UN’ALTRA FINE DEL MONDO
È POSSIBILE
VIVERE IL COLLASSO
(E NON SOLO SOPRAVVIVERE)
Pablo Servigne, Raphaël Stevens,
Gauthier Chapelle
«Alcune cose si vedono bene solo con occhi che hanno pianto.»
HENRI LACORDAIRE
«Oggi il genere umano assomiglia a un sonnambulo, intrappolato tra i fantasmi del sonno e il caos del mondo reale. […] Abbiamo creato una civiltà da guerre stellari con emozioni dell’età della pietra, istituzioni medievali e una tecnologia fenomenale. […] Siamo terribilmente disorientati dalla realtà nuda e cruda della nostra esistenza che minaccia noi stessi e il resto della vita sulla Terra.»
EDWARD O. WILSON
«S’impone qui un rovesciamento di tutta la problematica del senso ultimo della vita: dobbiamo apprendere, e insegnarlo ai disperati, che in verità non importa affatto che cosa possiamo attenderci noi dalla vita, ma importa, in definitiva, solo ciò che la vita attende “da noi”! […] non chiediamo infatti più il senso della vita, ma sentiamo di essere sempre interrogati, come gente alla quale la vita pone in continuazione delle domande, ogni giorno e ogni ora, domande alle quali ci tocca di rispondere, dando una risposta esatta.»
VICTOR FRANKL
«Non credo più che si possa migliorare qualcosa nel mondo esterno, senza aver prima fatto la nostra parte dentro di noi.»
ETTY HILLESUM
«Non era tanto un ritorno alla terra, quanto un ritorno a noi stessi. Un’esperienza spirituale. Era per guarirsi, per riscoprirsi e affermarsi.»
TEE CORINNE
«Dici che non ci sono parole per descrivere questo tempo, dici che non esiste. Ma ricordati. Fai uno sforzo per ricordare. O altrimenti inventa.»
MONIQUE WITTIG
PREFAZIONE
Vorrei ricordare una lettura di cui non riesco a trovare la fonte. Siamo nella Provenza gallo-romana, verso la fine del IV secolo. Un patrizio, a capo di una vasta tenuta, si vanta del potere di Roma. La stessa campagna di scavo ci racconta che, poco dopo che il proprietario affermò per iscritto il proprio orgoglio per l’appartenenza all’Impero, la villa e i suoi abitanti furono vittime di un’incursione barbarica. Sembra che gli assalitori abbiano festeggiato sul posto e celebrato il loro crimine bevendo dal cranio dell’ex padrone di casa. Forse è il lato sinistro di questa storia che mi impedisce di ritrovarne le tracce.
In ogni caso le élite dell’epoca, come quelle odierne, esibivano un misto di arroganza e ingenuità, unito a un cinismo sfrenato. Come oggi, la fine dell’Impero ha portato a un drammatico aumento delle disuguaglianze. Ammettiamo, però, che dopo secoli di pax romana sia stato difficile immaginare qualcosa come la fine dell’Impero. Così come è difficile per noi accettare che, dopo secoli di “progresso”, la civiltà termoindustriale e i suoi alti tassi di crescita possano disintegrarsi.
Lettore, se hai aperto questo libro è perché l’idea di un tale collasso non è una novità. Anch’io la condivido e sono addirittura convinto che siamo già entrati in una dinamica di collasso, le cui manifestazioni morali e politiche sono ormai tangibili. Tra qualche anno, sarà un po’ come il profilo psicologico del leader che tende a prendere il potere giocando su paure e odio, fomentandole ad arte. Odioso e tracotante quanto basta, bugiardo e perverso, nel distruggere una dopo l’altra le dighe che proteggono i suoi compatrioti dalla violenza del mondo, sia fisica che morale, Trump è l’esempio perfetto di queste nuove élite dominanti. Molti di questi rappresentanti sono stati eletti e suscitano ammirazione nelle folle. La catastrofe, come la dinamica che la guida, è quindi morale prima di essere fisica. Come nella canzone di Serge Reggiani, i lupi, troppo umani, entrarono a Parigi perché c’erano già, dato che la fratellanza aveva abbandonato la città. La violenza morale precede e alimenta la violenza fisica, ma soprattutto ci acceca e ci disarma di fronte alle minacce fisiche che l’ingresso nell’Antropocene annuncia.
Da qui l’importanza di questo libro di Pablo Servigne, Raphaël Stevens e Gauthier Chapelle. La celebrazione industriale terminerà presto. Molte questioni vitali, a vario titolo, saranno ancora una volta in primo piano. La fine di questo mondo, e ancor più i mondi che partorirà, dipenderanno strettamente dai legami che saremo in grado di tessere e dall’immaginario che riusciremo a inventare nel prossimo futuro. Tuttavia, il libro è molto prezioso da questo punto di vista. Non è un trattato di collassologia, è un trattato di collassosofia. Infatti, il suo scopo non è quello di convincerci di un probabile collasso – esercizio del resto già completato – ma di prepararci intimamente ad affrontarlo e, in un certo senso, a superarlo, preparando sin d’ora il futuro, il mondo che, tra l’altro, dovrà essere ricostruito su nuovi principi.
Avremo portato alla rovina un amore smodato dell’Uno, un’ostinazione del semplicismo nel nostro approccio alla realtà. Solo il progresso (quale?), la scienza (quella di Bayer-Monsanto e dei loro protocolli science-based?), il calcolo, il Pil, la crescita, la competitività, l’efficienza, la padronanza della materia (su quale scala e per quanto tempo?), il capitale, la libertà (quale? di chi? per cosa?), l’umanità (sola in un mondo minerale?) dovrebbero permetterci di costruire l’Eden quaggiù. Il mondo moderno sarà stato quello degli slogan univoci, un mondo di estrema semplicità: è stato necessario, senza ulteriori riflessioni, crescere, staccarsi dalla natura, individualizzarsi, procedere a un’automatizzazione a 360 gradi, andare sempre più veloci e più lontano… verso un mondo dove si finisce per temere l’arrivo dell’estate per paura di soffocare, per paura di essere vittima di qualche evento estremo, dove contemplare uno scarabeo rinoceronte è diventato un evento fenomenale, dove le città finiscono per costituire rifugi di biodiversità tanto devastate sono le campagne, dove le scienze che ancora cercano di comprendere il mondo senza volerlo semplificare ulteriormente, quelle del clima e della biodiversità, configurano orizzonti da incubo.
Stop! Smettiamola di scivolare verso il baratro di questa modernità deleteria. Opponiamole la nostra interiorità, le nostre emozioni e passioni, i nostri figli, i nostri amici, le nostre reti, la nostra intelligenza e la nostra creatività. Impariamo di nuovo ad abbracciare i meandri della realtà o meglio delle realtà. Impariamo ancora una volta che il nostro mondo è più di quello che possiamo dominare, anche in modo indiretto, e anche semplicemente capire. Ricarichiamo le batterie con le saggezze del mondo, senza imitarle, senza aver paura di inventare. Eleviamo le spiritualità che ci consentiranno di rimanere in piedi durante la prossima tempesta e ricostruire una casa comune e aperta.
Dominique Bourg
filosofo, Università di Losanna
UN'ALTRA FINE DEL MONDO È POSSIBILE
INTRODUZIONE
IMPARARE A CON-VIVERE
Non sembra che l’idea che si verifichino catastrofi globali faccia rabbrividire più così tanto, visto che è ormai sempre più accettata, così come l’idea che tali catastrofi portino con sé la possibilità di un collasso sistemico globale.
Enormi shock quali Fukushima, le ondate successive di profughi in Europa, gli attacchi terroristici a Parigi e Bruxelles, la massiccia scomparsa di uccelli e insetti, il voto per la Brexit e l’elezione di Trump hanno seriamente incrinato l’immaginario pacifico di continuità che rassicurava così tante persone.
Uno degli ostacoli da affrontare nel rimuovere i complessi legati a questa idea di collasso è l’immagine caricaturale che ne abbiamo. Un’idea che evoca all’istante scene di film catastrofici hollywoodiani e alimenta la visione di un evento unico e inevitabile che distruggerebbe improvvisamente tutto quello che conosciamo. Temiamo l’attimo, come temiamo nel nostro decesso il momento del passaggio dalla vita alla morte.
Significa dimenticare che la cosa peggiore della morte è soprattutto la sua anticipazione, vedere gli altri morire, o vedersi soffrire negli occhi degli altri. Il collasso di una civiltà non è un evento (cioè una catastrofe), ma una serie di eventi catastrofici unici (come uragani, incidenti industriali, attacchi, pandemie, siccità) in un contesto di cambiamenti progressivi egualmente destabilizzanti (desertificazione, cambiamenti stagionali, inquinamento persistente, estinzione di specie e popolazioni animali).
Vediamo il crollo della civiltà termoindustriale (o anche di più) come un processo geograficamente eterogeneo che è già iniziato, ma non ha ancora raggiunto la fase più critica, e continuerà per un periodo indefinito. È al tempo stesso distante e vicino, lento e veloce, graduale e brutale. Non si tratta solo di eventi naturali, ma anche (e soprattutto) di shock politici, economici e sociali, nonché di eventi psicologici (come i capovolgimenti di coscienza collettiva).
Non si tratta neppure di una previsione come quelle di Nostradamus, né dell’ennesimo motivo per giustificare un atteggiamento passivo o nichilista. Non è una moda, né una nuova etichetta. Potrebbe invece essere un periodo che gli storici o gli archeologi dei secoli a venire definiranno e considereranno come un insieme coerente, o che le specie intelligenti del futuro considereranno come un evento storico molto specifico.
Per i lettori che pensano che stiamo esagerando per attirare l’attenzione, basta ricordare quello che due climatologi, durante una conferenza a Oxford nel 2011, hanno detto sugli obiettivi climatici del secolo (tenete presente che le emissioni di gas serra sono direttamente proporzionali all’attività economica). Ecco le loro raccomandazioni: «I paesi emergenti devono ridurre le loro emissioni di gas serra entro il 2030, mantenere poi questa diminuzione del 3 per cento all’anno; i paesi sviluppati devono oltrepassare il picco delle loro emissioni nel 2015 e poi diminuire del 3 per cento all’anno».1 Se questi obiettivi molto ambiziosi verranno raggiunti (e sappiamo già che non è così), allora il mondo avrà una possibilità su due di rimanere al di sotto dei +4 °C in media nel 2100… che è già di per sé mostruosamente catastrofico su scala globale. Nel 2017, BP e Shell prevedevano (a livello interno, senza che tali informazioni venissero condivise con gli azionisti e ancor meno con il pubblico) cambiamenti dell’ordine di +5 °C in media entro il 2050!2
Sul versante del “non-umano” (fauna, flora, funghi e microrganismi) è l’ecatombe, alcune popolazioni non smettono di ridursi e altre scompaiono per sempre. Popolazioni di anfibi, insetti e uccelli nelle campagne, barriere coralline, mammiferi, pesci di grandi dimensioni, cetacei… L’ultimo rinoceronte bianco settentrionale maschio si è recentemente estinto, aggiungendosi così alla lista di animali immaginari che illustrano le storie che leggiamo la sera ai nostri figli.
Il cambiamento degli ultimi anni
Tutte le cifre delle catastrofi sono facilmente accessibili e lo scopo di questo libro non è di aggiungerne. Ciò che ci interessa è il cambiamento di atteggiamento e di consapevolezza della società negli ultimi anni.
Un punto di riferimento: nel 1992, al Summit di Rio, più di 1.700 scienziati firmarono un testo comune che metteva in guardia l’umanità sullo stato del pianeta.3 All’epoca, si trattava di un evento nuovo e persino imbarazzante, poiché altri 2.500 scienziati risposero mettendo in guardia la società dall’“emergere di un’ideologia irrazionale che si oppone al progresso scientifico e industriale”.4 Venticinque anni dopo, 15.364 scienziati provenienti da 184 paesi hanno scritto un articolo in cui si spiega che senza un intervento rapido e radicale, l’umanità rischia di estinguersi.5 La lettera è rimasta senza risposta. Non c’è più alcun dibattito. Ma qual è la natura del silenzio che ne è seguito? Sconvolgimento, stanchezza, disinteresse?
Sul fronte delle élite al potere, le lingue si sciolgono con discrezione. Durante gli interventi che tutti e tre facciamo in ambito politico ed economico, ci sorprendiamo di non ricevere più domande sulla situazione. Semplicemente, in pubblico, lo scetticismo ha lasciato il posto all’impotenza e talvolta al desiderio di trovare una scappatoia.
Sul fronte delle persone più ricche del mondo, molte si barricano in gated communities, queste lussuose e sicure enclave residenziali.6 Stanno anche lasciando le grandi città: nel 2015, tremila milionari hanno lasciato Chicago, settemila Parigi e cinquemila Roma. Non tutti cercano di sfuggire alla tassazione, molti sono veramente preoccupati per le tensioni sociali, gli attacchi terroristici o la rabbia di una popolazione consapevole di ingiustizie e disuguaglianze.7 Come ha ammesso Robert Johnson, ex direttore di Soros Fund Management, in occasione del Forum economico mondiale di Davos, molti gestori di hedge fund stanno acquistando aziende agricole in paesi remoti come la Nuova Zelanda alla ricerca di un “piano B”, con jet privati a portata di mano e pronti a decollare per portarli a destinazione.8 Altri stanno costruendo giganteschi e lussuosi bunker sotterranei high-tech, nascosti a occhi indiscreti e in tutti i continenti, per proteggere le loro famiglie da calamità di ogni tipo.9 Tutto ciò illustra quello che il filosofo e sociologo Bruno Latour descrive come un atto di secessione da parte di una categoria della popolazione molto agiata che, consapevole dei rischi e della posta in gioco, cerca di salvare la propria pelle senza preoccuparsi del destino del resto del mondo.10 Per usare la sua metafora dell’aereo e della difficoltà di atterraggio, siamo entrati in un’area di forte turbolenza. Si accendono le spie luminose, le coppe di champagne si rovesciano, ritorna l’angoscia esistenziale. Alcuni alzano le tendine dei finestrini, vedono una notte buia squarciata dai fulmini e le richiudono immediatamente. Nella parte anteriore del velivolo si vedono alcuni viaggiatori in prima classe che indossano i loro paracadute d’oro. Ma cosa stanno facendo? Salteranno nella tempesta? Le classi nella parte posteriore si rivolgono all’equipaggio e chiedono i paracadute, sapendo perfettamente che la loro richiesta non verrà soddisfatta.
Come unica risposta, viene offerto loro un piccolo spuntino, un film, un articolo duty free…
Sopravvivere… tutto qui?
Di fronte a questi annunci catastrofici, una reazione frequente (e logica) è quella di iniziare a prepararsi materialmente a una tale evenienza. Come possiamo mangiare quando l’approvvigionamento viene interrotto? Come possiamo bere acqua potabile se il rubinetto non funziona più? Come possiamo riscaldare senza combustibile, gas naturale o elettricità? Non è difficile trovare informazioni su questi argomenti, sono disponibili migliaia di libri.11
In generale, questa «reazione all’ansia prevalente»12 che guida la preparazione alle grandi catastrofi attraverso la ricerca dell’autonomia, cioè dell’indipendenza dai sistemi di approvvigionamento industriale, si definisce “survivalismo”. Negli ultimi anni, questo movimento proteiforme si è sviluppato in maniera vertiginosa. Ma il termine comprende posizioni e realtà così diverse che è diventato difficile da uitlizzare. Prima degli anni Ottanta, i survivalisti facevano riferimento principalmente alle comunità ambientaliste di sinistra che si stavano preparando per un inverno nucleare. Al giorno d’oggi, il survivalismo si riferisce sia a persone che vogliono imparare a vivere in ambienti selvaggi sia a gruppi in cerca di autonomia attraverso il ritiro, il rifiuto e il risentimento nei confronti delle istituzioni ufficiali e/o di qualsiasi persona straniera che possa minacciare la loro sovranità. A volte vicini all’estrema destra, questi ultimi non rispecchiano il reale consenso all’interno del movimento e contribuiscono alla cattiva reputazione del survivalismo. Il cerchio è completo, poiché questa etichetta ora è usata più per screditare che per descrivere qualcosa, il che rafforza ulteriormente la sfiducia e la secessione di alcuni gruppi di survivalisti.
Non si tratta qui di fare un’analisi psicologica, sociologica o storica del survivalismo. In poche parole, l’idea che molte persone hanno di questo movimento, la sua caricatura, i suoi cliché, ci permette di presentare tre aspetti del nostro libro, introducendoli con alcune storie.
Ricordate certamente Robinson Crusoe, il famoso eroe del romanzo di Daniel Defoe del 1719. A causa di un uragano la sua nave affonda in Sud America, non lontano dalla foce del fiume Orinoco. Si ritrova da solo a sopravvivere su un’isola deserta che chiama Isola della Disperazione. Nonostante la sfortuna, Robinson riesce a costruire una casa, creare un calendario, coltivare il grano, cacciare, allevare le capre e imparare a realizzare il suo vasellame. I cannibali fanno regolarmente scorribande sull’isola per uccidere e mangiare i loro prigionieri. Quando uno di loro riesce a fuggire, Robinson lo accoglie e diventano amici. Una cosa che mancava disperatamente a Robinson: le relazioni umane.
La piramide dei bisogni, nota come piramide di Maslow, è una teoria della motivazione sviluppata negli anni Quaranta.13 Questa teoria mostra come i bisogni umani sono innanzitutto fisiologici (fame, sete, sonno, respirazione ecc.); poi arriva il bisogno di sicurezza, poi di appartenenza e di amore, poi di stima e infine, al vertice della piramide, l’autorealizzazione. La posizione del survivalista mette essenzialmente l’accento sulla base, sui primi due livelli di questa piramide (fisiologia e sicurezza), come una sorta di estensione logica e caricaturale del pensiero moderno. Potremmo vederci il riflesso di un mondo materialista, individualista, separato dalla natura e in lotta permanente, che cerca i mezzi migliori (materiali, quindi) per vivere in un mondo popolato da potenziali concorrenti ed esseri viventi di cui, in fondo, non sappiamo molto. In questo mondo, cibo, legna da ardere e armi rappresentano beninteso la via della salvezza.
Ora confrontiamo due favole. La prima si riferisce al simbolo della rete survivalista francese, la formica, quella della favola di La Fontaine. La formica trascorre l’estate a preparare il cibo per i momenti difficili, mentre viene presa in giro dalle cicale che non capiscono perché ci si dovrebbe preoccupare visto che il petrolio scorre a fiumi… Ma la formica stringe i denti. Nutre un certo risentimento e sta già godendo del piacere che avrà nel mandare al diavolo queste orde di cicale affamate (e cittadine) che chiedono perdono e pietà troppo tardi. Una vendetta ben meritata!
L’altra favola è quella dei tre porcellini. Tutti e tre si preparano per l’arrivo di un grosso lupo cattivo con più o meno rigore e una visione diversa della minaccia. Quando il lupo distrugge le due case più fragili, i primi due porcellini (diventati cicale) corrono verso il fratello super-survivalista… che apre loro la porta. Certo, li apostrofa con un “te l’avevo detto!”, ma questo non impedisce loro di condividere un pasto in maniera fraterna. La differenza tra le due favole? Il sentimento di fratellanza prima della catastrofe.
Un’ultima storia ci consentirà di aggiungere una nota di colore. La racconta il nostro amico Kim Pasche, che da anni organizza corsi di immersione nella natura selvaggia. Nonostante le sue incredibili competenze, rifiuta di accettare l’etichetta di survivalista e spiega con malizia: «Se metti dieci survivalisti in una foresta per mesi si uccideranno a vicenda e distruggeranno la foresta. Se metti dieci nativi americani nella stessa foresta, non solo la foresta sarà più bella e produttiva, ma avranno formato una tribù, una vera comunità di esseri umani in connessione con altri esseri viventi».14
Resta inteso che i bisogni fisiologici e di sicurezza sono importanti. Chiunque non abbia pensato di prepararsi in questo senso ne è cosciente solo a metà. Eppure la sopravvivenza è uno stato precario e temporaneo. È «un catalogo di dati senza visione».15 Possiamo sopravvivere qualche giorno, qualche settimana, ma poi? Peggio ancora, se affrontiamo la maggior parte delle catastrofi con questo atteggiamento materialistico e (preventivamente) aggressivo, con l’obiettivo di sopravvivere per qualche settimana, ci sono grandi possibilità che saremo tutti morti dopo un anno.
Queste quattro storie mettono in evidenza la logica alla base del libro: il desiderio di prepararsi alle conseguenze delle catastrofi attuali e future dando la priorità ai legami tra gli esseri umani e ai legami con i non-umani, e dando un senso a tutto questo. La piramide di Maslow rischia di essere invertita per alcune persone che non hanno intenzione di continuare a vivere se non hanno un senso di realizzazione, stima, fiducia, amore o motivi per condividere. Forse dovremmo parlare di una “tavola di Maslow”,16 in cui ogni pilastro è essenziale per l’equilibrio complessivo della persona…
Coltivare un orto nel proprio giardino, imparare a fare a meno dei combustibili fossili o preparare la famiglia alle emergenze è certamente necessario, ma non basta a “fare società”, ovvero a fare di noi degli esseri umani. Come dice la psicologa Carolyn Baker: «In fondo, una società di aspiranti survivalisti emotivamente miopi potrebbe produrre qualcosa di diverso da una cultura terrificante e disumana simile a quella de Il mondo nuovo di Huxley?»17
Non vogliamo che continui a esistere una società violenta che seleziona gli individui più aggressivi. Voler vivere al di là delle catastrofi, e non solo sopravvivere a esse, significa già affrontare la preparazione con un atteggiamento diverso, un’intenzione di gioia, condivisione e fratellanza.
L’utilità di un ambito della collassologia rivolto all’intimo
Dopo aver sintetizzato gli elementi fattuali dell’osservazione della possibilità di un collasso in un primo libro,18 prendiamo ora in esame diverse vie da seguire per quei collassologi che desiderano progredire. Ci sembra che la questione più importante (ma non la più urgente) sia quella dell’azione collettiva, cioè dello sviluppo di proposte politiche realistiche, audaci e coraggiose. Tuttavia, prima di agire, e anche prima di proporre linee d’azione, ci sono ancora cose da capire e un percorso interiore da seguire. Infine, ci sono ancora pochi libri che trattano gli aspetti psicologici del cambiamento climatico o di altre catastrofi globali.19
Ci troviamo di fronte a una grande sfida. L’interesse per questi temi nella loro forma scientifica o sociologica comporta un certo rischio per la salute mentale. Per quanto riguarda le persone che affrontano questo tema di petto e ne fanno lo scopo della loro vita, si trovano (e lo saranno per molto tempo a venire) a gestire sollecitazioni molto forti, a livello psicologico e nei loro rapporti con gli altri, nel loro impegno sociale e in quello politico.
Coloro che si stanno preparando non troveranno la prova facile, ma hanno meno probabilità di essere schiacciati dalla crisi rispetto a coloro che rifiutano di pensarci.20 Tra chi è pronto all’azione e chi rimane in una dimensione di negazione, ritroviamo tutta una serie di persone in difficoltà: chi sta attraversando fisicamente prove catastrofiche, chi sente che c’è qualcosa che non va, ma non trova le parole (debole dissonanza cognitiva), chi sa ma non può agire all’altezza delle proprie ambizioni (dissonanza cognitiva acuta) e chi conosce e agisce, ma è esausto o scoraggiato.
Durante questi anni di interazione con il pubblico, siamo giunti alla stessa conclusione di Baker, che ha lavorato a fianco di molte persone sconvolte dal tema del collasso: una volta scattata la scintilla, la maggior parte di esse non vuole approfondire o moltiplicare le prove materiali (anche se è importante in un primo momento), ma soprattutto vuole imparare a conviverci. Sono diventati “collassonauti”.
Prepararsi a questo futuro coinvolge quindi sia gli aspetti materiali e politici, sia gli aspetti psicologici, spirituali, metafisici e artistici. Le questioni sollevate dalle catastrofi sono incommensurabili. Se vogliamo continuare a pensare al collasso, cercando di agire, dando un senso alla nostra vita, o semplicemente alzandoci al mattino, è importante non impazzire. Impazzire per l’isolamento, la tristezza, la rabbia, i pensieri eccessivi, o perché si continua la propria routine facendo finta di non vedere.
Alcuni ritengono che questa dimensione psicologica sia appannaggio delle donne o sia un lusso riservato ai cittadini fragili, perché hanno conosciuto solo le comodità. Non è così. È primordiale e riguarda tutte le classi sociali, tutti i popoli, tutte le culture. Che cosa diciamo al sudanese che soffre di ansia o disturbo post-traumatico da stress in un campo in Libia o a Calais? Che la sua sofferenza è trascurabile? Cosa diciamo alla famiglia di un giovane studente belga ipersensibile che si suicida con lucidità estrema? Come aiutare l’ingegnere responsabile della perforazione di un pozzo petrolifero, che esita a tornare al lavoro ogni mattina dopo aver baciato i figli? Come possiamo mantenere il morale alto in quanto zadisti21, quando inventiamo nuovi modi di vivere su un territorio e riceviamo come risposta bulldozer e granate?
Lo scopo della collassologia non è quello di affermare certezze che schiacciano qualsiasi futuro, né di fare previsioni precise, né di trovare “soluzioni” per “evitare un problema”, ma di imparare a convivere con le cattive notizie e i cambiamenti brutali e progressivi che queste annunciano, per aiutarci a trovare la forza e il coraggio di farne qualcosa che ci trasforma, o, come direbbe Edgar Morin, “ci metamorfosa”.
Allargare alla collassosofia
Nella comunità dei “collapsnik” (blogger di successo nel mondo anglofono che stanno cercando di comprendere il collasso imminente), il canadese Paul Chefurka si è distinto per il suo talento pedagogico nell’ambito di una materia complessa.22 Ci ha anche trasmesso una semplice ma illuminante scala di consapevolezza.23 «Quando si tratta della nostra comprensione dell’attuale crisi globale» dice, «ognuno di noi sembra trovare il proprio spazio in un continuum di consapevolezza che può essere suddiviso approssimativamente in cinque fasi».24
Nella fase 1 la persona non sembra riconoscere alcun problema fondamentale. E se un problema c’è, è quello di non avere abbastanza di ciò che già c’è: crescita, occupazione, salari, sviluppo.
Nella fase 2 si diventa consapevoli di un problema fondamentale (uno a scelta tra temi come ad esempio clima, sovrappopolazione, picco del petrolio, inquinamento, biodiversità, capitalismo, nucleare, disuguaglianze, geopolitica, migrazioni ecc.). Questo “problema” monopolizza l’attenzione della persona, che crede sinceramente che “risolvendolo” tutto tornerà come era prima.
Nella fase 3 c’è una presa di coscienza di diversi problemi importanti. Le persone in questa fase trascorrono il loro tempo dando priorità alle lotte e a convincere gli altri di certe priorità.
Nella fase 4 quello che doveva accadere accade, la persona diventa consapevole dell’interdipendenza di tutti i “problemi” del mondo. Tutto diventa diabolicamente sistemico, cioè insolubile da parte di pochi individui o grazie a miracolose “soluzioni”, e inaccessibile alla politica così come è attualmente concepita. «Le persone che arrivano a questo stadio tendono a ritirarsi in piccole cerchie di persone che la pensano allo stesso modo per scambiare idee e approfondire le loro riflessioni su ciò che sta accadendo. Queste cerchie sono necessariamente piccole, sia perché il dialogo personale è essenziale per approfondire queste ricerche, sia perché semplicemente non ci sono molte persone che hanno raggiunto questo livello di comprensione.»25
Infine, nella fase 5, il punto di vista è irrevocabilmente cambiato. Non si tratta più di un “problema” che richiede “soluzioni”, ma di un predicament (una situazione inestricabile che non sarà mai risolta, come può esserlo la morte o una malattia incurabile), che ci invita piuttosto a trovare nuove strade e deviazioni per imparare a conviverci nel miglior modo possibile. Ci rendiamo conto che la situazione abbraccia tutti gli aspetti della vita e che ci trasformerà profondamente. Può emergere la sensazione di essere completamente sopraffatti: alla vista di un entourage disinteressato, di un sistema-mondo troppo inerte e di un sistema-terra in forte sofferenza. Quasi tutto deve essere messo in discussione, il che non solo è estenuante, ma può anche tagliare fuori da un ambiente affettivo stabile e rassicurante. «Per coloro che raggiungono la fase 5, c’è il rischio reale che si sviluppi la depressione.»
A questo punto ci sono due modi (non esclusivi) di reagire a questa spiacevole situazione, commenta Chefurka. Possiamo intraprendere un percorso “esteriore”: politica, rete delle città di transizione, creazione di comunità resilienti ecc. o un percorso “interiore” più spirituale. Quest’ultimo non implica necessariamente l’adesione a una religione, al contrario: «La maggior parte delle persone che ho incontrato e che hanno scelto un percorso interiore danno poco valore alla religione tradizionale così come le loro controparti sul percorso esteriore ne danno alla politica tradizionale».
