domenica 31 dicembre 2017




L'amore che torna
Guido Da Verona
"Da quando ella era divenuta «la mia amica», poichè amava ella stessa chiamarsi così, io vivevo nell'ardore di una febbre in cui erano gioie forse più acute che nella voluttà di possederla e tormenti più acerbi che nell'assoluta rinunzia. Sentivo confusamente che se fosse partita, se non avessi potuto più soffrire della sua presenza, mi sarei creduto per sempre incapace di accendere in me un altro desiderio, di esprimere un'altra ammirazione, di conoscere o di pensare un'altra bellezza, la quale somigliasse lontanamente alla sua.
Per questo le andai vicino, e dimenticando il fugace rancore le parlai quasi tremante.
— Non andrete via, — la pregai. — Non posso lasciarvi partire!
Mi guardò a lungo, mi porse la mano, ebbe un sorriso pieno di tristezza, mi disse:

— Anch'io vorrei forse restare, ma invece devo, devo andarmene via... — Poi soggiunse: — Ritornerò; verrete voi a vedermi... chissà!

— No, Elena: se partite questa volta, non ci vedremo più; mai più.
— Perchè mi dite questo? Anche la prima volta noi credevamo che sarebbe stato così, ed invece... La vita è tanto bizzarra!
— Elena, io farò in modo che non ci si riveda.
— Voi? e perchè?
— Perchè è sempre triste, enormemente triste, rimanere a mezza strada fra l'indifferenza e l'amore, fra la curiosità e il desiderio, fra quello che è stato e quello che poteva essere. Un sogno si può talvolta sopprimere, ma incatenarlo, precludere ad esso l'avvenire, questo no. D'altronde fra voi e me l'amicizia non è possibile. Perchè essere solamente amici quando è lecito amarsi? Elena, da che vi conosco non ho avuto verso di voi la più piccola irriverenza, non ho tentato mai di spingere la nostra intimità oltre il limite che le avete voluto prefiggere, trovando questo, non solo naturale, ma opportuno, perchè siete fra quelle donne che si debbono avere sempre o non avere mai.
— Credete proprio che ci siano tali donne? — ella rispose con volubilità. E, nel fissarmi, qualcosa di crudele attraversò la sua ferma bellezza.
— Se vi sono, — risposi — hanno certamente il diritto di farci anche soffrire.
— Sentite, — m'interruppe, con riso pieno d'ironia su la bocca giovine, — credo che voi parliate con molta facilità... Veramente vi ammiro!
— Perchè? — feci, un po' confuso.
— Via! Mi piace la sicurezza con la quale dite queste cose molto gravi e molto serie. Parlando con voi, talvolta mi sembra di assistere alla recitazione d'un ottimo attore.
— È dunque singolare che si abbia entrambi, esattamente, la medesima impressione.
— Eccovi súbito mordace. Ma no!... io trovo questa 

una cosa naturale! Passiamo tante ore, qui, soli, nè possiamo far altro che parlare. Ditemi, avete avute molte amanti voi?
— Sì, molte, come tutti gli uomini che possiedono le qualità essenziali per piacere alle donne, ossia un bel nome, un patrimonio mai esausto, e molta disinvoltura.
— Credete che queste qualità bastino sempre?
— Sempre almeno per correre quella via battuta che si chiama la via del cuore femminile.
— E ne avete amate molte?
— No, amate no. Le ho predilette, come alcuni prediligono i fiori. Mi è piaciuto coltivarle, carezzarle, per ricevere in cambio il loro profumo, persuaso che questo profumo sia forse nella donna la cosa migliore. Ma purtroppo non ho mai saputo dare un'importanza grave ai sentimenti che sfioravano il mio cuore sbadato. Poi un'altra cosa vi dirò: mi è mancata una, forse la più superficiale, fra quelle distrazioni che ad altri uomini rendono così attraente il gioco dell'amore; voglio dire il capriccio, la passione che nasce per puntiglio, la tenacità. Davanti ad una porta che si chiudeva con ostinatezza non mi sono mai fermato a lungo; andavo altrove... e di porte che si aprono ve ne son tante al mondo!
Ella sorrise evasivamente, con un sorriso incomprensibile, alzando la mano verso una parete ov'erano in mostra, dietro un cristallo, alcuni ritratti di donne; poi, dalla parete, verso un quadro, e disse:
— Quelle, per esempio?
Anch'io volsi da quella parte gli occhi, e risposi con una certa pacatezza:
— Sì, quelle, oppure tante altre che non ricordo più.
— Voi parlate come Don Giovanni in un giorno di noia...
— Oh, no! — risposi ridendo. — La vostra ironia non mi ferisce affatto, perchè davvero non penso di aver seminate molte vittime lungo il mio cammino. Anzi la mia coscienza dorme tranquilla. Ho conosciute molte donne, ho creduto di amarne alcuna, mi sono accorto alla fine 

di non aver amato mai. E per questo ve ne parlo senza gioia, senza rancore, come potrei ricordare il nome dei cavalli preferiti che ho fatto correre su gli ippodromi, quand'ero più ricco, e degli amici che m'hanno aiutato a dissipare gaiamente la vita. Lo scopo nel mondo è provare molte sensazioni: se poi si confondono insieme, che importa? La sensazione è un sentimento che scende sino al fiore dell'anima e non la pénetra, ma la fascia soltanto: per questo è più soave. Senza tormentarvi, senza farvi male, vi dà una specie d'ebbrezza. Ecco, vi dirò: vi sono alcuni profumi così intensi che son quasi un sapore; la sensazione è tale: un profumo che vi porta tutta l'anima di una cosa e vi commuove come un sentimento.
Da capo, su le sue labbra, quell'impercettibile segno d'irrisione che talora pareva un freddo scherno, talvolta un'addolorata ironia.
— Perchè, — le domandai dopo un silenzio — perchè mi guardate così?
— Io?... — fece trasognata. — Non saprei.
— Volete forse ripetermi la frase di prima, dirmi...
— Che siete un commediante? Sì, forse. Ma la commedia è vita in chi la rappresenta bene."
http://www.gutenberg.org/files/38720/38720-h/38720-h.html



TOCO TU BOCA
Julio Cortazar
Estratto da "Rayuela"
Capítulo 7 
Toco tu boca, con un dedo tocoel borde de tu boca, voy dibujándola como si saliera de mi mano, como si por primera vez tu boca se entreabriera, y me basta cerrar los ojos para deshacerlo todo y recomenzar, hago nacer cada vez la boca que deseo, la boca que mi mano elige y te dibuja en la cara, una boca elegida entre todas, con soberana libertad elegida por mí para dibujarla con mi mano por tu cara, y que por un azar que no busco comprender coincide exactamente con tu boca que sonríe por debajo de la que mi mano te dibuja. Me miras, de cerca me miras, cada vez más de cerca y entonces jugamos al cíclope, nos miramos cada vez más de cerca y nuestros ojos se agrandan, se acercan entre sí, se superponen y los cíclopes se miran, respirando confundidos, las bocas se encuentran y luchan tibiamente, mordiéndose con los labios, apoyando apenas la lengua en los dientes, jugando en sus recintos donde un aire pesado va y viene con un perfume viejo y un silencio. Entonces mis manos buscan hundirse en tu pelo, acariciar lentamente la profundidad de tu pelo mientras nos besamos como si tuviéramos la boca llena de flores o de peces, de movimientos vivos, de fragancia oscura. Y si nos mordemos el dolor es dulce, y si nos ahogamos en un breve y terrible absorber simultáneo del aliento, esa instantánea muerte es bella. Y hay una sola saliva y un solo sabor a fruta madura, y yo te siento temblar contra mí como una luna en el agua.

