lasciare il ventre della balena, e l’antica domanda rimane valida: come è possibile farlo con successo? Se il personale è ciò che dà vita al romanzo politico, proviamo a considerare l’aspetto della costruzione di un personaggio. Supponiamo di averne ideato uno, una figura tridimensionale, una giovane donna, per esempio, ben collocata all’interno di un contesto sociale, dotata di una sensibilità convincente, e sviluppata con pazienza per la durata di trecento pagine. Un personaggio a tutto tondo, per usare l’espressione di E. M. Forster. Ora tuttavia supponiamo di concederle l’occasione di esprimere un’opinione politica convinta e abbastanza vicina alla nostra per qualche decina di righe, e correremo il rischio di perderci per strada una dimensione e di vederla trasformarsi in un personaggio piatto e indistinguibile quanto la singola figurina di un girotondo ritagliato nella carta.
Si potrebbe cominciare sollevando degli interrogativi. È scritta nelle dinamiche della storia una guerra sino-americana? L’ondata globale di nazionalismi razzisti cederà il posto a prospettive piú generose e costruttive? Riusciremo a invertire l’attuale grave fenomeno di estinzione di varie specie? Sarà in grado la società aperta di trovare modi nuovi e piú giusti per svilupparsi? L’intelligenza artificiale ci renderà piú saggi, piú folli, o piú irrilevanti? Sarà possibile attraversare l’intero ventunesimo secolo senza uno scambio di missili nucleari?
Ci si potrebbe anche limitare all’osservazione. Ci sono nazioni governate da bande di criminali in giacca e cravatta, gente determinata ad arricchirsi il piú possibile, mantenuta ai posti di comando dai servizi segreti, o dalla riscrittura della storia e da violenti nazionalismi. Una di queste è la Russia. Gli Stati Uniti, tra un delirio di culto della personalità e il riemergere del suprematismo bianco, hanno rischiato ultimamente – e ancora rischiano – di esserne un’altra. Adesso che la tecnologia, tra software di riconoscimento facciale e tutto il resto, è a portata di mano, la Cina potrebbe perfezionare il regime totalitario orwelliano e offrire al mondo un nuovo modello di organizzazione sociale in grado di competere con le democrazie liberali, se non di sostituirle: una dittatura sostenuta da un flusso costante di beni di consumo al posto delle droghe del mondo nuovo huxleyano. Ecco una questione di vitale importanza per scrittori e lettori: a livello globale, la libertà di espressione sta diventando un privilegio di pochi. In Russia e in Cina, naturalmente. In India, dove i rappresentanti del movimento ambientalista sono tolti di mezzo dalle forze dello Stato. In Pakistan e Bangladesh, dove gli atei vengono assassinati. In Arabia Saudita, dove i dissidenti religiosi o politici finiscono in carcere quando non direttamente sotto terra. Nell’Occidente angloamericano ci spaventa l’idea che possiamo aver dimenticato come manifestare un disaccordo su temi di rilevanza pubblica senza piegarci a intimidazioni o a varie forme di messa al bando sociale, alcune delle quali da parte di istituzioni preoccupate di subire danni in termini di reputazione. Vale la pena di considerare che la libertà di espressione scomparve dall’Europa cristiana medievale per un intero millennio. E ancora di piú ci volle per recuperare gli scritti di un libero pensatore come Democrito.
C’è molto materiale da trattare, in narrativa, sempre che si trovi il modo per farlo, molto che obblighi il romanziere a uscire dal ventre della balena. Ma ciascuno dei temi in questione è anche limitato e provinciale, tarato su un arco temporale umano. Sono istanze che si contraggono e coagulano in un nocciolo amaro all’interno di un guscio di proporzioni ben maggiori, il riscaldamento del pianeta, l’interconnessione sconvolta dei sistemi di oceani, terra, aria e vita, stupendi grovigli che si sostengono vicendevolmente e che a stento comprendevamo quando cominciammo a imporre i cambiamenti al pianeta. Come potrà uscirne quella struttura di oscura bellezza che chiamiamo civiltà?
Il romanzo del cambiamento climatico è ostico. L’argomento, vasto e complesso. Potrebbe richiedere la presenza di molti dettagli scientifici. Quella che avrebbe dovuto essere una questione pratica si è andata confondendo per l’effetto di interessi. Risulta difficile comprendere le proporzioni del disastro verso il quale sembriamo incamminati. Sorge il problema dell’uso e delle ripercussioni del pessimismo. Senza contare che la maggior parte dei lettori di grandi romanzi è già convinta. E soprattutto, che l’urgenza etica e politica può soffocare la vita, in un romanzo. E tuttavia, il nucleo della questione è tutt’uno con l’interesse tradizionale del genere: la natura umana, in questo caso la nostra formidabile intelligenza in disperato conflitto con la nostra formidabile stupidità. Amitav Ghosh ha messo in discussione l’idea che il romanzo sociale realista, con la sua fascinazione per il quotidiano e l’ordinario che Orwell lodava in autori come Joyce e Miller, sia all’altezza del compito di confrontarsi con l’incommensurabile trasformazione dell’emergenza climatica. Altri hanno sostenuto che potrebbe cavarsela meglio la fantascienza, grazie all’intrepida potenza dell’immaginazione. Molti raffinati scrittori contemporanei si sono sfilati dal ventre della balena e ci hanno provato. Margaret Atwood, Barbara Kingsolver, Kim Stanley Robinson, James Bradley, Hilary Mantel, Jeanette Winterson, Richard Powers. Questi e decine di altri autori hanno rischiato una forma di fallimento estetico. La loro è stata comunque una scelta seria, consapevole. L’urgenza della questione è improrogabile.
La catastrofe climatica potrebbe diventare il solo argomento rimasto per il semplice fatto che si ha l’impressione che abbia già cominciato a modificare la nostra cultura, la politica, la flora e la fauna, la nostra percezione delle stagioni, il nostro radicamento nel mondo, la nostra idea di futuro, il nostro concetto di ciò che è locale, delle comunità minacciate da migrazioni su scala senza precedenti, quando milioni, decine di milioni di individui fuggiranno da zone inabitabili del pianeta. O magari saremo noi quelli costretti a fuggire e ad affrontare l’ostilità dei nostri nuovi vicini. C’è, nel fenomeno del cambiamento climatico, un aspetto metafisico, uno Zeitgeist che abbiamo appena cominciato a cogliere e a esprimere. Se anche tutte le emissioni di CO2 e di metano dovessero cessare domattina, resterebbe l’inerzia del processo e il nostro mondo, naturale come artificiale, cambierebbe comunque, come ha già cominciato a fare. Il quotidiano, l’ordinario stanno per subire una rivoluzione. Il romanzo realista dovrà darsi molto da fare se intende evitare o negare ciò che è vero.
Per concludere, dunque, e ribadire in breve la mia lealtà: rendo onore alla generosità con cui George Orwell, il nostro monumento alla scrittura al di là del ventre della balena, ha saputo difendere il prezioso spazio protetto al suo interno; ammiro l’onestà e il genio di Albert Camus nel promuovere l’impegno politico pur riflettendo a fondo sui suoi pericoli; mi inchino al magistero di Henry James e alla sua indefettibile insistenza sulla libertà intellettuale del romanziere, e raccomando caldamente a tutti la lectio magistralis in narrativa politica di Italo Calvino.
Quando ho cominciato a scrivere queste note mi sono chiesto quale sarebbe stato un buon brano esemplare di scrittura «nel-ventre-della-balena». La scelta è naturalmente vastissima, e spazia dalla poesia araba in celebrazione dell’amore e del vino, ai romanzi sull’infanzia, i fantasmi, la caccia, sui genitori violenti, il matrimonio, le relazioni amorose e la caducità dell’amore. Alla fine, ho scelto la cosa piú minuscola, un famoso haiku del grande poeta giapponese del diciassettesimo secolo Matsuo Bashō, un uomo che amava la natura. Niente politica, niente ingiustizia sociale, niente crudeltà, minacce, pericoli.
Stagno antico
si tuffa una rana –
eco dell’acqua.