All’interno di questo panorama di metamorfosi, la collassologia è l’analisi e la sintesi transdisciplinare di molti studi condotti su questa inestricabile situazione globale. C’è una frase di Spinoza che riassume bene tale approccio che porta ad abbattere le barriere tra le discipline: «Non deridere, non piangere, non condannare, ma comprendere».26 Questa potrebbe diventare una disciplina scientifica di per sé, che diventerebbe veramente ufficiale solo se le università istituissero cattedre in collassologia, se gli studenti e i ricercatori esistenti ottenessero finanziamenti, proponessero simposi e un possibile “Open Journal of Collapsology” (con peer-review)…
Questo approccio collassologico, essenzialmente razionale, è necessario perché permette di dissipare la nebbia e, per molti, di rimanere credibili nei confronti di persone sensibili all’argomento, ma non ancora convinte. Ma è tutt’altro che sufficiente, perché non ci dice cosa fare, né come distinguere ciò che è buono da ciò che è cattivo, né come coltivare convinzioni forti, valori assertivi, un’immaginazione abbondante e un grande desiderio di collettività. Gli strumenti scientifici sono pertinenti ma non sufficienti a coprire un argomento così smisurato come il collasso (e che comprende anche il collasso dei sistemi di pensiero). In altre parole, nella fase 5 della consapevolezza, la collassologia non è più sufficiente.
Negli ultimi anni il nostro metodo scientifico si è arricchito di un approccio sensibile, che ci ha portati a immergerci in questioni etiche, spirituali e metafisiche. Riteniamo che anche questo faccia parte del kit di pronto soccorso che deve essere aperto in caso di tempesta dalla durata indefinita. Nel suo libro Une nouvelle Terre,27 Dominique Bourg dice proprio questo: l’unica scelta che ci resta è ripensare il modo in cui vediamo il mondo, cioè l’essere nel mondo.
Proponiamo di chiamare “collassosofia” (dove sofia = sapienza) l’insieme di comportamenti e prese di posizione che risultano da questa situazione inestricabile (tra i collassi che si verificano e un possibile collasso globale) e che vanno oltre il mero ambito della scienza. Lo stesso approccio di apertura e abbattimento delle barriere che abbiamo per la collassologia si ritrova qui in una più ampia apertura alle questioni etiche, emotive, immaginarie, spirituali e metafisiche. Non vogliamo scegliere una parte, ma cercare le complementarità e i legami da tessere tra tutti questi ambiti per aiutarci in queste trasformazioni esterne e interne.
Siamo consapevoli che questo approccio non è consueto nel mondo scientifico e politico (o almeno non apertamente discusso) e che genera al contempo disagio ed entusiasmo. Ma noi crediamo che sia essenziale. Come riassume John Michael Greer: «Riconoscere che queste due trasformazioni, esterna e interna, operano in parallelo e devono avvenire simultaneamente era il pezzo mancante dei movimenti ambientalisti degli anni Settanta».28 Aggiunge inoltre che «la dimensione tecnica della nostra situazione deplorevole è meno importante della dimensione interna, perché finché questa non sarà affrontata, saremo condannati a peggiorare la nostra situazione».29
In questi tempi di incertezza, le voci degli scienziati sono più importanti che mai. È tempo che raddoppino sforzi e rigore, ma anche che trovino il coraggio di parlare con il cuore e di impegnarsi pienamente in queste sfide, con tutta la soggettività che ciò implica. Alcuni di loro lo stanno già facendo, come si vede per esempio nel documentario canadese di Iolande Cadrin-Rossignol, La Terre vue du cœur,30 con Hubert Reeves.
Catastrofi future possono causare la sofferenza e persino la morte prematura di migliaia o milioni di persone… per non parlare delle altre specie! Se ci richiudiamo in noi stessi e affrontiamo il futuro senza compassione, rischiamo di perdere le motivazioni a vivere e la nostra umanità. Se, d’altra parte, decidiamo di immergerci corpo e anima, con compassione e coraggio, allora è necessario essere ben equipaggiati a livello materiale, emotivo e spirituale, al fine di evitare la follia o un ritorno all’anestesia. L’idea di questo libro è quindi quella di esplorare i cambiamenti che possiamo fare nella testa e nel cuore per essere in sintonia con il nostro tempo. Rispondendo all’esortazione della psicologa Carolyn Baker dobbiamo chiederci, oltre a cosa possiamo fare, chi possiamo essere.31
Abbattere le barriere
Da diversi anni ormai siamo impegnati nel far conoscere al maggior numero possibile di persone le opere scientifiche su questo tema. Non abbiamo perso morale, speranza o ragione. Ora ci rendiamo conto che andare oltre il rigido quadro scientifico ci è stato di grande aiuto in questo percorso, che è stato anche fonte di gioia.
I collassi parziali attuali e i possibili collassi sistemici futuri sono opportunità di trasformazione. Rimaniamo convinti che è possibile comprendere, parlare e sperimentare le catastrofi e le sofferenze che provocano senza rinunciare alla gioia e alla possibilità di un futuro.
Questo libro racconta le nostre scoperte nel campo della psicologia delle catastrofi, ma anche i nostri incontri sulle vie della collassosofia. Si rivolge a chi vuole navigare in questo equilibrio chiaroscurale, senza rinunciare alla lucidità o alla realtà, ma senza rinunciare neppure a un futuro possibilmente gioioso, e comunque terreno.
Perché la domanda che solleva Latour è quella della nostra generazione:
Continuiamo ad alimentare sogni di fuga o ci mettiamo alla ricerca di un territorio abitabile per noi e i nostri figli? O neghiamo l’esistenza del problema o cerchiamo di toccare terra. Questa ormai è la discriminante per tutti, molto più del sapere se siamo di destra o di sinistra.32
In questo libro analizziamo correnti di pensiero ancora poco note al pubblico. Facciamo anche collegamenti tra diversi ambiti che a prima vista non hanno nulla a che fare gli uni con gli altri, consapevoli che questo potrebbe dar fastidio ad alcune persone. La lettura di queste pagine richiederà uno spirito di apertura, curiosità e comprensione, ma è il segno distintivo di un’impresa transdisciplinare (vedi capitolo 4). Tale approccio aperto si riflette anche nella diffidenza nei confronti di etichette precostituite, luoghi comuni e caricature utilizzati principalmente per screditare, come quelle di survivalisti, ingenui-idealisti, “bobo” (bourgeois-bohème), fasci, “gaucho” (gauchiste), new age, mistici. Questo non ci impedisce di vedere la complessità (o il vuoto) di ciò che si cela dietro.
Pensate a questo libro come a una visita a un enorme orto selvatico. Sentitevi liberi di andare in giro e scegliere ciò che vi attrae, o di chiedere informazioni su ciò che non sapete. C’è colore e vita, ci sono frutti visibili e legami ancora invisibili. E come gli indiani kogi, riempite due bisacce. Quella di destra con ciò che vi parla e vi si addice; quella di sinistra con ciò che disapprovate o che oggi vi sembra irrilevante, in modo da poterci ritornare in seguito.
Nella prima parte analizziamo i possibili impatti delle catastrofi sulla nostra salute mentale, così come i mezzi disponibili per riprendersi. Come possiamo metabolizzare queste notizie e questi risultati? Come possiamo abituarci a conviverci per i decenni a venire? Come annunciarlo intorno a noi? La speranza e l’ottimismo hanno ancora un senso?
Nella seconda parte esploriamo tre modi per cambiare la nostra visione del mondo, per aiutarci a trovare un significato, o almeno a guardare con occhi diversi la questione. Come e perché possiamo evolvere il nostro rapporto con la scienza e la conoscenza? Come e perché possiamo aprirci ad altri modi di vedere il mondo sviluppato da altre culture che sono meno… termoindustriali? Più in generale, non è il momento di cambiare le narrazioni?
Infine, nella terza parte affrontiamo in maniera più approfondita la collassosofia, occupandoci della questione essenziale dei legami da intrecciare con noi stessi, con gli altri esseri viventi, per poi aprirci a domande che restituiscono senso al nostro tempo e alla nostra vita: il “diventare adulti”, il rapporto uomo-donna, il ritorno alla natura selvaggia o i modi per attraversare tutto questo insieme.
L’invito di questo libro è quello di esplorare partendo dalle conoscenze, dalle esperienze e dalle intuizioni di ogni persona, di condividere la gioia di capirne di più, di far fare degli “scatti”, di esplorare le nostre ombre, di andare incontro a persone che ci portano fuori dalla nostra zona di comfort, di avviare un dialogo con alberi, fiumi e salamandre, di accompagnare la sofferenza e il dolore e di essere partecipi dell’emergenza di ciò che accade.
PRIMA PARTE
RIALZARSI
«E nessuno può sentirsi al tempo stesso responsabile e disperato.» ANTOINE DE SAINT-EXUPÉRY
1
SUBIRE LE ONDE D’URTO
Si può sempre fare zapping, ma si finisce per ricaderci. È difficile evitare le notizie catastrofiche del nostro mondo, e quando si rinuncia a ignorarle o quando si cerca di immaginarne le ripercussioni… risultano essere sconcertanti. Mettono tutto sottosopra. L’immaginario si incrina, le convinzioni vacillano, le emozioni si manifestano. Abbiamo sempre trovato curioso che nei manuali survivalisti, nei saggi sull’Antropocene, nelle conferenze sul clima, negli incontri politici, a parte qualche rara eccezione,1 si parli poco delle emozioni… se non per brandire la paura e la paura della paura. Tuttavia, la gamma di emozioni è molto più ampia e il loro impatto sul modo in cui pensiamo, parliamo, vediamo il futuro o agiamo è fondamentale.
Durante o dopo una catastrofe, i traumi psicologici colpiscono solo poche persone. D’altra parte, le emozioni riguardano tutti. Non sono “opzioni” che molti uomini si sono dimenticati di acquisire alla nascita o che le ragazze usano per vivacizzare le serate davanti a un film d’amore… Hanno un’influenza cruciale sui nostri giudizi e sulle nostre decisioni, e sono uno dei principali fattori scatenanti del comportamento umano.2 Cambiano la nostra percezione del rischio3 e possono influire sulle nostre preferenze politiche.4
Rendersi conto che è troppo tardi per limitare il riscaldamento globale “a meno di 2 °C” e che le conseguenze sono e saranno catastrofiche, osservare la massiccia diminuzione delle popolazioni animali o scoprire molecole tossiche nel sangue dei bambini: tutto questo causa paura, rabbia, tristezza, rassegnazione, senso di colpa, sentimenti di impotenza, che sconvolgono gli episodi di negazione nella vita quotidiana.
Ci sono notizie nei libri e nei giornali, ma ci sono anche catastrofi che colpiscono direttamente già migliaia di persone! Inondazioni, siccità, tsunami, incendi giganteschi, carenze, zone morte in mare, popolazioni decimate di insetti, uccelli, pesci o grandi erbivori hanno già causato e stanno ancora causando danni molto reali e considerevoli a persone, popolazioni o classi sociali. Tutte generano shock fisici e psicologici che dovremo continuare ad affrontare per tutto il secolo.
Sarà necessario forgiare un morale di acciaio (o piuttosto di giunco, dipende)5 per resistere alle tempeste future. Questo capitolo esplora gli aspetti psicologici delle catastrofi, e più specificamente le reazioni che provocano in noi.
Vivere le catastrofi
Le catastrofi, siano esse naturali, industriali o l’esito di atti terroristici, sono improvvise, travolgenti e spesso letali. Uccidono, feriscono, deprimono, fanno impazzire, sconvolgono, causano disperazione, paura, stress, anestetizzano. Sono colpi enormi per il corpo e per l’anima.
UN AUMENTO COMPLESSIVO DEL LIVELLO DEI TRAUMI PSICOLOGICI
All’indomani dei disastri, i media hanno l’abitudine di fare il bilancio delle perdite umane e di quantificare i danni: milioni o miliardi di euro o di dollari da una parte, decine, centinaia o migliaia di vittime dall’altra. L’uragano Katrina nel 2005 ha ucciso 1.836 persone6 ed è costato ai contribuenti americani la bellezza di 160 miliardi di dollari,7 che equivalgono a quasi l’1 per cento del Pil del paese. Nel 2011 a Fukushima, a causa del terremoto e dello tsunami, ci sono stati 15.828 morti, 6.145 feriti, 4.823 dispersi e più di un milione di abitazioni distrutte.8 Le spese sono stimate pari a 626 miliardi di dollari, ovvero il triplo delle prime valutazioni fatte dal governo giapponese.9
Questo tipo di catastrofi colpisce milioni di persone ogni anno (162 nel 2005, 330 nel 2010).10 Negli Stati Uniti il 13-19 per cento degli adulti fronteggia almeno una catastrofe nel corso della vita.11 Queste cifre sono in aumento in tutto il mondo a causa del cambiamento climatico e dell’aumento della densità demografica.12
Ma se il numero dei morti è relativamente basso rispetto al numero delle persone coinvolte (nel 2010 è morto lo 0,1 per cento dei 330 milioni di persone colpite), cosa accade allora ai sopravvissuti?
Dietro questi “freddi” numeri si cela in effetti un’altra realtà, spesso dimenticata e tuttavia essenziale: le conseguenze psicologiche di una catastrofe durano molto di più dei traumi fisici.13 La loro intensità e la loro frequenza non smetteranno di aumentare. Saper comprendere, gestire e trattare questo tipo di traumi è fondamentale per prepararci ad affrontare gli shock futuri.
Durante un evento simile le prime reazioni sono lo sconvolgimento (inibizione), la negazione, l’azione (per esempio salvare i propri cari) o la fuga. Lo shock può provocare stress intenso, poi reazioni più durature come ansia, irritabilità, disperazione, apatia, perdita di autostima, senso di colpa, depressione, confusione, insonnia, disturbi alimentari o anche difficoltà nel prendere decisioni.
Alcune persone continuano a rispondere allo shock iniziale molto tempo dopo che il pericolo è passato. Quando la reazione a un trauma interferisce con la vita quotidiana, i professionisti della salute mentale parlano di “disturbo post-traumatico da stress” (Ptsd). Le centinaia di studi condotti negli ultimi decenni14 dimostrano che i sintomi possono impiegare fino a sei mesi per manifestarsi. Alcune categorie (con alcune determinanti sociali), tra cui donne e bambini, sono le più vulnerabili.15 Va anche notato che il Ptsd non è l’unico sintomo grave: esistono anche disturbi depressivi maggiori, ansia generalizzata e panico.16
Le catastrofi che interessano aree geografiche circoscritte possono inoltre generare problemi gravi ma meno visibili. In uno studio recente condotto nella zona di Fukushima alcuni ricercatori di Harvard hanno potuto confrontare per la prima volta la salute di una popolazione prima e dopo un grande disastro.17 Ne è emerso che, tra gli ultrasessantacinquenni, il tasso di demenza è di fatto triplicato, soprattutto a causa delle perdite delle relazioni di vicinato.
Gli sconvolgimenti graduali e protratti nel tempo hanno effetti altrettanto deleteri sulla nostra salute mentale. In Urss, a partire dagli anni Settanta, quindi ben prima che l’Unione si dissolvesse il 26 dicembre 1991 in un’«atmosfera stranamente pacifica, senza colpi di kalašnikov o minacce missilistiche»,18 il paese era già in forte declino. Tutti i paesi del blocco sovietico hanno subito le conseguenze di questi crolli economici, sociali e politici.19 Un’intera generazione ha sofferto per la scarsa e variabile disponibilità delle risorse e l’incertezza crescente che si rifletteva in tutti gli aspetti della vita.20
Quel periodo è stato caratterizzato da un’accelerazione del declino dell’aspettativa di vita. In Russia, tra il 1992 e il 1994, gli uomini hanno perso più di sei anni (da 63,8 a 57,7 anni), le donne più di tre (da 74,4 a 71,2 anni). Le cause? Aumento dello stress, un sistema sanitario carente, malattie infettive, suicidi, omicidi, nonché incidenti stradali e consumo eccessivo di alcool, soprattutto tra gli adolescenti e i giovani adulti.
Il tasso di suicidio per gli uomini tra i cinquanta e i sessant’anni, aumentato di colpo dopo il 1992, si è rivelato essere profondamente connesso allo stato dell’economia (Pil); quello femminile invece al consumo di alcool. L’alcolismo ha svolto un ruolo importante in questo caos sociale e sanitario, soprattutto per quelle fasce della popolazione che non potevano contare su un solido sostegno psicologico nel proprio ambiente. Il numero di omicidi è triplicato tra il 1988 e il 1995 e resta ancora oggi tra i più elevati al mondo. Gli uomini, spesso ubriachi, rappresentano il 90 per cento degli assassini, mentre le donne, spesso violentate, il 30 per cento delle loro vittime.
Il cambiamento climatico, altrettanto letale e traumatico, è una forma di violenza estrema e può essere paragonato a uno stato di guerra, con il suo bagaglio di rabbia, dolore e morte. In India, negli ultimi trent’anni, l’aumento delle temperature e le conseguenti perdite in campo agricolo hanno causato una disperazione profonda e, si stima, sessantamila suicidi.21 Uno studio recente prevede che un cambiamento climatico incontrollato (oltre i 4 °C) potrebbe provocare tra i novemila e i quarantamila suicidi negli Stati Uniti e in Messico entro il 2050.22 Sarebbe un aumento del tasso di suicidi paragonabile a quello indotto da una recessione economica. Inoltre, come evidenziato dall’editoriale di un numero speciale della rivista di climatologia “Nature Climate Change”, c’è un tema ancora poco studiato, ma in pieno sviluppo: la perdita, il dolore, il lutto e la disperazione provocati dai cambiamenti graduali nei paesaggi e negli ecosistemi.23
Dopo aver vissuto una “perdita ecologica” (ecological loss), si può provare quello che la ricercatrice canadese Ashlee Cunsolo e l’australiano Neville Ellis definiscono “dolore ecologico” (ecological grief). «Il dolore ecologico è una conseguenza naturale della perdita ecologica, in particolar modo per le persone che vivono, lavorano o mantengono relazioni strette con gli ambienti naturali.»24 Due sono i contesti in cui emerge questa condizione: la scomparsa o la distruzione fisica (di specie, di ambienti, di ecosistemi ecc.) e la perdita dei saperi correlati a tali ambienti.
Per quanto riguarda la distruzione fisica, si tratta ad esempio della perdita dell’abitazione o dei propri cari a causa del passaggio di un uragano,25 ma anche di un degrado lento dell’ambiente (in questo caso si parla di “violenza lenta”), spesso ignorato in quanto non genera un’emergenza immediata.26 A tal proposito Cunsolo ed Ellis presentano l’esempio degli agricoltori australiani che, testimoni della desertificazione delle terre causata dal vento, hanno reazioni (depressione, collera e ansia, ma anche veri e propri dolori fisici) proporzionali al «sentimento di appartenenza e di connessione al territorio». Arriviamo qua al concetto di “solastalgia”:27 una forma di disagio e dolore legati al ricordo di un luogo di vita (territorio ed ecosistema) distrutto o degradato.28 Questa sensazione di desolazione, ad esempio, è spesso avvertita dai migranti.
Per quanto riguarda la perdita di sapere, le catastrofi e i cambiamenti globali distruggono le conoscenze e gli usi sviluppati in connessione con un territorio e gli esseri viventi, in particolare nelle culture e nelle popolazioni che mantengono stretti rapporti con il mondo naturale. Questo si traduce in una perdita di identità e, di conseguenza, in profondi sentimenti di dolore.29 È il caso dei contadini australiani seguiti da Ellis, che non riescono più a prevedere le stagioni, né trasmettere queste conoscenze, e che sono quindi preoccupati per il futuro delle loro famiglie; lo stesso vale per gli inuit, che non riescono più a viaggiare sul ghiaccio per andare a cercare il cibo nei loro luoghi abituali. Le generazioni più anziane «non hanno più fiducia nelle loro conoscenze»30 e soffrono anche per non aver saputo difendere un territorio che era sotto la loro responsabilità. Vergogna, senso di colpa e di impotenza li divorano.
L’immersione nell’Antropocene non farà che accentuare questa sensazione di dolore ecologico. Finora completamente esclusa dai discorsi scientifici o politici sul cambiamento climatico, questa nozione rimane complicata da affrontare pubblicamente.31 Essere in grado di riconoscerlo è un primo passo, come sottolinea il filosofo Clive Hamilton. È la prima tappa verso il riconoscimento di un legame fondamentale tra noi e la biosfera, un legame che dobbiamo identificare, accettare e di cui ci dobbiamo prendere cura. Sentirsi tristi dopo una catastrofe non è solo un segno di buona salute mentale, ma anche di un profondo attaccamento alla terra.
Non pensate che gli scienziati siano esclusi da queste emozioni. Chi è interessato alle cause e alle conseguenze delle catastrofi (terrorismo, conflitti armati, genocidi, migrazioni, cambiamento climatico, catastrofi naturali) lavora regolarmente con un oggetto di ricerca traumatico, ma non è preparato alle conseguenze psicologiche.
Il professor Dale Dominey-Howes, del Natural Hazards and Disaster Risk Research Group dell’Università di Sydney, descrive molto bene gli shock subiti da questi ricercatori sul campo e tramite le testimonianze dei sopravvissuti, ma anche in via indiretta quando i colleghi hanno vissuto lo stesso tipo di trauma.32 Incoraggia quindi il monitoraggio dello stato emotivo degli scienziati e mette in guardia i suoi colleghi contro tale rischio scarsamente documentato. Queste misure di sorveglianza riguardano ovviamente tutti, come ci ricorda la psicologa Émilie Hermant:
Infine, voglio ribadire che la vita nella civiltà industriale è intrinsecamente traumatica. Ci sono, naturalmente, migliaia di veterani tra di noi che soffrono di disturbi post-traumatici da stress, ma non ho mai incontrato una sola persona che non avesse una qualche forma di trauma nel proprio corpo. Devo forse ricordarvi che il trauma del collasso sicuramente risveglierà i traumi passati di cui già ci sono tracce nel vostro corpo, a meno che non troviate un modo per affrontarli ora?33
TEMPESTE EMOTIVE PRESENTI E FUTURE
Non ci sono solo i traumi. L’Antropocene è anche una ricca fonte di emozioni cosiddette “negative”, emozioni che la nostra cultura, il più delle volte, ci incoraggia a trascurare, soprattutto per non ostacolare la nostra mente razionale, responsabile delle “soluzioni”. L’accelerazione del deterioramento, tuttavia, ci promette un diluvio crescente che dobbiamo essere in grado di accogliere.
La tristezza emerge quando perdiamo ciò che amiamo. I giardini della nostra infanzia, le rondini delle nostre campagne, oranghi e foreste primarie, orche, squali e oceani puliti, ghiacciai delle nostre montagne e banchisa artica: la litania non sta affatto rallentando. Quando questa tristezza cresce fino a essere percepita come infinita, scivola nella disperazione, persino nel nichilismo.34
La collera (e talvolta la violenza, che non devono però essere confuse) scaturisce per segnalare la difesa di un territorio o di un’identità che è stata attaccata o violata. Ma è anche una forma di espressione del dolore e della sofferenza, e soprattutto la prova di una grande sensibilità nei confronti dell’ingiustizia. La collera può anche significare la volontà, la rabbia di vivere e anche di convivere. Uno degli autori del rapporto al Club di Roma, Donella Meadows, ha giustamente notato: «Con una collera repressa a metà tendo a vacillare e a fare qualcosa di impetuoso e ignorante. Ma una rabbia forte, radicata e familiare mi può motivare attraverso un impegno che dura tutta la vita per migliorare le cose».35
Anche la paura è ambigua. È molto comune quando si tratta di immaginare la propria famiglia che vive in un mondo caotico dove mancano acqua potabile e medicine (come d’altronde già avviene in molte regioni). Mentre la paura è più una reazione animale, specifica ed esplosiva, come nel caso della preda di fronte al proprio predatore, l’ansia e l’angoscia sono molto più insidiose e latenti. Ci paralizzano proprio quando dovremmo muoverci. Infine, ci sono le paure collettive, ereditate dalla storia e dalle nostre memorie comuni: paura della mancanza, della violenza degli altri, delle ideologie o delle religioni.36
Associata a sentimenti di impotenza e vulnerabilità, la paura può portare alla negazione, alla paralisi e all’anestesia. Gli studi relativi agli effetti della paura sull’impegno contro il riscaldamento globale sono controversi.37 Alcuni affermano che la paura non incoraggia l’impegno, altri dicono il contrario. Alla fin fine, in realtà non c’è una correlazione tra paura e sostegno a una politica di lotta contro il riscaldamento globale.38
Molte persone hanno difficoltà a esprimere le proprie emozioni per paura di soffrire (di farsi trascinare da qualcosa che trascende il loro controllo), per paura di perdere la speranza (e di non trovare più una ragione per cui vivere), per paura di apparire macabri agli altri (bisogna mostrarsi “positivi”: è la regola), per paura di apparire ignoranti o non credibili in presenza di esperti “oggettivi”, per paura di causare angoscia agli altri, o per paura di sembrare persone deboli non in grado di controllare le emozioni.39
Il riflesso più comune è quindi quello di reprimere questi affetti, impedendo l’emergere di emozioni cosiddette “negative”, a favore di quelle definite “positive” come la gioia o l’entusiasmo. La ragione spesso addotta è che un’eccessiva focalizzazione sugli impatti negativi dei cambiamenti climatici (cioè una “diagnosi” severa) senza in realtà mettere in luce le soluzioni (un “trattamento” fattibile) dispenserebbe il pubblico dall’essere coinvolto.40
Questi sentimenti non sono da evitare, sono la risposta logica e sana di un essere umano che sta assistendo alla distruzione di ciò che gli sta a cuore. Troppo spesso tendiamo a respingere queste emozioni negative, a diffidarne, a considerarle cattive consigliere. E se non fossero così male?
Ad esempio, possono stimolare la ricerca di informazioni, una tappa fondamentale per mettersi in moto.41 Possono anche essere importanti per costruire un’immagine desiderabile del futuro. Ad esempio, uno studio della psicologa Susanne Moser sulle comunità costiere della California, già colpite dal cambiamento climatico, mostra che i fattori che più contano nella costruzione di una visione del futuro sono l’attaccamento al luogo di vita e le reazioni emotive associate al cambiamento climatico… con un netto distacco dalle soluzioni tecniche.
Ci si spinge addirittura oltre. Da più di quarant’anni il lavoro di Joanna Macy, attivista ambientale ed ecofilosofa, ha dimostrato che non nascondere i fatti, non trattenersi dall’esprimere le nostre verità porta a una rinnovata energia e a una sorta di rilascio di entusiasmo che induce alla gioia.
È inoltre interessante notare che anche gli scienziati sono preoccupati da questa tendenza a evitare i cosiddetti effetti “negativi”. Chi studia il cambiamento climatico o la distruzione della biodiversità è gravemente colpito dalla disperazione, ma si astiene dal mostrarla in pubblico per cautela, per ragioni di obiettività, per produrre a tutti i costi un discorso spassionato.42
Così, circa dieci anni fa, Clive Hamilton analizzava questa neutralità degli scienziati:
Dietro il loro apparente distacco scientifico, [i climatologi tradiscono] uno stato di panico appena velato. Nessuno vuole dichiarare pubblicamente ciò che la climatologia ci sta dicendo: non possiamo più impedire un riscaldamento globale che provocherà in questo secolo una trasformazione radicale del mondo, rendendolo molto più ostile allo sviluppo della vita.43
Come sottolinea l’editoriale di “Nature Climate Change”, il cambiamento climatico è studiato più della salute mentale dei ricercatori, il cui campo di studio riguarda catastrofi e cambiamenti globali,44 mentre sono immersi quotidianamente in informazioni ansiogene ed esposti alla negazione, all’apatia e persino all’ostilità del grande pubblico. Il cocktail giusto per la depressione!
Ancora peggio, questi scienziati sono logicamente più sensibili all’ambiente rispetto alla media, il che li espone a maggiori delusioni ed emozioni negative… anche se le regole della professione impongono loro di non esprimerle e di rimanere i più neutrali possibile. Una situazione logorante, che ha portato, ad esempio, Camille Parmesan, ricercatrice di livello internazionale, specialista degli effetti del clima sulla biodiversità e co-autrice di rapporti del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc) delle Nazioni unite, a dichiararsi pubblicamente «in depressione da lavoro».
Mentre questo campo di studio è ancora a livello embrionale, la comunità scientifica sta finalmente rendendosi conto della sua importanza. Come riassume la psicologa Susan Clayton, «la ricerca dovrebbe esplorare strategie per aiutare [i ricercatori] ad affrontare queste emozioni. La loro motivazione ed empowerment sono importanti per tutti noi».
La storica della scienza Naomi Oreskes ha mostrato come questa cultura della finta indifferenza abbia portato i climatologi a trasmettere una versione sottovalutata dei rischi climatici,45 e quindi sostiene che gli scienziati dovrebbero esprimere in modo più chiaro le loro preoccupazioni.46 Per la filosofa Sabine Roeser la questione è chiara: le emozioni sono «l’anello mancante di una comunicazione efficace».47 Devono essere espresse!