 

venerdì 29 dicembre 2017




ANTISEMITISMO
Martin Luther King  nella sua “Lettera ad un amico antisionista’’: “Pace per Israele significa sicurezza, e dobbiamo con tutti i nostri mezzi proteggere il suo diritto ad esistere. Israele è uno degli importanti avamposti della democrazia nel mondo, è un meraviglioso esempio di come una terra arida può essere trasformata in un’oasi di tolleranza e di democrazia’’. E,  dopo aver ribadito che l’antisionismo significa  negare al popolo ebraico quel diritto fondamentale che viene riconosciuto a tutte le altre nazioni del mondo,  il reverendo King concludeva: “Al giorno d’oggi però, in Occidente, proclamare che si odiano gli ebrei è diventato molto impopolare (purtroppo è sempre meno così, ndr). Di conseguenza, l’antisemita deve costantemente inventare nuove forme e nuove sedi per il suo veleno. Deve camuffarsi. E allora dice di non odiare gli ebrei, ma di essere 'antisionista'."

giovedì 28 dicembre 2017


GIOCARE COL FUOCO. 
Immagine di un sogno.
di Emanuela Fortunato
Al di là della mente, della morale.
Sfondo una porta aperta se vedo mille uomini con te e mille donne e mille istanti in cui io non ci sono più. 
Vedo la tua bocca stanca dopo aver detto tante parole diverse, e gli sguardi e il sangue.
Ontofobia. Una scossa nel corpo. Le mani in pasta, gli alberi con la neve sui rami, la grandine che picchia sui vetri, il Vesuvio mangiato dalla nebbia. 
Mille facce mille donne mille attenzioni d'amore. Mor(t)ale. 
Mille facce mille uomini mille attenzioni d'amore. Mor(t)ale.

Torno a me, a questi'io che dimentico, che è solo un'ombra, un'idea fissa, un'idea vostra. Il fuoco mi nutre. Mi nutro del possibile nella distanza fra me e le stelle.
Lasciare andare, lasciarsi andare e andare oltre una ferita per dire tutto e il suo contrario a te, a me, al mondo. Perché ero ben consapevole di farti del male quando una fredda scommessa mi portò nel letto di un passante. La pioggia si aggiungeva al mare e il mare a ponente non riportava le onde. Volevo le onde e ti ferii con la notte. 
Lasciare andare, lasciarsi andare. 

Ma un amore che ha bruciato nel sangue una volta e il fuoco lo scosse è un ventre fertile che partorisce e lascia figli nel bosco. Annuso le margherite, i fili d'erba, accarezzo la terra bagnata, mi tuffo nelle pozzanghere. 
Un amore che ha bruciato nel sangue è un invito a ripetere, a cantare altro stupore, altra amicizia, altro amore, ancora.


TRASFORMARSI.
Leggendo Elias Canetti "Massa e potere".  Trasformarsi appartiene a tutti noi, alla nostra vulnerabilità, che ci chiede di uscire dalle vie consuete, per cercare nuove coordinate, fuori da quelle con cui siamo soliti confrontare  le nostre esperienze alle altrui, per esprimere giudizio su entrambe. Anche se la trasformazione riguarda chiunque, spesso temiamo la metamorfosi per paura di essere sperduti nell'ignoto. Si manifesta in noi l'ancestrale paura del buio quale metafora della morte. Allora cerchiamo rifugio nella massa, come ricerca di socialità delle differenze indifferenziate, delle differenze senza identità, subordinate a concetti impliciti che sono, spesso, solidi e rassicuranti preconcetti.
"Nulla l’uomo teme di più che essere toccato dall’ignoto. Vogliamo vedere ciò che si protende dietro di noi: vogliamo conoscerlo o almeno classificarlo. Dovunque, l’uomo evita d’essere toccato da ciò che gli è estraneo. Di notte o in qualsiasi tenebra il timore suscitato dall’essere toccati inaspettatamente può crescere fino al panico. Neppure i vestiti garantiscono sufficiente sicurezza; è talmente facile strapparli, e penetrare fino alla carne nuda, liscia, indifesa dell’aggredito.
Tutte le distanze che gli uomini hanno creato intorno a sé sono dettate dal timore di essere toccati. Ci si chiude nelle case, in cui nessuno può entrare; solo là ci si sente relativamente al sicuro. La paura dello scassinatore non si riferisce soltanto alle sue intenzioni di rapinarci, ma è anche timore di qualcosa che dal buio, all’improvviso e inaspettatamente, si protende per agguantarci. La mano configurata ad artiglio è usata continuamente come simbolo di quel timore. Molto di questo concetto è entrato nel duplice significato della parola angreifen (protendersi per prendere, per toccare). Vi si trovano insieme sia il contatto innocuo sia l’aggressione pericolosa, e qualcosa di quest’ultima è sempre presente anche nel primo. Nel sostantivo Angriff (aggressione) è però rimasto soltanto il significato negativo.
La ripugnanza d’essere toccati non ci abbandona neppure quando andiamo fra la gente. Il modo in cui ci muoviamo per la strada, fra molte persone, al ristorante, in treno, in autobus, è dettato da quel timore. Anche là dove ci troviamo vicinissimi agli altri, in grado di osservarli e di studiarli bene, evitiamo per quanto ci è possibile di toccarli. Se facciamo l’opposto, vuol dire che abbiamo trovato piacere in qualcuno; nostra è quindi l’iniziativa di avvicinarci a lui.
La prontezza con cui gli altri si scusano se ci toccano involontariamente, la tensione con cui attendiamo quella giustificazione, la reazione violenta e a volte aggressiva se essa non giunge, il disgusto e l’odio che proviamo per il «malfattore» – anche se non possiamo essere affatto certi che sia stato lui – tutto questo groviglio di reazioni psichiche intorno all’essere toccati da qualcosa di estraneo, nella loro labilità e suscettibilità estreme, ci conferma che si tratta qui di qualcosa di molto profondo, sempre desto e sempre insidioso: di qualcosa che non lascia più l’uomo da quando egli ha stabilito i confini della sua stessa persona. Anche il sonno, durante il quale le difese sono molto minori, può essere disturbato fin troppo facilmente da un timore di questo tipo.
Solo nella massa l’uomo può essere liberato dal timore d’essere toccato. Essa è l’unica situazione in cui tale timore si capovolge nel suo opposto. È necessaria per questo la massa densa, in cui corpo si addossa a corpo, una massa densa anche nella sua costituzione psichica, proprio perché non si bada a chi «ci sta addosso». Dal momento in cui ci abbandoniamo alla massa, non temiamo d’esserne toccati. Nel caso migliore, si è tutti uguali. Le differenze non contano più, neppure quella di sesso. Chiunque ci venga addosso è uguale a noi. Lo sentiamo come ci sentiamo noi stessi. D’improvviso, poi, sembra che tutto accada all’interno di un unico corpo. Forse è questa una delle ragioni per cui la massa cerca di stringersi così fitta: essa vuole liberarsi il più compiutamente possibile dal timore dei singoli di essere toccati. Quanto più gli uomini si serrano disperatamente gli uni agli altri, tanto più sono certi di non aver paura l’uno dell’altro. Questo capovolgimento del timore d’essere toccati è peculiare della massa. Il sollievo che si estende in essa – e di cui si parlerà in un altro contesto – assume proporzioni vistose nelle masse estremamente dense."

mercoledì 27 dicembre 2017




ARRIVA LA SERA FESTIVA

Arriva  la sera festiva
mentre attendo il mistero del buio
camminando lentamente
per sentire il respiro delle ombre.