Esistono ben piú di settemila specie di rane in una spettacolare varietà di forme e di colori. Sperando non suoni troppo come il famoso 2 + 2 = 5, dirò che solo alcune rane sono rospi, ma tutti i rospi sono rane. Le rane sono in circolazione da duecento milioni di anni contro i nostri duecentomila appena. Fatta eccezione per il Sahara e i deserti arabi, e l’estremo nord dell’Antartide, esse popolano l’intero pianeta. A causa della loro pelle porosa e della posizione centrale che occupano nella catena alimentare, sono particolarmente vulnerabili. Per il perfetto adattamento all’ambiente in cui vivono, gli ecologisti le considerano campanelli d’allarme ambientali – nel senso che il ridursi della loro presenza costituisce un indicatore affidabile di degrado ambientale. In base alle stime piú accurate, piú di duemilacinquecento specie di rane sono a minaccia di estinzione. Centotrenta specie sono scomparse negli anni Ottanta. Nel Regno Unito, il rapporto sullo State of Nature ha segnalato la riduzione numerica degli stagni e l’impoverimento della loro biodiversità, concludendo che il novanta per cento dei corpi idrici planiziali ha subito un degrado. Il Million Pond Scheme lanciato dieci anni fa ha recuperato alcuni stagni preesistenti: un successo limitato ma significativo. Lo stesso vale per gli sforzi profusi negli anni per proteggere varie specie di balena dalla caccia. Triste constatare come la patria di Bashō, quasi unica al mondo, continui a perpetrare il massacro. Avevo scelto il suo haiku prima di saperne di piú sulla situazione delle rane sul pianeta.
Si potrebbe concludere che le condizioni all’interno della balena orwelliana abbiano subito un cambiamento radicale. È forse possibile ipotizzare che non esista piú il ventre della balena, che la creatura se ne stia spiaggiata a riva, come alle balene talvolta accade, con viscere, grasso e gabbia toracica a vista, mentre la sua carne in decomposizione si disfa aprendosi su un mondo inquieto fatto di onnipresente banda larga e solitudine in estinzione, sugli eccessivi trionfi di una specie tra il geniale e l’idiota, impegnata a lordare la sua stessa tana. Possibile che le categorie del dentro e del fuori si siano invertite? Non esiste piú un posto nel quale l’immaginazione possa rifugiarsi per dettare le proprie condizioni e creare nuove forme di bellezza, nuove visioni, nuove rotture?
Sono convinto che la risposta di Orwell, allora come oggi, sarebbe sí – sí, è di vitale importanza che un posto simile esista. Sento la sua voce – incredibilmente non abbiamo registrazioni, ma a me pare di sentirla nella testa – insistere con fermezza, e in antitesi alla sua stessa pratica, che trarre piacere dalla pace interiore evocata dal suono di una rana che si tuffa in uno stagno non significa negare che la rana è a rischio di estinzione o che lo stagno potrebbe prosciugarsi con la prossima siccità o sparire sotto l’aggressione di colture chimiche industriali; significa invece affermare, indipendentemente dall’intenzione autoriale, che rane e stagni naturali, quiete e solitudine sono un bene per il quale vale la pena di combattere. Tutti gli scrittori che, come Bashō, scelgono il ventre della balena, che si rifiutano di dirci che cosa pensano, o che cosa dovremmo pensare noi, che vogliono trattare di amore, infanzia, settimanali per ragazzi, rane, o della soddisfazione di occuparsi a fondo di un paio di dettagli, devono avere la libertà di farlo. Lo scrittore che neghi quella libertà a sé o agli altri sta – e qui cito – «di fatto invocando il proprio annientamento». Cosí, paradossalmente, parlò Orwell, da fuori del ventre della balena.
Si potrebbe ragionevolmente supporre che l’autore di 1984, uno degli scrittori piú politicamente e attivamente impegnati del nostro tempo, l’accanito fumatore che immaginiamo curvo sulla macchina da scrivere come se ci fosse incatenato, avrebbe condannato in maniera categorica l’irresponsabile apatia di colleghi come Henry Miller, la cui visione politica risultava a suo modo di vedere sprovveduta, autoreferenziale, come minimo disinvolta. Eppure, nel suo celeberrimo saggio del 1940, lo scrittore inglese antifascista per antonomasia compie un gesto di autoriale generosità: riconosce agli artisti il diritto di trovare rifugio «nel ventre della balena».
A partire dall’incontro tra Orwell e Miller, e tramite incursioni nel pensiero di altri leggendari scrittori come Albert Camus e l’Italo Calvino di La giornata d’uno scrutatore, Ian McEwan ci conduce al nocciolo della questione: ammesso che alla sua base ci sia un’esperienza personale autentica, un romanzo politico potente ed efficace è possibile. E tuttavia, soprattutto all’interno del nostro mondo iperconnesso, lo scrittore non deve perdere di vista il lusso della solitudine. Negli ultimi decenni l’artista è costantemente sollecitato a staccarsi dal comodo ventre della balena per nuotare in una realtà di catastrofi, eventi politici, morti di suo celeberrimo saggio del 1940, lo scrittore inglese antifascista per antonomasia compie un gesto di autoriale generosità: riconosce agli artisti il diritto di trovare rifugio «nel ventre della balena».
A partire dall’incontro tra Orwell e Miller, e tramite incursioni nel pensiero di altri leggendari scrittori come Albert Camus e l’Italo Calvino di La giornata d’uno scrutatore, Ian McEwan ci conduce al nocciolo della questione: ammesso che alla sua base ci sia un’esperienza personale autentica, un romanzo politico potente ed efficace è possibile. E tuttavia, soprattutto all’interno del nostro mondo iperconnesso, lo scrittore non deve perdere di vista il lusso della solitudine. Negli ultimi decenni l’artista è costantemente sollecitato a staccarsi dal comodo ventre della balena per nuotare in una realtà di catastrofi, eventi venerati e fragori e turbolenze dei social media. Se questo rischia di condurlo troppo distante da quella che Henry James chiamava la «vita percepita», ovvero il dettaglio, la banalità del quotidiano, è bene che lo scrittore riesca a raggiungere di nuovo, almeno per un poco, un luogo silenzioso e riparato da cui poter osservare il mondo e immaginare.
LO SPAZIO DELL'IMMAGINAZIONE
Voglio partire da un luogo: un appartamento parigino, a Montparnasse; da un giorno: il 23 dicembre 1936; e dal regalo di uno scrittore a un altro scrittore: una giacca di velluto a coste che, per quanto ne sapeva il ricevente, mostrava ancora tracce di grasso di balena sui risvolti. Il munifico donatore era l’americano Henry Miller. Pensò che al suo ospite George Orwell, in procinto di raggiungere la Spagna per prendere parte alla guerra civile, avrebbe fatto comodo una giacca calda durante l’inverno spagnolo, anche se gli fece notare che il tessuto non era antiproiettile. Il dono, disse Henry Miller, sarebbe stato il suo contributo alla causa lealista e antifascista.
L’incontro tra i due (il quarantacinquenne americano e il trentatreenne inglese) era stato favorevolmente predisposto dalla recensione positiva di Orwell a Tropico del Cancro, il romanzo di Miller, cui aveva fatto seguito un cordiale scambio epistolare. La circostanza ci consegna, oltre all’episodio biografico dei due, lo spunto iniziale per il nucleo del celeberrimo saggio di Orwell Nel ventre della balena, pubblicato in forma di libro poco piú di tre anni dopo, nel 1940, da Gollancz. Nonostante una buona dose di reciproca ammirazione, i due autori non la pensavano allo stesso modo su molte cose. Henry Miller, esule volontario, accanito bohémien, pessimista convinto, edonista, infaticabilmente attivo a livello sessuale – o faticosamente tale, come avrebbero sottolineato le femministe della seconda ondata nel corso degli anni Settanta –, nutriva un profondo disprezzo per la politica e per ogni genere di militanza. Come scrittore era, per usare la definizione di Orwell, «nel ventre della balena». La visione politica di Miller risultava sprovveduta, autoreferenziale, scanzonata. In una lettera a Lawrence Durrell si diceva certo che sarebbe riuscito a scongiurare la nascita del nazismo e la minaccia di guerra se solo gli fossero stati concessi cinque minuti a tu per tu con Hitler per farlo ridere.