Come non sentirsi infatti colpiti quando un climatologo non riesce più a contenere le proprie lacrime di apprensione e impotenza? Per noi, questo tipo di messaggio è molto più incisivo della semplice lettura di una (fredda) sintesi contenuta nei rapporti Ipcc per i decision-maker. Tutto questo si allinea perfettamente con la nostra esperienza di collassologi e di scambi con il pubblico. Perché, come riassume Oreskes: «Come potete comunicare il pericolo senza enfasi emotiva? Come potete dire a qualcuno di preoccuparsi quando non sembra che voi siate allarmati?»
Comunicare cattive notizie
Ci sono due categorie di cattive notizie: quelle che riguardano una catastrofe che si è già verificata (come ad esempio la morte di una persona cara, la perdita di una casa, un incidente aereo) e quelle che non sono ancora avvenute. L’annuncio della drastica riduzione delle popolazioni di uccelli rientra nella prima categoria. L’annuncio (o consapevolezza) di un probabile collasso della nostra civiltà nella seconda. Queste parole da sole possono causare un altro crollo, quello del nostro mondo interiore.
Se c’è un ambito in cui si comunicano notizie terribili alle persone, è quello sanitario.48 Probabilmente abbiamo alcune lezioni da imparare dalle esperienze in questo campo, sia da medici e infermieri sia dai pazienti e le loro famiglie.
L’ANNUNCIO DELLA MANCANZA DI FUTURO
Nel 2013, il filosofo australiano Clive Hamilton ha descritto il suo “scatto”. Non si trattava di una presa di coscienza (perché ne sapeva molto sull’argomento), ma di una consapevolezza emotiva. Lo shock è andato dalla testa al cuore e il corpo si è messo in moto:
Per alcuni anni sono stato in grado di misurare il divario esistente tra le azioni che gli scienziati richiedevano e ciò che le nostre istituzioni politiche potevano intraprendere, un grande gap probabilmente invalicabile. Ma non potevo accettare emotivamente cosa questo significava veramente per il futuro del mondo. Solo nel settembre 2008, dopo aver letto molti libri, rapporti e articoli scientifici recenti, ho finalmente accettato di cambiare e prendere atto del fatto che noi, semplicemente, non stavamo agendo come richiesto dall’emergenza. […] Per certi versi, mi sono sentito sollevato: sollevato di ammettere finalmente ciò che la mia mente razionale mi aveva detto fin dall’inizio; sollevato di non dovere più sprecare le energie in false speranze e sollevato di poter esprimere un po’ della rabbia nei confronti di politici, imprenditori e scettici sulla questione climatica, che sono in gran parte responsabili del ritardo, impossibile da recuperare, nelle azioni contro il riscaldamento globale. Ma d’altra parte, ammettere la verità mi ha fatto precipitare in uno stato di sgomento che è durato quasi quanto la scrittura di questo libro.49
Per Cunsolo ed Ellis esiste un terzo tipo di dolore ecologico, legato alla perdita di un futuro anticipato.50 Occasionale o cronico, è dovuto al cambiamento di percezione di un futuro (o di mancanza di un futuro), e colpisce soprattutto i giovani. È simile a quello che altri hanno definito disturbo “pre-traumatico” da stress, ovvero le conseguenze psicologiche di vivere con la paura del futuro.51
Si possono subire effetti deleteri per la mancanza di un futuro a seguito di segnalazioni di catastrofi climatiche o del collasso degli ecosistemi. In medicina, l’annuncio di una malattia incurabile, mortale o meno, ha gli stessi effetti.
La malattia di Huntington è una patologia genetica degenerativa rara e incurabile i cui sintomi gravi, che di solito compaiono verso i quarant’anni, possono portare rapidamente alla morte. Quando annunciarono a Émilie che aveva sviluppato questa malattia, ne fu sconvolta. Non aveva ancora quarant’anni e non presentava alcun sintomo. Il test genetico non indicava che un numero, una certezza. «Ho sperimentato brutalmente il nucleo puro della solitudine, questo nucleo bianco e silenzioso, questa improvvisa e radicale assenza del mondo… l’idea, i concetti più piccoli si infrangono per la purezza assoluta di quella solitudine».52
Poi c’è stato il rifiuto di crederci per mesi, la “traversata del deserto” e l’idea del suicidio come ultimo atto di resistenza o di libertà. C’era anche rabbia nei confronti del sistema medico per averla sottoposta a un test così violento senza fornire il sostegno necessario, per non essere stato all’altezza del compito. «I medici che ho incontrato erano al contempo terrorizzati e affascinati da quello che mi stavano facendo. E da quella strana posizione, non potevano offrirmi altro che stereotipi deprimenti e corrosivi.» Ricorda alcune frasi dei medici: «“La sua vita è una moneta, con cui giocare a testa o croce; sarà terribile per i suoi cari; non ci sono cure; per il momento sta molto bene, e quando le cose cominceranno ad andare male, ritornerà e lavoreremo insieme per la sua disabilità; il suo progetto di adottare un bambino?” (fa una faccia tra il dispiaciuto e il costernato)».53
Émilie le definisce «formule tragiche» che «agiscono come marciume, riducendo le molteplicità contenute nel futuro in un divenire angusto, monolitico, piatto, realmente malato, che impedisce al pensiero di fare il suo lavoro, non tanto di lutto, quanto di invenzione».54
Questo effetto inibitorio e riduttivo del futuro è regolarmente descritto anche come una prima tappa percepita da coloro che affrontano il crollo tuffandocisi da soli. Se la persona colpita da questa fase diventa a sua volta messaggera del collasso, prima che sia in grado di metabolizzare l’annuncio c’è il rischio che cada nelle formule tragiche: «Ma non capisci, bisogna smettere di fare figli, tutto crollerà a pezzi!»
Il collettivo Dingdingdong, avviato da Émilie, si è formato intorno alle persone colpite da questa malattia degenerativa: pazienti e futuri pazienti, parenti, personale sanitario e persino filosofi, tra cui Isabelle Stengers e Vinciane Despret. L’intenzione che anima il gruppo è migliorare il destino delle persone affette da questa malattia.55
Il test genetico dice qualcosa sul futuro della persona. Non si tratta della diagnosi di uno stato di salute presente, ma di informazioni su uno stato futuro, e ha così il potere di far ammalare le persone, «infettate da informazioni astratte e sconfortanti».56
Come il test della malattia di Huntington, l’annuncio di un possibile collasso della civiltà può essere vissuto in solitudine, a contatto con un libro o dietro uno schermo. Si tratta di una situazione di stress da cui a volte è difficile sfuggire, soprattutto quando l’ambiente circostante non è ricettivo, il che non è comunque eccezionale in una società in cui esprimere sentimenti al di fuori della sfera privata è un vero e proprio tabù. D’altra parte, anche se queste persone si sentono sole di fronte alla finitezza e all’annuncio, possono benissimo trovarsi con rapidità e in modo spontaneo in una posizione di condivisione, e questo è ciò che auguriamo loro.
A differenza di una misurazione affidabile e oggettiva, non si può dimostrare con certezza che si verificherà un collasso, per non parlare dell’impossibilità di prevedere con precisione l’insorgenza dei sintomi. Tuttavia, i due annunci sono simili per quanto riguarda il loro potere d’impatto. Nonostante l’incertezza, una persona può essere intimamente convinta dell’imminenza e della gravità di un collasso. Come per i test genetici, questa convinzione diventa allora una formidabile “macchina per costruire il destino”, per usare l’espressione del collettivo Dingdingdong. Peggio ancora, considerando questi temi come momenti precisi, come destinazioni finali, la malattia incurabile e il collasso esercitano un enorme potere di attrazione. Per la filosofa della scienza Katrin Solhdju, citata dal collettivo, «il problema non è la destinazione di questa storia (che tutti i mortali condividono), ma il cammino su cui conduce con tanta forza quelli che colpisce».57
Per il collettivo Dingdingdong «le rivelazioni non vi informano su nulla, al contrario: vi trasformano. Possono farvi ammalare o curarvi, in funzione di quello che ne fate. Questo test può essere sia una rivelazione che una maledizione».58 «Come evitare che questa conoscenza diventi un veleno?»59 Come tornare, dopo lo sconvolgimento, a essere attori e creatori della propria vita?
L’approccio proposto dal collettivo – e che condividiamo nell’affrontare il tema del collasso – è quello di creare una cultura della malattia più “positiva”, basata su esperienze e conoscenze concrete, lontane da paure e conoscenze astratte. «Non è stato così complicato produrre l’antidoto. Si è trattato di una lenta e graduale reintroduzione di tutto ciò che il test aveva rimosso: il dubbio, l’indeterminatezza, l’esitazione, i forse, le possibilità, le prove e gli errori.»60
Ci sono tre lezioni da imparare da questo parallelismo. La prima è quella di smettere di “combattere la malattia”, perché non porta a nulla di costruttivo. Al contrario, l’esperienza ci insegna a imparare a danzare con la malattia, come con la morte o con le nostre ombre. Ed Émilie aggiunge un punto importante (che riprenderemo nel capitolo 7): «La capacità di produrre l’antidoto di cui sto parlando per me dipende da una sola cosa: la posizione di umiltà nei confronti della malattia, di umiltà a priori».61
La seconda lezione è che non possiamo dire che “tutto è spacciato” (e tanto meno senza specificare cosa è spacciato). Gli “utenti” della malattia (pazienti, familiari, personale sanitario e persone interessate) hanno imparato ad adottare una «posizione pragmatica (seguire ciò che questa esperienza ci insegna) piuttosto che una deterministica (sapere in anticipo cosa accadrà)»,62 semplicemente per proteggersi da una situazione simile a questa: dopo avere informato un uomo della sua malattia, il medico si rivolge alla moglie dicendo che è “spacciato”. Nel vederla due settimane dopo, il medico è sorpreso di vederla dimagrita di sette chili. Lei gli spiega di essere in quello stato dopo che le aveva detto che il marito era “spacciato”. Al che il medico replica: «Non si fasci la testa prima del tempo: possono comunque volerci venticinque anni!»63 La terza è che, dopo annunci di questo tenore, dobbiamo riacquisire fiducia in noi stessi attraverso la creazione, l’esplorazione e la condivisione di esperienze. «Non dipendere da un’energia di disperazione solitaria, ma da un’emulazione collettiva.»64
Come dare una cattiva notizia?
Prima di affrontare il punto di vista dei medici, la prima domanda da porsi è se i pazienti vogliono davvero sapere. Dipende dalla malattia, ma in generale la risposta è “sì”. Secondo una decina di studi, tra il 96 e il 98 per cento dei pazienti americani ed europei preferisce che i medici comunichino le brutte notizie in modo chiaro e onesto, anche in caso di cancro.65
Per il collasso globale, è un altro paio di maniche. Certamente, anche le persone che vengono a una conferenza di collassologia vogliono ricevere le notizie. Ne usciranno sentendosi con il morale a terra o sollevati. Ma quando si vuole trasmettere il messaggio al di fuori di questo contesto, delusione e malintesi sono frequenti. In generale, le persone non vogliono sapere, rifiutano di credere e considerano il loro interlocutore depresso, irrazionale o guastafeste.
E il punto di vista dei medici? A parte il temuto test della malattia di Huntington, come fanno i medici a dare cattive notizie? Possiamo trarne ispirazione per poter parlare di catastrofi globali?
In un articolo del 1984 l’oncologo Robert Buckman è stato uno dei primi a sollevare la questione dal punto di vista del personale sanitario. La sua definizione di cattive notizie si adatta molto bene al collasso: «Qualsiasi informazione che potrebbe alterare drasticamente le prospettive future del paziente».66
Per i medici, l’esercizio è difficile e delicato. In primo luogo c’è la paura, la paura di essere incolpati o giudicati negativamente, di lasciare trasparire le proprie emozioni, di innescare reazioni incontrollabili, la paura anche della morte, o di non poter offrire soluzioni al proprio interlocutore.67 Per alcuni, si tratta di un onere in termini di responsabilità (come essere onesti con i pazienti e come trattare in modo appropriato le loro legittime emozioni)68 e di un ulteriore fattore di stress, soprattutto se il paziente è giovane e il rischio di morte è alto.69 Paure che ritroviamo in coloro che vogliono poter parlare del collasso globale ai loro cari, e ancor di più se si tratta di figli piccoli.
Per molto tempo i medici non sono stati formati in questo ambito. La maggior parte viveva male la situazione e commetteva errori che causavano sofferenza ai pazienti. Come abbiamo visto, un approccio insensibile a una comunicazione di questo tipo aumenta la confusione, l’angoscia o la rabbia dei pazienti e può avere un impatto duraturo sulle loro capacità di guarigione. Al contrario, quando la comunicazione è ben fatta può aiutare la comprensione, l’accettazione e anche la capacità di reazione.
Diversi sono i risultati che emergono dallo studio di queste comunicazioni. In primo luogo, i pazienti considerano i loro medici come una delle più importanti fonti per il loro sostegno psicologico. È quindi fondamentale che i medici rispondano con empatia alle loro reazioni emotive: mantenere un atteggiamento caldo e umano, utilizzare espressioni di supporto per alleviare il disagio emotivo e per consentire ai pazienti di esprimere i loro sentimenti.70 Questa empatia riduce l’isolamento, esprime solidarietà e “valida” i sentimenti o i pensieri dei pazienti come normali e prevedibili.71
In secondo luogo, nelle loro spiegazioni i medici devono assicurarsi di trovare il giusto equilibrio tra speranza e onestà. Questa è una competenza importante che riguarda anche i collassologi! La difficoltà è quella di ispirare la speranza (o meglio di non abbandonare la speranza fino alla fine), pur dicendo la verità.72
In terzo luogo, è indispensabile un discorso chiaro e pedagogico (e pratico). I medici sono invitati a scegliere le parole con saggezza, a evitare il gergo medico e a presentare prove tangibili, se necessario. Le notizie devono essere date in modo dolce ma chiaro e diretto, senza giri di parole o eufemismi. Ad esempio, l’uso dei termini “è morto” o “è deceduta” è preferibile a “se n’è andato” o “non è più tra noi”.73
L’importante è essere coinvolti nell’unicità delle persone colpite, senza ricorrere a soluzioni pronte all’uso, formule miracolose o teorie generalizzabili. Ambientalisti e giornalisti (ma anche coloro che vengono eletti) trarrebbero vantaggio se si ispirassero all’esperienza dei medici. Parlare di collasso è stressante per le persone che danno le informazioni… e per coloro che le ricevono. È essenziale imparare l’arte di dare e ricevere cattive notizie. Perché c’è una buona probabilità che continuino a moltiplicarsi.
Ecologisti e climatologi hanno lo stesso bisogno. Nel 2015 il Tyndall Centre for Climate Change Research della Gran Bretagna ha pubblicato un rapporto intitolato La sfida di comunicare messaggi climatici indesiderati.74 Nelle conclusioni si affermava che «le implicazioni emotive e psicologiche [devono essere] riconosciute e trattate con sensibilità», cosa che non avviene mai nelle comunicazioni scientifiche. Inoltre, gli autori hanno anche sostenuto ciò che abbiamo appena visto per i medici: verità e lucidità. «Invece di evidenziare una serie di impatti di incerta gravità, è più efficace affermare: “C’è un futuro terribile e non possiamo escluderlo”.»75
Alcuni scienziati sono in possesso di conoscenze altamente tossiche, hanno una grande responsabilità. Per informare quante più persone possibili, devono imparare a trovare la posizione che contiene il maggior numero possibile di antidoti. Al di là della razionalità scientifica, la comunicazione di cattive notizie è anche una questione emotiva, etica, filosofica e persino artistica. Non è una prerogativa dei ricercatori accademici. È quindi essenziale costruire ponti tra gli specialisti delle discipline scientifiche interessate, ma anche con gli altri ambiti, e da questa transdisciplinarietà, perché no, creare collettivi di persone interessate alle catastrofi globali, utenti del collasso (i collassonauti), in modo che il ruolo trasformativo delle comunicazioni possa prevalere sullo sconvolgimento.
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RIACQUISTARE LA RAGIONE
È tempo di smorzare il capitolo precedente affrontando un punto cieco di cui pochi ricercatori parlano: molti sopravvissuti alle catastrofi si riprendono molto bene dai loro traumi, o addirittura non ne hanno. Queste persone hanno risorse straordinarie quando si tratta di tornare a vivere dopo un disastro o di riprendersi da un trauma. Riacquistano in modo del tutto naturale il loro equilibrio psicologico poche settimane o pochi mesi dopo una catastrofe.
La resilienza post-catastrofe
Questo non per negare la gravità di quanto sta accadendo ad alcune vittime, ma per constatare, come ha fatto George Bonanno, professore di psicologia clinica alla Columbia University, che la percentuale di persone traumatizzate raramente supera il 30 per cento dei sopravvissuti.1 In altre parole, più del 70 per cento delle vittime è resiliente.2
Vengono quindi in mente due domande: come fanno questi sopravvissuti a essere così resilienti? E soprattutto, come possono essere utilizzati come modello per curare le vittime di traumi?3
IL RITORNO ALLA VITA
Secondo uno studio pubblicato nel 2010 dal team di Bonanno, ci sono diversi parametri che influenzano la resilienza delle persone: vicinanza al luogo della catastrofe (più ci si avvicina, meno resilienti si è); genere (in alcuni studi, le donne hanno sviluppato una minore resilienza degli uomini, perché le loro sensazioni sono state più traumatiche); età (i giovani possono sviluppare più sintomi, ma sono in media più resilienti); risorse finanziarie (i più poveri soffrono in misura maggiore, sia che si parli di classi sociali o di paesi); preparazione o l’aver già vissuto una catastrofe dello stesso tipo (una sorta di “vaccinazione”); personalità (che comprende anche fattori genetici); accesso a informazioni rassicuranti (i media e il governo possono avere un ruolo positivo o negativo nel giocare con la paura).4
Per prepararsi alle catastrofi, le pratiche religiose o spirituali5 e la pratica della consapevolezza (che si è dimostrata molto efficace)6 sono importanti, perché riducono l’ansia promuovendo relazioni basate sull’altruismo e la condivisione e offrendo un senso agli eventi della vita.
Infine è assodato che il parametro più importante della resilienza (sin dai primi minuti dopo il dramma) è la vicinanza e la comprensione dei propri cari (o di estranei) che aiutano a superare le paure, prestano cure e offrono scintille di gioia e ottimismo.
I sociologi delle catastrofi hanno dimostrato come la maggior parte delle calamità naturali provochino un drammatico aumento del comportamento spontaneo di aiuto reciproco da parte di vicini o estranei e di altri atti prosociali.7 Tuttavia, la frequenza, la spontaneità e la qualità di queste azioni prosociali dipendono dalla qualità della rete sociale esistente prima della catastrofe e anche dal fatto che questa rete non crolli durante l’evento.
Le relazioni informali, soprattutto con i vicini, svolgono spesso il ruolo di primo soccorso. Dopo il terremoto, lo tsunami e gli incidenti nucleari in Giappone nel marzo 2011, i sopravvissuti hanno dichiarato che molti anziani e disabili sono stati salvati grazie al supporto di vicini, amici o familiari. Questo sostegno si esprime anche sotto forma di consigli, rassicurazioni emotive e psicologiche, assistenza finanziaria o aiuto per compiti immediati.8
Quindi, ciò che meglio predice la resilienza di una popolazione non è l’intensità del danno, la densità demografica o il capitale economico, ma il capitale sociale.9 C’è inoltre una sottile differenza tra sostegno ricevuto e percepito. Sorprendentemente, il secondo è molto meglio correlato alla guarigione rispetto al primo ed è anche uno dei fattori più evidenti della resilienza post-catastrofe.10
Dopo i fallimenti della gestione del terremoto dell’Aquila del 6 aprile 2009 in Italia, alcuni ricercatori hanno messo in luce quella che definiscono resilienza comunitaria: «Occorre prestare maggiore attenzione alla comprensione, al riconoscimento e al rafforzamento delle capacità delle comunità locali e dei processi sociali resilienti che esse attuano spontaneamente per far fronte agli impatti sociali ed economici delle crisi».11
In sintesi, la preparazione collettiva alle catastrofi richiede due ingredienti: la creazione di una rete di professionisti per trattare persone traumatizzate (recovery) e l’accettazione del fatto che gli altri si muoveranno di loro spontanea volontà verso l’autoguarigione, l’autoaiuto e l’autogestione (resilience). L’ultimo punto non impedisce la creazione di condizioni per esprimere queste qualità con maggiore facilità.
C’è anche un fenomeno straordinario da segnalare. Negli anni Novanta, i ricercatori Richard Tedeschi e Lawrence Calhoun dell’Università del North Carolina hanno rilevato cambiamenti molto positivi nelle persone traumatizzate: una maggiore gioia di vivere, un significato nuovo per la loro vita, una migliore relazione con gli altri e anche… più bambini.12 È noto che le crisi possono distruggerci, ma anche farci crescere. Il dato nuovo in questo caso è la scoperta e la misurazione da parte di psichiatri, psicologi, assistenti sociali e specialisti della gestione delle catastrofi di quella che definiscono crescita post-traumatica. Lo scrittore ed ex trader Nassim Nicholas Taleb la definisce antifragilità: gli organismi viventi, di fronte a certi tipi di shock, non solo si riprendono, ma si rafforzano.
Occorre però fare alcune precisazioni. Come in una situazione competitiva dove chi è meglio armato se la cava sempre e chi lo è meno non riesce a sopportarla e ne soffre, nel caso di una catastrofe i più resilienti possono facilmente trasformarla in un’opportunità o addirittura in una forza di cambiamento, mentre i più vulnerabili vengono massacrati, o addirittura non risalgono mai la china.
ANTICIPARE
Prima delle catastrofi, tutto il lavoro consiste nel mantenere o ricreare legami sociali attivi e frequenti. All’interno delle comunità (vicinato, famiglia, quartiere, ecovillaggio), la sfida è imparare a coltivare relazioni di reciprocità e fiducia, nonché regole di assistenza reciproca. Queste norme stabilite, comportamenti di condivisione, aiuto reciproco, solidarietà e altruismo potranno emergere con maggiore facilità durante e dopo un evento traumatico.13
Dopo la catastrofe, questi legami permettono alle vittime di far conoscere meglio le loro esigenze, impedendo così l’abbandono e accelerando gli sforzi di ricostruzione.14 Promuovere un ambiente psicologico e affettivo stabile rafforza la resilienza locale (familiare e di comunità).
Per contro, le esperienze di sradicamento, trasferimento, spostamento, campi profughi, migrazione contribuiscono alla frammentazione dei legami sociali e all’indebolimento degli individui. Tutto ciò che favorisce l’attaccamento a un territorio (compresi i legami sociali) è quindi il benvenuto! E se è necessario migrare, allora non esitiamo a seguire le raccomandazioni di un rapporto del 2014 dell’American Psychological Association sulle conseguenze del cambiamento climatico:15 nei kit da realizzare in caso di emergenza, oltre a cibo, acqua e medicinali, gli esperti consigliano di monitorare anche la salute psicologica non dimenticando di includere «oggetti religiosi o spirituali, immagini, coperte e giocattoli per bambini […], oggetti ricreativi come libri o giochi, carta e matite per annotare informazioni importanti».
Quindi, perché non immaginare di sviluppare capacità anti-indebolimento a diretto contatto con catastrofi reali, partecipando a missioni di salvataggio e accoglienza o a imprese di ricostruzione? Quando vediamo altre persone ferite, il nostro cervello reagisce come se anche noi fossimo feriti.16 Questa reazione spontanea è tanto più forte in quanto i traumi sono già registrati nella nostra “memoria autobiografica” e abbiamo sviluppato la capacità di metterci consapevolmente nei panni dell’altro (la cosiddetta “mentalizzazione”).17
Vivere e danzare con le ombre
La sofferenza, il dolore, la morte e il lutto sono parti importanti della nostra umanità, pilastri della vita di gruppo. Eppure la nostra società mostra una certa fobia nei loro confronti. È comune nasconderli sotto il tappeto così da non infastidire gli altri, ed evitare di esprimerli in pubblico (ci si ricorderà di quel momento molto commovente – ma imbarazzante per alcuni – durante il quale il rappresentante di Tuvalu scoppiò in lacrime al summit sul clima del 2009 a Copenhagen).
Dato che dovremo probabilmente occuparci sempre di più di questi lati oscuri, tanto vale diventare competenti sin d’ora! Questa sezione è un invito a tuffarsi nelle pieghe oscure dell’anima e scoprire la loro forza salvifica.
IL DOLORE COME LEGAME
Il dolore è ovunque: la morte di un genitore, di un figlio, di un partner, il suicidio di un’amica, la fine di una relazione, il cancro di una sorella, l’alcolismo di un adolescente, la violenza di un padre, la sofferenza di un soldato di ritorno dalla guerra, di una famiglia che ha perso uno dei propri cari in un attentato, le grandi fratture della vita come un cambio di lavoro, un trasloco o uno spostamento forzato, un incidente grave e, infine, la follia del mondo.
Il dolore è ben più che la naturale reazione a una perdita, è un’iniziazione alla perdita, alla precarietà del mondo. Quello che volevi non è più possibile. Quello che c’era una volta non c’è più.
Per l’ecopsicologa Joanna Macy, «come società, siamo intrappolati tra il sentimento di un’apocalisse imminente e la paura di riconoscerla. Ed è proprio qua che le nostre risposte sono bloccate e confuse».18
Lo psicoterapeuta e autore americano Francis Weller accompagna da anni le persone lungo questi percorsi di dolore:
Ho attraversato le acque scure del dolore. Questo mi ha portato a toccare la mia vita inanimata… C’è una strana intimità tra il dolore e la sensazione di essere vivo, come uno scambio sacro tra ciò che sembra troppo pesante da sopportare e ciò che è più deliziosamente vivo. È attraverso queste prove che sono arrivato ad avere una grande fede nel dolore.19
Weller ha quindi sviluppato rituali e una sorprendente griglia di lettura per imparare a domare queste ombre. Per lui è fondamentale fare un viaggio attraverso dolori e sofferenze – quella che lui definisce “l’opera del dolore” (the work of grief) – e soprattutto essere accompagnato in questo viaggio per potersi lasciare andare completamente. Il lavoro di Weller è “spacchettare” (unpack) i dolori, uno dopo l’altro, fino a quando la persona si sente di nuovo pienamente viva.
Weller e Macy concordano nell’osservare che i due problemi principali della nostra civiltà sono l’amnesia e l’anestesia. Amnesia perché la nostra società ha «purtroppo convertito i rituali della vita in routine dell’esistenza».20 Abbiamo perso quelli che Weller definisce «i beni comuni dell’anima», quei bisogni essenziali che hanno nutrito le comunità umane per migliaia di anni. Aver dimenticato queste lingue ci ha fatto sentire smarriti, confusi, spaventati… e paradossalmente ci rende molto più vulnerabili alla perdita. Le conseguenze di questa amnesia sono depressione, ansia e solitudine.
Anestesia perché il dolore è troppo profondo e troppo difficile da gestire. Cerchiamo di colmare queste lacune con antidolorifici, alcool, droghe, lavoro, consumo, schermi, pur sapendo intimamente che non siamo destinati a vivere vite superficiali, rassegnate e senza senso. L’anestesia aumenta la nostra sofferenza. «La sofferenza, il dolore, la paura, la debolezza e la vulnerabilità sono relegate in un inframondo, dove si confondono e mutano in espressioni caricaturali di se stessi, spesso accompagnate da un senso di vergogna.»21
È facile aggiungere il concetto di depressione a tutto questo, ma per Weller la depressione non è una condizione “statica”, è una sofferenza “non metabolizzata” che diventa tossica per l’anima, la quale si rifiuta di andarsene finché non pensiamo di immergerci veramente nelle ombre. Il diktat del feel good, dell’apparire positivi e l’esortazione a essere felici creano una pressione enorme sulle persone. In questo senso, Weller trova il dolore sovversivo: «È un atto di protesta che dichiara il nostro rifiuto di vivere intorpidito e piccolo […]. Ecco perché il dolore è necessario per la vitalità dell’anima. Contrariamente alle nostre paure, il dolore è inondato di forza vitale».22 Come afferma Macy, «un cuore che si apre può contenere l’intero universo».
Attraversare queste sofferenze ci riconnette pienamente con i nostri sentimenti e la nostra capacità di amare, il che ha conseguenze (positive!) sulla salute, sulla creatività e sulla sensazione di essere vivi. Meglio ancora, questa immersione nelle nostre profondità ci costringe a dare un senso alla sofferenza, che è comunque, secondo gli ecopsicoterapeuti belgi Vincent Wattelet e Nathalie Grosjean, l’obiettivo di ogni terapia.