Un brivido di freddo
di una sera stellata
con l'aria gelida d'inverno
 spegne ogni attesa.

Mi avvince un pensiero
che risuona nella mia testa
 che dice troppo presto,
e risponde troppo tardi.




LENTA LA NEVE FIOCCA
di Giovanni Pascoli
Lenta la neve fiocca, fiocca, fiocca.
Senti: una zana dondola piano piano.
Un bimbo piange, il piccol dito in bocca;
Canta una vecchia, il mento sulla mano.
La vecchia canta: intorno al tuo lettino
C'è rose e gigli, tutto un bel giardino.
Nei bel giardino il bimbo si addormenta
La neve fiocca lenta, lenta, lenta.



martedì 26 dicembre 2017



LA MOSCA
di Katherine Mansfield

Racconto simbolico ed inquietante è "La Mosca" del 1922. Un dirigente d'azienda vecchio e solo, dopo la visita di un dipendente che gli ha fatto ricordare il proprio figlio, rimane perso nei suoi pensieri, sopraffatto dal dolore per la morte dell'unico figlio morto nella Prima Guerra Mondiale. Prima evoca i suoi sacrifici, il coraggio preso per crescerlo e dargli una vita sicura e stabile, poi ne commemora la personalità gioiosa, amabile... E nel mentre si accorge di una mosca rimasta intrappolata nell'inchiostro del gran calamaio sulla scrivania. Con la penna il signore salva l'animale, poggiandolo su una carta assorbente;  osserva la fatica della mosca che si asciuga con le zampette il corpo, elogia il suo coraggio, il sacrificio, ma sempre con la penna e d'improvviso, inonda la mosca d'inchiostro. L'azione si ripete finché il povero animale non muore, così con disinteresse getta il cadavere nel cestino. Tuttavia, ritornando alla realtà, non riesce a ricordare a cosa stesse pensando inizialmente.

"Ne ha di fegato il diavoletto, pensò il padrone, e provò una sincera ammirazione per il coraggio della mosca. Era così che si dovevano affrontare le cose; era quello lo spirito giusto. Non darsi mai per vinti; era solo questione di… Ma la mosca aveva di nuovo terminato il suo faticoso compito, e il padrone ebbe appena il tempo d’intingere di nuovo la penna e di centrare in pieno quel corpo appena ripulito con un altro gocciolone d’inchiostro nero. Cosa sarebbe successo stavolta? Seguì un penoso momento d’incertezza. Ma ecco che le zampe anteriori si agitarono di nuovo; il padrone sentì un gran sollievo. Si chinò sulla mosca e le disse teneramente: «Che carognetta ingegnosa…». E gli venne persino la brillante idea di soffiarle sopra per aiutarla ad asciugarsi più in fretta. Ma ora negli sforzi della mosca c’era qualcosa di timido e debole, e il padrone, intingendo la penna ben dentro il calamaio decise che quella sarebbe stata l’ultima. Lo fu. L’ultima goccia cadde sulla carta assorbente fradicia e la mosca, inzuppata, vi restò immobile. Le zampe posteriori erano appiccicate al corpo; quelle anteriori non si vedevano più. «Avanti – disse il padrone – sbrigati!». E la stuzzicò con la penna – invano. Non accadde nulla, ne’ poteva accadere. La mosca era morta."


mercoledì 20 dicembre 2017



AVANZANO  DI NOTTE I DESIDERI 
Avanzano di notte i desideri 
nel silenzio del letto vuoto 
di amori mai vissuti.
Il buio tutto avvolge 
nel nero dell'oblio,  
di lontane passioni. 
Copre il silenzio 
ogni cosa affogando, 
senza inutili lusinghe.
Il sonno accende la speranza
mentre l'orizzonte sbianca 
col ritorno dell'alba. 




È UN PROBLEMA
di Agatha Christie
Il più bel giallo, per me, di Agatha Cristie. La sua scrittura è fatta di pennellate che tratteggiano con nitidezza i personaggi, dentro dialoghi essenziali. 
“- Ecco zia Edith, disse Sophia. 
La donna si curvò due o tre volte sulle aiuole fiorite, poi si avvicinò a noi. Mi alzai.
- Ti presento Charles Hayward, zia Edith. 
- Charles, questa è mia zia, la signorina de Haviland.
Edith de Haviland era una donna sulla settantina. Aveva il volto solcato di rughe, occhiali a pince-nez, e una massa di grigi capelli arruffati.”
“Qualcosa scattò nella mia mente. Era la citazione fatta da Sophia.
Improvvisamente ricordai l'intero verso della filastrocca:
C'era una volta un uomo deforme su una strada tutta tortuosa.
Trovò un'acciaccata moneta vicino a una scala sbilenca.
Aveva un gatto rognoso che catturò un topo sciancato.
E vissero tutti insieme in una piccola casa deforme.”
Agatha Christie, “E' un problema.”

martedì 19 dicembre 2017




PAROLE SENZA FATTI: APPLICARE IL RASOIO DI OCKHAM?
"entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem" oppure "frustra fit per plura quod per pauciora" 
("Il rasoio di Ockham") 
Non è soltanto regola fondamentale di ogni scienza. Il consiglio è, anche, che bisognerebbe metter confini tra le parole e le cose, per evitare di far passare per cose esistenti quelle che sono solamente chiacchiere, e per non credere che tutte le nostre parole si riferiscano a cose esistenti. Spesso pensiamo che ci sia una corrispondenza reale alle parole, mentre dovremmo chiederci se  le parole poggino  soltanto su altre parole e non su cose.

domenica 17 dicembre 2017



ON CROIT QUE SELON LE DÉSIR...
"On croit que selon son désir on changera autour de soi les choses, on le croit parce que, hors de là, on ne voit aucune solution favorable. On ne pense pas à celle qui se produit le plus souvent et qui est favorable aussi : nous n’arrivons pas à changer les choses selon notre désir, mais peu à peu notre désir change. La situation que nous espérions changer parce qu’elle nous était insupportable nous devient indifférente. Nous n’avons pas pu surmonter l’obstacle, comme nous le voulions absolument, mais la vie nous l’a fait tourner, dépasser, et c’est à peine alors si en nous retournant vers le lointain du passé nous pouvons l’apercevoir, tant il est devenu imperceptible."
— 
Marcel Proust, Albertine disparue ou La fugitive (La fuggitiva o Albertine scomparsa, Alla ricerca del tempo perduto, VI, p.38):
“Si crede che si potranno mutare a piacere le cose intorno a noi; lo si crede perché, fuori di questa, non si scorge nessun’altra soluzione favorevole. Non si pensa a quella che più spesso si avvera e che è, anch’essa, favorevole: noi non riusciamo a mutare le cose conforme al nostro desiderio, ma poco a poco il nostro desiderio muta. La situazione che desideravamo mutare perché insopportabile ci diviene indifferente. Non abbiamo potuto sormontare l’ostacolo, come volevamo assolutamente, ma la vita ce lo ha fatto aggirare, oltrepassare; e facciamo fatica allora, se, volgendoci verso le lontananze del passato, riusciamo a scorgerlo, tanto è diventato impercettibile”.