La nostra fonte per la versione dell’incontro dalla parte di Miller è lo scrittore austro-britannico, suo amico di lunga data, Alfred Perlès, il cui memoir sull’americano uscí nel 1955. Il breve accenno alla vicenda da parte di Orwell si trova nel saggio Nel ventre della balena. Sul piano estetico, come su quello politico, i due autori erano distantissimi l’uno dall’altro. Al tempo, Orwell era ovviamente uscito da un pezzo «dal ventre della balena» – impegnato a fondo nella causa antifascista e nella lotta contro l’ingiustizia sociale nel suo Paese. «Mi fece presente, – ricorda Orwell, – senza ricorrere a mezze parole che andare in Spagna in quel momento era il gesto di un idiota… che le mie idee sull’opposizione al fascismo e la difesa della democrazia ecc., ecc., erano tutte fesserie».
Miller non tentò a lungo di convincere Orwell a non partire per la Spagna. Credeva che la civiltà moderna fosse agli sgoccioli e a lui non importava un accidente. Secondo quanto leggiamo nel memoir di Perlès, Orwell confessò a Miller il proprio senso di colpa per gli anni in cui aveva prestato servizio presso la British Imperial Police in Birmania. Miller riteneva che il suo visitatore avesse ampiamente espiato la colpa, scegliendo di sperimentare la vita del clochard (a Londra e Parigi), e scrivendo La strada di Wigan Pier. Orwell disse che in Spagna si stava combattendo una battaglia essenziale per i diritti umani, e che gli sarebbe stato impossibile non prendervi parte. Libertà e democrazia garantivano l’indipendenza dell’artista – compresa quella di Miller. Orwell insistette, secondo Perlès, «che là dove sono in gioco i diritti e la vita stessa di un intero popolo non può esservi esitazione rispetto alla propria disponibilità al sacrificio. Espose le sue convinzioni con tanta passione e umiltà che Miller rinunciò a controbattere oltre, per affrettarsi a concedergli la sua benedizione». Piú tardi, gli offrí la famosa giacca: un capo molto piú pratico, a suo giudizio, dello stiloso completo blu che Orwell aveva addosso.
A quanto risulta, i due scrittori si lasciarono in buoni rapporti. In Nel ventre della balena Orwell avrebbe continuato a sostenere che a Miller doveva essere riconosciuto il diritto di rifiutare, come artista, l’impegno politico. E Miller, dal canto suo, almeno secondo Perlès, gli avrebbe regalato la giacca anche se Orwell fosse partito per la Spagna deciso a schierarsi con i fascisti.
Ho studiato diverse foto di Orwell tra le reclute, nella caserma di Barcellona, o sul fronte aragonese quell’inverno, ma non sono riuscito a individuare nessuna giacca in caldo velluto a coste, non antiproiettile. Da Omaggio alla Catalogna sappiamo che quella notte in treno Orwell indossava il suo elegante completo blu. Quando al mattino il convoglio giunse al confine, un compagno di viaggio gli suggerí di levarsi cravatta e colletto per evitare che gli anarchici di guardia alla frontiera potessero giudicarlo troppo borghese e rispedirlo indietro. È possibile che la giacca di Miller avesse trovato un padrone la sera prima, finendo sulle spalle di un senzatetto, o che Orwell l’avesse buttata in un bidone dei rifiuti di Montparnasse. Un altro diritto inalienabile dello scrittore, avrebbe potuto spiegare.
Queste differenze tra Miller e Orwell rappresentano il Nord e il Sud, l’asse di orientamento con cui ogni scrittore deve fare i conti, oggi, nel nostro tormentato presente, come nel 1936, e ancora di piú, nel 1940. Un asse lungo il quale gli autori possono spostarsi in base a specifiche esigenze, nel corso della loro carriera. Non esiste la possibilità di evitarlo – o meglio, evitarlo coincide esattamente con la libertà che Orwell è deciso a difendere nel suo saggio. Considerata la sua posizione di scrittore fra i piú politicamente e attivamente impegnati del nostro tempo, Nel ventre della balena è un dono, un altro dono di autoriale generosità. Consiste in questo il nucleo del saggio. È la fonte di quel titolo bizzarro, che a Orwell giunse per tramite di Henry Miller, da Anaïs Nin partendo da El Greco e passando per Aldous Huxley. «Eccoti lí, – scrisse Orwell, – nello spazio buio e imbottito che ti calza a pennello, con metri di grasso tra te e il mondo, in grado di mantenere un atteggiamento di indifferenza assoluta, qualsiasi cosa succeda. Una tempesta capace di affondare una flotta di navi da guerra non ti arriverebbe neppure come un’eco lontana… Se si esclude la condizione della morte, è l’ultimo, insuperabile stadio di irresponsabilità… Miller sta nel ventre della balena… non sente il minimo stimolo a modificare o controllare il processo che va subendo…»
Sarebbe del tutto ragionevole supporre che l’autore di La strada di Wigan Pier e di Omaggio alla Catalogna prima, e di La fattoria degli animali e 1984 dopo, condannasse categoricamente tanta irresponsabile apatia. Ma non era solo questione di generosità. Con Nel ventre della balena intercettiamo Orwell in un momento di profonda disillusione memorabilmente descritto da (W. H.) Auden come il tempo in cui si vedono «scadere le astute speranze | d’un decennio basso e disonesto». Il pessimismo e il disinganno di Orwell dopo il trionfo del fascismo in Spagna superano di molte misure le incuranti affermazioni di Miller e sono di gran lunga piú documentati. Orwell è stato testimone della crudeltà e del cinismo degli stalinisti, mentre combatteva dalla loro parte. In capo alla fine degli anni Trenta, la gente si era perlopiú rassegnata all’ineluttabilità di un nuovo conflitto – a cosí poca distanza dal precedente. Nel 1940, Orwell prevedeva che la Gran Bretagna potesse essere invasa dalla Germania. La militanza politica per gli scrittori di sinistra – vale a dire per quasi tutti gli scrittori – comportava l’aggrapparsi al sogno sovietico malgrado l’evidenza di fatti come il primo Piano quinquennale, la carestia ucraina, le grandi purghe e i processi farsa e, piú di recente, il Patto Molotov-Ribbentrop. Quel genere di militanza politica, per come la vedeva Orwell, coincideva con un immane mucchio di menzogne opprimenti. Nel 1940, in una recensione all’indagine storica di Malcolm Muggeridge dal titolo Gli anni Trenta, Orwell scrisse: «Ogni approccio positivo si è rivelato un fallimento. Credi, partiti, programmi di qualsiasi colore hanno semplicemente fatto fiasco». Verso la fine di Nel ventre della balena scrisse: «Quasi certamente andiamo incontro a un’era di dittature totalitarie – un’era in cui la libertà di pensiero sarà in un primo tempo un peccato capitale e, in seguito, un’insulsa astrazione». In queste righe, un tema essenziale, vale a dire il rimodellamento della mente da parte dello Stato, compare anni prima della sua trattazione estesa in 1984. La forma romanzo era pluralista, inclusiva, tollerante e istintivamente progressista mentre, secondo Orwell, ogni tendenza progressista era al tramonto. Lo scrittore se ne sta «seduto su un iceberg che si va sciogliendo». Perciò, suggerisce Orwell, smettete di lottare o di fingere di poter controllare il cammino del mondo. «… Accettatelo cosí com’è, sopportatelo, registratelo». Alla fine degli anni Trenta, in veemente reazione alle interferenze dell’ideologismo, del pensiero «corretto» tanto nella sfera privata quanto nel dibattito pubblico, pieno di disprezzo per quelli che lui chiamava «i cani da fiuto dell’ortodossia», e allarmato dai governi totalitari di Germania, Russia e Italia, Orwell vedeva se stesso coinvolto in una battaglia di civiltà. Per quattrocento anni le grandi letterature europee si erano fondate, a dispetto del predominio cristiano, sull’idea di un individuo autonomo, sul concetto di onestà intellettuale. Da qui la frequente citazione del passaggio: «La prima cosa che chiediamo a uno scrittore è che non racconti menzogne, ma che dica ciò che realmente pensa, ciò che realmente prova».