Ma l’attenzione principale di questo lavoro sul dolore si colloca altrove: nel riunire le comunità. Condividere il proprio dolore con gli altri porta un sollievo profondo, la sensazione di sapere di non essere da soli e di creare un senso comune. Avete notato, ad esempio, le manifestazioni di solidarietà e comunione dopo gli attentati di Parigi, il calore e il desiderio di stare insieme? «La comunità e i rituali rappresentavano i supporti dei nostri antenati indigeni durante i tempi bui. Il nostro compito è proprio quello di recuperarli e perfezionarli invece che aggrapparci a tutti i costi a un “atteggiamento positivo” di fronte alla devastazione e alla violenza sconvolgente e incalcolabile causata dalla nostra civiltà.»23
In isolamento e solitudine questa traversata può devastarci. Questo è il motivo per cui il lavoro sul dolore si fa insieme, attraverso l’ascolto e con strumenti adeguati (rituali). «Affrontare il dolore è un lavoro difficile… Ci vuole un coraggio immenso per affrontare una perdita enorme. Questo è esattamente quello che siamo chiamati a fare.»24 Questa è la base del Cancer Help Program a cui partecipa Weller: alla fine di una condivisione, spiega, c’è la sensazione che tutti i dolori siano condivisi e che debbano quindi essere affrontati insieme. I rituali sono un modo per onorare e poi guarire le sofferenze che affrontiamo e affronteremo. Infine, questi affetti possono trasformarsi in compagni di viaggio.
L’originalità dell’opera di Weller è l’aver identificato (e affrontato collettivamente) cinque tipi di perdite (di cui solo la prima è ben nota), corrispondenti ad altrettante “porte” (gates of grief) che aiutano a nominare e riconoscere i tipi di sofferenza e quindi funzionano come una bussola per imparare a navigare in questi abissi.
La prima porta si concentra su ciò che amiamo. Può essere riassunta così: «Perderemo tutto ciò che amiamo». Il dolore consente di tenere il cuore aperto all’amore per ciò che abbiamo perso. «L’amore e il dolore sono fratelli, intrecciati insieme fin dall’inizio. Non c’è amore che non sia colpito da perdita, e nessuna perdita che non ci ricordi l’amore che abbiamo per quello che una volta era caro.»25
La seconda porta è più sorprendente: sono quelle parti di noi stessi che non amiamo, che non hanno conosciuto l’amore e di cui ci si può vergognare.26 Questi «pezzi d’anima che vivono nella disperazione assoluta» sono parti fragili che non hanno mai provato compassione, gentilezza, calore (né nostro né degli altri). Sono nascosti, visto e considerato che “non valgono la pena”. Per Weller, questa porta è importante perché «non possiamo provare dolore per qualcosa che consideriamo all’esterno dal cerchio di ciò che ci sta a cuore».27
La terza porta è quella dei “dolori per il mondo” (vedi anche i “dolori ecologici” del capitolo precedente), sempre più frequenti e spesso citati dai pazienti del Cancer Help Program. «Ho capito che la maggior parte dei nostri dolori non sono personali, non sono la conseguenza della nostra storia o esperienza.»28 Sono la prova della nostra consapevolezza profonda di non essere separati dal mondo e di vivere nell’interdipendenza: quando gli habitat vengono distrutti, gli animali uccisi o i territori irrimediabilmente inquinati, questo ci riguarda direttamente. Il problema è che la sofferenza del mondo è enorme e ci travalica. Come possiamo rimanere sensibili e ricettivi a tutti gli attacchi alla biosfera? Rimanere presenti, con gli occhi aperti, richiede coraggio, convinzione e sostegno. «Ciò di cui abbiamo più bisogno» dice il monaco buddista e attivista Thich Nhat Hanh, «è ascoltare dentro di noi gli echi della Terra che piange».29
La quarta porta riguarda il dolore provato per tutto ciò che avevamo il diritto di aspettarci e che non abbiamo mai ricevuto dalla tribù. Avendo vissuto per migliaia di generazioni come cacciatori-raccoglitori (l’essenza della storia della nostra specie), siamo stati plasmati dal punto di vista biologico e culturale a sentirci parte di una comunità di umani ed esseri viventi.30 Questa identità allargata da cui oggi siamo quasi completamente tagliati fuori suscita una forte mancanza di cui non sospettavamo l’esistenza.
E infine la quinta porta è il dolore ancestrale. Questo dolore transgenerazionale è nascosto in fondo alle nostre cellule e deriva dai traumi della nostra discendenza personale (come ad esempio abbandoni, stupri, suicidi) o da grandi traumi collettivi, come guerre, pogrom, cacce alle streghe. Sono sofferenze patite dai nostri antenati che non sono state digerite e delle quali non ci siamo liberati.
A vent’anni dai primi gruppi di ascolto, Weller nota che le cose sono cambiate: osserva una vera e propria spaccatura legata alla negazione collettiva, e causata secondo lui soprattutto ai danni irreversibili causati dalla civiltà. «Le nostre esperienze personali di perdita e sofferenza sono ora indissolubilmente legate alla morte delle barriere coralline, allo scioglimento delle calotte polari, alle lingue ridotte al silenzio, al collasso delle democrazie e all’estinzione della nostra civiltà.»31
IL LUTTO COME METAMORFOSI
L’idea che le emozioni associate a un collasso possano essere comprese attraverso un processo di lutto rappresenta una vera liberazione. Funziona immediatamente come uno “scatto” che alleggerisce e consente di rendersi conto: 1) che la gamma di emozioni che ci attraversa è naturale, 2) che questo processo è lungo, dinamico e complesso e 3) che finisce per portare a un orizzonte più sereno, il famoso “stadio di accettazione”.
Il processo schematico proposto da Elisabeth Kubler-Ross, con le sue cinque fasi (negazione, rabbia, contrattazione, depressione e accettazione) è pratico, perché ci permette di coglierne rapidamente l’aspetto dinamico, e quindi di tollerare gli sfasamenti degli affetti tra le persone vicine.
Lo psichiatra e specialista del lutto Christophe Fauré ha rivisitato le tappe del lutto alla luce della sua lunga esperienza nel campo della medicina psichiatrica e della sua intensa vita spirituale.32 Descrive una successione di quattro grandi fasi temporali, un po’ diverse da quelle delineate da Kubler-Ross.
La prima è la fase di negazione, shock e sconvolgimento. Anche se fossimo preparati, quando la morte fa la sua comparsa, la ragione deraglia e rifiuta di ammettere i fatti. Durante questa lunga fase l’anestesia emotiva permette di piangere al proprio ritmo, senza lasciarsi sopraffare, in attesa di creare le giuste condizioni per continuare il processo. È anche una fase di agitazione e organizzazione che aiuta a evitare un eccessivo confronto con il sé interiore e il dolore. È il momento dei riti collettivi, come i funerali, che “convalidano” socialmente l’ingresso nel lutto. Segue poi una potente fase di vuoto, dove si passa un punto di non ritorno in cui ci si rende conto “fisicamente” della perdita attraverso una scarica emotiva: tristezza infinita e paura di perdere la testa.
La seconda fase, quella di attesa, fuga e ricerca, si tinge di confusione e disorientamento. I legami interiori con il defunto sono ancora intatti. Questo si esprime in comportamenti di fuga (iperattività ecc.) e nella costante ricerca di segni e oggetti a lui legati per «trovare a tutti i costi il defunto e annullare la sua morte, la cui idea è ancora intollerabile».33
La terza fase è la destrutturazione. Il dolore raggiunge il suo apice quando i legami interni si rompono e i punti di riferimento scompaiono. La persona percepisce un grande bisogno di significato e di connessione, ma anche di ingiustizia, e può cadere nella disperazione, nella paura o nella rabbia (o nel nichilismo, o nella rivolta contro gli altri o contro se stessa).
La quarta fase è la ristrutturazione. Quest’ultimo passo non è privo di emozioni. Ci rendiamo conto che la cicatrice è il segno di un oblio e accettiamo di conviverci. Poi si apre la «possibilità di un ritorno alla vita»34 e della fine del lutto. È il momento di una «ridefinizione del rapporto con gli altri e con il mondo; ridefinizione del rapporto con il defunto; ridefinizione del rapporto con se stessi».35 Come trovare il proprio posto in un mondo in cui tutto è stato appena devastato? Chi sono io, a livello sociale e intimo? In ogni caso, «esiste potenzialmente uno spazio vitale in cui poter ricominciare qualcosa di diverso. Le fasi finali del lutto possono essere la ricerca e l’elaborazione di questo nuovo spazio».36 È un passo che può essere iniziato anche prima della morte, se la persona si è preparata.
Gli schemi di Kubler-Ross e Fauré possono sembrare rigidi e persino normativi per chi non li vive come tali (il che non è raro, ed è del tutto naturale). Quindi non dovrebbero essere presi come norme, ma come parametri di riferimento. Fauré ci invita anche ad andare oltre l’idea ormai accettata che il lutto è un “lavoro”. È senza dubbio un «periodo di transizione mentale, personale ed emotiva [di una] persona [che] impara a rivivere in un contesto di scomparsa»,37 ma è anche una risposta naturale alla perdita di una persona cara, di un luogo, di un ricordo, di un’icona, di un futuro o di uno stile di vita. Lo psichiatra usa la metafora della ferita: il lutto equivale a un processo di guarigione. Anche se avviene spontaneamente, è comunque possibile prendersene cura, prestare attenzione alla ferita con intenzione, per rendere questo processo il più fluido possibile. La ferita si chiuderà, ma la cicatrice rimarrà per tutta la vita, come ricordo del nostro dolore.
L’idea del lutto è interessante perché ci permette anche di vedere il processo di presa di coscienza di un collasso come un modo per trovare un senso attraverso una metamorfosi, attraverso nuove storie. Morte e malattia ci offrono l’opportunità di contattare una solitudine radicale che sfida le nostre certezze e convinzioni. Chi ha avuto una malattia o un incidente grave ha vissuto questo tipo di iniziazione: le abitudini si frantumano, le certezze crollano, e per rimettersi in carreggiata è necessario dare un senso agli eventi. È quello che il collettivo Dingdingdong chiama “giocare d’astuzia”: inventare storie che rimettono in moto le persone e le riportano in vita, ripeterle più e più volte, fino a quando non ci si sente più tranquilli.38
Un aspetto difficile del lutto è trovare la pace. Ciò è particolarmente significativo quando si affronta la questione del collasso globale nelle persone arrabbiate con la società. «Il lento processo di lutto non è forse anche quello di fare pace con chi se ne è andato, nonostante tutto quello che resta da condividere e perdonare? Non è questa una condizione essenziale per accettare, a livello personale, di tornare a una vita libera e tranquilla?»39 Ma come possiamo perdonare la brutalità della nostra civiltà termoindustriale nei confronti dei più fragili (umani e non-umani)? Questo non dovrebbe comportare processi collettivi (rituali?) per rimediare alle ingiustizie e/o riconoscere i difetti e le responsabilità?40
Alcune persone stanno cercando di portarsi avanti, come Clément Montfort, direttore della serie web NEXT sul tema del collasso: «È essenziale passare attraverso la fase di constatazione di ciò che si è già perso. Preferisco passare attraverso la fase di depressione, di profonda tristezza, oggi, per essere più adattabile e solido domani. Faccio questa serie per le persone che sono in quella fase».41 Per queste persone è anche possibile iniziare a piangere diverse perdite: di ciò che apprezziamo in questa civiltà termoindustriale (e anche di ciò che detestiamo), ma anche di ciò che apprezziamo al di fuori di questa civiltà e che a volte ci siamo dati da fare per distruggere in modo irrimediabile. Vedersi, a posteriori, capaci di aver superato queste difficili prove interiori restituisce inevitabilmente coraggio.
In sostanza, la questione del collasso funge da specchio ingranditore delle nostre ombre e del nostro rapporto con la morte. Se una persona non è (ancora) in grado di parlare di collasso, probabilmente non dovrebbe essere costretta a farlo. È un invito all’accettazione che ognuno affronta secondo il proprio ritmo in questo tipo di processo.
Per crescere e diventare donne e uomini realizzati, dobbiamo guardare in faccia la morte o, come diceva il poeta sufi Rumi, «morire prima di morire». Nel contesto dell’Antropocene, ciò significa che «dobbiamo imparare a morire non tanto come individui, ma come civiltà».42
3
ANDARE AVANTI
Andare avanti? Nella nostra epoca, incastrata tra la devastazione del mondo e l’esortazione permanente alla felicità e all’azione, questa espressione può suonare falsa. Qui non è sinonimo di un ritorno alla crescita o a una comoda negazione, né di un modo di dire che ci indica, una volta superata la delicata “transizione interiore”, che ritroveremo con facilità e in via definitiva un orizzonte di pace e aiuto reciproco. Una visione di questo tipo sarebbe solo un modo per prolungare l’anestesia.
Piuttosto, l’invito di questo capitolo è quello di continuare a cercare la giusta posizione, allineando testa e cuore, in compagnia delle nostre ombre, ma anche accogliendo la luce di questo mondo devastato. Non si tratta più di cercare “soluzioni” così da non fare cambiare troppo le nostre vite, ma di accettare e prepararsi alla possibilità di perdere ciò che ci sta a cuore, proprio per renderci pienamente disponibili a ciò che accade (e che comprende anche la lotta e l’azione).
Molti giovani sono informati sulle catastrofi globali. Ad esempio, il 27 per cento degli australiani di età compresa tra i 10 e i 14 anni ritiene che vedrà la fine del mondo prima di diventare adulto.1 Questo pessimismo è inappropriato? E poi, si tratta davvero di pessimismo? E cosa nasconde l’esortazione alla felicità e al beato ottimismo delle altre generazioni?
Proponiamo qui di concentrarci su queste due nozioni così “positive” quali ottimismo e speranza. Entrambe possono essere utili, ma hanno anche insidie e cose non dette.
Diffidare dell’ottimismo
L’ottimista desidera che tutto vada per il meglio e pensa che il futuro sarà migliore. Si possono distinguere due tipi di ottimisti. Prima di tutto, quello lucido, che ha una buona conoscenza dei problemi e che combatte quotidianamente per migliorare il destino delle cose o degli altri. Chiamiamolo l’“ottimista-più”. È qualcosa di molto positivo visto che la posizione ottimista produce vari benefici per la salute individuale, come ad esempio l’aumento della longevità o la riduzione del rischio di infarto,2 contribuendo al contempo alla salute dell’intera comunità attraverso l’impegno personale.
L’ottimista diventa imbarazzante quando rifiuta di vedere il lato negativo delle cose e incolpa gli altri per la loro lucidità. Chiamiamolo l’“ottimista-meno”. Esige solo e unicamente cose positive, come se un malato con un cancro avanzato, non volendo sentire parlare della propria malattia (e men che meno della possibilità che ne stia morendo), chiedesse ai medici di limitarsi solo alle buone notizie! Tra negazione e paura della sofferenza, c’è la forte tentazione di nascondere le cose spiacevoli sotto il tappeto.
Ma ciò che l’ottimista odia sopra ogni altra cosa è il pessimista che gli dice che “tutto è spacciato”. E ha ragione! Chiamiamo questa persona il “pessimista-meno”. Colui che, quando viene a sapere di avere il cancro, è convinto di morire rapidamente, o peggio, dice a un paziente oncologico che sicuramente morirà presto. È insopportabile.
Tuttavia, c’è un’altra categoria, che è più difficile da identificare. È il “pessimista-più”. Rimane vicinissimo alle cattive notizie, ne vede molte all’orizzonte (forse troppe), e si prepara perché le considera certe (è la posizione del catastrofismo illuminato del filosofo Jean-Pierre Dupuy), cosa che permette di evitarle o mitigarle. La ciliegina sulla torta: evita la trappola dell’ottimista-più, quella di sprofondare nella depressione nel momento in cui la sua visione positiva del futuro non si avvera.3
Il sociologo tedesco Ulrich Beck (1944-2015) era ottimista? Lui, che è diventato famoso per aver formalizzato una teoria generale del rischio globale negli anni Novanta, ha sostenuto che le grandi catastrofi hanno il potenziale per produrre uno “shock antropologico” che può riorientare le visioni del mondo e portare a cambiamenti politici radicali. Per lui si trattava quindi di «conciliare l’emergere di cambiamenti positivi basati sulle ombre offerte dalle catastrofi».4
Questo è un punto su cui l’ottimista-più e il pessimista-più sono d’accordo. Il loro punto comune è non negare, vedere i problemi e agire di conseguenza. Uno è certamente più concentrato sulle cattive notizie dell’altro, ma entrambi sono ben ancorati alla realtà. Inoltre, se a questa lucidità si aggiungesse un po’ di gentilezza, si otterrebbe la posizione collassologica per eccellenza: informare sulle cattive notizie nel modo più sereno e oggettivo possibile, in modo che ognuno possa agire nel migliore dei modi.
Le posizioni imbarazzanti sono quindi il pessimista-meno (= il peso morto, “Tutto è spacciato!”) e l’ottimista-meno (= lo struzzo, “Basta con le cattive notizie!”). Il primo si è aperto alla realtà, ma non è (ancora) riuscito a ricreare un orizzonte per il futuro (forse è bloccato nelle sue emozioni e nelle sue ombre), mentre il secondo, nella negazione e nella paura, forse non è ancora pronto alle ombre del mondo che gli mostrano le sue…
Gabriele Oettingen, professoressa di psicologia presso la New York University e l’Università di Amburgo, ha dedicato la sua vita professionale allo studio di ciò che spinge le persone a raggiungere i propri obiettivi (e dei limiti del pensiero positivo).5 In uno dei suoi esperimenti, ha reclutato due gruppi di studenti e ha chiesto ai primi di sognare che la settimana successiva sarebbe stata fantastica: buoni voti, feste e baldorie fuori dal comune. Il secondo gruppo è stato invitato a registrare tutti i pensieri e i sogni sulla settimana successiva, buoni e cattivi. Sorprendentemente gli studenti del primo gruppo hanno percepito meno energia del gruppo a cui è stato chiesto di sognare in modo neutro. In un altro esperimento dello stesso tipo, ha chiesto a un primo gruppo di studenti di immaginare di ricevere una ricompensa magnifica una volta terminati i compiti. Nel secondo gruppo, ha chiesto loro di pensare alla ricompensa, ma anche ai comportamenti che avrebbero potuto impedire loro di portarli a termine. Risultato? Il secondo gruppo ha ottenuto risultati migliori.6
Immaginare qualcosa di positivo abbassa la pressione sanguigna. Al contrario, desiderare la stessa cosa, ma anche considerare che non necessariamente si può ottenere, aumenta la pressione sanguigna. Quando i nostri desideri non sono sovraccarichi di preoccupazioni, ci sentiamo meglio ma siamo meno energici e meno preparati ad agire. L’ottimismo cieco non motiva, perché crea un senso di compiacimento e rilassamento. È necessario aggiungere una buona dose di lucidità alla situazione, ai freni e ai blocchi che ci rallentano e ci ostacolano.7 Il “pensiero positivo” da solo ci priva dei mezzi per affrontare le sfide e riduce significativamente ogni possibilità di superarle nel miglior modo possibile.
Dobbiamo anche dire qualche parola sulla visione del futuro, e più precisamente sull’apertura delle possibilità. Dire, come gli psicologi Steven Pinker8 e il nostro amico Jacques Lecomte,9 o lo storico ultraottimista (e soprattutto ultraliberale) Johan Norberg,10 che non abbiamo mai conosciuto un momento così favorevole e che dobbiamo soprattutto smettere di ascoltare gli uccelli del malaugurio, ci sembra relativamente confuso, se non controproducente. Questo equivale a ripetere il discorso del famoso “tacchino induttivista”11 che, da buon statistico e fiducioso che le condizioni di vita della fattoria in cui è cresciuto rimangano stabili (si sta bene e gli danno da mangiare), è in grado di dire ai propri compagni, il 23 dicembre, che non c’è nulla di cui preoccuparsi per il futuro!
I collassologi non negano che alcuni parametri del mondo sono in corso di miglioramento e che stanno emergendo “giovani germogli” bellissimi. Di fatto, introducono la possibilità di grandi interruzioni imprevedibili (cigni neri) o moderatamente prevedibili (cigni grigi), il che non è in alcun modo incompatibile con le buone notizie o il fatto che alcune situazioni possano migliorare (i cigni neri possono essere anche positivi). In breve, le buone notizie non cancellano le cattive notizie, e le possibilità di un futuro migliore non impediscono che vi siano anche possibilità decisamente peggiori. Ciò che è nuovo e preoccupante oggi è la presenza di diverse condizioni che rendono il futuro potenzialmente e globalmente molto fosco.
L’ottimismo e il pessimismo sembrano essere specifici di ogni personalità. L’unico avvertimento che avremmo è di non farne mai una scusa per sprofondare nella negazione, nella codardia o nell’ignoranza.
Personalmente, la nostra convinzione che nei prossimi anni si verificherà un collasso della civiltà termoindustriale non è legata al nostro carattere ottimista o pessimista. «Siete ottimisti o pessimisti riguardo al futuro?» ci viene chiesto spesso. Né l’uno né l’altro! Il collassonauta in noi tende a rispondere che dipende dallo stato di affaticamento… Per quanto riguarda il collassologo, questo non vede mai il bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno, lo vede completamente pieno: metà acqua e metà aria… e soprattutto con tante crepe!
Diffidare della speranza
Se siamo d’accordo che la speranza aspetta con fiducia che qualcosa accada, dobbiamo ammettere che soffre di una grave mancanza di passività (esperar in spagnolo significa “aspettare”). Secondo lo scrittore e attivista ambientale Derrick Jensen, noto per la sua franchezza, la speranza è addirittura dannosa. Ci «tiene legati al sistema, al conglomerato di individui, idee e ideali che distrugge il pianeta».12 Fa credere che:
All’improvviso, per certi versi, il sistema cambierà inspiegabilmente. Oppure [che] la tecnologia ci salverà. O la dea madre. O creature di Alfa Centauri. O Gesù Cristo. O Babbo Natale. Tutte queste false speranze portano all’inazione, o almeno all’inefficienza. Uno dei motivi per cui mia madre rimase con mio padre, che le usava violenza, era il fatto che negli anni Cinquanta e Sessanta non c’erano rifugi per le donne maltrattate, un altro era che aveva la speranza che lui sarebbe cambiato.13
Meno virulenta di Jensen, ma altrettanto chiara, l’ecopsicologa buddista Joanna Macy ammette, dopo aver pubblicato con lo psicologo Chris Johnstone il volume intitolato Active Hope (“Speranza attiva”),14 che non avrebbe mai immaginato di scrivere un libro con la parola “speranza” nel titolo, perché secondo lei la speranza assopisce le persone. «Nella tradizione buddista, non c’è posto per la speranza. La speranza ti allontana dal momento presente.»15 Questa cultura ritiene addirittura che «speranza e paura si perseguano a vicenda».
Per contrastare la sua natura smobilitante, hanno quindi distinto nel loro libro due tipi di speranza: quella che di solito si sente (passiva), e quella che chiamano “attiva”. Così, la speranza passiva è riassunta da: «Ho la speranza di vederla tornare», a cui risponde la speranza attiva: «Quindi vai a cercarla!»
La speranza attiva (o speranza in movimento) è semplicemente l’atteggiamento in base a cui si inizia a realizzare ciò che ci sta a cuore, ciò che speriamo di vedere accadere. «Non c’è bisogno di ottimismo» assicura Joanna Macy, «possiamo applicarlo anche quando ci sentiamo disperati. Come una pratica quotidiana, come il tai chi o il giardinaggio, è qualcosa che facciamo piuttosto che qualcosa che abbiamo». Non c’è bisogno di essere ossessionati dai futuri che sembrano probabili, basta concentrarsi su ciò che desideriamo profondamente. Allora, e solo allora, dovremmo prendere misure determinate in questa direzione, e dare il meglio di noi stessi «in modo da poter essere sorpresi anche da ciò che siamo noi a portare». Tutto è nell’intenzione del momento presente o, come diceva Seneca, «quando avrai disimparato a sperare, io ti insegnerò a volere…»16
La speranza attiva è essenziale per evitare di cadere nella disperazione e nello scoramento. «La speranza viene dall’interno» dichiara lo scrittore e giornalista Michel Maxime Egger. «Nasce dal profondo del cuore, come un’aspirazione a realizzare il non ancora realizzato dell’essere, un impulso a far accadere il non ancora realizzato della storia. In questo senso, la speranza è intimamente legata al processo della persona che accresce la propria umanità e realizza il proprio potenziale cosmico, umano e divino.»17
Infatti la speranza è un soggetto poco studiato dalla scienza. È un peccato, perché le lezioni sono preziose. Ad esempio, uno studio condotto in Svezia (su un migliaio di adolescenti e giovani adulti che hanno risposto a un questionario) ha dimostrato che la speranza è correlata all’azione solo negli individui molto preoccupati per le catastrofi globali. Per i giovani che se ne preoccupavano poco, l’avere speranza era inversamente correlato all’azione.18 Lezione n° 1: ottenere quante più informazioni possibili è essenziale. Lezione n° 2: come per l’ottimismo, bisogna diffidare della speranza quando è associata alla negazione.
Altri ricercatori hanno persino dimostrato che essere preoccupati sembra motivare le persone a cercare informazioni, mentre le persone “positive” si informano poco o addirittura evitano la verità.19 Ciò conferma che un atteggiamento positivo può talvolta nascondere una certa negazione. Questa negazione e questo rifiuto di immergersi nelle ombre possono essere espressi come rifiuto di sapere, ma anche come rifiuto di provare emozioni. «Molte persone hanno paura di sentirsi senza speranza» spiega Derrick Jensen: «temono che se dovessero mai percepire la disperazione della nostra situazione, questo li metterebbe in uno stato di costante infelicità. Dimenticano che è possibile sentire più cose allo stesso tempo. Io sono pieno di rabbia, dolore, gioia, amore, odio, disperazione, felicità, soddisfazione, insoddisfazione e mille altri sentimenti».20
Uscire dalla negazione ci spinge fuori dalla nostra zona di comfort. Sicuramente il cammino della nostra generazione attraversa momenti spiacevoli! Ma evitarli non è una soluzione, poiché «la verità, che molti comprendono solo troppo tardi è infatti che quanto più si cerca di evitare la sofferenza, più si soffre».21
Così, aggiunge Jensen, «accade una cosa meravigliosa quando abbandonate la speranza [passiva] e vi rendete conto che non ne avete mai avuto mai bisogno per iniziare. Siete consapevoli che rinunciare alla speranza non vi ha ucciso o vi ha reso meno efficaci. In realtà, vi ha reso più efficaci, perché smettete di dipendere da qualcuno o qualcosa per risolvere i vostri problemi… Diventate come quegli ebrei che hanno partecipato alla rivolta del ghetto di Varsavia».22
Ciò di cui abbiamo bisogno per le tempeste future non è la certezza che tutto andrà meglio domani, ma il coraggio di aprire le possibilità e di metterci in moto.
Immaginate che vi si dimostri con certezza che non ci sarà mai un collasso e che non ci sia affatto bisogno di preoccuparsi del futuro. Cosa fareste per cambiare la vostra vita? Niente. Immaginate che vi venga detto con certezza che la specie umana scomparirà nel 2042 a causa di un meteorite gigante. Cosa fareste? Trascorrereste la fine della vostra vita al bar, in modo “fatalista”. Ciò che mette in moto, osserva Joanna Macy, è proprio questa radicale incertezza. E ci troviamo in equilibrio, su questo crinale sottile tra l’incertezza radicale degli eventi futuri e la convinzione che è fisicamente impossibile continuare il nostro stile di vita.
Fondamentalmente, nessuno sa se “funzionerà”. Ma non è questo il punto. Nelle parole del drammaturgo e statista Václav Havel, «la speranza non è sicuramente la stessa cosa dell’ottimismo. La speranza non è la convinzione che qualcosa possa riuscire bene, ma la certezza che qualcosa abbia senso, indipendentemente dalla sua riuscita».
Ciò è in linea con la proposta dello psicologo William James (la “scommessa jamesiana”): quando un problema è insormontabile, dobbiamo inventare una soluzione e scommettere su di essa, facendo tutto ciò che è in nostro potere per farla accadere.
E se il nostro cammino si ferma bruscamente, potremo dire di aver vissuto pienamente, secondo le nostre convinzioni e facendo ciò che ritenevamo giusto. È questo slancio, questo allineamento, ad aprire un percorso di possibilità… attraverso una piccola breccia già aperta da una radicale incertezza. Come riassume Margaret Wheatley: «La cura per la disperazione non è la speranza, ma la scoperta di ciò che vogliamo fare per ciò che ci sta a cuore».23
E i bambini?
Siete incoerenti, retrogradi, bigotti, avete sacrificato il pianeta, affamato il Terzo Mondo! In ottant’anni, avete spazzato via quasi tutte le specie viventi, esaurito le risorse, mangiato tutto il pesce! Vengono allevati cinquanta miliardi di polli in batteria nel mondo ogni anno e la gente muore di fame! Storicamente siete la peggiore generazione nella storia dell’umanità! E le disgrazie non arrivano mai sole: siete vecchissimi e ancora in vita!
(Sophie, incinta, che si rivolge a un gruppo di anziani, sconvolta.)24
C’è una domanda che spesso si pone alle persone che scoprono il collasso o attraversano una fase di disperazione: come si possono fare figli in questo mondo devastato? È possibile conciliare collasso e futuro per i bambini? Siamo consapevoli di camminare sulle uova, perché questi problemi toccano direttamente il cuore e le viscere, suscitando spesso paure e disagi. La nostra intenzione non è quella di dare un parere definitivo (soprattutto perché si evolverà ulteriormente), né di causare deliberatamente disagio, ma di portare alla luce questi problemi e questi sentimenti.