TUTTA LA PENA DEI POSSIBILI AMORI
Rainer Maria Rilke
“Tutta la pena dei possibili amori
giorno e notte ho sentito tornare:
confusi un tempo e remoti, ma uguali nel rifiutarmi una gioia serena.

Nessuna notte futura piú dolce
sarà di quella notte lontana,
quando allo sguardo di noi rassegnati
ogni discordia di nuovo fu piana.”

Estratto di: Rainer Maria Rilke. “Poesie.” Feedbooks, 1894. iBooks.

sabato 16 dicembre 2017



GONE WITH THE WIND
Indimenticabile Incipit
INCIPIT 
" Scarlett O’Hara non era bella..." 
“Scarlett O’Hara was not beautiful, but men seldom realized it when caught by her charm as the Tarleton twins were. In her face were too sharply blended the delicate features of her mother, a Coast aristocrat of French descent, and the heavy ones of her florid Irish father. But it was an arresting face, pointed of chin, square of jaw. Her eyes were pale green without a touch of hazel, starred with bristly black lashes and slightly tilted at the ends. Above them, her thick black brows slanted upward, cutting a startling oblique line in her magnolia-white skin — that skin so prized by Southern women and so carefully guarded with bonnets, veils and mittens against hot Georgia suns.”
Estratto di: “Gone with the Wind.”

venerdì 15 dicembre 2017

NO, TACCONI...
Luciano Bianciardi
Estratto da "La vita agra"

No, Tacconi, ora so che non basta sganasciare la dirigenza politico-economico-social-divertentistica italiana
. La rivoluzione deve cominciare da ben più lontano, deve cominciare in interiore homine.
Occorre che la gente impari a non muoversi, a non collaborare, a non produrre, a non farsi nascere bisogni nuovi, e anzi a rinunziare a quelli che ha.
La rinunzia sarà graduale, iniziando coi meccanismi, che saranno aboliti tutti, dai più complicati ai più semplici, dal calcolatore elettronico allo schiaccianoci.
Tutto ciò che ruota, articola, scivola, incastra, ingrana e sollecita sarà abbandonato. Poi eviteremo tutte le materie sintetiche, iniziando dalla cosiddetta plastica. Quindi sarà la volta dei metalli, dalle leghe pesanti e leggere giù giù fino al semplice ferro.
Né scamperà la carta. Eliminati carta e metallo non sarà più possibile la moneta, e con essa l’economia di mercato, per fare posto a un’economia di tipo nuovo, non del baratto, ma del donativo. Ciascuno sarà ben lieto di donare al suo prossimo tutto quello che ha e cioè – considerando le cose dal punto di vista degli economisti d’oggi – quasi niente. Ma ricchissimo sarà il dono quotidiano di tutti a tutti nella valutazione nostra, nuova.
Saranno scomparse le attività quartarie, e anzitutto i grafici, i P.R.M., e i demodossologi. Spariranno quindi le attività terziarie, e poi anche le secondarie.
Le attività del tipo primario – coltivazione della terra – andranno man mano restringendosi, perché camperemo principalmente di frutti spontanei.
È ovvio che a questo si arriverà per gradi, e non senza arresti o inciampi.
Agli inizi formeremo appena delle piccole comunità, isolette sparute in mezzo allo sciaguattare dell’attivismo, e gli attivisti ci guarderanno con sufficienza e dispregio.
Per parte nostra, metteremo alla porta con ferma dolcezza i rappresentanti di commercio, gli assicuratori e i preti.
Avremo eletto per nostra dimora le zone meno abitate, cioè quelle che hanno clima migliore.
A poco a poco vedremo la nostra isola crescere, collegarsi con altre isole fino a formare una fascia di territorio ininterrotto.
E un giorno saranno gli altri, gli attivisti, a ridursi in isola; poche decine di longobardi febbrili aggrappati a rotelle e volani, con gli occhi iniettati di sangue. Forse non riusciremo mai a vincerli alla nostra causa, e resteranno lì a correre in circolo, a firmarsi l’un con l’altro cambiali, a esigerne il pagamento. Ridotti così in pochi, man mano che i meno saldi muoiono d’infarto, formeranno un cerchio sempre più angusto e rapido, fino a scomparire da sé.
E noi li staremo a guardare dall’esterno, sorridendo.
Il lavoro si sarà per noi ridotto quasi a zero, vivendo dei frutti spontanei della terra e di pochissima coltivazione.
Saremo vegetariani, e ciascuno avrà gli arredi essenziali al vivere comodo, e cioè un letto.
Il problema del tempo libero non si porrà più, essendo la vita intera una continua distesa di tempo libero.
Scomparsi i metalli, gli uomini avranno barbe fluenti.
Scomparse le diete dimagranti e i pregiudizi pseudoestetici, le donne saranno finalmente grasse.
Scomparsa la carta, non avremo né moneta né giornali né libri.
Perciò, trasmettendosi le notizie di bocca in bocca, noi non sentiremo né le false né le superflue.
Senza libri, la letteratura dovrà tramandarsi per tradizione orale, e la tradizione orale non potrà non scegliere i soli capolavori.
Vedremo automobili ferme per via, senza più carburante, e le abbandoneremo ai giochi dei bambini, ai quali però nessuno dovrà dire che cosa erano, a che cosa servivano quelle cose un tempo.
Ovunque cresceranno vigorose erbe e piante, in breve l’asfalto si tingerà tutto di verde, con immediato miglioramento del clima.
Anche le zone umide e nebbiose diventeranno abitabili.
Gli animali domestici passeggeranno liberi e robusti in mezzo a noi, galline, dromedari, pipistrelli, pecore eccetera.
Cessato ogni rumore metalmeccanico, suonerà dovunque la voce dell’uomo e della bestia.
Liberi da ogni altra cura, noi ci dedicheremo al bel canto, ai lunghi e pacati conversari, alle rappresentazioni mimiche e comiche improvvisate. Ciascuno diventerà maestro in queste arti.
Non essendovi mezzi meccanici di locomozione, ci sposteremo a dorso d’asino o a piedi, e questo favorirà l’irrobustimento dei corpi, con immediati vantaggi fisici ed estetici.
Grandi, barbuti, eloquenti, gli uomini coltiveranno nobili passioni, quali l’amicizia e l’amore.
Non esistendo la famiglia, i rapporti sessuali saranno liberi, indiscriminati, ininterrotti e frequenti, anzi continui.
Le donne spesso fecondate ingrasseranno ancora, e i bambini da loro nati saranno figli di tutti e profumeranno la terra.
Noi li vedremo venire su forti e chiari, e li educheremo alle arti canore e vocali, alla conversazione, all’amicizia, all’amore e all’intercorso sessuale, non appena siano in età a ciò idonea. Andateci piano, ragazzi, che tanto ce n’è per tutti.

giovedì 14 dicembre 2017






....QUAND UN JEUNE FILLE...
Estratto da "CLIO"
Di Anatole France

Il achevait à peine son repas quand une jeune fille, portant une corbeille sur sa tête, vint à la fontaine pour y laver du linge. Elle le regarda d'abord avec défiance, mais voyant qu'il portait une lyre de bois sur sa tunique déchirée et qu'il était vieux et accablé de fatigue, elle s'approcha sans crainte et soudain, émue de pitié et de vénération, elle puisa dans le creux de ses deux mains rapprochées un peu d'eau dont elle rafraîchit les lèvres du chanteur.