Se la battaglia è presentata in termini molto ambiziosi, il prodotto artistico nei saggi di Orwell trova espressione nell’apprezzamento dell’onesto resoconto delle semplici cose della vita, del trattare di «fatti ben noti a tutti, ma da sempre assenti nella scrittura»: cosí, in una lettera a Henry Miller dell’agosto 1936, pochi mesi prima del loro incontro. Il passo comico che cita in tono ammirato è tratto da Tropico del Cancro: «Ad esempio quando il tipo dovrebbe far l’amore con la donna ma ha una voglia matta di pisciare».
Oggi come oggi, il nome di Miller viene raramente accoppiato con quello di James Joyce, ma in entrambi gli scrittori Orwell scorgeva la poesia del quotidiano. Mi torna in mente l’espressione utilizzata da John Updike per definire il proprio obiettivo autoriale: «Assegnare all’ordinario la dose di bellezza che gli spetta». In Nel ventre della balena Orwell non aveva dubbi sul fatto che Joyce occupasse un posto di gran lunga piú ragguardevole rispetto a Miller e, se i suoi commenti sulla celebrazione dell’ordinario appaiono oggi pressoché irrilevanti, è perché l’influenza di Joyce è risultata capillare al punto da raggiungere perfino, o forse soprattutto, scrittori contemporanei che non l’hanno mai letto.
Nella narrativa di Orwell l’ordinario può risultare opprimente, talvolta. Gordon Comstock, il protagonista di Fiorirà l’aspidistra, lavora in una libreria molto simile a quella di South End Green in cui lavorava il suo creatore. Ma in quei giorni, nei primi anni Trenta, Orwell, sconosciuto e in difficoltà finanziarie, aveva già una vita decisamente piú interessante e ricca di stimoli intellettuali di quella del povero Gordon. Questi rientra nella categoria, molto in voga tra gli autori inglesi, di personaggi deliberatamente depressi, residenti di un mondo immaginario male illuminato, squallidi giovanotti sottopagati e sessualmente bisognosi che si arrabattano tra gli impedimenti di alcol, fumo, tuguri a pigione e affittacamere odiose. Antieroi assai meno eruditi e colti dei loro ideatori. La moda, vagamente autoironica, durò un quarto di secolo nell’Inghilterra postbellica, fino a quando gli ultimi anni Sessanta e i primi Settanta non spazzarono via ogni sordido eccesso di ordinarietà.
Una volta domandai al mio amico Christopher Hitchens, che ha vissuto un’intera proficua esistenza di scrittore sotto l’incantesimo di Orwell, se avesse mai pensato di scrivere un romanzo. La sua risposta fu significativa e sarebbe probabilmente piaciuta a Orwell. Hitchens disse che non aveva mai potuto scrivere un romanzo perché non era mai riuscito a non pensare in base a categorie politiche. Eppure avrebbe potuto fare tesoro della lezione del suo maestro: nel 1939, una domenica mattina alle ore 11:15, il primo ministro Neville Chamberlain annunciò per radio che la nazione era entrata in guerra con la Germania. Due giorni piú tardi, Orwell annotò sul suo diario: «Di ritorno a Wallington dopo 10 giorni di assenza, trovo uno scempio di erbacce. Rape a buon punto e qualche carota di dimensioni notevoli. Non male i fagiolini. L’ultima partita di piselli non ce l’ha fatta. Qualche zucchina. Un’unica zucca grossa come una palla da biliardo. Mele grenadier quasi mature… prime patate piuttosto misere ecc.».
C’era, nel ventre della balena, giusto lo spazio per un piccolo orto. Ma questi appunti, è ovvio, si trovano nei suoi diari privati. In quelli di guerra, che redigeva parallelamente, Orwell scrive: «A quanto pare siamo in stato di guerra da questa mattina alle 11… I Tedeschi hanno preso Danzica e invadono il corridoio da quattro punti a nord e a sud… Distribuzione gratuita di maschere antigas e la gente sembra prendere le cose sul serio… Niente panico, ma d’altro canto niente entusiasmo».
Queste due pagine di diario danno una misura del risultato conseguito da Orwell: quello di vivere e prosperare dentro e fuori il ventre della balena. Mostrano una prodigalità di attenzione al dettaglio, come accade nel celeberrimo passaggio del suo testo dal titolo Un’impiccagione. Orwell racconta di aver scortato un condannato diretto al patibolo e di aver osservato come il prigioniero, a pochi minuti dalla propria morte, avesse badato a non calpestare una pozzanghera. Nella mia personale esperienza, è su momenti luminosi come questo che gli scrittori tendono a concentrarsi quando lodano un romanzo. Nabokov elargiva suggerimenti alle sue matricole della Cornell riguardo a come leggere e scrivere la narrativa: il consiglio era di scordarsi dei grandi temi e delle «chiacchiere generiche» e di «accarezzare» invece «i dettagli».
Quando pensiamo a Orwell intento a scrivere 1984 a Barnhill, nell’isola di Jura, possiamo evocare l’immagine dell’accanito fumatore, dell’uomo alto e curvo sulla macchina da scrivere come se vi ci fosse incatenato, completamente assorto e febbrile, al lavoro in corsa contro il tempo, e deciso a ignorare i suoi polmoni sempre piú malati. Ma in quegli stessi mesi, Orwell faceva molte altre cose: usciva in barca, pescava, zappava, segava e spaccava legna, aggiustava la motocicletta, riparava le cose rotte. A Wallington, molto prima di occuparsi di una fattoria immaginaria, aveva allevato una capra e qualche gallina. Aveva anche fatto lavori al tornio e, insieme alla moglie Eileen, gestito un negozio di generi alimentari. Sapeva come si smonta un fucile e come si addestra un plotone. Conosceva le rape e i fagiolini del suo orto. Sarebbe diventato il padre premuroso del suo figlioletto. Metà della sua esistenza, la metà non dedita alla scrittura, si svolgeva in un mondo fatto di cose solide, refrattarie a qualunque astrazione. Mi piace pensare che questo tipo di impegno nel mondo materiale scaturisse dalla stessa fonte che rese possibile la qualità lucida, fattuale e pratica della sua prosa. I compiti fisici che si imponeva, anche nei periodi di piú intensa attività di scrittura, erano al tempo stesso distrazioni dalla fatica mentale e metodo di immersione totale nelle faccende ordinarie del quotidiano: collocandosi dentro e fuori il ventre della balena, sfidavano la sua stessa proficua metafora.
Nel febbraio del 1945 Orwell, in uniforme da ufficiale dell’esercito britannico, come era prassi per i corrispondenti di guerra, sedeva a un tavolo della brasserie Les Deux Magots sulla piazza Saint-Germain-des-Prés in attesa di un altro scrittore. L’incontro non sarebbe mai avvenuto, perché Albert Camus, come Orwell sofferente di tubercolosi, era troppo malato per presentarsi. Peccato, perché quasi certamente avrebbero avuto uno scambio piú intenso di quello tra Orwell e Miller, ed è probabile che tutti e due l’avrebbero riportato sui rispettivi taccuini di appunti. C’era moltissimo di cui parlare. A parte la tisi e una grave dipendenza da nicotina – robuste Gauloises per Camus e altrettanto robusto «trinciato» in cartina per Orwell – i due autori avevano la Spagna in comune. La madre di Camus aveva antenati originari delle Baleari. Sua amante era stata, e presto sarebbe tornata a esserlo, l’attrice María Casarès, figlia di Santiago Casares Quiroga il quale aveva brevemente coperto la carica di Primo ministro al tempo del golpe franchista. Camus aveva dieci anni meno di Orwell, ma era già celebre. Anche Orwell aveva una sua notorietà, ma La fattoria degli animali, il libro che l’avrebbe reso famoso a livello internazionale, era stato rifiutato da vari editori e non sarebbe uscito prima dell’agosto di quell’anno. In quanto antistalinisti, antitotalitaristi e antisovietici, Orwell e Camus si erano collocati al di fuori dell’ortodossia di sinistra. E soprattutto, Camus, come Orwell, avrebbe dedicato la sua intera carriera di scrittore a riflettere sul rapporto tra il suo pensiero politico e la sua narrativa.