Sempre più coppie decidono consapevolmente di non avere figli per non sovraccaricare la Terra o a causa del cambiamento climatico.25 Da un certo punto di vista, e quindi per alcuni, crescere un figlio in questa società è un atto assurdo, persino egoistico e inquinante, che può causare un aumento della sofferenza. Sarebbe un atto paragonabile a continuare a vivere (anche senza figli) consumando-sprecando “più di un pianeta” (cioè mantenendo un certo tenore di vita). Da un altro punto di vista, procreare è un dono, un atto d’amore e un atto di responsabilità in un mondo dove ci potrebbe essere spazio per otto miliardi di esseri umani sobri in ascolto di tutti gli esseri viventi…
La nostra intenzione non è quella di iniziare una discussione (per quanto interessante) sulle motivazioni che porterebbero (o meno) ad avere figli. Un simile dibattito sulle scelte individuali non può, a nostro avviso, svolgersi senza includere scelte collettive. Finché non esiste un’organizzazione collettiva della natalità (questione estremamente complessa che consideriamo pericolosa nell’attuale contesto politico e culturale),26 la scelta di procreare rimarrà interamente relegata alla sfera individuale e privata. Tuttavia, risulta anche imbarazzante mettere nello stesso calderone la decisione di avere dei figli (forse la scelta più importante di una vita), quelle riguardanti le “soluzioni” individuali depoliticizzate e altre “azioni eco-responsabili”, come chiudere il rubinetto dell’acqua quando ci si lava i denti!
In mancanza di dibattito, possiamo parlare della nostra esperienza. Si dà il caso che noi tre siamo giovani papà. Tre dei nostri figli più piccoli sono “figli del collasso”: sono stati desiderati consapevolmente dopo che la presa di coscienza ha vivacizzato la nostra vita.
Abbiamo scelto di trasmettere lo slancio per la vita da cui noi stessi proveniamo e di avere fiducia nella capacità degli esseri umani, come esseri viventi, di superare le tempeste tra dolore e gioia, di adattarsi alle situazioni e di inventare una cultura a sostegno della vita. Queste decisioni erano giuste per noi in quel momento, cioè basate sulla speranza (attiva! e non una generica speranza che domani andrà meglio o su un mero atteggiamento ottimistico). È un impulso di vita, lo stesso che ci impedisce, o non ci fa venir voglia, di suicidarci. L’amore che proviamo per loro (e che continueremo a provare) è immenso, probabilmente commisurato al dolore che proveremo se soffriranno o moriranno davanti ai nostri occhi.
L’altra domanda ricorrente è: cosa dovremmo dire loro? Questa è la nostra esperienza. Quando sono piccoli, non molto, perché è il momento del radicamento attraverso lo stupore. Quando le domande arrivano, basta rispondere con franchezza e coerenza, con il cuore e senza andare oltre la domanda. E poi, con l’aiuto dell’età della ragione, attirare con delicatezza la loro attenzione su ciò che ci sembra importante, ma senza tenere una conferenza al riguardo (esercizio questo difficile per noi!). Semplicemente condividere ciò che ci tocca, ciò che ci fa vibrare, in modo autentico. Mostrare loro un po’ di più su chi siamo come adulti, con la nostra forza e vulnerabilità. Senza dover dimostrare qualcosa, ma senza neppure nascondersi.
E lasciate che facciano il loro percorso, che sviluppino la loro percezione del mondo in contatto con un numero crescente di altri esseri umani e di quanti più non-umani possibili. Il collasso e le relative cifre sono concetti freddi. Ma per loro le nostre parole sono calde e ascolteranno storie in cui crederanno, con tanta passione, un po’ o per niente. Li aiuteremo a costruire il loro senso. Ciò che conta è come raccontiamo la storia, le emozioni, il radicamento, la nostra verità e soprattutto lasciamo che immaginino le loro storie su tesori che terranno separati dai nostri. Dobbiamo fornire i mezzi per inventare, e garantire al contempo di non chiudere alcuna possibilità per il futuro.
Al giorno d’oggi alcuni dei nostri figli sono quasi giovani adulti, ci hanno visto scrivere, sentito discutere, letto i nostri libri e visto l’effetto che hanno avuto sugli altri. Il collasso-metamorfosi fa parte del loro paesaggio mentale, così come di quello di un numero crescente di loro amici e di altri giovani della loro generazione. Alcuni hanno paura del futuro, altri meno e altri per nulla.
Le loro scelte future dipendono ovviamente da quelle che facciamo oggi (come individui, ma anche come società), ma tracceranno il loro percorso indipendentemente da ciò che accade, con o senza di noi, se riusciranno a conservare abbastanza fiducia e amore fin dall’infanzia. E quando saremo vecchi rincoglioniti confusi da questo secolo (e nonni saggi con la barba bianca), se la sbrigheranno molto meglio di noi!
Ma ciò che ci tocca non è tanto ciò che insegniamo loro quanto ciò che ci fanno scoprire: un’ampia gamma di emozioni, l’esplorazione del nostro io interiore, il radicamento e l’allineamento, la presenza, l’impegno e l’assunzione di responsabilità. È noto che i bambini sono spesso molto più saggi di parecchi adulti di fronte alla morte e alla sofferenza.27 Con il senno di poi, ci rendiamo conto di aver ricevuto da loro un’immensa dose di significato e legami profondi, proprio ciò che ci ha motivati a scrivere questo libro.
Per concludere sui bambini, è impossibile evitare queste poche parole della scrittrice Ursula Le Guin:
Una creatura giovane ha certamente bisogno di protezione e difesa. Ma ha anche bisogno di verità. E mi sembra che il modo per parlare a un bambino con onestà e realismo, sia del bene che del male, sia parlargli di se stesso. Del suo sé interiore, il più profondo. Questo è qualcosa a cui può tenere testa; per la verità, la sua occupazione durante la crescita è diventare se stesso. Non può farlo se ha la sensazione che il compito sia disperato, né se viene indotto a pensare che non ci sia alcun compito. Il bambino crescerà rachitico e deforme, se è costretto a disperare o è incoraggiato in false speranze, se viene terrorizzato o se viene coccolato. Quello di cui ha bisogno per crescere è la realtà, la totalità che oltrepassa tutti i nostri vizi e virtù. Ha bisogno di conoscere; ha bisogno di conoscere se stesso. Ha bisogno di vedere se stesso e l’ombra che proietta; e può imparare a controllarla e a farsi guidare da essa. In modo che, quando avrà acquistato la sua forza e responsabilità di adulto nella società, sarà meno incline, forse, sia a rinunciare per la disperazione che a negare ciò che vede, quando dovrà affrontare il male che viene compiuto nel mondo, e le ingiustizie e il dolore e le sofferenze che tutti dobbiamo sopportare, e l’ombra finale al termine di tutto ciò.28
SECONDA PARTE
GUARDARE CON OCCHI DIVERSI
«Non vediamo le cose come sono, le vediamo come siamo.» Antico proverbio del Talmud
«Se vuoi costruire una barca, non radunare uomini per tagliare legna, dividere i compiti e impartire ordini, ma insegna loro la nostalgia per il mare vasto e infinito.» ANTOINE DE SAINT-EXUPÉRY
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INTEGRARE ALTRI MODI DI SAPERE
Come guardare con occhi diversi? Come allontanarci dalla matrice del pensiero per aprire nuovi orizzonti? La prima fase è quella di constatare che ci sono altri modi di pensare validi, e la seconda è accettare di mettere in discussione le nostre certezze. In queste condizioni, possiamo considerare veri passi indietro quelli che travalicano il quadro per evitare il soffocamento e aprire nuove strade.
Non stiamo qui cercando “soluzioni”. Stiamo esplorando nuovi modi per aprire nuove possibilità. Dobbiamo prendere questi tentativi per quello che sono: tentativi, esperienze di pensieri che possono far vibrare in voi delle corde sensibili di cui non eravate a conoscenza.
Questa parte fornisce alcune idee per creare senso in modo diverso, per trasformare il modo in cui siamo nel mondo, e quindi la nostra società. Si tratta di un importante margine di manovra a disposizione di chi vuole un cambiamento radicale.
Esploreremo rappresentazioni del mondo diverse dalle nostre, così come storie di futuri collassati. Per cominciare, cercheremo di restituire un po’ di flessibilità alla nobile ma rigida istituzione della scienza, affinché diventi un’alleata e non perché continui ad alimentare un sistema tecnologico distruttivo.
Nuove (in)discipline scientifiche
Secondo voi, chi dovrebbe determinare la quantità accettabile di emissioni di gas serra che potremmo rilasciare entro il 2050? I climatologi? E se sì, quali? O gli specialisti di rischi e catastrofi? I (ri)assicuratori? Gli esperti delle Ong? I capi di stato? Le compagnie petrolifere? Le popolazioni il cui territorio sarà presto inghiottito o desertificato? Voi? Le specie minacciate? E quale ruolo dovrebbero avere la scienza e le istituzioni scientifiche in questo processo decisionale?
PROBLEMI TROPPO COMPLESSI
Si chiamano “iperoggetti”,1 “problemi divergenti”2 (a differenza dei problemi convergenti la cui soluzione si avvicina ogni volta che si cerca di risolverli) o “problemi spinosi” (wicked problems).3 Si tratta di difficoltà insolubili, caratterizzate dal fatto che lo sforzo compiuto per cercare di risolvere un aspetto del problema ne genera di nuovi.
La questione del clima è una di queste. Al di là di un aumento di 2 °C della temperatura media globale, ci sono imprevedibili cambiamenti di tipo qualitativo. Stiamo entrando in un mondo che lo scienziato del clima Joachim Schellnhuber definisce “terra quasi-incognita”.4 Ci si scontra quindi con due grandi insidie: in primo luogo, i limiti scientifici dovuti alla complessità dei sistemi coinvolti e, in secondo luogo, il fatto che tutto ciò riguarda la vita e la salute di molte persone con poste in gioco enormi e contraddittorie.5
I problemi spinosi sorgono nell’ambito dei cosiddetti sistemi altamente complessi. Questi contengono una grande quantità di incertezza e imprevedibilità che non può essere ridotta a zero. Ad esempio, non saremo mai in grado di effettuare un esperimento su vasta scala sugli effetti della scomparsa dell’Amazzonia, né di fare previsioni meteorologiche con anticipo maggiore di una settimana, né di valutare nel loro complesso gli impatti degli Ogm o dell’energia nucleare nell’arco di centomila anni o anche solo di un secolo, perché ci sono troppi parametri in gioco e questo richiede una potenza di calcolo che è impossibile da realizzare.6
Come reagisce la scienza di fronte ai problemi? Schematicamente, ci sono diverse scale di risposta, che sono legate al livello di incertezza e all’entità della posta in gioco. Nella scienza pura (teoria e laboratori), l’incertezza è ridotta a livelli molto bassi e anche le questioni decisionali in materia di ricerca sono molto deboli perché dipendono solo dai ricercatori. Quando un’invenzione o una scoperta escono dai laboratori, si entra nel campo della scienza applicata: l’incertezza e le sfide aumentano ma rimangono basse e/o controllabili, il più delle volte dalle statistiche e dagli ingegneri (esempio: l’operazione di un chirurgo o la messa in orbita di un satellite). Quando la posta in gioco e l’incertezza aumentano ulteriormente, si richiede la competenza professionale, e più precisamente il giudizio di un esperto (esempio: una diagnosi psichiatrica).
Ma per i problemi spinosi che coinvolgono intere popolazioni su questioni importanti, quando tutto diventa grigio ed emergono grandi controversie, la scienza applicata e gli esperti non sono più sufficienti. È persino rischioso e addirittura controproducente utilizzare questi approcci scientifici cosiddetti “normali”, cioè quelli che si concentrano sulla ricerca di soluzioni tecniche attraverso un approccio riduzionista e compartimentato in discipline specializzate.
Il collasso della nostra civiltà e del nostro mondo è segnato da diversi problemi spinosi. Dobbiamo quindi imparare a comprenderli e a gestirli. E per farlo, dobbiamo continuare ad arricchire le pratiche della scienza. Quindi, come si generano conoscenze utili per navigare in questa nebbia?
VEDERE OLTRE ATTRAVERSO LE SCIENZE DELLA COMPLESSITÀ
Durante la seconda metà del XX secolo sono cresciuti diversi rami molto particolari nel grande albero della scienza. Potrebbero essere raggruppati sotto il nome di “scienze della complessità”7 (complexus significa “ciò che è tessuto insieme”), o ciò che l’antropologo colombiano Arturo Escobar definisce scienze delle interrelazioni.8 Queste discipline hanno influenzato e sconvolto la concezione quantitativa e deterministica di altre scienze tradizionalmente incentrate sullo studio degli oggetti-elementi (e non sulle interazioni).
Ad esempio, sono così emerse le teorie del caos e dell’auto-organizzazione, avviate dal premio Nobel Ilya Prigogine (1917-2003), dal matematico Benoît Mandelbrot (1924-2010) o dal biologo Stuart Kauffman (1939-), che descrivono l’emergere di fenomeni non lineari e imprevedibili. C’è anche l’ecologia, che altro non è che lo studio delle relazioni e dell’interdipendenza tra gli esseri viventi (tra di loro e con l’ambiente). Pensiamo per esempio alla cibernetica di Norbert Wiener (1894-1964) e alla teoria dei sistemi dinamici elaborata da Karl Ludwig von Bertalanffy (1901-1972), Gregory Bateson (1904-1980) o Jay Forrester (1918-2016); alla bellissima teoria dell’autopoiesi di Humberto Maturana (1928-) e Francisco Varela (1946-2001), che descrive come un sistema vivente si costruisce in interazione con il proprio ambiente, come si autoregola e può trasformarsi mantenendo le proprie funzioni principali; alla teoria di Gaia di James Lovelock (1919-) e Lynn Margulis (1938-2011) che descrive il processo di autoregolazione della biosfera; ma anche alla recentissima e dinamica teoria delle reti, una sorta di scienza applicata della complessità.9
Tutte queste discipline hanno portato a progressi immensi nella comprensione delle nostre società, degli organismi viventi, degli ecosistemi e persino del sistema Terra. Per esempio, sapete qual è il punto in comune tra il funzionamento del microbiota nel nostro intestino, la distribuzione di fake news sui social network, la formazione di cellule terroristiche in Medio Oriente, la sorprendente fragilità della finanza internazionale e l’esistenza di soglie di collasso per le popolazioni animali? Tutti questi fenomeni (e molti altri), visti e analizzati come reti di interazioni, e per i quali stiamo solo cominciando a capire come si formano o scompongono, mostrano una sorprendente universalità nella struttura.10
I campi di applicazione di queste conoscenze sono infiniti: la dinamica degli ingorghi sulle strade, la trasmissione di malattie, l’effetto di attacchi terroristici su Internet o su una città, la reazione delle cellule viventi a un cambiamento dell’ambiente, il controllo dei social network o la stabilità della finanza durante una futura grande crisi. La potenza di questa giovane disciplina è impressionante. Entusiasma molte persone nelle cerchie del potere, e fa temere il peggio a coloro per i quali il mantenimento o l’espansione di una società di governo, gestione, potere tecnocratico e sorveglianza generalizzata è proprio una delle cause dei nostri mali.
Dalla fine del XX secolo e a seguito del susseguirsi di annunci catastrofici sullo stato della biosfera, alcuni scienziati stanno correndo contro il tempo. Stanno cercando disperatamente di capire come funziona la nostra società “alla Frankenstein”, questo mostro gigantesco nato dalla globalizzazione su cui non abbiamo più un grande controllo. Le scienze della complessità hanno fornito modi per capire meglio come funziona ma, paradossalmente, ci offrono anche l’opportunità di identificarne la vulnerabilità, cioè il suo possibile collasso.
La realtà non può essere descritta solo attraverso quantità e algoritmi. La salute, ad esempio, è una proprietà emergente degli organismi viventi che può essere considerata in funzione di un insieme di dati quantitativi come ad esempio la pressione sanguigna o la temperatura e anche la risultante di caratteristiche qualitative come il benessere, l’attenzione o il dolore, qualità per le quali non esistono strumenti di misurazione oggettivi. Tuttavia, gli scienziati nelle cosiddette discipline “fondamentali” hanno difficoltà o sono riluttanti ad affrontare le qualità perché difficili da oggettivare.
Per quanto potenti, «i computer non ci permetteranno mai di controllare i processi che sottendono alla salute di organismi, ecosistemi, organizzazioni e comunità», scrive Brian Goodwin, matematico e biologo canadese. «Sono governati da principi sottili in cui la causalità non è lineare ma ciclica, causa ed effetto sono inseparabili e quindi non manipolabili. Questi sistemi sono la causa e l’effetto di se stessi, con cicli crescenti di dipendenza reciproca».11
Alla fine degli anni Novanta Goodwin ha voluto ampliare il quadro concettuale della scienza proponendo di sviluppare una “scienza olistica”12 che integrasse «aspetti del riduzionismo e della scienza tradizionale, sviluppando al contempo altri modi di osservare e costruire la conoscenza»13 per navigare meglio in questi paradossi. Stimolata dalla fenomenologia,14 la scienza olistica si è posta l’obiettivo di «affrontare le sfide legate alla fisica, alla scienza del sistema terra, all’ecologia, alla biologia, allo sviluppo organizzativo e agli studi sulla salute»15 utilizzando rigorose metodologie qualitative,16 che vengono utilizzate ad esempio nella valutazione della salute degli ecosistemi17 e nelle scienze del benessere animale.18 Si tratta di esplorare la realtà «attraverso l’esperienza diretta e soggettiva, e di [fare] uso del consenso intersoggettivo come mezzo per distinguere gli aspetti dell’esperienza e della conoscenza comuni al gruppo e quelli personali degli individui».19
Ciò richiede un notevole sforzo epistemologico che infrange la tradizionale compartimentazione delle discipline, cioè la pratica dei ricercatori. Le scienze umane, ad esempio, utilizzano da molto tempo metodologie qualitative. La loro sperimentazione anche nelle scienze naturali sarebbe un’opportunità per creare un legame essenziale tra natura e cultura!
Noi scienziati non siamo stati abituati a gestire una realtà casuale, erratica, confusa e imprevedibile. Tuttavia, «se il collasso significa qualcosa» ci dice Carolyn Baker, «è un’immersione planetaria in un vortice di paradossi. Se non comprendiamo e rispettiamo il paradosso, finiremo, come tutti i media dominanti sul pianeta, col porre solo le domande sbagliate».20 Una scienza più complessa potrebbe porne di migliori?
L’INTUIZIONE PER AGIRE IN CASO DI EMERGENZA
Negli anni Settanta, la questione ecologica (o ambientale) ha gradualmente incrinato la base granitica del cosiddetto “trentennio glorioso” (1945-1975). Ha portato alla consapevolezza dell’interdipendenza e della fragilità dei sistemi da cui dipendiamo e, con essa, la possibilità di future ristrettezze. Ha posto la domanda insopportabile sui limiti di un mondo che si credeva senza limiti. Una grande rivoluzione concettuale… che non abbiamo ancora finito di digerire cinquant’anni dopo.
All’epoca, in alcuni scienziati si è manifestato un senso di urgenza e qualche disciplina ha poi cercato di pensare in modo specifico ai disastri ecologici. Era necessario capire il più rapidamente possibile per dare alla società gli strumenti e le ragioni per agire. Il biologo della conservazione Michael Soulé le ha definite “discipline di crisi”, raggruppate sotto l’etichetta “scienza della sopravvivenza” (survival science): ecologia, biologia della conservazione, climatologia, geologia, oceanografia, meteorologia e simili.21 Si tratta di discipline sintetiche, sistemiche, complesse e multidisciplinari che attingono alla scienza pura, alla scienza applicata e alle competenze professionali, ma che vanno anche al di là di esse.
Le discipline di crisi rivelano un punto chiave del nostro tempo: studiando sistemi adattivi complessi (come clima, biodiversità, economia globalizzata), si sono resi conto 1) che sono incredibilmente complesse; 2) che è già troppo tardi per evitare grandi cambiamenti (o addirittura spaccature) irreversibili; e quindi 3) che non avranno il tempo per conoscere tutto. L’epoca che sta arrivando è innegabilmente l’era dell’incertezza.
Già nel 1985, visto che le catastrofi non avevano lo stesso ritmo (rapido) del (lento) progresso scientifico, Soulé sollevò una questione epistemologica fondamentale22: «D’ora in poi è necessario agire prima di conoscere tutti i fatti; le discipline di crisi sono quindi un misto di scienza e arte, e il loro perseguimento richiede intuizione oltre che informazione».23
In altre parole, se aspettiamo di sapere tutto con la massima obiettività prima di agire, saremo condannati a guardare impotenti mentre l’Antropocene si dispiega dalle finestre di tranquilli laboratori. L’intuizione è piuttosto inquietante per una società abituata a prendere decisioni sulla base di conoscenze razionali, quantificate, oggettive e prive di ogni affetto. Agire prima di capire? Si tratta ancora di un processo scientifico?
Il problema è che l’intuizione è stata per secoli una fonte di nodi concettuali. Citiamo ad esempio il filosofo francese Henri Bergson (1859-1941), che scrisse ampiamente sulla differenza tra i due modi cognitivi della ragione e dell’intuizione. Il primo utilizza i concetti e li analizza, il che frammenta gli oggetti e articola la realtà in modo statico, mentre il secondo si avvicina ai fenomeni in modo più globale e dinamico.
Da menzionare anche lo psicologo e premio Nobel per l’economia Daniel Kahneman (1934-), che ha avvalorato con le proprie competenze lo studio dei comportamenti irrazionali. Ripetendo la dicotomia intuitivo-razionale, descrive due modalità cognitive che modellano i nostri comportamenti: il “sistema 1”, esperienziale, intuitivo, preconscio, rapido, automatico, olistico, prevalentemente non verbale e correlato agli affetti, e il “sistema 2”, cosciente, analitico, lento, razionale, prevalentemente verbale e non legato ai sentimenti.
Quando si impara a guidare, si mette in moto il sistema 2 (razionale), il quale carbura per coordinare con successo il movimento di mani e piedi, prestando attenzione al codice della strada. È difficile, lento e faticoso! Ma attraverso la pratica, il cervello trasferisce queste abilità al sistema 1 per rendere la guida progressivamente automatica e agevole, permettendo al guidatore di avere una conversazione con i passeggeri durante il cambio di marcia e in previsione dell’incrocio successivo. Nella vita di tutti i giorni preferiamo usare il sistema 1 (spontaneo) per comodità e pigrizia. Di tanto in tanto, quando si verifica una situazione strana o pericolosa, si accende il sistema 2 per analizzare la potenziale minaccia. Questa preferenza per la modalità automatica rende la vita più fluida, ma genera regolarmente anche errori nella vita quotidiana, che Kahneman ha definito “euristiche del giudizio”.24 L’intuizione è una lama a doppio taglio…
Oggi l’intuizione non è più solo un oggetto filosofico, una sorta di scatto magico in stile “Eureka”. Potrebbe essere definita globalmente come “un pensiero prodotto in parte da processi inconsci”, ma in realtà ha diverse definizioni perché è stata trattata simultaneamente dalle scienze manageriali e del processo decisionale, dalle scienze cognitive e dalla psicologia.
Nel 2005, alcuni ricercatori in scienze manageriali ne hanno ulteriormente affinato la comprensione distinguendo due tipi di intuizioni: la competenza automatizzata e l’intuizione olistica.25 La prima è quella che ci fa guidare alla perfezione un’auto senza pensarci in modo consapevole, è quella che velocizza l’elaborazione dei compiti quando la situazione è familiare. Il suo limite è che non si adatta a situazioni sconosciute, strane o imprevedibili, come ad esempio un mondo di problemi spinosi.
La seconda, l’intuizione olistica, è un giudizio o una scelta fatta a partire da una sintesi inconscia di informazioni provenienti da varie esperienze (da tutti i sensi). A differenza dell’automazione, è molto più utile in una fase esplorativa di ricerca, così come in situazioni imprevedibili o urgenti, perché accelera l’elaborazione delle troppe informazioni provenienti da fonti ambigue. Soprattutto, si impegna in quella che altri chiamano “creatività”, e promuove l’emergere di strategie di adattamento veramente innovative.
L’intuizione olistica potrebbe essere particolarmente utile per navigare in un mondo incerto e caotico, soggetto a diversi eventi catastrofici. Non è una bacchetta magica che potrebbe giustificare qualsiasi cosa o sfuggire all’oggettività scientifica classica (quando si hanno tempo e mezzi), ma un altro strumento cognitivo che avremmo a nostra disposizione per adattarci al nostro nuovo mondo.
Nel caso di problemi spinosi, il numero di variabili e le interazioni tra di esse è così elevato che è impossibile avere un quadro realistico e completo di ciò che sta accadendo. È difficile credere che possiamo comprendere appieno (e tanto meno controllare) questi problemi prima che provochino sconvolgimenti globali nelle nostre società o destabilizzino il nostro sistema Terra… al punto che l’esercizio stesso della scienza non è più possibile! Non abbiamo quindi scelta: dobbiamo iniziare a correre nella nebbia e a fare dell’intuizione il nostro alleato.
Naturalmente, le scienze ci sembrano sempre necessarie come linguaggio comune per comprenderci a vicenda. Ma nel XXI secolo, quelle menti che persistono nella ricerca di oggettività e certezza a tutti i costi prima di mettersi in moto avranno più probabilità di altri di morire con un libro in mano o dietro uno schermo.
LA RESILIENZA PER NAVIGARE NELL’INCERTEZZA
Il campo di studio della resilienza degli ecosistemi socio-ecologici è come una branca secondaria dell’ecologia. Utilizza il pensiero complesso, ha ben compreso che non si può pensare alla natura e all’uomo tenendoli separati, e fornisce informazioni chiave su come gli ecosistemi e le comunità si stiano riprendendo dalle varie crisi che hanno vissuto. Ci dà quindi i mezzi per capire i collassi presenti e futuri, e ci permette anche di vedere (e forse anticipare) le rinascite.
Per gli ecologisti, la resilienza dell’ecosistema indica la sua «capacità di riprendersi da una perturbazione mantenendo le stesse funzioni, la stessa struttura, gli stessi cicli ininterrotti e quindi la stessa identità».26 Non si tratta di resistere al cambiamento o di voler necessariamente tornare allo stesso stato, ma piuttosto di risollevarsi aprendosi alla possibilità di trasformarsi per non perdere alcune delle proprie funzioni.
Vorremmo qui presentare alcune nozioni di questa disciplina che riteniamo utili per cambiare la percezione che abbiamo delle perturbazioni. Il primo è il ciclo adattivo, che descrive la trasformazione ciclica di sistemi altamente complessi e adattivi, ovvero in evoluzione. In altre parole, sistemi viventi. Questi non sono stabili: sono in uno squilibrio dinamico, che passa attraverso quattro fasi.
C’è la fase di crescita, che dà origine a un cosiddetto sistema pionieristico. È il caso, ad esempio, delle prime fasi della nascita di una foresta su terreni aperti (un ecosistema, quindi). Poi, durante la fase di irrigidimento o maturazione, il sistema diventa più complesso con l’arrivo di nuove specie e “immagazzina” materia ed energia, come quando cresce una foresta. In questo caso preciso, a parità di apporto energetico (il flusso solare), la foresta può ospitare un numero sempre maggiore di specie e accumulare quanta più biomassa possibile. La terza fase è quella chiamata rilassamento, semplificazione, o semplicemente collasso, che rilascia la materia e l’energia accumulata. Nel caso della foresta, è l’incendio. La quarta fase, nota come fase di rinnovamento o riorganizzazione, vede gli elementi rimanenti riunirsi per riprendere il ciclo con una nuova fase di crescita. Dopo un ciclo, la foresta è stata più o meno trasformata, ma ha mantenuto la propria identità e la propria struttura.
È possibile che durante le fasi di collasso e riorganizzazione il sistema possa intraprendere un altro percorso di ricostruzione, verso una nuova identità. Ad esempio una foresta che non ricresce e diventa steppa o deserto. Questo genere di biforcazione (a volte auspicabile) è quasi impossibile da prevedere e si verifica quando le condizioni esterne cambiano oltre una certa soglia. Il che fa luce sulle possibili dinamiche di collasso e metamorfosi del nostro mondo.
L’altro aspetto interessante di questa nozione è pensare all’incastro dei sistemi viventi (come avviene in condizioni reali), e quindi constatare che ogni sistema è composto da sottosistemi comunicanti (l’insieme forma una struttura dinamica chiamata “panarchia”). È la sincronizzazione dei “micro-collassi” dei sottosistemi che alla fine fa cadere il sistema più grande da essi costituito.
Il pensiero della resilienza aiuta a costruire un quadro concettuale per il collasso in quanto distruzione creativa di un grande sistema adattivo globale (composto da un numero infinito di sottosistemi naturali e umani intrecciati). Ogni sistema e sottosistema alla fine crolla e spesso rinasce. L’interesse, nel nostro caso, è quello di vedere il collasso della civiltà termoindustriale come un vortice di micro e macro collassi, essi stessi interdipendenti da una diversità di sistemi naturali, alcuni dei quali già in procinto di collassare. La disintegrazione seguita dalla riorganizzazione offrirà l’opportunità (o meno) di passare a un’altra forma di organizzazione sociale (forse non una civiltà), in ogni caso senza dipendenza dai combustibili fossili e, se possibile, compatibile con la vita.