Alors il la nomma fille de roi; il lui promit une longue vie et lui dit:

—Jeune fille, l'essaim des désirs flotte autour de ta ceinture. Et j'estime heureux l'homme qui te conduira dans sa couche. Et moi, vieillard, je loue ta beauté comme l'oiseau nocturne qui pousse son cri méprisé sur le toit des époux. Je suis un chanteur errant. Jeune fille, dis-moi de bonnes paroles.
Et la jeune fille répondit:
—Si, comme tu dis et comme il semble, tu es un joueur de lyre, ce n'est pas un mauvais destin qui t'amène dans cette ville. Car le riche Mégès reçoit aujourd'hui un hôte qui lui est cher, et il donne aux principaux habitants de la ville, en l'honneur de son hôte, un grand festin. Sans doute, il voudra leur faire entendre un bon chanteur. Va le trouver. On voit d'ici sa maison. Il n'est pas possible d'y arriver du côté de la mer, parce qu'elle est située sur ce haut promontoire qui s'avance au milieu des flots et qui n'est visité que par les alcyons. Mais si tu montes à la ville par l'escalier taillé dans le roc du côté de la terre, au regard des coteaux plantés de vigne, tu reconnaîtras facilement entre toutes la maison de Mégès. Elle est fraîchement enduite de chaux et plus spacieuse que les autres.
ILLUSTRATIONS DE MUCHA