Un anno fa, mentre scrivevo un romanzo vagamente politico, un collega mi spedí l’articolo di Camus, Creare a proprio rischio e pericolo. Si tratta del testo del discorso tenuto da Camus in Svezia nel dicembre del ’57, l’anno del suo Premio Nobel. Camus è particolarmente efficace nel descrivere l’anelito di ogni scrittore a far sentire la propria voce e il modo in cui una coscienza politica può compromettere o danneggiare esteticamente un romanzo. Scrivendo dodici anni dopo la fine della guerra, egli non era meno consapevole di Orwell dei fallimenti del grande esperimento sovietico. Nel 1953, la rivolta operaia nella Germania dell’Est fu soffocata con la forza. L’insurrezione ungherese del 1956 fu repressa nel sangue dall’intervento armato delle truppe sovietiche. Verso la metà del decennio gli orrori dell’Olocausto cominciavano a emergere in tutta la loro mostruosità. Il regime nazista era stato un incubo che andava al di là dell’immaginabile. Era dunque valsa la pena di vincere la guerra, una guerra non combattuta, o almeno non solo, in sostegno di una causa imperialista, come molti socialisti, Orwell compreso, avevano creduto negli anni Trenta. Ma soprattutto in Francia, il consenso alla versione sovietica dello Stato totalitario era generalmente considerato un dovere artistico. Erano tante le cose che un autore come Camus aveva da dire in proposito.
A Camus tuttavia stava a cuore anche quella che lui chiamava la «divina libertà» – vale a dire lo spazio che rischiava di andare perduto in presenza dell’«obbligo costante». A suo giudizio l’artista che meglio di ogni altro incarnava il concetto di «divina libertà» era stato Mozart. (Un marxista potrebbe ragionevolmente obiettare che tanta paradisiaca libertà subiva di fatto notevoli limitazioni a causa del mecenatismo aristocratico. Ritengo tuttavia che, a livello prettamente musicale, siamo in grado di cogliere quel che Camus intendeva).
Il conflitto tra impegno politico e integrità estetica, ammetteva lo scrittore, non è di facile risoluzione. «Sul cassero delle galere lo sappiamo, si possono sempre e dovunque cantare le costellazioni mentre nella stiva i forzati remano fino allo sfinimento; si può sempre riprodurre la conversazione mondana che prosegue sulle gradinate mentre nell’arena la vittima viene sbranata dal leone». Ma in fondo, dopo una serie di tortuosità, Camus non giunge precisamente alla conclusione di Orwell quanto a difesa del contemplatore di stelle o del pettegolezzo sugli spalti dell’arena, pur riconoscendo che la «divina libertà» è tutto. Sebbene riluttante, Camus finisce per sostenere la causa della militanza. Scrive: «Appare evidente ciò che l’arte rischia di perdere da quest’obbligo costante». I tempi, tuttavia, incalzavano con richieste urgenti. Meglio, secondo Camus, «prendere atto dell’urgenza dei tempi, visto che quest’urgenza i nostri tempi la rivendicano a gran voce, e ammettere serenamente che l’epoca dei cari maestri, degli artisti con la camelia all’occhiello e dei geni in poltrona dalle accademie è ormai finita». E tuttavia si arrovella, Camus. È da sempre proprio la libertà della grande arte a sfidare lo Stato illiberale. Scrive: «I tiranni sanno che nell’opera d’arte c’è una forza emancipatrice». E ancora: «Ogni grande opera rende il volto dell’uomo piú mirabile e piú ricco…»
Al termine del suo discorso, Camus fa una considerazione che troverà consenso in tutti coloro che ammirano la chiarezza di stile della prosa di Orwell. Citando André Gide, Camus scrive: «L’arte vive di vincoli e muore di libertà». Un pensiero facile da fraintendere. I vincoli cui Gide fa riferimento non vengono da fuori, da censori dello Stato o editori venduti. «L’arte, – scrive Camus, – vive solo dei vincoli che si impone da sé». Vincoli diversi da quelli la uccidono. D’altra parte «se non si impone dei vincoli finisce per delirare e diventare schiava delle ombre. L’arte piú libera, l’arte all’insegna della rivolta, sarà quindi quella piú classica». Le possibilità dell’arte in tempi turbolenti e pericolosi, dice Camus, dipendono «dal nostro coraggio e dalla nostra volontà di essere lucidi». Quanto piú caotico e minaccioso si fa il mondo, quanto piú informe il suo materiale, insiste Camus, tanto piú stringente sarà l’ordine necessario all’interno dell’arte, «piú la sua regola sarà rigorosa e piú lui avrà affermato la sua libertà». Posizione reazionaria, ma audace. Lo spettro che va dal reazionario al progressista in arte viene erroneamente sovrapposto alla politica. Bach, per esempio, potrebbe passare per un artista reazionario se la sua musica non smontasse di significato tale definizione. Negli anni Settanta, nelle sale da musica, gli estremismi sperimentali dell’atonalità si irrigidirono presto in ortodossia accademica – prima di fare i conti con la sfida di una nuova generazione di artisti che resuscitarono la melodia. Camus avrebbe sostenuto che uno scrittore può essere progressista nel fine, e reazionario nei mezzi. La chiarezza è tutto.
Quando Camus evoca l’artista con la camelia all’occhiello, il genio in poltrona, immediatamente io penso a Henry James. Il Maestro non era tipo da lasciarsi tormentare dal conflitto tra impegno politico e libertà artistica. Ma personalmente credo che Orwell e Camus avrebbero avuto uno slancio di simpatia per la versione di divina libertà che James introduce nel suo grande saggio del 1884 dal titolo L’arte del romanzo. I nostri due romanzieri di metà Novecento avrebbero faticato a recepire alcuni dei suggerimenti pratici che vi si trovano. «Non ragionate troppo su ottimismo e pessimismo, – raccomanda James. – Cercate di cogliere il colore della vita». Ma ci sono passaggi, altrove, che sembrano scritti da Orwell: «La salute di un’arte che si propone di riprodurre in modo tanto diretto la vita esige che sia assolutamente libera. Si nutre di esperienza e il senso stesso dell’esperienza è la libertà». Il concetto echeggia alcuni passi dell’articolo di Orwell intitolato La salvaguardia della Letteratura: «La creazione letteraria risulta impossibile se non è prima o poi attraversata dalla spontaneità». E, piú avanti: «Al momento sappiamo soltanto che l’immaginazione, come certe specie di animali selvatici, non si riproduce in cattività».
E in un punto particolarmente delicato del saggio di James, Camus avrebbe riconosciuto la sua stessa ambivalenza rispetto alla facilità con cui l’impegno politico e l’esplicita indicazione al lettore su come pensarla possano lacerare il sottile tessuto dell’opera di finzione: «L’esperienza non è mai conclusa né completa; è un immenso organismo sensibile, una sorta di enorme ragnatela fabbricata con fili della seta piú fine, sospesa nella sede della coscienza e pronta a catturare nel proprio tessuto ogni particella trasportata dall’aria. È l’atmosfera stessa della mente; e quando la mente è creativa – soprattutto se si tratta di quella di un uomo di genio – si impossessa di ogni minimo accenno di vita, converte ogni battito d’aria in una rivelazione». Non è difficile immaginare che questi fili di seta finissima sospesi a mezz’aria sarebbero turbati se non propriamente distrutti dall’uggioso schema evocato da Auden nella sua lirica Spagna, che Orwell cita in Nel ventre della balena:
Oggi l’impiego delle forze
per lo squallido opuscolo effimero e per la riunione noiosa.