O, più semplicemente, come riassume Edgar Morin: «Questa è la storia: emergenze e collassi, periodi di calma e cataclismi, biforcazioni, vortici, emergenze inaspettate. E a volte, anche nei periodi bui, appaiono semi di speranza. Imparare a pensarla così: questo è lo spirito della complessità».27
Uscire dalla torre d’avorio
Oltre a essere complessi, i problemi spinosi riguardano settori in cui la posta in gioco è particolarmente elevata (come la sopravvivenza dell’umanità e delle altre specie, l’aumento dell’incidenza dei tumori, il benessere delle popolazioni). Questo li rende problemi etici complessi che implicano valori irriducibili nei diversi gruppi culturali, sociali o politici.
Ad esempio, come possiamo scegliere tra il benessere di una generazione o di un’altra, di una regione del globo o di un’altra? Come possiamo scegliere di far soffrire o scomparire questa o quella specie vivente? In che misura un fiume considerato un essere vivente da un’altra cultura può essere inquinato o prosciugato? In tutti questi casi sarebbe assurdo ancora oggi cercare una “verità unica”, prodotta in laboratorio.
LA TRANSDISCIPLINARIETÀ PER APRIRE E ABBATTERE LE BARRIERE
Nel constatare la situazione critica in cui siamo immersi, ogni disciplina scientifica ha la propria proposta: climatologi, agronomi, ingegneri, architetti, economisti, sociologi. Ma tutte le proposte “monodisciplinari” di comprensione e azione non costituiranno mai una strategia globale.
Molti scienziati ne sono consapevoli e persino preoccupati. Ma non possono dirlo troppo a voce alta, «più di quanto i genitori non possano litigare davanti ai propri figli»,28 per usare l’espressione della filosofa della scienza Isabelle Stengers. Di fronte a un progetto di questo tipo, il “pubblico” potrebbe perdere fiducia nella scienza: è in gioco la sua autorità. Sulla base di questa osservazione opprimente e paralizzante, il filosofo Tom Dedeurwaerdere dell’Università Cattolica di Lovanio ha proposto di allargare la pratica scientifica in tre modi.29
In primo luogo, generalizzando l’interdisciplinarità, che consiste nel far lavorare insieme le discipline scientifiche e costringere i ricercatori a creare un nuovo linguaggio comune. Ad esempio, il prodotto interno lordo è una semplice misura dell’attività economica (monodisciplinare). Ma sappiamo da tempo che questo indice non misura la felicità di una società, né la sua qualità di vita, tutt’altro. Sono stati creati altri indici che riuniscono diverse discipline delle scienze sociali (ma purtroppo non sono ancora stati implementati).
Per aprire la torre d’avorio alla società, Dedeurwaerdere propone di passare dall’interdisciplinarità alla transdisciplinarietà. Sono necessari altri due ingredienti: aprire la pratica scientifica ad ambienti non scientifici e includere l’etica. Ciò significa non solo smettere di considerare la scienza come “neutrale”, ma anche formulare questioni di ricerca con gli attori sociali (mondo della politica, dell’associazionismo, dell’attivismo ecc.), raccogliere e analizzare i dati con questi stessi attori, e infine applicare le conclusioni con e per la società. Più un problema è contestato (o spinoso), più la transdisciplinarietà è giustificata.30
Le scienze biomediche, ad esempio, hanno già creato istituzioni per gestire la complessità etica derivante da questo approccio.31 Per quanto concerne le decisioni, esse coinvolgono una “più ampia comunità di pari”, compresi legittimi attori non scientifici e rappresentanti delle parti interessate. Logicamente, è la società nel suo complesso che dovrebbe decidere come e perché produrre questi risultati degli scienziati, non solo gli scienziati, né i politici o altri gruppi di interesse.
Queste proposte sono in linea con l’osservazione di Isabelle Stengers nel suo libro Une autre science est possible!, in cui sviluppa la nozione di “intelligenza pubblica della scienza” per dissolvere l’opposizione tra scienza e opinione. È un terremoto culturale: «È qui che è in gioco l’etica stessa degli scienziati, e in particolare la loro sfiducia nei confronti di qualsiasi rischio di “mescolare” quelli che considerano “fatti” con i “valori”».32
Per andare avanti, occorre costruire rapidamente dei ponti tra gli organismi di ricerca, ma anche tra ricercatori e cittadini, e soprattutto tra i diversi tipi di conoscenza. Negli ultimi decenni, questo tipo di approccio ha cominciato a essere riconosciuto. Come riassume Bruno Latour:
Si tratta di sapere non come rimediare agli errori del pensiero, ma come condividere la stessa cultura, far fronte alle medesime sfide, rispetto a un paesaggio che può essere esplorato insieme. Si ripresenta qui il solito vizio dell’epistemologia, che consiste nell’attribuire a deficit intellettuali quello che è molto semplicemente un deficit di pratica comune.33
Questo potrebbe benissimo aiutare le scienze della sopravvivenza e in particolare la collassologia!
INCLUDERE LE CONOSCENZE INDIGENE
Durante la seconda metà del XX secolo, alcuni hanno osservato che le grandi avventure tecnico-scientifiche (la rivoluzione verde, ad esempio) non sono riuscite a migliorare in modo sostenibile le condizioni di vita della maggior parte degli agricoltori del mondo. Mentre la maggioranza degli scienziati considerava le conoscenze tradizionali come inefficaci, inferiori o come ostacoli allo “sviluppo”,34 gli antropologi che lavoravano con le popolazioni indigene (spesso oppresse) sapevano che erano portatrici di una saggezza «che sottolinea la natura simbiotica dell’uomo e della natura».35
Le popolazioni indigene di tutto il mondo hanno sempre osservato meticolosamente i loro ambienti come condizione indispensabile per la loro sopravvivenza e hanno quindi sviluppato conoscenze basate su osservazioni empiriche adattate alle condizioni locali che consentono loro di evolvere con i cambiamenti ambientali. Queste “conoscenze ecologiche tradizionali”36 comprendono le visioni del mondo delle popolazioni indigene che classificheremmo nei campi dell’ecologia, della spiritualità, delle relazioni umane e animali e altro ancora.
Emerse quindi l’idea tra alcuni ricercatori che combinando queste conoscenze indigene con la scienza classica occidentale si potevano promuovere modalità rispettose ed eque per generare conoscenze. O, meglio ancora, per risolvere alcune “crisi”37 complesse, come il legame tra clima e deforestazione38 o il mantenimento della biodiversità, poiché, secondo la Right and Resources Initiative,39 i territori dei popoli indigeni ospitano meno del 4 per cento della popolazione mondiale e circa l’80 per cento della biodiversità mondiale.
Un gruppo di ricercatori aperti a questa complementarità tra le conoscenze ecologiche tradizionali e le scienze classiche ha quindi elaborato un approccio a “prove multiple” (multiple evidence based).40 Il vantaggio di questo quadro di lavoro innovativo41 è che riconosce che l’interpretazione e l’autenticazione delle conoscenze avvengono simultaneamente.42
Ad esempio, durante la catastrofe della petroliera Exxon Valdez in Alaska nel 1989, le agenzie federali statunitensi hanno utilizzato le conoscenze tradizionali locali per aumentare il tasso di successo legato agli interventi di ripristino. La comunità indigena è stata in grado di fornire informazioni cruciali e dettagliate sulla biologia e sulla distribuzione storica di molte specie colpite dalla marea nera.43
Anche in Europa sta guadagnando terreno l’idea che i non-scienziati detengano determinate chiavi della resilienza. Nel 2015, la regione di Bruxelles-Capitale ha lanciato un programma di ricerca, Co-Create for Urban Resilience, volto a sostenere l’innovazione attraverso processi di co-creazione tra il mondo della ricerca e gli abitanti di Bruxelles. Più specificamente, il programma intende portare avanti «progetti che propongono innovazioni sociali nel contesto di potenziali spaccature nei servizi interdipendenti su cui si basa la nostra società urbana (in particolare la limitazione delle risorse minerarie ed energetiche)».44
Questo programma di “ricerca-azione partecipativa” è l’essenza della collassologia, ma anche dell’approccio che abbiamo appena descritto: formare non tanto cittadini, ma “utenti” della conoscenza, in sintonia con la loro epoca. L’idea è quella di «coinvolgere direttamente le persone interessate e farle beneficiare dei risultati (responsabilizzazione degli utenti); superare le ripartizioni disciplinari e integrare le conoscenze non accademiche o non formali (transdisciplinarietà); abbattere le barriere tra il cittadino, il settore industriale, quello associativo e quello accademico (trans-settorialità); e infine modificare la posizione e la pratica del ricercatore accademico (ricerca-azione-partecipativa)».45
Oggi, i saperi tradizionali e locali e la “ricerca azione partecipativa” fecondano un numero crescente di discipline scientifiche su temi vari come l’adattamento al cambiamento climatico,46 la conservazione della biodiversità,47 lo sviluppo di tecnologie appropriate,48 la salute,49 l’educazione,50 la gestione di pesca51 e foreste,52 l’agricoltura,53 la psicologia54 e altri. Ma tutto questo non è privo di difficoltà, soprattutto all’interno delle istituzioni che fanno fatica a tollerare altri modi di conoscere.
Per una scienza post-normale
Per lo scrittore e docente di scienze ambientali David Orr «la crisi [planetaria] si è verificata nel momento e nel luogo in cui è stato spezzato il legame tra conoscenza, mezzi di sussistenza e la vita in sé, e la conoscenza è stata utilizzata esclusivamente per aumentare la produttività».55 È giunto il momento di riparare questi legami e di usare il potere della scienza per scopi meno distruttivi. Non si tratta di abbandonare la scienza per entrare nel mondo delle tenebre, ma di arricchirne le pratiche, con un approccio di apertura e metamorfosi.
La questione della scienza “normale” non è nuova, la riaffermava negli anni Settanta il filosofo della scienza Jerome Ravetz,56 che ne criticava la svolta industriale e “tecnoscientista” (e quindi concordava con le conclusioni di Jacques Ellul e Ivan Illich). Queste critiche hanno portato negli anni Novanta all’emergere del concetto di “scienza post-normale” (post-normal science),57 che è la strategia per risolvere i problemi scientifici a cui si può ricorrere quando «i fatti sono incerti, i valori controversi, la posta in gioco elevata e le decisioni urgenti» (Figura 1).58
Non basta più quindi chiedere agli scienziati di cercare «soluzioni ottimali» (razionalità sostanziale): è necessario creare un «processo per trovare soluzioni comuni e soddisfacenti» (razionalità procedurale).59
Tutto ciò presuppone che le parti interessate partecipino ai processi di formulazione degli obiettivi scientifici, di determinazione dei criteri di valutazione della metodologia, dei feedback per l’analisi e, infine, dei processi decisionali. Non è facile! Soprattutto perché questa comunità di esperti «deve includere una pluralità di conoscenze (scientifiche, indigene, locali, tradizionali), valori (sociali, economici, ecologici, etici) e credenze (materiali, spirituali) che, quando vanno ad aggiungersi ai “fatti scientifici” tradizionali, fanno luce sull’analisi del problema in questione».60
È anche una proposta di scienza incentrata sulle qualità piuttosto che sulle quantità. Si parla di “assicurazione di qualità” non perché questa metodologia gestisca meglio l’incertezza, ma perché si tratta di un processo di costruzione sociale capace di rispondere alle preoccupazioni di tutti gli attori, cioè di tenere conto delle molteplici narrazioni del problema in questione.
«Un momento!» insorgeranno i razionalisti, vedendo in questo approccio un attacco all’oggettività scientifica, un nuovo «relativismo culturale», un «controllo ideologico delle scienze» o un’«insopportabile regressione religiosa o spirituale che ci riporterebbe al Medioevo».
Siamo d’accordo con Latour che «non è nemmeno necessario abbandonare la razionalità per aggiungere dei sentimenti alla fredda conoscenza. Bisogna conoscere il più freddamente possibile la calda attività di una terra finalmente colta da vicino».61 Dobbiamo trovare gli strumenti concettuali – e la scienza post-normale è uno di questi – per avvicinarci e sentire quella che il sociologo definisce la “zona critica”, la «minuscola zona di pochi chilometri di spessore tra l’atmosfera e le rocce madri. Una pellicola, una vernice, una pelle, pochi strati ripiegati all’infinito»,62 dove tutti gli organismi viventi, noi compresi, nascono e muoiono.
La scienza post-normale non è un’anti-scienza. Al contrario! Iniettando la democrazia in questi processi di produzione della conoscenza intorno alle questioni che ci riguardano tutti, essa diventa una salvaguardia che protegge la scienza (e il mondo) dal pericolo dello scientismo e della tecnoscienza.63 Lavora per arricchire la pratica scientifica e tirarla fuori dalla sua torre d’avorio. O meglio, per farle toccare terra.
5
APRIRSI AD ALTRE VISIONI DEL MONDO
Molti esseri umani sono diventati sordi. «Secoli di hybris ci intasano le orecchie come tappi di cera; non riusciamo a sentire il messaggio che la realtà ci sta urlando.»1
Secondo la tesi di David Abram,2 il passo chiave in questa separazione tra uomo e natura è stata l’invenzione del linguaggio astratto: il dare un significato astratto ai suoni e ai segni scritti indipendentemente dal contesto in cui sono pronunciati, cioè la realtà dell’ambiente, del percorso e dell’interpretazione delle persone coinvolte. Dotandosi di un potente strumento teorico come il linguaggio, l’essere umano è entrato nel freddo mondo dell’astrazione, e il dialogo si è interrotto. Perdendo il sensibile, l’essere umano ha «condannato la natura al silenzio», entrando in quello che Dominique Bourg chiama il «grande mutismo».3
L’avvento della fisica moderna ha continuato questo movimento per «bandire le qualità sensibili a favore di dati e cifre», che ha portato a una «civiltà autistica»4 la quale ha perso i legami di reciprocità ed empatia con gli esseri non umani (viventi e non viventi) o, peggio, a una civiltà psicopatica che prova sentimenti solo per se stessa. «Ogni emozione viene riportata [agli esseri umani] in qualsiasi modo. Gli altri sono solo oggetti che servono a soddisfare i loro desideri. Questo problema di mancanza di empatia spiega perché, non avendo alcuna morale, non hanno limiti nell’arrecare danni fisici e morali agli altri».5
Questa grande disconnessione si è accentuata dal Rinascimento in poi, dove l’orizzonte era dato dal progresso tecnologico e dall’assoggettamento della Terra ai bisogni materiali dell’uomo. La società moderna è stata costruita “lavorando” la natura come semplice materia (Cartesio), e facendo “lavorare” altri esseri viventi a proprio piacimento. Così, questa «concezione della “natura” ha permesso ai Moderni di occupare la Terra tanto da impedire ad altri di occupare in modo diverso il loro territorio».6
Dall’universo ai pluriversi
Ma, anche se protetto dal suo guscio tecnico, l’essere umano non è indipendente dall’ambiente in cui vive. Nell’era antropocenica non è più possibile affermare che esistono due ordini di realtà, ognuno con una propria dinamica, quello della storia dell’uomo e quello dell’evoluzione della Terra.7 Riguadagnare la terraferma, e tornare ad ascoltare ciò che il mondo ha da dirci, significa andare a scoprire e incontrare gli altri.
L’obiettivo non è un mero esercizio teorico, ma è radicalmente pratico: promuovere, come propone l’antropologo Philippe Descola, una coesistenza meno conflittuale tra esseri umani e non umani, e quindi cercare di fermare gli effetti devastanti della nostra incuria e voracità su un ambiente globale di cui siamo i primi responsabili.8
Oggi i confini si muovono. Una serie di studi antropologici veramente innovativi permette di considerare questa possibilità, così come la moltiplicazione di esperienze reali da parte dei collettivi (più spesso in lotta) di tutto il mondo.
Anche papa Francesco, nella sua enciclica Laudato si’,9 nota che «una presentazione inadeguata dell’antropologia cristiana ha finito per promuovere una concezione errata della relazione dell’essere umano con il mondo», accusando il «sogno prometeico di dominio sul mondo».10 Mette in guardia contro l’antropocentrismo, l’idea che l’essere umano sia al centro dell’universo e che tutto faccia riferimento a lui. «Se l’essere umano si dichiara autonomo dalla realtà e si costituisce dominatore assoluto, la base stessa della sua esistenza si sgretola.»11
Di questo percorso di esplorazione davvero sconcertante ed emozionante, noi moderni sappiamo poco o nulla. Potremmo servirci di alcuni studi teorici che ci riguardano (e ci aiutano a liberarci dei complessi), ma l’essenziale è la pratica. Il problema è che siamo molto poco attrezzati, perché soffriamo di amnesia. Chi ha mai parlato con un albero prima d’ora? Chi, durante una passeggiata, riesce sentire ciò che la foresta ha da dire? Sapete cosa pensa il lupo quando ripopola alcune aree? Queste esplorazioni e la riscoperta (e forse anche la scoperta) di nuovi modi (per noi) di entrare in dialogo con i non umani possono risultare piuttosto complicate, anche goffe, ma è normale. Questo capitolo è un invito a liberarci dai complessi.
ALTRI MODI DI VEDERE IL MONDO
Tra le grandi crepe dell’edificio della modernità, spicca l’opera di Bruno Latour. Fin dal suo libro Non siamo mai stati moderni12 sottolinea come la scienza non sia l’attività pura e disinteressata che afferma di essere. Esiste un divario tra le pratiche delle parti interessate (in particolare gli scienziati) e le loro relazioni. I Moderni dichiarano in via ufficiale di separare fatti e valori, mentre continuano a mescolarli in modo ufficioso. «Una delle stranezze dell’epoca moderna è aver avuto una definizione così poco materiale, così poco terrestre, della materia. Essa si vanta di un realismo che non ha mai saputo mettere alla prova. Come chiamare materialista gente capace di scivolare senza badarci su un pianeta a +3,5 °C o che rende i propri concittadini agenti della “sesta estinzione di massa”, senza neanche accorgersene?»13
Ma se i Moderni non sono mai stati veramente moderni, non hanno accettato nemmeno altri modi di essere. Ontologia è il termine che fa riferimento alla rappresentazione del mondo che ogni cultura si costruisce – in altre parole, il suo rapporto con il mondo pratico, implicito e quotidiano con il reale. Le ontologie non sono credenze o ideologie, si tratta di schemi generatori che si formano durante l’infanzia e danno un senso al mondo. Sono modi di essere nel mondo.
Credendo di avere in mano le chiavi della verità (attraverso la scienza), i Moderni si sono convinti di poter fare a meno di altre ontologie. Ma l’idea che ci potrebbe essere un’ontologia più “vera” delle altre si contrappone a tutto il lavoro di Descola e diversi altri antropologi. Esplorando culture diverse dalla nostra, Descola mostra i vari modi in cui gli esseri umani vedono gli altri esseri viventi come partner dotati di intenzionalità e con i quali interagiscono pienamente nella vita quotidiana. Questo autore ha classificato le ontologie in quattro categorie principali.
Il naturalismo è l’ontologia della modernità occidentale (dalla fine del Medioevo).14 È l’unica ad aver inventato il concetto di natura, cioè la dualità uomo/natura. Ritiene che, se sul piano fisico tutti gli esseri viventi condividono gli stessi corpi (e discendono dagli stessi antenati), sul piano interiore sono diversi da tutti gli altri esseri naturali. In altre parole, nega ogni forma di interiorità a ciò che non è umano.15
L’animismo è diffuso tra le popolazioni indigene del Sud e Nord America e di alcune parti dell’Asia. È un’ontologia inversa rispetto al naturalismo, che riscontra somiglianze tra gli esseri dal punto di vista dell’interiorità (tutti gli esseri hanno uno “spirito” dello stesso tipo), ma differenze nell’esteriorità (tutti questi “spiriti” sono incarnati in corpi di specie diverse). Queste popolazioni non operano quindi una chiara distinzione dai non umani e vivono sempre in dialogo con loro.
Il totemismo è diffuso in Australia e Nord America e riconosce una somiglianza tra interiorità ed esteriorità. I diversi tipi di esseri sono quindi classificati in base alle loro proprietà fisiche, psichiche e morali (“rotondi”, “oscuri” ecc.).
L’analogia è il sistema di rappresentazione di alcune popolazioni dell’America centrale, dell’America latina e dell’Africa occidentale. Essa presuppone una differenza tra interiorità ed esteriorità. Tutti gli esseri sono singolari: il confronto tra esseri distinti è quindi fatto attraverso analogie.
Queste quattro grandi ontologie devono essere considerate come punti cardinali, in quanto le culture e gli individui non sono confinati in un’unica categoria. Non c’è un tipico rappresentante dell’una o l’altra ontologia (per esempio, quanti di voi parlano con gli animali domestici, le piante o la loro automobile?)
Il naturalismo ha il grande difetto di basarsi sulla separazione. Per l’antropologo Arturo Escobar, i pilastri dell’ontologia moderna sono la fede nell’individuo, nell’economia, nella realtà e nella scienza,16 incarnate in una volontà espansionistica di sviluppo su scala planetaria. Da Cartesio a Marx, questa moderna ontologia separa l’emozione e la ragione e richiede una spaccatura radicale, o addirittura il ripudio, dalle precedenti forme di pensiero e pratica.
D’altra parte, le altre ontologie sono relazionali, cioè nessuna entità esiste prima delle relazioni che la costituiscono. Come spiega Escobar, «non c’è l’“individuo”, ma persone in continua relazione con tutto il mondo umano e non-umano».17 In linea con le conquiste delle scienze della complessità, questo è anche ciò che propone l’ecosofia di Arne Næss, che rifiuta la visione dualistica dell’essere umano in un “ambiente”. Per lui «gli organismi sono nodi all’interno della rete o del campo della biosfera, dove ciascuno di essi sostiene relazioni intrinseche con l’altro».18
VERSO UNA DIPLOMAZIA TRA STILI DI VITA
Il mondo moderno ha cercato di staccarsi dal sistema Terra, ma quest’ultimo, con i cambiamenti globali, si sta ripresentando in tutta la sua forza: innalzamento degli oceani, scioglimento dei ghiacciai, tempeste, ondate di calore. Credevamo di esserne fuori, di esserci liberati di tutte le contingenze biologiche e di toccare la luce celeste dello spirito puro. Ci troviamo soli, impigliati in una palude fangosa con la nebbia che si addensa all’orizzonte. Non possiamo farcela da soli.
È ovvio che non siamo fuori dalla Natura. I legami con il mondo e gli altri esseri viventi sono molto reali, complessi, a volte misteriosi e soprattutto indistruttibili. Ignorare questi legami equivale a mettere il piede in fallo.
Nel corso della sua carriera, Escobar ha potuto rivedere diverse ontologie non occidentali e ha costantemente lavorato per “decolonizzarle” dall’influenza occidentale. Il suo lavoro è una critica radicale dello “sviluppo”, alimentata dai suoi contatti con le lotte degli indigeni e degli afro-discendenti in Colombia.
In questo senso, è in linea con il pensiero di “distacco” (desprendimiento) sostenuto da molti intellettuali latinoamericani quando si sono resi conto che il sistema coloniale continuava a perpetrarsi nelle loro pratiche politiche, culturali, sociali ed economiche due secoli dopo le guerre di indipendenza. Questo approccio consiste «non nell’opporsi o cercare di evitare l’intera matrice, ma nel separare e dissociarne gli elementi (processo intellettuale di [distacco])»19 per recuperare una certa autonomia, e una capacità di agire che va oltre la modernità occidentale.
Escobar ci invita a entrare in dialogo con le popolazioni non occidentali (spesso in lotta), con le cosmologie non moderne, e anche con i non umani, per imparare a vivere in modo consapevole quello che egli definisce il “pluriverso” (in contrapposizione all’universale moderno). L’idea non è quella di scegliere la migliore ontologia da un menù offerto dagli antropologi, ma di scoprire la diversità degli approcci attuali, inventarne di nuovi e imparare a farli coesistere.
Ma cosa possiamo fare noi, così pressati dal tempo e impantanati nelle nostre rappresentazioni occidentali, noi che non abbiamo studiato antropologia? Fare uno stage presso persone che hanno attivamente mantenuto, adattato e reinventato conoscenze in linea con il loro ambiente, e farci ispirare dalle filosofie che hanno accumulato in migliaia di anni a contatto con i non umani? Perché no. Anche se forse anche loro hanno perso i punti di riferimento con i cambiamenti globali, è vero che se dobbiamo atterrare,20 tornare alla nostra buona vecchia terra, per usare la metafora di Latour, è logico pensare che l’atterraggio sarà «un po’ più simile al loro tipo di terreno che al nostro».21 Inoltre, come ci ricorda Descola «la notevole differenza tra le politiche non moderne e le nostre istituzioni è che esse sono in grado di integrare i non umani nei collettivi o di vedere i non umani come soggetti politici che agiscono all’interno dei propri collettivi».22
Potremmo anche (per evitare troppi voli) riscoprire tradizioni europee non moderne, come i riti celtici e la loro relazione sensibile con altre specie, le credenze popolari e il folklore russo dello “spirito dei luoghi”, le conoscenze delle streghe bruciate sui patiboli del Rinascimento, le conoscenze dei luddisti (i “distruttori di macchine” di fine Ottocento) che rifiutavano di lasciare che i loro legami comunitari fossero distrutti dall’industria, le conoscenze locali sulle virtù delle piante delle nostre regioni che l’industria farmaceutica ha accantonato, o le pratiche ricche e complesse dei “comuni” prima della privatizzazione da parte del movimento delle enclosures.
Oltre a queste ispirazioni dal passato (che non sono idealizzate in alcun modo, ma che possiamo ereditare in vari modi per ri-seminare il futuro), è anche essenziale osservare le esperienze delle lotte presenti. «Le proposte di alcuni movimenti sociali (indigeni, afro-discendenti, ambientalisti, contadini e femminili) sulla terra e sul territorio sono all’avanguardia nella riflessione su questi temi […] non rappresentano sfasature rispetto al passato, né espressioni romantiche distorte dalla realtà.»23
Queste lotte hanno prodotto risultati concreti, in particolare nel campo del diritto, che hanno incrinato la base granitica della rappresentanza occidentale. Negli ultimi anni, afferma la saggista ed esperta di diritto internazionale Valérie Cabanes, sono stati fatti importanti progressi nel campo del riconoscimento dei diritti all’esistenza di entità non-umane.24 Fiumi, montagne, foreste, oceani sono considerati dalle popolazioni indigene come entità proprie, come persone.
In Bolivia la Madre Terra ha ottenuto il riconoscimento legale nel 2010.25 Negli Stati Uniti il passaggio del gasdotto Keystone XL attraverso il North Dakota è stato denunciato come una minaccia per l’acqua in quanto entità fondamentale. «L’acqua è sacra, l’acqua è vita e deve essere protetta per tutti», cantavano gli innu del Québec e i sarayaku dell’Ecuador, venuti a sostenere i sioux, gli apache, i cherokee e i navajo.
I diritti della natura sono stati inclusi nelle costituzioni di Ecuador (2008), Bolivia (2009) e Messico (2017). Il 2017 è stato inoltre un anno spettacolare. Per la prima volta il Parlamento neozelandese ha attribuito diritti specifici al fiume Whanganui. Pochi giorni dopo, l’Alta Corte di uno stato dell’India settentrionale ha riconosciuto il Gange e uno dei suoi affluenti, così come gli ecosistemi himalayani del suo territorio (laghi, ghiacciai, foreste), come entità giuridiche. La Colombia ha concesso diritti al fiume Atrato per proteggerlo dall’inquinamento collegato alle attività minerarie. Sempre nello stesso anno durante la prima Conferenza mondiale sugli oceani a New York, la Nuova Caledonia ha proposto di riconoscere i diritti dell’Oceano Pacifico.26
Tutte queste esplorazioni portano alla conclusione che esiste una varietà di “stili di vita” per comporre un mondo con tutti gli esseri e che è tempo di assumere un “pluralismo ontologico” che anche i Moderni, come abbiamo visto, non hanno mai abbandonato del tutto. Per Latour, il primo passo verso questa convivenza è scoprire quali sono i valori fondamentali dei Moderni e, sulla base di questo inventario, scoprire altri stili di vita. «Il nostro metodo non implica quindi affermare che “tutto sia vero”, che “tutto si equivalga”, che tutte le versioni dell’esistenza […] debbano coesistere senza che ci si preoccupi ulteriormente per classificarle […]. Ma solo che la classificazione dovrà essere effettuata, d’ora in poi, a parità di condizioni, secondo prove precise.»27
Stiamo assistendo a una vera e propria rivoluzione copernicana e a un progetto di società (di civiltà?) che prevede la conciliazione di varie visioni del mondo. Questo porta a quella che Escobar definisce una “politica ontologica” e all’idea radicale che il dominio politico si estende non solo ai non-Moderni, ma anche ai non umani. Ciò implica ovviamente la creazione di un enorme meccanismo “diplomatico” per stabilire un quadro di negoziazione tra gli stili di vita, in questi pluriversi di ontologie di pari dignità.