ALLA SCUOLA DELLA REALTÀ
Intervista a Benny Morris
Benny Morris è uno dei maggiori esperti del conflitto arabo-Israeliano. Nato nel 1948, professore di storia al dipartimento di studi mediorientali all’università di Ben Gurion nel Negev, ha scritto libri fondamentali che nessuno studioso serio o ricercatore che voglia capire qualcosa di quello che è il più problematico e duraturo conflitto storico a livello planetario, può esimersi dal leggere. Tra di essi Esilio, Israele e l’esodo palestinese 1947-1949, Vittime, Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2000, La prima guerra di Israele. Dalla fondazione al conflitto con gli stati arabi 1947-1949.
Il suo sguardo sulla storia è quello lucido e implacabile di un realista impenitente, il quale analizza e protocolla i fatti ad occhi completamente asciutti.
Ci siamo incontrati a Gerusalemme, nel quartiere di Rehavia, in una luminosa giornata di fine giugno.
Quando hai cominciato a scrivere sul conflitto arabo-israeliano sei stato accolto a sinistra come uno studioso che stava decostruendo la narrativa egemone sulla Guerra di Indipendenza. Successivamente, i tuoi ammiratori ti hanno attaccato per quello che hanno considerato un mutamento di prospettiva storica. Questo mutamento c’è effettivamente stato?Non ho mai mutato la mia prospettiva storica. Ho sempre scritto quello che mi dicevano i documenti e la prospettiva non è cambiata. Se  guardi il mio primo libro sui rifugiati (Esilo. Israele e l’esodo palestinese, 1947-1949), le conclusioni sono esattamente uguali a quelle della seconda versione pubblicata sedici anni dopo. Quello che è cambiato è stata la mia valutazione sulla volontà palestinese di fare la pace con Israele. Negli anni Novanta ero cautamente speranzoso che i palestinesi avessero cambiato la loro posizione e fossero pronti a fare la pace. Si rivelò che non lo erano. Quando rigettarono i compromessi americani e israeliani nel 2000, questo episodio mutò la mia prospettiva. Questa è la ragione per cui molte persone si arrabbiarono con me, perché dissi che la pace non c’è non per colpa degli israeliani ma per colpa dei palestinesi.
Nel 1922, Mussa Kazim al Husseini, il capo dell’Esecutivo Arabo-Palestinese a proposito degli arabi e degli ebrei disse, “La natura non permette uno spirito di cooperazione tra due popoli così diversi”. Dopo novantaquattro anni sembra che le sue parole siano ancora molto attuali. Sei d’accordo con lui?Sì, me sembra che vedesse le cose in modo corretto. Non credo che gli ebrei e gli arabi possano vivere bene in uno stato in cui condividano il potere. Direi che le cose sono peggiorate, che i quasi cento anni aggiuntivi di animosità e violenza li hanno resi ancora meno disponibili a fidarsi gli uni degli altri di quanto lo fossero precedentemente. C’è stato il terrorismo, la ripresa dell’insorgenza araba, l’avvicinamento dei palestinesi al fondamentalismo. Tutto ciò ha reso ancora più improbabile che la pace possa essere raggiunta.
Dalla tua ricerca sembra che tu consideri fin da principio il rifiuto arabo come il principale ostacolo per una risoluzione del conflitto. E’ così?Dal mio punto di vista il rifiuto arabo non è cambiato. Hanno detto di no al compromesso avanzato dagli inglesi negli anni Trenta, hanno detto di no al piano di spartizione delle Nazioni Unite il quale esprimeva la volontà della comunità internazionale, hanno detto di no nel 2000 con Arafat a Camp David e hanno detto un’altra volta no con Abu Mazen come loro leader al compromesso Olmert nel 2008. Nel frattempo Hamas è diventato molto più forte e si oppone a qualsiasi tipo di compromesso territoriale. Non vedo nessuna chance di compromesso all’orizzonte.
Vorrei parlare dell’atteggiamento dei leader sionisti prima e durante la Guerra di Indipendenza. C’è una vexata quaestio relativa alla questione della volontà di trasferire la popolazione araba prima e durante la guerra. Ci sono coloro i quali sostengono che fosse il prodotto di una premeditazione arrivando all’estremo di accusare i capi sionisti di mentalità genocida, e quelli come te secondo i quali il trasferimento fu più la conseguenza della minaccia araba nei confronti della presenza ebraica. Cosa mi puoi dire in proposito?Prima di tutto la questione non ha nulla a che vedere con il genocidio o con una mentalità genocida. Nel peggiore dei casi alcuni leaders sionisti pensarono al trasferimento e certo non nei termini di massacri o di omicidi di massa e in fatti nulla del genere ha avuto luogo. Nel 1930, mentre l’antisemitismo aumentava in Europa c’era la necessità di un rifugio sicuro per gli ebrei. Gli Stati Uniti e l’Inghilterra  non volevano prenderli. Il desiderio degli ebrei era di venire in Palestina dove la sovranità ebraica era esistita per secoli e alcuni leaders tra cui Ben Gurion e  Chaim Weizmann ragionarono sul trasferimento di una parte della popolazione araba o di tutta la popolazione araba dall’area che sarebbe dovuta diventare lo stato ebraico. Ora, nel 1937, la Commissione Peel propose agli arabi una spartizione con la quale gli ebrei avrebbero acquisito il 17% della Palestina e gli arabi qualcosa come il 70%. Gli ebrei pensarono che era solo giusto, se dovevano prendere il 17%, che perlomeno fosse privo di arabi in modo da consentirgli di avere lo spazio sufficiente per assorbire gli ebrei perseguitati in arrivo dalla Germania. Questo è ciò che anche la commissione Peel ritenne giusto. Consigliò il trasferimento come prerequisito che accompagnava la soluzione dei due stati.
Alcuni ebrei respinsero l’idea del trasferimento in quanto pensavano che ci fosse qualcosa di immorale nell’idea di espellere parte della popolazione nativa, ma altri pensarono che la moralità di salvare centinaia di migliaia di vite ebraiche sopravanzasse l’immoralità di buttare fuori alcune centinaia di migliaia di arabi, duecentoventicinquemila arabi, dall’area che doveva diventare lo stato ebraico. Non dovevano andare da un’altra parte, sarebbero andati a vivere insieme alla loro gente e sarebbero stati compensati. Questa era l’idea, è ciò che consigliava la Commissione Peel ed era avallato da persone come Ben Gurion e Weizmann. Il governatorato britannico avallò l’idea ma poi la rinnegò, e nel 1949 consiglio che tutta la Palestina venisse messa sostanzialmente sotto sovranità araba.
Il trasferimento ebbe luogo nel 1947, 48 e 49, come conseguenza della Guerra. Gli arabi della Palestina e successivamente quelli degli stati circostanti attaccarono gli ebrei e l’emergente stato ebraico. Fu una guerra civile per la prima metà, durante la quale la popolazione era mischiata. L’unico modo di vincere per gli arabi era quello di espellere gli ebrei dalle zone che dovevano diventare arabe e per gli ebrei di espellere gli arabi dalle zone che dovevano diventare ebraiche. Gli ebrei furono più efficienti ed essenzialmente cacciarono gli arabi. Molti di loro fuggirono come conseguenza di ciò e gli ebrei fecero in modo che non tornassero. Alcuni vennero espulsi, alcuni vennero consigliati o venne ordinato loro dai loro capi di andarsene pensando che sarebbero tornati una volta che gli arabi avessero vinto la guerra. Non accadde e non tornarono.
Alcuni storici, diversamente da me, non pensano che quando Ben Gurion e  Chaim Weizmann parlassero di trasferimento negli anni Trenta fossero realmente intenzionati a portarlo avanti. Al contrario, io ritengo che considerassero seriamente la cosa ma che le autorità britanniche non volessero implementarla e gli ebrei, negli anni Trenta, non fossero in grado di farlo da soli, ma pensarono seriamente alla questione.
Ben Gurion
Ben Gurion
Nel novembre del 1947 quando venne proposta una partizione del paese ci sarebbero dovuti essere quattrocentomila arabi nello stato ebraico e appena più di cinquecentomila ebrei, e i leaders sionisti, tra cui Ben Gurion e Weizmann, accettarono la cosa, la presenza di una larga minoranza araba nello stato ebraico. Si potrebbe dire che non fossero sinceri, che non lo intendessero realmente, ma dissero di sì. Gli arabi dissero di no e iniziarono a sparare.
Quando ho intervistato lo studioso e politologo tedesco Matthias Kuntzel l’inverno scorso, ha sottolineato che già durante gli anni Trenta I Fratelli Musulmani e Haji Amin al Husseini avessero islamizzato la guerra contro il sionismo e gli ebrei. Sei d’accordo con lui che le radici più robuste del conflitto sono  quelle religiose?Non del tutto. Il conflitto accorpa elementi politici e di lotta nazionalista tra le due parti e anche elementi di conflitto religioso. In tempi diversi uno dei due prevale, ma certamente fin dall’inizio ci fu un largo elemento religioso nell’antagonismo arabo contro il sionismo e aumentò con Haji al Husseini. Era un ecclesiastico e capiva molto bene che per mobilizzare le masse arabe bisognava usare la religione, non la politica. All’epoca le masse non sapevano cosa fosse il nazionalismo ma comprendevano di cosa si trattava quando si parlava di Allah e dei luoghi santi. Al Husseini disse che gli ebrei volevano impossessarsi del Monte del Tempio, che volevano distruggere le moschee e questo venne accettato dalle masse arabe e li portò ad attacchi violenti contro la presenza ebraica e lo stato ebraico nascente. Nell’Islam c’è un profondo antagonismo nei confronti dell’ebraismo, ed è ancorato nel Corano, in quanto il giudaismo era una religione rivale quando Maometto iniziò a predicare e infatti distrusse alcune tribù ebree. La religione è ancora la base per il continuo antagonismo musulmano contro gli ebrei e i cristiani e una giustificazione per il jihad.