Camus ha parlato e scritto spesso della necessità dell’impegno – l’epoca reclama quanto le è dovuto – senza mai perdere d’occhio la facilità con cui forti ideali possono rovinare un’opera di finzione. Orwell, molto impegnato politicamente a partire dalla metà degli anni Trenta, è stato sempre piú esplicito nel ripetere, per tutti gli anni Quaranta, quanto fosse importante per i romanzieri non dire ai propri lettori che cosa pensare. L’immaginazione deve essere libera. E questo, sebbene sia stato lui a scrivere il romanzo politico per definizione del suo e del nostro tempo. Quando, nel 2017, Kellyanne Conway, consigliera del presidente americano Donald Trump, fece riferimento a «fatti alternativi», la gente corse in libreria a procurarsi una copia di 1984. Quel romanzo ha plasmato il nostro linguaggio e i nostri pensieri consegnandoci concetti utili come la «psicopolizia» e il «bipensiero». Si è diffuso imperterrito anche fuori della balena. Nei giorni della guerra fredda era il libro all’indice che moltissimi russi, cechi e polacchi volevano leggere piú di ogni altro. Si è insinuato, modificandola, nella lingua di tutti i giorni. Come è riuscito Orwell in questa impresa, senza lacerare la ragnatela finissima del romanzo con le sue certezze politiche? Direi che ci è riuscito mantenendo intatta quella che Henry James chiamava la «vita sentita» del romanzo – il lerciume, il grigiore, il puzzo di cavolo – abbassandosi e muovendosi in assoluta libertà all’interno di un pessimismo totalizzante. In quella sfera, la vita quotidiana, tanto importante per Orwell, poteva avere luogo. Non sono d’accordo con il mio amico Salman Rushdie il quale una volta ha sostenuto che 1984 è un romanzo disfattista perché ci mostra l’inutilità delle lotte. Pensiamo solo questo: se un manipolo di eroici, onesti ribelli guidati da Winston Smith insorgessero contro il superstato di Oceania e vi avviassero il regime di socialismo democratico umano e liberale tanto caro a Orwell, 1984 perderebbe il suo potere ipnotico. Vorrebbe dire che l’immaginazione dell’autore è caduta ostaggio di uno schematismo. Lo stesso vale per La fattoria degli animali che riesce a parlarci di rivoluzione e natura umana grazie alla potenza liberatoria del suo pessimismo. Il realismo è gettato al vento in favore dell’allegoria. A fronte dell’immane misura della sua influenza, si tratta di un libro brevissimo. Ma introducendo animali da cortile che parlano inglese, Orwell è stato abbastanza saggio da onorare il detto di Samuel Johnson pronunciato dopo la lettura di Tristram Shandy: «Nessuna bizzarria può durare a lungo».
Sia il romanzo che la novella sono libri terrificanti, segnali luminosi di pericolo, accesi nello smisurato spazio di una oscura premonizione. Nessuna via di scampo per il lettore. Se è di ottimismo che siamo in cerca, nel caso di 1984, dovremo guardare oltre il romanzo e considerare un uomo morente che, fuggito dalla Londra letteraria per rifugiarsi nella balena nota con il nome di isola di Jura, lotta con una malattia debilitante per consegnarci il suo monito contro il totalitarismo. Ma c’è un secondo e piú semplice messaggio di ottimismo: qualunque sia il frangente, un romanzo politico buono e incisivo è sempre possibile.
Vogliamo fare un esempio, allora? Il primo candidato è ovviamente il romanzo distopico Il mondo nuovo di Aldous Huxley. Al posto di prepotenza, sopraffazione e tortura, lo Stato tirannico ricorre qui all’uso di droghe sia per plasmare che per rendere inoffensivi i suoi cittadini. Ma il romanzo politico straordinario che vorrei segnalare è invece un testo relativamente poco noto: La giornata d’uno scrutatore di Italo Calvino, pubblicato in Italia nel 1963 e tradotto in inglese nel 1971 con il titolo The Watcher. Non si tratta del Calvino delle incantevoli, spumeggianti fantasticherie intellettuali delle Cosmicomiche, bensí di quello cresciuto in un ambiente ateo, grande lettore di fisica non meno che di narrativa, ed eterno scettico, pur senza animosità, nei riguardi della chiesa cattolica. E non dimentichiamo che, dopo aver preso parte alla Resistenza ed essersi iscritto al Partito comunista, restituí la tessera nel 1957 in segno di protesta a seguito dell’invasione sovietica dell’Ungheria e l’emergere delle atrocità staliniste. Come Orwell e Camus, quindi, visse tra fascismo e comunismo. Come loro, era ben consapevole dei confini tra militanza politica e libertà creativa.
La giornata d’uno scrutatore è un romanzo breve il cui protagonista, Amerigo, iscritto al Partito comunista, è incaricato di controllare la correttezza delle procedure elettorali all’interno di un istituto per «incurabili» di Torino nel quale si allestisce un seggio dedicato «ai tanti infelici, ai minorati, ai deficienti, ai deformi, giú giú fino alle creature nascoste che non si permette a nessuno di vedere». È il 1953, in Italia si svolgono le elezioni politiche. È una cosa nota che conventi, istituti psichiatrici, e ospedali, tutti in mano alla chiesa cattolica, costituiscono tradizionalmente una «grande riserva di suffragi per il partito democratico cristiano». In questa sede, il Cottolengo, Amerigo deve assicurarsi che i pazienti siano in grado di votare in modo autonomo in quanto abili mentalmente. La Democrazia cristiana non deve accaparrarsi elettori a partire da presupposti fraudolenti. Amerigo è consapevole che lo attende «una giornata triste e nervosa». Il seggio viene spostato da un reparto all’altro e sistemato intorno a ogni letto. Alle monache, vale a dire al personale infermieristico, è riservato un controllo decisamente benevolo. Ci sono un presidente di seggio e qualche scrutatore di altri partiti.
A mano a mano che la squadra guadagna reparti situati ai piani piú alti dell’edificio, le deformità diventano piú vistose fino a quando il seggio mobile non raggiunge creature a stento riconoscibili come umane. Esseri immobilizzati, privi di arti, afasici. Uno di essi presenta delle branchie al posto della bocca e, come molti altri ricoverati del reparto, è in grado di emettere unicamente squittii. Si sta procedendo a sistemargli il paravento intorno al letto. Sarà compito di una monaca premurosa assistere lo sventurato alla votazione per la Democrazia cristiana. Amerigo interviene sollevando la sua prima protesta. Certo, se ne terrà debitamente conto. Il presidente chiede che le operazioni di voto siano sospese.
C’è tuttavia un’altra storia che si sviluppa, in parallelo a questa. Durante la pausa Amerigo ha una conversazione telefonica, la prima di tre, con la sua amante, Lia. Senza dirlo in modo esplicito, Lia gli fa sapere di essere incinta. Lui è furibondo, prima con lei, poi con se stesso, e la tensione tra i due si fa altissima. Si accenna all’ipotesi di un’interruzione di gravidanza, ma non se ne discute a fondo. Quel che sembra in questione è l’amore che Amerigo ha fino a quel punto dichiarato di provare per Lia.
Di ritorno alle proprie incombenze elettorali, le obiezioni sollevate da Amerigo riguardo al voto di quel particolare elettore sono tranquillamente accolte. A sostegno della decisione si racconterà la storia che le condizioni del paziente sono peggiorate dall’ultima volta che ha votato nel corso delle precedenti elezioni. Amerigo tuttavia è confuso. Che cosa cerca di evitare con l’aborto di quel bambino, a che cosa mira impedendo il voto a quella sfortunata creatura? Che differenza può mai fare? Da che cosa nascono le sue incredibili facoltà di negazione? Le responsabilità politiche e domestiche si sovrappongono per misurarsi sullo sfondo piú consueto della frode elettorale. L’integrità personale e quella politica appartengono a due sfere separate? Lessi il romanzo per la prima volta verso la metà degli anni Settanta. A colpirmi fu la sensibilità che traspare nei riguardi dei personaggi e del modo in cui risultano prigionieri delle rispettive differenze. Uscii da quella lettura con la consapevolezza che un romanzo politico non può funzionare senza il legame con una storia personale intensa e convincente.
In un saggio ingiustamente ostile su Ford Madox Ford, il critico V. S. Pritchett scrisse una volta che, se il romanziere non si era guadagnato un posto tra gli scrittori di prim’ordine, era perché non aveva talento per lo «stupore deliberato». Forse Pritchett alludeva al debole di Ford Madox Ford per la vita mondana. A mio parere sottovalutava di parecchio la qualità delle sue opere. Ma da quando l’ho letta, quell’espressione vagamente ossimorica, «stupore deliberato», non smette di ossessionarmi. Credo possa essere applicata a qualsiasi ambizioso progetto che preveda l’impiego di concentrazione e creatività durevoli, ma personalmente l’ho sperimentata soltanto per lo sforzo della durata di mesi o anni di tenere insieme gli esili fili jamesiani di un romanzo in lavorazione. Si tratta di una condizione che va cercata, una sospensione, uno stato di fiduciosa speranza riguardo a ciò che può venirci in soccorso in solitudine, alla possibile fecondità di una buona idea, o di ciò che a tutta prima sembra esserlo.