Le qualità della diplomazia non saranno un lusso in questo progetto di dialoghi “simmetrici”. Per Latour, «gran parte delle tensioni […] deriva da ciò che viene utilizzato per giudicare, con la veridicità di uno stile [di vita], le condizioni di veridizione di un altro stile».28 A questo riguardo, questa proposta diplomatica è in linea con quella della scienza post-normale: la tensione tra universo e pluriverso «ci rimanda piuttosto a una posizione etico-politica che non può essere dimostrata, ma vissuta nelle sue implicazioni pratiche e politiche».29
Non è certo, però, che l’ontologia dominante del mondo – quella “moderna” – possa essere così facilmente destituita! Alcune élite hanno interesse a perseguire la “modernizzazione” della Terra a rischio del suo stesso collasso. Sono persino “secessioniste”: negando il cambiamento climatico (o la sua gravità per le masse umane e non-umane) quando sanno esattamente di cosa si tratta. Esse affermano apertamente il loro rifiuto di una solidarietà, di un mondo comune con le classi inferiori e hanno abbandonato il sogno di modernizzazione a beneficio di tutti. Queste élite «infrangono l’idea stessa di modernità, di universalità».30 Distruggono inoltre il fondamento ideologico della modernità industriale, dello “sviluppo” e della “crescita”.
In questo contesto di conflitto, né lo Stato, e tanto meno le multinazionali possono essere alleati affidabili nella ricerca di forme di società non oppressive. E, per il momento, «la scienza non può nemmeno entrare in dialogo con altre forme di conoscenza, dato che si arroga il monopolio della conoscenza, della compassione e dell’etica».31
Per lo storico Christophe Bonneuil, stiamo dunque vivendo una «radicalizzazione di una guerra dei mondi» tra Moderni e Terrestri, tra coloro che pensano che la Terra sia una loro proprietà da modernizzare e chi sa di appartenere alla Terra e crea nuovi legami tra gli esseri umani e i non umani sui territori in lotta.32 Opponendosi a progetti di estrattivismo o di accaparramento delle terre da parte di Stati o multinazionali, comunità locali indigene, contadine o zadiste si oppongono a un progetto globale. Stanno infatti combattendo una battaglia ontologica, difendendo, vivendo, costruendo altri modi di “sentipensare” il mondo, come dice Escobar.33
Ci sono già – e certamente ci saranno ancora – conflitti intra- e inter-mondo. Peggio ancora, «questa guerra, insieme civile e morale, lacera intimamente ciascuno di noi».34 Ma questi conflitti riveleranno crepe, da cui emergeranno (o meno) nuove ontologie, erbacce che daranno vita alle foreste future. Dobbiamo essere pronti a vederle emergere e formare nuove alleanze.
Cambiare ontologia, mettersi nei panni dell’altro, comprenderlo, cercare di sentire nel suo stesso modo. Tutte queste esplorazioni arricchiranno le relazioni reciproche che gli esseri umani potranno avere tra di loro e con gli altri esseri viventi. Un indiano che non può uccidere una vacca sacra potrà immedesimarsi in un cacciatore del Grande Nord? Un amerindio che parla intimamente con le piante (attraverso poesie chiamate anents)35 potrà aiutare un agricoltore francese a gestire il raccolto? Cosa varranno le argomentazioni dei bulldozer utilizzati per estrarre minerali di fronte alle sagge parole delle salamandre nell’Assemblea generale delle Nazioni unite del 2046? Estendere queste riflessioni stimola l’immaginazione, come lo dimostrano i magnifici fumetti di Alessandro Pignocchi36 che rappresenta gli indiani jivaros intenti a studiare gli abitanti delle nostre regioni utilizzando gli strumenti dell’antropologia strutturalista di Lévi-Strauss o che mettono in scena le conseguenze pratiche (esilaranti) dei nostri leader politici convertiti all’animismo…
Comparsa di un micelio pluriversale
Che cosa faremo con l’immenso disordine lasciato dalla modernità e dal capitalismo? Come riprendersi da uno “stop del mondo” (Danowski), cioè dal collasso, anche parziale, di un sistema di rappresentazione del mondo?
RICOSTRUIRE SULLE ROVINE DEL CAPITALISMO
Come vivere tra le rovine del capitalismo? Per rispondere a questa inquietante domanda, l’antropologa americana Anna Tsing fa riferimento a un fungo aromatico apprezzato dai giapponesi, il matsutake, che ha la particolarità di crescere in terreni boschivi devastati dallo sfruttamento. Seguendo, ad esempio, comunità asiatiche di raccoglitori precari negli Stati Uniti, che sopravvivono grazie alla vendita del fungo, descrive come il capitalismo continui a diffondersi sulle sue stesse rovine fino alla sua caduta. Ci invita a prepararci alla comparsa di un mondo molto più organico che dovremo domare. Quando le motoseghe tacciono, la vita ricomincia, ma in che modo?
Il fungo è soprattutto una bella metafora della comparsa (organica) dell’imprevisto in un territorio devastato. Anche dopo essere stata abbattuta, la foresta trova spesso il modo di ritornare, di persistere, in quello che Tsing definisce un movimento di “rinascita” (per evitare il termine troppo tecnico di resilienza).
Le persone rimaste legate ai territori (zone grigie) di Fukushima e Černobyl’ hanno gradualmente domato il pericolo, cavandosela, sviluppando misurazioni di radioattività, scambiando conoscenze ed esperienze. Il film documentario Tchernobyl, Fukushima: vivre avec37 «racconta come sia possibile non solo creare una situazione abitabile in un mondo nel quale si è verificata una catastrofe, ma anche e soprattutto come l’aiuto reciproco sia insito nel processo per conseguirla».38 Tutte queste pratiche nascono da problemi comuni e creano soluzioni ad hoc che portano a quella che il collettivo Dingdingdong definisce una vera e propria “aiutologia reciproca”, e soprattutto a qualcosa come la riapertura di un futuro in questi territori.
I funghi sono il simbolo di associazioni opportunistiche tra specie, mutualismi, ibridazioni, incroci, legami di aiuto reciproco tra esseri viventi e tra specie, e soprattutto di un funzionamento orizzontale e decentrato. Contro la “logica della piantagione” (Tsing), verticale e categorica, rappresentano la logica del bosco, quella delle erbacce che crescono ai margini o si diffondono lentamente quando la distruzione si ferma.
La lezione che dobbiamo imparare da questa metafora è che la ridistribuzione avviene in aree deserte, senza risorse, quando l’insaziabile orco della piantagione se n’è andato. In queste aree che sono tornate a essere libere, i pionieri non umani possono riapparire, preparando la terra per l’arrivo degli esseri umani (anch’essi pionieri) e in corso di atterraggio. Come spiega Bonneuil, «Le forze terrestri sono le forze e gli esseri non umani recalcitranti della “terza natura” [quella, selvatica, che emerge dopo la devastazione] secondo le parole dell’antropologa Anna Tsing. Sono anche gli innumerevoli collettivi umani e le loro creazioni low-tech, che abbandonano il mito moderno dello sradicamento per sperimentare la relazione: collettivi indigeni di refusenik dello “sviluppo”, collettivi alternativi e decrescenti, o abitanti di territori in resistenza».39
LE ZAD: TERRITORI MICOTICI
Spesso derise, combattute, ignorate o fraintese, le spore di queste esperienze si propagano ovunque tra le rovine del mondo. Rappresentano il radicamento in un territorio. Facciamo dire molte cose agli zadisti, perché portano la speranza dei giovani germogli, proiettano le nostre fantasie di vita, ma anche le nostre paure di abbandonare un comfort anestetizzante.
Tutti questi esperimenti sono il risultato di questa Storia di insurrezioni che risponde alla violenza senza precedenti di un’industrializzazione che distrugge classi sociali, donne, comunità artigianali, pratiche comuni, interi territori, culture e specie autoctone. «Questa resistenza al “progresso” e al “comfort” moderno, che si intreccia tra capanne, fattorie in pietra, campi e boschi, fa parte di una serie più vasta: attinge dal fondo comune della secolare intraprendenza e poliattività contadina, dei liberi comuni anarchici di inizio secolo, delle comuni degli anni Settanta, degli eco-luoghi e delle alternative rurali che prosperano dagli anni Duemila, celati tra felci, foreste e villaggi di protezione.»40
Sia in Sud America che nelle campagne francesi, queste zone di atterraggio hanno un rapporto diverso con il territorio: «né cartesiano, né euclideo e di certo non liberale».41 Non la vedono come un’area ben definita, né come proprietà in senso classico, ma come una «appropriazione effettiva attraverso pratiche culturali, agricole, ecologiche, economiche, rituali ecc.».42
Il radicamento in un territorio genera forti sentimenti di appartenenza e identità, un attaccamento intimo. Tuttavia, questo ritorno alla Terra (la ri-politicizzazione dell’appartenenza a una terra) non deve essere confuso con il “ritorno alla terra” di triste memoria (regime di Vichy).43 Non si tratta solo di una semplice protezione della “natura”, ma della difesa di un ambiente di vita, di un territorio e persino… un’estensione del nostro essere, in linea con la famosa frase dell’attivista australiano John Seed che difendeva la foresta tropicale incatenandosi agli alberi, ripresa come slogan a Notre-Dame-des-Landes:44 «Non difendiamo la foresta, siamo la foresta che si difende».45
Ogni comunità umana ha valori sacri (non negoziabili) e utilitaristici (negoziabili). Al mutare delle relazioni con il territorio, anche questi valori possono cambiare. Ciò che diventa sacro per gli abitanti rimane profano (e negoziabile) per il mondo esterno. È quindi ovvio (e comprensibile) che alcuni difendano il proprio territorio con passione e coraggio, anche preferendo morire piuttosto che trasformarsi (se la pulsione verso la morte è troppo forte). Non smettiamo di sorprenderci per le conseguenze di uno sconvolgimento dei valori ontologici. «Dire: “Siamo dei terrestri in mezzo a terrestri” non porta alla stessa politica del dire “Siamo degli umani nella natura”.»46
È inoltre importante difendere l’idea che «le lotte degli indigeni e degli afro-discendenti del Sud, come le alternative e i movimenti anti-produttivisti e autonomi del Nord, inventano forme avanzate di emancipazione democratica e autogestione».47 Sono luoghi di sperimentazione. Hanno quindi bisogno di isolamento per «fuggire da questa zona di morte»48 che è il fronte della modernizzazione capitalistica. Ciò implica imparare a lottare, per autodifesa, contro gli assalti dei «militanti del Moderno estremo».49 E, come ci ha lasciato immaginare il film hollywoodiano Avatar, «se i veicoli corazzati e i bulldozer della polizia vogliono servire allo sviluppo, allora, per trovare nuovi modelli di vita, dobbiamo opporci a chi controlla questi mezzi».50
Fortunatamente, si stanno formando alleanze tra umani e non umani all’interno delle Zad, tra le Zad e il mondo esterno… e anche tra le lotte. Il micelio si interconnette! Come testimonia questo consiglio amichevole della fisica e attivista indiana Vandana Shiva: «Invece di inviare i suoi Robocop, il governo francese dovrebbe mandare i giovani nelle Zad, per insegnare loro a vivere con dignità e in pace con la terra. Per diventare persone in grado di creare la propria vita, non consumatori o persone usa e getta».51
ALLEANZE TERRESTRI
Per i filosofi Léna Balaud e Antoine Chopot, «nell’epoca dell’Antropocene, l’ingiustizia non è solo locale, umana o sociale, ma globale, trasversale a tutti gli esseri – dal petrolio, al suolo e ai semi geneticamente modificati, passando per i rifugiati climatici, le lavoratrici proletarizzate e le popolazioni indigene espulse dai loro luoghi di vita».52
La politica non dovrà quindi essere vista come opposizione tra gruppi umani (classi, paesi ecc.), ma come rivalità tra compagini di umani e non umani,53 e la lotta anticapitalista dovrà anche aggiungere al rifiuto dello sfruttamento di certe classi di esseri umani, il rifiuto di sfruttare altre specie.
Non stiamo parlando di poche lotte sparse e insignificanti. Ci sono numereosi movimenti che si adoperano per una maggiore giustizia sociale e ambientale. Nel suo libro Moltitudine inarrestabile, l’attivista statunitense Paul Hawken ha scritto già nel 2007: «Realizzai subito che la mia valutazione iniziale di centomila organizzazioni era sottostimata di almeno dieci volte, e attualmente credo che esistano più di un milione, forse anche due, di organizzazioni che operano per la sostenibilità ecologica e la giustizia sociale».54 Dieci anni dopo, quello che lui definisce il risveglio del “sistema immunitario” della Terra è certamente cresciuto ancora di più.
Le alleanze devono essere create anche con i non umani. «La “natura” non è più un insieme di semplici oggetti e meccanismi passivi, priva di interiorità, ma un tessuto vibrante, multispecie e selvaggio di capacità di sentire, agire e retroagire.»55 I non umani, dotati di intelligenza propria, popolano il mondo e costituiscono – e addirittura contribuiscono e utilizzano – ciò che noi definiamo beni comuni.
Alcuni temono che, concentrando i nostri sforzi sull’espansione degli stili di vita e dedicando tempo alle relazioni con altre specie, perderemmo il senso di lotta e un certo potere politico “intra-umano” di cui alcuni collettivi hanno estremo bisogno per frenare l’eccesso industriale. Senza questo potere, saremmo ridotti al ruolo di «osservatori, vittime e sopravvissuti».56
Ma possiamo anche, con Léna Balaud e Antoine Chopot, fare la scommessa opposta, la scommessa terrestre, quella di considerare che è proprio l’alleanza con i non umani a dare potere e opportunità alle lotte e agli sforzi per resuscitare.57 Un esempio viene dall’Argentina e dal Paraguay, dove è stata vinta una battaglia contro la soia transgenica grazie all’amaranto selvatico, una pianta fertile, commestibile, ad alto contenuto proteico che è diventata resistente al glifosato Roundup della Monsanto. Trovando alleati motivati in agricoltori in difficoltà, l’amaranto è stato disperso sotto forma di “bombe di semi”, distruggendo il progetto di uno dei più grandi centri futuri di produzione di semi transgenici.58
Ma se la politica è l’arte di «opporsi senza uccidere» (Marcel Mauss), allora dovremo trovare non solo alleanze, ma anche modalità per gestire i conflitti tra noi e certe specie. Notevole in questo senso il lavoro nell’ambito dell’esplorazione portato avanti dal filosofo e diplomatico Baptiste Morizot.59 Partendo dalla considerazione che gli animali mantengono tra loro relazioni sociali e politiche, fatte di territori, alleanze, segnali, negoziazioni, decisioni collettive e risoluzioni dei conflitti, ha cercato di interagire con le forme politiche proprie del lupo, l’animale sociale per eccellenza. La guerra contro il lupo dura da secoli, forse è ora di provare la diplomazia?
Gli ultimi lavori nell’ambito dell’etologia o dell’intelligenza vegetale dimostrano che questo è solo l’inizio! Comprenderne il linguaggio e il modo di relazionarsi con loro apre possibilità di pianificare relazioni politiche con altre specie. Questo è un importante ribaltamento concettuale:
Riconoscere che i collettivi non umani hanno un punto di vista proprio come noi, anche se diverso, e che sono storicamente legati tra loro e a noi da questi stessi punti di vista. Introdurre quindi i non umani in politica equivarrebbe paradossalmente a farci entrare nell’intelligenza e nella razionalità propriamente ecologica del mondo più che umano e nella geopolitica prospettica delle forme di vita.60
Il contratto politico con esseri diversi dagli umani non deve essere inventato, ma prima di tutto scoperto in loro!
Come potrebbe essere un grande parlamento interspecie? Come sarà possibile capire e interagire con tutta questa incredibile complessità senza cadere nella trappola (molto rischiosa) di una gigantesca governance pluriversale, come il Senato galattico in Guerre stellari?
Animali, alberi, funghi e microbi non sono esseri passivi, ma formidabili politici. Sono anche paesaggisti e attivisti, perché da milioni di anni trasformano il pianeta, contribuendo a formare e mantenere la zona critica, questo minuscolo spazio vitale comune in cui viviamo, e da cui attingeremo senza sosta. In altre parole, ci danno. Le nostre incredibili qualità di empatia e reciprocità (che usiamo spontaneamente tra di noi) possono essere quindi applicate con facilità a essi e contribuire a sostenere un immenso atto di controdono, come l’antropologo Marcel Mauss chiama l’“obbligo” di restituzione. Siamo infinitamente in debito con loro.
Questo “obbligo” può quindi essere letto nella sua altra accezione: se non lo facciamo, è possibile che i funghi della fine del mondo ricresceranno senza di noi.
6
RACCONTARE ALTRE STORIE
«Il sistema sta crollando intorno a noi proprio in un momento in cui molte persone hanno perso la capacità di immaginare che possa esistere qualcos’altro.»1 Questa frase di David Graeber ci ricorda che ciò che abbiamo appena esplorato nel capitolo precedente – rendersi conto che esistono altri mondi e cercare di inserirsi in essi – è soprattutto un invito a stimolare la nostra immaginazione: a cambiare il nostro punto di vista, a sentire diversamente, a fare incontri che cambiano la vita, a essere toccati, a ricostruire la nostra etica.
Abbiamo visto che la nostra ontologia moderna definisce il quadro del nostro rapporto con il mondo. Pervade il nostro inconscio, struttura i nostri miti e fa emergere storie che ci emozionano. Ma come si individuano le storie tossiche? Come possiamo inventarne altre? Come possiamo essere sicuri che saranno portatrici di un mondo migliore? Quali storie possono metterci in moto per superare queste tempeste? Come possiamo dare un senso a ciò che ci sta accadendo?
La sfida di cambiare narrazione per la nostra epoca è immensa, è la promessa di un terremoto. È una sfida che costringe anche i “fruitori” dell’arte a liberarsi dai complessi per impegnarsi su terreni solitamente riservati alla scienza, e i “fruitori” della scienza a lasciarsi pervadere da cose che di solito non padroneggiano.
Storie di “zombie”
Ci sono storie che sono state raccontate per così tanto tempo che non assomigliano più a racconti, ma a verità indiscutibili. Sono il paesaggio, danno senso al nostro mondo e alla nostra esistenza, costituiscono il fondamento inconscio dei nostri pensieri e delle nostre azioni.
Tra queste c’è la storia del progresso, che ci dice che la nostra società può crescere all’infinito: la conoscenza, la tecnologia, l’individuo, la libertà, l’economia, i sistemi sociali sono tutti suscettibili di un miglioramento indefinito, per secoli a venire, perché il progresso non ha limiti. Questa storia ne genera altre, come il “soluzionismo tecnocratico”,2 che consiste nel credere che qualsiasi problema può essere risolto con una soluzione tecnica: come auto ibride e turbine eoliche per “risolvere” il riscaldamento globale e la fine dei combustibili fossili; droni, big data, contatori e reti elettriche intelligenti (smart grids) per mettere in atto la transizione energetica; l’economia circolare e collaborativa per abolire la produzione di rifiuti, le disuguaglianze e le tensioni sociali; la colonizzazione di Marte per sfuggire alla catastrofe ecologica.
C’è anche questa strana convinzione secondo la quale esiste una sola legge della giungla – la competizione – che può essere tradotta nella “legge del più forte”. E questa storia, al contempo magica e tragica, inizia con: «C’era una volta una popolazione di esseri umani, che spiccava nella Natura per la sua intelligenza…» E tutti questi racconti si intrecciano con una certa logica. «Il mito del progresso si basa sul mito della natura. Il primo ci dice che siamo destinati alla grandezza, il secondo ci dice che questa grandezza è gratuita.»3
In contrasto con questa visione, il sacerdote, storico ed ecologista Thomas Berry (1914-2009), uno dei pionieri del rapporto tra religione ed ecologia, non vedeva oggetti nel mondo, ma solo soggetti. Questo vecchio saggio era convinto che fosse necessario cambiare la narrazione e vedeva la nostra epoca sospesa in una sorta di transizione dove grandi storie si affrontano,4 dove alcuni cercano di emergere mentre altri si rifiutano di morire e vagano per il mondo, infettando i nuovi arrivati.
Lev Grossman, editorialista di “Time”, considera lo zombie come il «mostro ufficiale della recessione».5 Gli zombie sono senza anima, senza meta, incapaci di ragionare. È la «narrativa moderna per eccellenza: quella dell’autonomia assoluta, dell’essere che non ha bisogno di legami».6 Questi esseri non hanno alcun rapporto con i loro simili, non hanno obiettivi strategici e non hanno paura. Hanno solo la forza dei numeri. Mantengono un mondo che non ha senso e si rifiuta di morire.
Il primo passo per immergersi nel lavoro di storie alternative, come nell’ontologia moderna, è quello di evidenziare le narrazioni che già ci abitano. Questo è esattamente ciò che Cyril Dion ha proposto nel Petit manuel de résistance contemporaine.7 «Non siamo in grado di pensare al di fuori della nostra narrazione, perché la confondiamo con la realtà»8 afferma, né di impegnarci in una mappatura delle catene che attraversano la nostra società e che definisce “architetture invisibili” (secondo l’espressione dello specialista dell’intelligenza collettiva Jean-François Noubel).
Un esempio è quello dei viaggi aerei. Provate a dire a qualcuno che presto non ci saranno più aerei in cielo a causa dell’Antropocene. Vi ribatterà, dubbioso: «Forse, ma non posso rinunciare ai viaggi lunghi…» In questa risposta, c’è la convinzione invisibile che i viaggi lunghi possono essere fatti solo in aereo, legata a un’altra architettura, quella che è alla base del nostro rapporto con il tempo e che postula che un viaggio debba essere rapido.
Il passaggio a una nuova narrazione sembra oggi impossibile, visto che siamo costantemente chiamati all’ordine dal ritmo di vita, dall’ambiente, dai media, dalle pubblicità, dall’uscita degli ultimi oggetti, dalle bollette da pagare. «Cambiare in modo radicale la traiettoria delle nostre società richiede la costruzione di nuove narrazioni, ma anche la modifica di queste famose architetture.»9 Il compito è infinitamente più complicato che scrivere una nuova storia su una pagina bianca.
Le storie, armi di sovversione di massa
IL BISOGNO FONDAMENTALE DI STORIE
Gli esseri umani hanno bisogno di storie, perché danno un senso al nostro mondo e alla nostra esistenza. Forgiano le nostre convinzioni, i nostri valori, le nostre speranze. Ci permeano fin dalla più tenera età. Siamo strutturati dalle storie dei nostri genitori, della nostra epoca. «Non si fa fatica a capire che i “primitivi” cementano il proprio ordine sociale attraverso la credenza in fantasmi e spiriti, raccogliendosi a danzare intorno al fuoco nelle notti di luna piena» osserva lo storico Yuval Noah Harari: «Quello che stentiamo a capire è che le nostre moderne istituzioni funzionano esattamente sugli stessi presupposti».10
I miti sono narrazioni che vengono dall’inconscio. Secondo Mircea Eliade (1907-1986), mitologo e filosofo romeno, un mito «fornisce modelli per la condotta umana e conferisce, con ciò stesso, significato e valore all’esistenza».11 Per Joseph Campbell (1904-1987), che ha insegnato mitologia alla Sarah Lawrence University, il mito ci permette di fare l’esperienza dell’«essere vivi, così che le nostre vie fisiche abbiano una risonanza interiore e ci facciano provare il rapimento del vivere».12 Questi miti attingono dall’inconscio collettivo. «Qualsiasi cooperazione umana su vasta scala – si tratti di uno stato moderno, di una chiesa medievale, di una città antica o di una tribù arcaica – è radicata in miti comuni che esistono solo nell’immaginazione collettiva.»13
Tutti questi miti (inconsci) e narrazioni (consci) costituiscono il «mezzo attraverso il quale il cervello emotivo dà senso alle informazioni raccolte dal cervello razionale».14 E quando una situazione ci travolge, trovare un senso diventa vitale. La nostra ossessione per il “perché”, spiega la scrittrice Nancy Huston, deriva dal fatto che siamo consapevoli dell’intero “arco” della nostra vita – dalla nascita alla morte – e che solo la creazione di senso ci permette di sostenere questo stato esistenziale.15
Viktor Frankl (1905-1997), psichiatra e neurologo, ha vissuto l’orrore dei campi di concentramento durante la seconda guerra mondiale, e poi, in base alla propria esperienza, ha fondato la logoterapia, convinto che quando si trova un senso agli avvenimenti della vita, la sofferenza diminuisce e la salute mentale migliora.16 Nei campi, la longevità di un prigioniero era direttamente influenzata dal modo in cui immaginava il proprio futuro. «S’impone […] un rovesciamento di tutta la problematica del senso ultimo della vita: dobbiamo apprendere, e insegnarlo ai disperati, che in verità non importa affatto che cosa possiamo attenderci noi dalla vita, ma importa, in definitiva, solo ciò che la vita attende “da noi”! […] non chiediamo infatti più il senso della vita, ma sentiamo di essere sempre interrogati, come gente alla quale la vita pone in continuazione delle domande, ogni giorno e ogni ora, domande alle quali ci tocca di rispondere, dando una risposta esatta.»17
RECLAMARE IL FUTURO: L’IMPORTANZA DELLA FANTASCIENZA
Per l’attivista ambientalista americana conosciuta come Starhawk, la nostra abitudine di contrapporre realtà e finzione ha una conseguenza spiacevole, quella di depoliticizzare l’immaginazione, relegandola in una sfera di vita totalmente innocua, infantile e divertente. Ma è un trucco… Come sostiene, per capovolgere la cultura (questo «insieme di storie che ci raccontiamo senza sosta»), dobbiamo riscoprire la forza sovversiva delle narrazioni, cioè, dobbiamo cominciare a «creare storie scomode e inquietanti rispetto all’immaginario dominante».18
In questa prospettiva, possiamo inventare storie tanto quanto possiamo riesumare alcune di esse la cui esistenza era sconosciuta. Per esempio, perché la modernità non dovrebbe essere descritta a scuola come il periodo che ha consentito il raggiungimento supremo del grande distacco dalle altre specie? Il Rinascimento non è forse anche l’epoca della sopraffazione delle donne (massacro delle streghe) e della distruzione dei legami di mutuo soccorso che univano le comunità del Medioevo?19 Il cosiddetto “trentennio glorioso” non è forse il più grande periodo di sprechi della storia (tanto che potrebbe essere definito “trentennio orribile”)? Il transumanesimo è qualcosa di diverso dal punto di non ritorno da questa disconnessione con il resto del mondo attraverso la creazione di esseri ibridi che dipendono irreversibilmente da un sistema socio-politico-tecnico (i transnazionali), esso stesso connesso al petrolio e alle terre rare?
Lo storytelling non è solo appannaggio degli scrittori, ma di chiunque. Dobbiamo tornare a essere “utenti del futuro”, creatori delle nostre storie. Le iniziative di transizione hanno il grande merito di farlo in gruppo e in un’atmosfera piuttosto amichevole, immaginando il luogo in cui ci si troverà tra venti o trent’anni, sofferente per le catastrofi dell’Antropocene come noi lo conosciamo, ma con il leitmotiv che la vita sarà meglio di oggi. All’inizio timide e teoriche, le proposte vengono gradualmente affinate e applicate.
Quanto più sono precise e incarnate le visioni, tanto più saranno credibili e potenzialmente trainanti. Questo atto di immaginazione e creatività collettiva richiede tanto l’intuizione quanto le conoscenze oggettive e unisce i gruppi creando una visione comune e invitando alla gioia (aumentando il potere di agire, secondo Spinoza). Traccia un orizzonte, definisce percorsi e mette in moto. Immaginare se stessi e i propri vicini di casa fra trent’anni, aggiungere personaggi, farli evolvere nelle strade che conosciamo, in un’atmosfera piacevole o sgradevole, di lotta o di costruzione… Per il politologo Luc Semal «questo lavoro sull’immaginario collettivo contribuisce a rafforzare la resilienza locale, perché educa in modo insensibile la popolazione alla prospettiva di un futuro post-petrolio e post-crescita, inevitabilmente più sobrio».20
I romanzi hanno lo stesso potere. Secondo Ursula Le Guin, la grande scrittrice di fantascienza autrice del racconto da cui è stato tratto il film Avatar – storia emblematica di un confronto tra Terrestri e Moderni –, creano un legame fondamentale tra i lettori:
L’unica strada che porti all’autenticamente collettivo, all’immagine viva e significante in ognuno di noi, sembra passare per l’autenticamente personale. Non l’impersonalità della ragione pura; non l’impersonalità delle “masse”; ma l’irriducibilmente personale, l’io. Per arrivare agli altri, l’artista entra dentro di sé. Usando la ragione, egli entra deliberatamente nell’irrazionale. Più lontano va dentro di sé, più vicino arriva all’altro.21
La fantascienza è un modo per esplorare il futuro. Ci fornisce, grazie a un sapiente mix di inconscio (miti) e intelligenza (per evitare di farsi prendere da facili miti), gli strumenti per comprendere incerti futuri tecnoscientifici. Costruisce esperienze di pensiero e ci aiuta a testare il futuro.