Oggi è abituale definire la presenza israeliana nella West Bank, “occupazione”, con tutto ciò che questa definizione comporta, tuttavia questa definizione è altamente controversa e apertamente contestata da Israele. In realtà i territori sono disputati. Qual è la tua posizione sulla questione?I territori sono sicuramente disputati, ma c’è anche una semi occupazione. Perché semi-occupazione? Perché alcune aree nella West Bank, specialmente quelle con una larga popolazione araba in qualche modo sono governate dall’Autorità Palestinese ma sono anche circondate da posti di blocco israeliani e contingenti militari, quindi c’è una specie di occupazione. Così, se i palestinesi vogliono andare in Giordania o volare negli Stati Uniti devono ottenere un permesso israeliano, se vogliono importare qualcosa le importazioni devono arrivare in Israele, se vogliono esportare qualcosa, anche in questo caso, ciò che viene esportato deve andare in Israele, se vogliono costruire in alcune zone devono ottenere dei permessi israeliani. Quindi è una semi-occupazione, è una occupazione inusuale. Israele non è lì ma controlla l’area circostante. La stessa cosa vale per la Striscia di Gaza. E’ completamente sotto il controllo di Hamas, ma Israele controlla lo spazio aereo, la costa marittima e alcune delle uscite dalla Striscia mentre l’Egitto controlla un’altra uscita al sud. Hamas governa all’interno, mette la gente in prigione, uccide gli oppositori, impone la legge religiosa, questo è vero, governano in qualche modo, sono sovrani in qualche modo, ma non completamente perché Israele li circonda e gli fornisce acqua ed elettricità. Fondamentalmente vivono prendendo da Israele.
In One state two states (n.d.r non tradotto in italiano) liquidi come completamente irrealistica l’idea di uno stato binazionale e scrivi che “L’idea dei due stati resta l’unica base morale e politica sensata per una soluzione che offra un minimo di giustizia e tracci una possibilità di pace per entrambi i popoli”. Fino a che punto i palestinesi desiderano realmente questa soluzione?Non credo che la vogliano. Come hanno fatto costantemente nel passato, anche oggi non vogliono una soluzione. Vogliono tutta la Palestina. Credono che gli appartenga in termini di giustizia. Dividere la terra con Israele, il quale ha il 78%, lo considerano completamente ingiusto e non sono disposti ad accettarlo. Fatah, il cosiddetto movimento secolare, finge di volere una soluzione binazionale, Hamas la rifiuta apertamente, Abu Mazen ondeggia qua e là, non è d’accordo su uno stato ebraico affianco a uno stato palestinese ma dice di sì, tuttavia, quando si arriva a negoziare certamente non firmerà nessun accordo, come non lo ha fatto Arafat e come lo stesso Abu Mazen non lo ha fatto nel 2008, quando gli venne offerto.
Diciamo che alla fine ci sia un accordo tra il governo israeliano e l’Autorità Palestinese. Quanto potrebbe essere preso seriamente un eventuale accordo a fronte della forte opposizione di Hamas il quale governa un milione e cinquecentomila arabi a Gaza?Hamas non solo governa un milione e cinquecentomila arabi a Gaza ma ha anche una profonda influenza nella West Bank e nei campi rifugiati in Libano, Siria e Giordania. Hamas gode di un sostegno molto forte. Non credo che nessun leader dell’Autorità Palestinese, Abbas o il suo successore, firmerà mai un accordo perché sarebbe un mandato di morte. Hamas lo ucciderebbe, Hamas sovvertirebbe l’accordo se dovesse firmarlo, ma non credo lo firmerà. Anche se lo facesse, come suggerisci, Hamas si rivolterebbe e molti palestinesi si inchinerebbero a Hamas perché sono stati educati e inculcati con l’idea che gli israeliani sono ladri e che la loro presenza in Israele sia illegittima, quindi non aderirebbero. Pensano che la storia sia dalla loro parte. Questo è un problema, poichè la storia per loro sono gli stati arabi circostanti, il  potere economico arabo, il potere politico arabo, il mondo musulmano, ecc.
Abu Mazen
Abu Mazen
Gli ebrei sono poco più di sei milioni in questo piccolo angolo del mondo dove ci sono centinaia di milioni di arabi, quindi gli arabi guardano alla cosa obbiettivamente e dicono, non può durare, si tratta di una anomalia. Quello che dobbiamo fare è non firmare alcun accordo ed eventualmente la demografia, il potere economico, il potere politico, decideranno il risultato e finirà come con i crociati che vennero cacciati nel dodicesimo secolo.
Sei d’accordo che la narrativa imperante secondo la quale i palestinesi sono vittime e gli ebrei sfruttatori e persecutori è una riformulazione del persistente paradigma antisemita?E’ un insieme di cose. Guarda, entrambi i popoli sono vittime. Gli ebrei sono vittime di duemila anni di persecuzione cristiana e di persecuzione musulmana e sono vittime degli attacchi arabi e del terrorismo palestinese. Gli arabi sono vittime nel senso che Israele ne ha cacciato una larga proporzione dalle loro case, ha occupato la terra e li ha fatti vivere sotto una forma di semi-occupazione dal 1967.
Gli ebrei al momento in Medioriente sono i più forti, ma se guardi la mappa e la realtà demografica, la realtà politica, gli ebrei, effettivamente sono gli sfavoriti in termini storici. Siamo più forti dei palestinesi ma il mondo arabo, che è attualmente frammentato, è potenzialmente molto più forte di noi.
Ho intitolato uno dei miei libri Vittime perché entrambi le parti sono vittime e affermano di esserlo, ma se si guarda alla cosa in una prospettiva storica gli ebrei sono le vittime maggiori anche se, in un senso immediato, anche i palestinesi sono vittime e hanno diritto di sentirsi tali. Tuttavia, la loro vittimizzazione è in larga misura autoprodotta perché gli venne offerto uno stato dalla Commissione Peel, dalle Nazioni Unite, da Israele e hanno sempre detto di no. Se avessero accettato non sarebbero vittime, avrebbero un loro stato, vero, non tutta la Palestina, ma avrebbero avuto una larga porzione o, come gli venne offerta successivamente, una porzione ridotta, ma in ogni caso uno stato. Sono vittime in parte perché hanno continuato a dire no.
In Occidente il pregiudizio contro Israele è molto forte. Molti lo considerano una vestigia del colonialismo e questa definizione si è venduta molto bene dagli anni Sessanta ad oggi. Cosa hai da dire a questo proposito?Il paradigma coloniale si riferisce a una madre patria imperialista che manda i propri figli in altre terre, le conquista e quindi sfrutta i nativi e le risorse naturali. Il sionismo fu il progetto di un popolo perseguitato in Europa, gli ebrei, che avevano bisogno di una patria e vennero qui e comprarono appezzamenti di terreno. Non conquistarono nulla, comprarono. Non erano agenti di un impero, pensavano di essere agenti al servizio del proprio popolo. E’ vero che l’Inghilterra, da principio li sostenne per un po’ e poi gli tolse il proprio appoggio ed è altrettanto vero che gli Stati Uniti li appoggiarono da un certo momento ma non furono mai agenti degli Stati Uniti come si può vedere dalla rivalità Obama/Netanyahu. E’ vero che in un certo qual modo Israele protegge alcuni interessi americani e interessi occidentali nella zona in quanto condividiamo gli stessi valori e così via. C’è qualcosa di coloniale nel sionismo nel senso che si trattò di un movimento europeo e si tratta dell’Europa che si muove verso una terra del terzo mondo e che gradualmente si estende su di essa. In questo senso c’è un elemento coloniale. Il sionismo ha creato quelli che chiamiamo moshavots (n.d.r. comunità agricola cooperativa) e gli insediamenti che si sono espansi progressivamente, da pochi a sempre di più. Quindi, ancora una volta, in tale ottica si tratta di un movimento coloniale, ma in nessun modo può essere paragonato al colonialismo occidentale.
Sei un realista al cubo. In quello che scrivi e dici non c’è mai un punto morbido. E’ troppo pessimista vedere il futuro di Israele come quello di una perenne fortezza nel Medioriente, o è invece il modo più valido di guardare in faccia la realtà?Credo che la realtà nel Medioriente, e ancora di più dopo il cosiddetto risveglio arabo, significa che Israele, per potere sopravvivere qui, e non sono sicuro che riuscirà a farlo, l’impero romano non è sopravvissuto, nessuno stato sopravvive per sempre, necessiti di essere una fortezza, necessiti di essere forte. Deve respingere gli attacchi arabi e l’antagonismo arabo e la malevolenza occidentale, che sta crescendo, come dici tu. Israele potrebbe comportarsi meglio in un certo senso, potrebbe fermare gli insediamenti, non ho mai appoggiato l’impresa degli insediamenti, mostrare all’Occidente di essere sincero nella sua volontà di pace. Ci sono azioni che il governo potrebbe fare. Per esempio, costruire un porto a Gaza che potrebbe essere monitorato internazionalmente e da Israele. Non sto dicendo che possa essere fatto, non sto dicendo che potrebbe funzionare. Il vero problema basilare non sono realmente i gesti di Israele o la politica ma è il rifiuto arabo.
In questo modo torniamo al punto principale.Sì, è così, ma è come stanno le cose.
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LA CENTOTTAVA STRADA
Estratto da "STRANIERA"
Di Sergej Dovlatov 