Molti fili saranno scartati, e molti andranno perduti. Una scampanellata alla porta: il classico visitatore di Porlock che pretende la nostra immediata attenzione. Nel caso degli ultimi due decenni, il famigerato visitatore ha escogitato sistemi piú raffinati per intromettersi. La macchina su cui la gran parte degli scrittori lavora al giorno d’oggi è anche un portale aperto su una porzione significativa del sapere universale, sulle ultime notizie in innumerevoli campi: avvenimenti politici, catastrofi naturali, la morte di personaggi amati, le chiassose turbolenze dei social media. Perfino un programma relativamente innocuo come quello di posta elettronica esercita un potere di intrusione che nessun visitatore di Porlock si sarebbe mai sognato. Alcune richieste possono essere meritevoli, intelligenti, e legittime. Qualcuno sta avvelenando il fiume di cui ti è capitato di scrivere. Si raccolgono fondi per un teatro, una compagnia di danza; sta per morire la lodevole iniziativa di un progetto per bambini culturalmente svantaggiati; l’ennesima libreria è in procinto di chiudere. È scoppiata una guerra. Tu da che parte stai? Un ragazzo arabo arrestato, picchiato e torturato per tre anni a causa di un commento pronunciato incautamente sarà decapitato lunedí. Intendi aiutarlo? Per dire di sí dovrai allontanarti dalla tua comoda postazione foderata di grasso e nuotare fuori dal ventre della balena. Forse dovrai scrivere un pezzo, uscire di casa e prendere un treno, raggiungere uno studio televisivo, rilasciare una dichiarazione pubblica. Al tuo ritorno, alcuni di quei fili delicati si saranno spezzati e tu rischierai di non accorgertene neppure, perché li avrai dimenticati. Ciò che è già sulle pagine potrebbe sembrarti diverso da prima. La pagina successiva sarà diversa da quella che avresti potuto scrivere se nulla ti avesse disturbato. È probabile che non sarà migliore, ma tu non lo saprai. Il tuo «stupore deliberato» risulterà svanito e potrà volerci del tempo per recuperarlo. Ogni atto creativo contiene questo aspetto contingente. Quasi un secolo fa, Cyril Connolly parlava della «carrozzina nell’ingresso» come del nemico numero uno dell’arte. Nell’attuale gestione delle cose l’espressione andrebbe probabilmente riformulata come «il passeggino nella stanza, a un passo dalla tua scrivania».
Se uno scrittore o una scrittrice si portano fuori dalla balena per occuparsi di questioni di scottante rilevanza, della condizione biologica di persone coinvolte in una transizione sessuale, di cancel culture o, di recente, della Brexit, è poco probabile che si ritrovino coinvolti in un dibattito illuminante sostenuto da idee antitetiche. Potrebbero invece finire travolti da una di quelle brevi e assurde tempeste mediatiche. E ricavarne, specie se donna, insulti, e perfino minacce di stupro o di morte, nessuna delle quali favorirà l’emergere del tipo di stupore adeguato. Ma esiste una buona ragione per prestare ascolto alla perorazione di artisti e scrittori? La solitudine è uno dei grandi lussi della civiltà. Ma è diventata, per nostra stessa distratta concessione, per il nostro volontario asservimento alle meraviglie della rete, una risorsa in progressivo calo. Ne abbiamo tutti di meno. Nel 1970, quando cominciai a scrivere, la solitudine era abbondante e gratuita, come l’acqua prima di essere privatizzata. Vale per lo scrittore ciò che è vero per chiunque altro: perfino nel ventre della balena arriva la banda larga ultraveloce. L’abolizione della solitudine è uno degli aspetti angosciosi del mondo distopico orwelliano, nel quale spegnere la tv è vietato: ecco, questa sarebbe la mia personale versione della stanza 101.
Nonostante le vergognose aggressioni della Russia ai danni dell’Ucraina, almeno nei paesi dell’Occidente non prevediamo, come Orwell, la possibilità di subire un’imminente invasione militare. Non siamo, si spera, all’alba o sull’orlo di una guerra mondiale. Ma abbiamo altre preoccupazioni globali. Al loro confronto, le questioni scottanti cui ho fatto cenno sbiadiscono trasformandosi in quelli che oggi chiameremmo ironicamente «problemi da primo mondo». O rogne locali.
Di questi tempi, gli scrittori hanno molte buone ragioni per lasciare il ventre della balena, e l’antica domanda rimane valida: come è possibile farlo con successo? Se il personale è ciò che dà vita al romanzo politico, proviamo a considerare l’aspetto della costruzione di un personaggio. Supponiamo di averne ideato uno, una figura tridimensionale, una giovane donna, per esempio, ben collocata all’interno di un contesto sociale, dotata di una sensibilità convincente, e sviluppata con pazienza per la durata di trecento pagine. Un personaggio a tutto tondo, per usare l’espressione di E. M. Forster. Ora tuttavia supponiamo di concederle l’occasione di esprimere un’opinione politica convinta e abbastanza vicina alla nostra per qualche decina di righe, e correremo il rischio di perderci per strada una dimensione e di vederla trasformarsi in un personaggio piatto e indistinguibile quanto la singola figurina di un girotondo ritagliato nella carta.
Si potrebbe cominciare sollevando degli interrogativi. È scritta nelle dinamiche della storia una guerra sino-americana? L’ondata globale di nazionalismi razzisti cederà il posto a prospettive piú generose e costruttive? Riusciremo a invertire l’attuale grave fenomeno di estinzione di varie specie? Sarà in grado la società aperta di trovare modi nuovi e piú giusti per svilupparsi? L’intelligenza artificiale ci renderà piú saggi, piú folli, o piú irrilevanti? Sarà possibile attraversare l’intero ventunesimo secolo senza uno scambio di missili nucleari?
Ci si potrebbe anche limitare all’osservazione. Ci sono nazioni governate da bande di criminali in giacca e cravatta, gente determinata ad arricchirsi il piú possibile, mantenuta ai posti di comando dai servizi segreti, o dalla riscrittura della storia e da violenti nazionalismi. Una di queste è la Russia. Gli Stati Uniti, tra un delirio di culto della personalità e il riemergere del suprematismo bianco, hanno rischiato ultimamente – e ancora rischiano – di esserne un’altra. Adesso che la tecnologia, tra software di riconoscimento facciale e tutto il resto, è a portata di mano, la Cina potrebbe perfezionare il regime totalitario orwelliano e offrire al mondo un nuovo modello di organizzazione sociale in grado di competere con le democrazie liberali, se non di sostituirle: una dittatura sostenuta da un flusso costante di beni di consumo al posto delle droghe del mondo nuovo huxleyano. Ecco una questione di vitale importanza per scrittori e lettori: a livello globale, la libertà di espressione sta diventando un privilegio di pochi. In Russia e in Cina, naturalmente. In India, dove i rappresentanti del movimento ambientalista sono tolti di mezzo dalle forze dello Stato. In Pakistan e Bangladesh, dove gli atei vengono assassinati. In Arabia Saudita, dove i dissidenti religiosi o politici finiscono in carcere quando non direttamente sotto terra. Nell’Occidente angloamericano ci spaventa l’idea che possiamo aver dimenticato come manifestare un disaccordo su temi di rilevanza pubblica senza piegarci a intimidazioni o a varie forme di messa al bando sociale, alcune delle quali da parte di istituzioni preoccupate di subire danni in termini di reputazione. Vale la pena di considerare che la libertà di espressione scomparve dall’Europa cristiana medievale per un intero millennio. E ancora di piú ci volle per recuperare gli scritti di un libero pensatore come Democrito.