Le scienze fisiche usano spesso esperimenti di pensiero, quando i dispositivi sperimentali sono impossibili o troppo costosi da eseguire (ad esempio, immaginando come passerebbe il tempo su una navicella spaziale che viaggia alla velocità della luce). Tuttavia, per le esigenze della scienza, questi esperimenti si svolgono in un mondo molto semplice e parametrizzato, per ottenere risultati poco controversi. Cosa succederebbe se gli scienziati usassero questi esperimenti di pensiero per testare strutture complesse come le società o i sistemi politici? Le scienze sociali si sono rifiutate di farlo… lasciando il campo libero alla fantascienza.22
Le (buone) storie di fantascienza non sono lì per far credere delle cose, ma per sperimentare le nostre capacità di trasformazione. A questo proposito, secondo la filosofa Isabelle Stengers, gli scrittori di fantascienza sono realisti, perché cercano di «decifrare il reale di una realtà più ampia»23 e, come sottolinea Le Guin, «nel processo di scrittura». E Alain Damasio per metterlo in pratica: «Per esempio, il transumanesimo cerca di postulare un certo tipo di futuro. Come scrittore di fantascienza, devo mettere in atto immaginari che rendono desiderabile qualcos’altro».24
«Il narratore fantastico, sia che utilizzi gli archetipi antichi del mito e della leggenda, o quelli più recenti della scienza e della tecnologia, può parlare non meno seriamente di un sociologo, e in modo di gran lunga più diretto, della vita umana come è vissuta. Perché, dopo tutto, come hanno detto grandi scienziati e come sanno tutti i bambini, è soprattutto attraverso l’immaginazione che conquistiamo la percezione, e la pietà, e la speranza» dichiara Le Guin.25
L’idea è quindi la stessa di quando si annuncia una malattia incurabile: una storia non deve chiudere le porte o appiattire il futuro ma, al contrario, aprire le possibilità e fornire una molteplicità di modi per assumere il controllo della situazione. Lo testimonia Isabelle Stengers, coinvolta in queste riflessioni sulla malattia di Huntington: «Il collettivo Dingdingdong e la fantascienza mi hanno aiutato a non disperare, cioè a concepire l’idea della possibilità di una democrazia recalcitrante e immaginativa. E questa possibilità è alimentata dal fatto che l’immaginazione porta gioia».26 L’utopia rappresenta un mondo ideale ma chiuso. Per quanto riguarda le distopie, servono per riflettere le angoscie dell’epoca. Ma questi campi possono essere aperti molto bene descrivendo delle “possitopie” (ovvero un «miglioramento rispetto alla realtà attuale e realisticamente realizzabile, ma solo se si adottano misure appropriate»).27
Per esempio nella celebre trilogia di MaddAddam l’autrice canadese Margaret Atwood racconta le avventure di quattro adolescenti che vivono prima, durante e dopo un grande collasso. La storia si svolge negli Stati Uniti in un futuro prossimo (distopico) dove le aziende hanno preso il controllo di tutto. Dopo l’annientamento pressoché totale della popolazione, la preoccupazione principale dei quattro eroi è la sopravvivenza e la creazione di una nuova comunità (post-apocalittica, quindi anche possitopica). L’interesse di questo ciclo narrativo riguarda le rivelazioni finali del nuovo mondo che è emerso e i personaggi che possono aver trovato un senso in questa battaglia per il futuro dell’umanità.
MaddAddam può essere intesa come un’alternativa al significato che di solito diamo all’apocalisse, quello della rivelazione piuttosto che dell’estinzione. Essa affronta altre possibilità, piuttosto che la fine di tutte le possibilità.28 Esplorando temi come l’amore, la speranza, la libertà e l’autonomia, Atwood ci racconta come una comunità sia riuscita a risorgere; si tratta di «un’epopea non solo di un futuro immaginato, ma anche del nostro passato, un modo per spiegare come le tradizioni di storytelling abbiano portato alle tradizioni scritte, e in definitiva, al senso delle nostre origini».29
Storie del dopo
Accogliamo l’invito di Cyril Dion a «creare contesti strutturali che risvegliano la nostra creatività, stimolano le nostre capacità di empatia, alimentano le nostre conoscenze e suscitano il nostro entusiasmo».30 Allora iniziamo! Non si tratta (qui) di scrivere romanzi di anticipazione sul collasso che aprono possibilità (che sarebbero eccitanti e benvenute altrove, in quanto rare), ma di esplorare narrazioni che arricchiscono il nostro modo di rappresentare tale collasso.
IL COLLASSO… COME APERTURA DI NUOVE POSSIBILITÀ
Raccontare una storia del collasso della nostra società, una storia attesa, fa vibrare sempre le stesse corde apocalittiche, più spesso ultraviolente e maschili (con poche eccezioni, tra cui il romanzo Nella foresta di Jean Hegland),31 e ripercorrere le avventure dei pochi sopravvissuti di un mondo in rovina. La vera sfida è uscire da questi percorsi ritriti, risultato di un misto di mitologia antica (apocalittica) e moderna (materialismo, competizione, cesura con la natura ecc.). Questa sfida non riguarda solo la fiction o il cinema, ma anche la vita quotidiana, come discussioni familiari, conferenze, articoli sulla stampa.
Se c’è un senso da trovare in un contesto di collasso, non è forse nel fatto di cogliere l’opportunità di rivisitare radicalmente i fondamenti della nostra società? O la gioia di vedere rallentata la distruzione del mondo vivente ad opera della megamacchina? O l’inizio di una rinascita? Quale orizzonte potrebbe rimetterci in moto?
Per aprire possibilità, l’importante è fornire a questo futuro una trama complessa: evocare dei collassi, avendo cura di descrivere i legami tra i collassi dell’ecosistema e quelli umani; evitare di considerare le cose in modo omogeneo dove tutto si gioca in anticipo; sottolineare che alcuni collassi sono desiderabili e altri non lo sono; descrivere momenti catastrofici, degradazioni lente, ma anche lunghe attese; soffermarsi anche sui personali collassi interiori e i crolli di illusioni, sistemi di pensiero e rappresentazioni del mondo.
Aprire dei possibili consiste soprattutto nel proiettare al di là di ciò che perdiamo e quindi anticipare ciò che può emergere. In questo contesto, può ovviamente dispiegarsi il mito dell’eroe, così come le storie di aiuto reciproco (gli individualisti avranno maggiori difficoltà a sopravvivere) e le alleanze con i non umani in lotta, per esempio, contro le forze capitaliste di appropriazione industriale.
Questo orizzonte di sconvolgimento radicale permette anche di invertire i valori. Ad esempio, il collassologo americano Chris Martenson, nel suo famoso Crash Course,32 spiega che la nostra società attuale attribuisce poco valore alle materie prime (acqua, legno, cibo ecc.), un po’ di più ai prodotti trasformati (artigianato e industria) e molto ai prodotti virtuali (denaro, digitale). Immaginare un mondo crollato rende l’inversione di questa scala molto facile. Questo ha un significativo potere euristico per la preparazione: il valore dell’acqua, del legno e del cibo sarà inestimabile, e nessuno vorrà bere denaro (per quanto liquido), né mangiare carte di credito o sognare una nuova applicazione per lo smartphone…
Per noi tre, la maturazione di questa narrazione è passata prima attraverso una fase razionale di lucidità (il legame tra diverse discipline scientifiche), poi attraverso la condivisione della nostra immaginazione, che ha stimolato una trasformazione interiore (emozioni e relazione con il mondo) e una esteriore (stile di vita, impegno politico e organizzazione collettiva). Questo ci ha permesso di restituire senso alla nostra vita, di sentirci meno persi, di svegliarci e di entrare in una nuova risonanza con la nostra epoca. Stiamo assaporando questa sensazione di vivere un momento decisivo della storia, ma anche di sentirci vulnerabili e fragili. Ci riconnette sia a qualcosa al di fuori del nostro controllo che alla nostra condizione di mortalità.
UNA MOBILITAZIONE… COME IN TEMPO DI GUERRA
«Nel Nord quest’estate è in corso un’offensiva devastante. Le forze nemiche si sono impadronite di vaste aree di territorio; ogni settimana che passa, scompaiono altri cinquantasettemila chilometri quadrati di ghiaccio artico. Gli esperti inviati sul campo di battaglia a luglio hanno intravisto poche speranze, soprattutto perché questo assedio è uno dei fronti più vecchi della guerra… La terza guerra mondiale è davvero in corso. E noi la stiamo perdendo»33 ha scritto il giornalista e ambientalista Bill McKibben nel 2016 in merito agli sforzi necessari per combattere il cambiamento climatico.
C’è una vera urgenza e la posta in gioco è immensa. La nostra casa, il nostro territorio, la nostra salute, la nostra vita e il nostro futuro sono in gioco. Rischiamo di perdere tutto. Allora perché non lanciare un massiccio sforzo bellico, come quando gli Alleati e l’Unione Sovietica hanno sconfitto i nazisti? Perché non lanciare grandi progetti Manhattan,34 ma sotto forma di migliaia di piccoli progetti a bassa tecnologia e con finalità di disarmo? Perché non organizzare “grandi sbarchi” per fermare la desertificazione attraverso un massiccio rimboschimento? Con il potere demiurgico che i combustibili fossili ci forniscono ancora, è difficile non pensare che una grande transizione rapida e coordinata sia ancora possibile.
Questa narrazione è potente nelle nostre terre, perché riecheggia l’esperienza della seconda guerra mondiale, le sue vittorie militari e la rapida ricostruzione su larga scala.35 Tutto questo fa vibrare le corde del senso del sacrificio, dell’eroismo, della difesa dei valori sacri, di un’identità, di un territorio ecc.
Come regola generale, ci sono tre possibilità per tenere uniti gli individui in un gruppo, o anche per creare una fratellanza sincera: un nemico comune (un grosso lupo cattivo), un ambiente ostile (una calamità naturale) o un obiettivo comune specifico e limitato nel tempo.36 Laurence Delina, ricercatore dell’Università di Harvard, e Mark Diesendorf, professore dell’Università del Nuovo Galles del Sud, ritengono che questo tipo di mobilitazione possa funzionare contro il cambiamento climatico «senza grandi minacce per la democrazia».37 Ciononostante, evidenziano alcune insidie in questo approccio.
La prima è quella di dimenticare facilmente la dimensione interiore e possibilmente pacifica (emotiva, ontologica, spirituale) di tale mobilitazione, rafforzando l’immaginario militare e la retorica di guerra. Come risultato, una simile narrazione potrebbe conferire un potere eccessivo ai governi e alle multinazionali che gestiscono questo enorme sforzo bellico (con “soluzioni” di geoingegneria). Senza contare che sono proprio i mezzi di mobilitazione rapida e potente (macchine e petrolio) i nemici da distruggere!
Né è chiaro se sia possibile una tale mobilitazione per contrastare minacce intangibili e lente e nemici diffusi (come il cambiamento climatico o la perdita di biodiversità, i gas serra, l’industria dei combustibili fossili, il capitalismo, l’inazione del governo) che richiedono sacrifici ripartiti di generazione in generazione.38 Durante la seconda guerra mondiale si verificarono spaccature brutali (ad esempio l’attacco a Pearl Harbor) e il nemico veniva identificato chiaramente.
Tuttavia, riteniamo che questa storia potrebbe essere utile se si concentrasse sui grandi piani di mobilitazione generale, come nel caso degli orti urbani (victory gardens) nel Regno Unito e negli Stati Uniti, delle politiche eque di razionamento e degli sforzi di ricostruzione postbellica (Piano Marshall). Potrebbe anche contribuire all’emergere di una vera e propria rete di resistenza decentrata che minerebbe il morale dei poteri distruttivi, organizzando incursioni nella “zona occupata” e difendendo i territori di ritiro situati nella “zona libera”. E la creazione di un nuovo Consiglio nazionale della resistenza e di un Consiglio naturale della resilienza39 non ci farà dimenticare che il confine tra la zona libera e la zona occupata è anche all’interno di ognuno di noi.
Siamo abbastanza motivati da essere disposti a dare la vita per ridurre dell’80 per cento il consumo materiale? Non ne siamo così sicuri. Ma questo immaginario di mobilitazione generale alimenta ciò che manca nei movimenti di transizione: un coordinamento efficace. L’allineamento, anche temporaneo, con una narrazione comune darebbe un enorme impulso a tutte quelle persone che sentono un profondo desiderio di cambiare il mondo, ma che non trovano soddisfazione nelle esortazioni alle piccole azioni individuali quotidiane.
UN “CAMBIO DI ROTTA”… PER RIMETTERSI IN MOTO
Un approccio che ha preso piede nell’ultimo decennio è quello di una transizione ecologica volontaria, basata su iniziative dei cittadini e che opera per rendere le nostre società nuovamente compatibili con la biosfera e “resilienti” alle future catastrofi. Comprende i movimenti Alternatiba, della Decrescita, nonché Transition Network, la rete internazionale delle città di transizione. Questa rete, fondata dal permacultore Rob Hopkins nel 2006 e ampiamente divulgata dal film Domani,40 unisce migliaia di progetti in tutto il mondo. Il movimento internazionale di Transition Network si basa in particolare sul lavoro di Joanna Macy e sulla sua narrazione, che lei definisce “il Grande cambio di rotta” (the Great Turning).41
Per lei, tre grandi storie sono messe attualmente in discussione. Quella del “business as usual”, secondo cui innovazioni tecnologiche ben ponderate dovrebbero fornire “soluzioni” ai “problemi”; quella del “Grande naufragio” (the Great Unravelling), che porterebbe a una virtuale estinzione della nostra specie e della vita sulla Terra (versione archetipica di un collasso apocalittico), e infine quella del “cambio di rotta”, che ci permette di riorientarci a livello collettivo verso una “società che sostiene la Vita”.
Macy ci invita a pensare ai tempi in cui viviamo come l’inizio di una terza grande rivoluzione, dopo quella dell’agricoltura protrattasi per secoli e quella industriale, durata decenni. Questo implica una trasformazione più rapida rispetto alle rivoluzioni precedenti, ma anche qualcosa di più profondo, che comporta non solo la scelta delle tecniche e delle istituzioni che vogliamo, ma anche il ripensamento di chi siamo, di cosa abbiamo realmente bisogno, e di come interagiamo gli uni con gli altri e con tutto il mondo vivente.
Questa narrazione ci rende attori della nostra generazione e responsabili delle generazioni future. Le prime due storie potrebbero avverarsi se scegliamo di non agire (“perché è finita” o perché altri lo faranno per noi). Quella del cambio di rotta è una scelta consapevole che richiede creatività e immaginazione. È una narrazione significativa che dà senso e collega il crescente numero di persone consapevoli delle questioni globali.
Tuttavia, questo cambio di rotta non deve essere interpretato come una garanzia per evitare la sofferenza. C’è un motivo per cui, recentemente, Macy ci ha incoraggiato a lavorare sulle relazioni umane buone in previsione dei “momenti difficili”. Questo permette di sottolineare che il cambio di rotta comprenderà di sicuro una fase di collasso, e potrà anche nutrirsene per liberare tutta la creatività necessaria per la comparsa di nuovi mondi.
Ciò che ci guida in questa storia è la presunta frattura con la linearità della storia (a favore di cicli di distruzione-riorganizzazione), la possibilità di partecipare a rivoluzioni e l’impressione di far parte di un vasto movimento. Ma altri sono andati un po’ oltre…
“DECIVILIZZAZIONE”… PER SBRIGLIARE L’IMMAGINAZIONE
Lo scrittore Paul Kingsnorth è stato per quindici anni vice direttore della famosa rivista inglese “The Ecologist”: «Ho fatto tutto quello che fanno gli ecologisti. Ma dopo un po’ ho smesso di crederci».42 La situazione ha continuato a peggiorare nonostante gli sforzi dei movimenti ambientalisti. Kingsnorth riesamina la sua presa di coscienza: «Sembrava che gli ambientalisti non fossero onesti con se stessi. Era sempre più chiaro che il cambiamento climatico non poteva essere fermato, che la vita moderna non era compatibile con le esigenze dell’ecosistema globale, che la crescita economica era parte del problema e che il futuro non sarebbe stato luminoso, verde, confortevole e “sostenibile” per dieci miliardi di persone, ma che era più probabile che avrebbe creato declino, impoverimento, caos e difficoltà per tutti noi».43
Mentre i suoi colleghi continuavano a organizzare azioni e campagne di sensibilizzazione e sembravano persistere nel credere in qualcosa di impossibile, Paul e il suo amico scrittore Dougald Hine decisero di fare il grande passo, scommettendo su scrittura, arte e musica per «andare oltre le storie di autocompiacimento che ci raccontiamo a vicenda sulla nostra capacità di gestire il futuro». I due amici hanno pubblicato un magnifico opuscolo sulla “decivilizzazione”,44 un «appello per una chiara visione del reale posto dell’umanità nel mondo».45
Nasce così nel 2009 il Dark Mountain Project, un «movimento culturale per un’era di sconvolgimento globale», guidato da una rete di scrittori, artisti e pensatori che oggi riunisce migliaia di persone entusiaste in tutto il mondo che esprimono un reale senso di sollievo. Tutti hanno in comune il fatto di aver smesso di voler “salvare il pianeta” e desiderano plasmare un nuovo modo di immaginare il futuro. Guardandosi indietro, Kingsnorth spiega che «accettare questa realtà non ha portato alla disperazione, come alcuni hanno suggerito, ma a un grande senso di speranza. Una volta che smettiamo di fingere che [il collasso] non possa accadere, siamo liberi di pensare seriamente al futuro».46 Riconosce che questa posizione sarebbe sembrata eretica qualche anno fa, ma ora non lo è più. Rileva anche una reale consapevolezza dell’incapacità della società di rispondere alle “crisi” che ha generato. «Insieme, possiamo dirlo forte e chiaro… il pianeta non sta morendo, ma la nostra civiltà forse sì, e né la tecnologia verde né gli acquisti etici impediranno un grave crollo».47
Il progetto parte dalla constatazione che «la civiltà umana è una costruzione intensamente fragile»,48 basata sulle convinzioni condivise dai popoli: «La fede nella correttezza dei suoi valori, la sua fede nella forza del suo sistema di legge e di ordine, la fede nella sua moneta e, soprattutto, forse, la fede nel suo futuro».49 Basta che questa fede scompaia per far crollare rapidamente l’edificio – la storia è colma di esempi.
Vivendo dalla nostra nascita in una bolla, in questa «illusione di isolamento in cui abbiamo lavorato così a lungo»50 siamo abituati a non vedere oltre queste convinzioni, verso territori lontani e oscuri. L’invito del movimento Dark Mountain è quello infine di esplorarli, scrivendo e pubblicando scritti “decivilizzati”.
Siamo la generazione nata all’età dell’ecocidio. E «L’ecocidio richiede una risposta. Questa risposta è troppo importante per essere lasciata a politici, economisti, pensatori concettuali, mangianumeri; troppo tentacolare per essere lasciata ad attivisti e lobbisti. Gli artisti sono necessari. Finora, però, la risposta artistica è stata moderata. Cosa c’è tra la poesia naturalistica e l’agit-prop?»51
Abbiamo presentato alcune bozze di storie che ci toccano. Acquisiranno più forza o appassiranno, altre emergeranno, da ogni dove, vecchie e nuove, inconsce e consce, incrociandosi e impollinandosi a vicenda, e sarà molto furbo chi indovinerà quali rafforzeranno le comunità di domani.
INTERLUDIO
UNA PORTA D’INGRESSO…
Finora abbiamo esplorato aspetti psicologici e interiori che ci sembrano importanti da prendere in considerazione per i tempi a venire, grazie soprattutto alle scoperte scientifiche e ad alcuni notevoli testi che sconfinavano già nella collassosofia.
È giunto il momento di uscire dalla nostra zona di comfort (quella che ancora si aggrappa agli articoli pubblicati su riviste scientifiche), per entrare a pieno titolo nella domanda fondamentale che il libro si pone: come creare dei legami e dare senso alla nostra vita e alla nostra epoca.
Sulla soglia della terza parte, chiudiamo gli occhi, prendiamo fiato e immergiamoci in questi abissi attraverso l’unica porta possibile: quella della nostra esperienza e del nostro impegno. Spenderemo parole su temi che riteniamo essenziali, che abbiamo vissuto dall’interno per anni, ma che non siamo abituati a esprimere in pubblico e ancor meno negli incontri di professionisti della scienza e della politica.
Se abbiamo deciso di fare il grande passo, è in primo luogo perché tutto questo ci ha ridato un impulso vitale, e soprattutto perché questi temi riguardano molte persone. Gli incontri che abbiamo fatto grazie, ad esempio, ai workshop di Work That Reconnects (vedi capitolo 7), ad alcune iniziazioni intorno alla mascolinità (vedi capitolo 8) o ai seminari dello Schumacher College, sono stati così intensi che ci hanno dato la forza di continuare. Probabilmente sono solo gli incontri ad avere questo potere.
Forse tutto ciò è maldestro, ridicolo, confuso o trascurabile agli occhi di alcuni. Forse tutto ciò avrà l’effetto (attraverso uno strano e assurdo processo indotto dall’epoca) di screditare le nostre parole razionali. Ce ne assumiamo il rischio, perché sono banali rispetto allo tsunami di duri colpi che ci attende nei prossimi decenni. Impegnarsi in questo mondo mutevole e imprevedibile richiede la necessità di esplorare, uscire dalla routine, scoprire, sperimentare, scavare, fare errori, trasgredire, osare, costruire ponti. Tutte caratteristiche di un micelio.
Due chiavi di lettura sono state per noi importanti: l’ecopsicologia e l’ecofemminismo. Le abbiamo scoperte prima attraverso l’esperienza, poi, per aggiungere parole all’esperienza, attraverso le letture. Le presentiamo qui molto brevemente, perché danno un colore particolare ai prossimi due capitoli.
Ecopsicologia per ritrovare i legami
La disconnessione dalla natura potrebbe essere la fonte principale dei nostri problemi. Il risultato per noi moderni comporterebbe gravi problemi psicologici e patologici, che sarebbero proprio la causa della distruzione sistematica del nostro habitat.
L’ecopsicologia scava nel rapporto tra la psiche umana e la natura.1 La crisi che minaccia il nostro pianeta, spiega Joanna Macy, nasce da una nozione patologica del sé: la disconnessione dalla natura è accompagnata da una profonda disconnessione da noi stessi.
Le minacce alla nostra sopravvivenza possono quindi essere attribuite all’immaturità psicologica e sociale, alla mancanza di autenticità, cioè alla mancanza di consapevolezza psicologica e spirituale, all’incapacità di coltivare il vero sé che va oltre i limiti dell’io. Così, l’ecopsicologia contribuisce alla comprensione delle radici psicologiche del collasso e ci invita a intraprendere un profondo lavoro interiore e spirituale.
La scoperta del lavoro di Joanna Macy è stata decisiva. Questa instancabile attivista, ormai quasi novantenne, ha unito la sua pratica del buddismo (iniziata con maestri tibetani) con un impegno militante per la pace. Già docente di teoria dei sistemi, è anche una delle pioniere dell’ecologia profonda. Dagli anni Ottanta, sul campo per le lotte antinucleari, si è resa conto che, senza introspezione, gli attivisti (che vogliono cambiare il mondo) sono molto spesso intrappolati nelle abitudini e nelle convinzioni del proprio inconscio e di quello del pubblico. Questo può facilmente portare a strategie inefficaci, intolleranza, lotte tra ego, disturbi emotivi, cinismo ed esaurimento.
Macy sviluppa una metodologia pratica ispirata da diverse tradizioni provenienti da tutto il mondo per riconnettere gli attivisti sofferenti alle loro emozioni. Questo li trasforma interiormente e collettivamente, allevia il cuore, li rende più resilienti e vivi, e restituisce respiro e significato alla loro lotta. In altre parole, offre un corso accelerato per sperimentare la fiducia reciproca, sviluppare capacità di empatia tra gli esseri umani e con i non umani, e imparare che cosa è un supporto autentico. È un vero e proprio lavoro di riconnessione tra corpo, anima ed emozioni.
Work that Reconnects (“Il lavoro che riconnette”) è il nome di questa metodologia, plasmata nel corso di centinaia di workshop e grazie alle migliaia di partecipanti e facilitatori da tutto il mondo.2 Sulla scia delle associazioni Roseaux dansants3 e Terr’Eveille4, la pratica continua a svilupparsi in Francia, Belgio e Svizzera da una decina di anni.
Uno di noi ha avuto la possibilità di passare molto tempo con Joanna Macy, durante la sua ultima visita in Europa nel 2013. Osservando la sua energia travolgente, uno dei partecipanti le ha chiesto cosa la motivava a tenere ancora workshop alla sua età. La sua risposta è stata chiara: «Il motivo per cui sto ancora facendo tutto questo è portare dalla nostra parte quante più opportunità possibili, in modo da evitare la violenza quando le cose cambieranno». Per evitarla, ha aggiunto, sono necessari due ingredienti: saggezza e compassione. E questo non significa passività! Il suo lungo impegno militante, che le ha fatto «comprendere l’entità dei sentimenti di negazione, impotenza e disperazione che possono esistere di fronte alla crisi ecologica»,5 non si è mai indebolito, anzi.
Ripensandoci, questi workshop hanno costituito uno spartiacque, per noi e per i legami che abbiamo tessuto e ancora tessiamo con i partecipanti. Abbiamo imparato a vedere con il cuore e con occhi nuovi e, cosa più sconvolgente, a riconnetterci con il nostro io più profondo e le nostre emozioni, alcune delle quali pensavamo fossero sepolte per sempre. L’effetto è sempre lo stesso: un’intensa sensazione di chiarezza, pace, pienezza e coraggio. Oggi, dietro i nostri computer, siamo sorpresi di scrivere queste righe, noi scienziati razionalisti…
Ecofemminismo per accettare il nostro femminile
La cesura esistenziale con la natura ha causato la perdita del sensibile, aprendo la strada a una società di dominio, sfruttamento e distruzione della natura. Il movimento ecofemminista sta compiendo un ulteriore passo avanti dimostrando che questa società ha lo stesso rapporto con le donne. Il degrado della natura e il degrado della condizione femminile avrebbero quindi la stessa origine (svilupperemo questa idea nel capitolo 8).
Il movimento ecofemminista, piuttosto eterogeneo, è attualmente molto diffuso nei paesi industriali anglosassoni e in alcuni paesi emergenti. È apparso nel 1980, nel bel mezzo della guerra fredda, per scongiurare la paura dell’apocalisse nucleare. «Di fronte a questa minaccia nucleare e alla paura, persino al terrore, di un futuro colpito dalle radiazioni, nonché alla sofferenza di lasciare un mondo in rovina, queste donne hanno resistito alla disperazione attraverso la gioia e la forza dell’azione politica.»6
L’originalità del movimento consiste nell’averlo ancorato a pratiche creative e sperimentali (e non accademiche). Lo hanno fatto, senza chiedere a nessuno, senza teorizzare, senza guida spirituale e senza gerarchie, sempre con l’obiettivo di trasformare il mondo. Hanno portato in campo politico l’importanza dei corpi (e non solo delle idee), dell’estetica (e non solo dell’efficienza tecnica), dell’immaginazione e delle emozioni (e non solo della ragione), ma anche della magia (e non solo dei selciati e delle bombolette di gas lacrimogeni).
Queste donne costruiscono ponti con il movimento operaio e anche con i mondi non umani. «Tutti si trovano nella stessa vitale necessità di combattere in un modo vivo, impulsivo, intelligente e sensibile, un modo non dualistico che guarisce e trasforma.»7
Come riassume Émilie Hache nella sua raccolta di testi ecofemministi, di fronte alle catastrofi e alle minacce di collasso «non si tratta di rivolgersi all’ecofemminismo come se avesse la soluzione ai problemi odierni, ma di ricordarci la possibilità di rispondere in modo collettivo a una situazione catastrofica e la forza di tale risposta; di farci sentire l’importanza cruciale e controintuitiva, in questa situazione, di riconnetterci con noi stessi come se dovessimo creare nuove visioni; per incoraggiarci infine a chiederci cosa vogliamo, cosa ci rende potenti, e a inventarlo».8
Quando ci siamo imbattuti in questa letteratura ecofemminista, abbiamo anche scoperto un modo di scrivere e condividere molto diverso dalla scrittura accademica classica. Molto più poetici e organici, meno rigidi, questi scritti sottolineano le relazioni tra gli esseri, o tra le storie, ed evidenziano costantemente l’interdipendenza che le scienze nate dal patriarcato hanno trascurato a lungo. Il mescolare nello stesso calderone scienza, politica, emozioni, fantasia e spiritualità… è stato un vero sollievo e ha contribuito a farci superare le inibizioni del nostro modo sistemico, orizzontale e transdisciplinare di approcciarci alle cose, così come del cammino della nostra vita!
TERZA PARTE
COLLASSOSOFIA
«Nessun albero può crescere fino al paradiso se le sue radici non scendono fino all’inferno.»
CARL GUSTAV JUNG