C’è molto materiale da trattare, in narrativa, sempre che si trovi il modo per farlo, molto che obblighi il romanziere a uscire dal ventre della balena. Ma ciascuno dei temi in questione è anche limitato e provinciale, tarato su un arco temporale umano. Sono istanze che si contraggono e coagulano in un nocciolo amaro all’interno di un guscio di proporzioni ben maggiori, il riscaldamento del pianeta, l’interconnessione sconvolta dei sistemi di oceani, terra, aria e vita, stupendi grovigli che si sostengono vicendevolmente e che a stento comprendevamo quando cominciammo a imporre i cambiamenti al pianeta. Come potrà uscirne quella struttura di oscura bellezza che chiamiamo civiltà?
Il romanzo del cambiamento climatico è ostico. L’argomento, vasto e complesso. Potrebbe richiedere la presenza di molti dettagli scientifici. Quella che avrebbe dovuto essere una questione pratica si è andata confondendo per l’effetto di interessi. Risulta difficile comprendere le proporzioni del disastro verso il quale sembriamo incamminati. Sorge il problema dell’uso e delle ripercussioni del pessimismo. Senza contare che la maggior parte dei lettori di grandi romanzi è già convinta. E soprattutto, che l’urgenza etica e politica può soffocare la vita, in un romanzo. E tuttavia, il nucleo della questione è tutt’uno con l’interesse tradizionale del genere: la natura umana, in questo caso la nostra formidabile intelligenza in disperato conflitto con la nostra formidabile stupidità. Amitav Ghosh ha messo in discussione l’idea che il romanzo sociale realista, con la sua fascinazione per il quotidiano e l’ordinario che Orwell lodava in autori come Joyce e Miller, sia all’altezza del compito di confrontarsi con l’incommensurabile trasformazione dell’emergenza climatica. Altri hanno sostenuto che potrebbe cavarsela meglio la fantascienza, grazie all’intrepida potenza dell’immaginazione. Molti raffinati scrittori contemporanei si sono sfilati dal ventre della balena e ci hanno provato. Margaret Atwood, Barbara Kingsolver, Kim Stanley Robinson, James Bradley, Hilary Mantel, Jeanette Winterson, Richard Powers. Questi e decine di altri autori hanno rischiato una forma di fallimento estetico. La loro è stata comunque una scelta seria, consapevole. L’urgenza della questione è improrogabile.
La catastrofe climatica potrebbe diventare il solo argomento rimasto per il semplice fatto che si ha l’impressione che abbia già cominciato a modificare la nostra cultura, la politica, la flora e la fauna, la nostra percezione delle stagioni, il nostro radicamento nel mondo, la nostra idea di futuro, il nostro concetto di ciò che è locale, delle comunità minacciate da migrazioni su scala senza precedenti, quando milioni, decine di milioni di individui fuggiranno da zone inabitabili del pianeta. O magari saremo noi quelli costretti a fuggire e ad affrontare l’ostilità dei nostri nuovi vicini. C’è, nel fenomeno del cambiamento climatico, un aspetto metafisico, uno Zeitgeist che abbiamo appena cominciato a cogliere e a esprimere. Se anche tutte le emissioni di CO2 e di metano dovessero cessare domattina, resterebbe l’inerzia del processo e il nostro mondo, naturale come artificiale, cambierebbe comunque, come ha già cominciato a fare. Il quotidiano, l’ordinario stanno per subire una rivoluzione. Il romanzo realista dovrà darsi molto da fare se intende evitare o negare ciò che è vero.
Per concludere, dunque, e ribadire in breve la mia lealtà: rendo onore alla generosità con cui George Orwell, il nostro monumento alla scrittura al di là del ventre della balena, ha saputo difendere il prezioso spazio protetto al suo interno; ammiro l’onestà e il genio di Albert Camus nel promuovere l’impegno politico pur riflettendo a fondo sui suoi pericoli; mi inchino al magistero di Henry James e alla sua indefettibile insistenza sulla libertà intellettuale del romanziere, e raccomando caldamente a tutti la lectio magistralis in narrativa politica di Italo Calvino.
Quando ho cominciato a scrivere queste note mi sono chiesto quale sarebbe stato un buon brano esemplare di scrittura «nel-ventre-della-balena». La scelta è naturalmente vastissima, e spazia dalla poesia araba in celebrazione dell’amore e del vino, ai romanzi sull’infanzia, i fantasmi, la caccia, sui genitori violenti, il matrimonio, le relazioni amorose e la caducità dell’amore. Alla fine, ho scelto la cosa piú minuscola, un famoso haiku del grande poeta giapponese del diciassettesimo secolo Matsuo Bashō, un uomo che amava la natura. Niente politica, niente ingiustizia sociale, niente crudeltà, minacce, pericoli.
Stagno antico
si tuffa una rana –
eco dell’acqua.
Esistono ben piú di settemila specie di rane in una spettacolare varietà di forme e di colori. Sperando non suoni troppo come il famoso 2 + 2 = 5, dirò che solo alcune rane sono rospi, ma tutti i rospi sono rane. Le rane sono in circolazione da duecento milioni di anni contro i nostri duecentomila appena. Fatta eccezione per il Sahara e i deserti arabi, e l’estremo nord dell’Antartide, esse popolano l’intero pianeta. A causa della loro pelle porosa e della posizione centrale che occupano nella catena alimentare, sono particolarmente vulnerabili. Per il perfetto adattamento all’ambiente in cui vivono, gli ecologisti le considerano campanelli d’allarme ambientali – nel senso che il ridursi della loro presenza costituisce un indicatore affidabile di degrado ambientale. In base alle stime piú accurate, piú di duemilacinquecento specie di rane sono a minaccia di estinzione. Centotrenta specie sono scomparse negli anni Ottanta. Nel Regno Unito, il rapporto sullo State of Nature ha segnalato la riduzione numerica degli stagni e l’impoverimento della loro biodiversità, concludendo che il novanta per cento dei corpi idrici planiziali ha subito un degrado. Il Million Pond Scheme lanciato dieci anni fa ha recuperato alcuni stagni preesistenti: un successo limitato ma significativo. Lo stesso vale per gli sforzi profusi negli anni per proteggere varie specie di balena dalla caccia. Triste constatare come la patria di Bashō, quasi unica al mondo, continui a perpetrare il massacro. Avevo scelto il suo haiku prima di saperne di piú sulla situazione delle rane sul pianeta.
Si potrebbe concludere che le condizioni all’interno della balena orwelliana abbiano subito un cambiamento radicale. È forse possibile ipotizzare che non esista piú il ventre della balena, che la creatura se ne stia spiaggiata a riva, come alle balene talvolta accade, con viscere, grasso e gabbia toracica a vista, mentre la sua carne in decomposizione si disfa aprendosi su un mondo inquieto fatto di onnipresente banda larga e solitudine in estinzione, sugli eccessivi trionfi di una specie tra il geniale e l’idiota, impegnata a lordare la sua stessa tana. Possibile che le categorie del dentro e del fuori si siano invertite? Non esiste piú un posto nel quale l’immaginazione possa rifugiarsi per dettare le proprie condizioni e creare nuove forme di bellezza, nuove visioni, nuove rotture?
Sono convinto che la risposta di Orwell, allora come oggi, sarebbe sí – sí, è di vitale importanza che un posto simile esista. Sento la sua voce – incredibilmente non abbiamo registrazioni, ma a me pare di sentirla nella testa – insistere con fermezza, e in antitesi alla sua stessa pratica, che trarre piacere dalla pace interiore evocata dal suono di una rana che si tuffa in uno stagno non significa negare che la rana è a rischio di estinzione o che lo stagno potrebbe prosciugarsi con la prossima siccità o sparire sotto l’aggressione di colture chimiche industriali; significa invece affermare, indipendentemente dall’intenzione autoriale, che rane e stagni naturali, quiete e solitudine sono un bene per il quale vale la pena di combattere. Tutti gli scrittori che, come Bashō, scelgono il ventre della balena, che si rifiutano di dirci che cosa pensano, o che cosa dovremmo pensare noi, che vogliono trattare di amore, infanzia, settimanali per ragazzi, rane, o della soddisfazione di occuparsi a fondo di un paio di dettagli, devono avere la libertà di farlo. Lo scrittore che neghi quella libertà a sé o agli altri sta – e qui cito – «di fatto invocando il proprio annientamento». Cosí, paradossalmente, parlò Orwell, da fuori del ventre della balena.