Nel nostro quartiere è accaduta questa storia. Marusja Tatarovic ha ceduto e si è
innamorata del sud-americano Rafael. Per due anni ha tentennato, ma poi ha fatto la
sua scelta. Seppure, a guardar bene, Marusja non avesse altro da scegliere.
Tutta la nostra via stava in ansia a vedere come si sarebbero evoluti gli eventi. Queste
cose, si sa, qui da noi si prendono sul serio.
Noi, significa sei edifici in mattoni intorno ad un supermercato, abitati quasi solo da
russi. Cioè, da ex-cittadini sovietici. Oppure, come scrivono i giornali, da emigranti
della «terza ondata».
Il nostro quartiere si estende dalla rete ferroviaria alla sinagoga. Un po’ più a nord, c’è
il Meadow lake, a sud il Queens Boulevard. E noi stiamo in mezzo.
La Centottava strada è la nostra arteria principale.
Noi abbiamo negozi, asili, fotografi e parrucchieri russi. C’è un’agenzia di viaggi
russa. Ci sono avvocati, scrittori, medici ed agenti immobiliari russi. Ci sono gangster
e matti russi, prostitute russe. C’è pure un suonatore cieco russo.
Gli abitanti del posto, li consideriamo stranieri. Se sentiamo parlare inglese, ci
mettiamo in guardia. In questi casi, chiediamo con insistenza:
-Parli russo!
Come risultato alcuni abitanti del posto si sono messi a parlare in russo. Il cinese della
tavola calda mi saluta:
-Buon giorno Solzenicyn! - (A lui vien fuori Soloseniza).
Per gli americani proviamo un sentimento complesso. Non so neanche cosa ci sia di
più, se indulgenza o devozione. Ci fanno pena, come dei bambini irragionevoli e
spensierati. Tuttavia, ogni tanto, ripetiamo:
-Mi ha detto un americano...
Pronunciamo questa frase con l’intonazione di un argomento decisivo e cruciale. Ad
esempio:
«Mi ha detto un americano che la nicotina fa male alla salute!...».
Gli americani del posto sono per lo più ebrei tedeschi. La terza emigrazione, salvo
rare eccezioni, è ebraica. Così è piuttosto facile trovare una lingua comune.
Spesso gli abitanti del posto chiedono:
-Lei viene dalla Russia? Parla yiddish?!...
Oltre agli ebrei, nel nostro quartiere vivono coreani, indiani, arabi. Di neri ce ne sono
relativamente pochi, di latino-americani di più.
A noi sembrano persone misteriose con i transistor (per noi è gente enigmatica, con i
suoi transistor, a noi sembrano marziani). Non sappiamo chi siano; comunque, per
ogni evenienza , li disprezziamo e ci fanno paura.
La strabica Frida, esprime il suo disappunto:
-Se ne andassero nella loro lercia Africa!...
E Frida stessa viene dalla città di Šklov. Vivere le piace di più a New York...
Se volete conoscere il nostro quartiere, mettetevi accanto alla cartoleria. Si trova
all’angolo della Centottava e della Sessantaquattresima. Veniteci il prima possibile.
Ecco che partono i nostri tassisti: Lëva Baranov, Percovic, Eselevskij. Sono tutti
robusti, accigliati, risoluti
Lëva Baranov ha più di sessant’anni . È un ex-pittore-molotovista. All'inizio della sua
carriera, dipingeva esclusivamente Molotov. I suoi lavori esponevano in numerosi
edifici amministrativi, poliambulatori, comitati di lavoro. Anche sui muri delle chiese
sconsacrate.
Baranov aveva studiato fin nei particolari l’aspetto di questo ministro dal viso di
operaio qualificato. Per scommessa disegnava Molotov in dieci secondi e, come se
non bastasse, lo disegnava anche ad occhi bendati.
Poi Molotov è stato destituito. Lëva ha tentato di disegnare Chrušcëv, ma era inutile: i lineamenti di un agiato contadino si sono rivelati al di sopra delle sue forze.
La stessa storia è accaduta con Breznev. La sua fisionomia da cantante d’opera a
Baranov proprio non riusciva. E così Lëva, dal dispiacere, è divenuto un astrattista. Si 
è messo a dipingere macchie, linee e ghirigori colorati. E inoltre si è messo a bere e
fare risse.
I vicini si lamentavano di Lëva con il commissario di quartiere:
-Beve, si azzuffa, fa cose tipo cinismo astratto...
In definitiva Lëva ha emigrato, si è messo al volante e si è calmato. Nei momenti di
tempo libero raffigura Reagan a cavallo.
Eselevskij a Kiev era professore di marxismo-leninismo. Discussa la tesi di dottorato,
si preparava a conseguire il post-dottorato.
Una volta, per caso, aveva conosciuto uno studioso bulgaro che lo aveva invitato ad
una conferenza a Sòfia. Solo che ad Eselevskij non hanno dato il visto. Si deve che
non volevano mandare all’estero un ebreo.
Per la prima volta in vita sua ad Eselevskij si è guastato l’umore. Ha detto:
-Ah! È così!? E allora me ne vado in America!
E se n' è andato.
In Occidente Eselevskij è stato definitivamente deluso dal marxismo. Ha cominciato a
pubblicare sulla stampa dell’emigrazione articoli biliosi. Poi però è stato deluso anche
dai giornalisti dell’emigrazione. Non gli restava altro che mettersi al volante...
Per quanto riuguarda Percovic, anche a Mosca faceva il tassista. Cosi la sua vita è
cambiata poco. Certo che si è messo a guadagnare molto di più. E anche il taxi qui
era suo.
Ecco che passa il proprietario del laboratorio fotografico, Evsej Rubincik. Nove anni
fa ha comprato la sua ditta, da allora sta pagando i debiti. I soldi che restano se ne
vanno nell’acquisto di nuova tecnologia.
Sono nove anni che Evsej mangia pastasciutta. Sono nove anni che trascina le sue
scarpe militari dalla suola in gomma fusa. È da nove anni che sua moglie sogna di
andare al cinema. È da nove anni che Evsej consola la moglie con l’idea che l’attività
resterà al figlio. Per quel momento i debiti saranno estinti. Ma poi - gli ricordo io -
comparirà una tecnologia ancora più nuova...
Ecco che corre a prendere il giornale del mattino il neo editore Fima Druker. A
Leningrado era considerato un famoso bibliofilo. Spariva per giornate intere al
mercato dei libri. Aveva messo insieme seimila esemplari rari e persino unici.
In America, Fima ha deciso di diventare editore. Non vedeva l’ora di restituire alla
letteratura russa i capolavori dimenticati: i versi di Olejnikov e Charms, la prosa di
Dobycin, Ageev, Komarovskij.
Druker è andato a fare le pulizie in un centro commerciale. Sua moglie è diventata
infermiera. In un anno sono riusciti a mettere da parte quattromila dollari.
Con questi soldi Fima ha affittato un ufficio accogliente. Si è fatto fare della carta
intestata color azzurrognolo, delle biro personalizzate e dei biglietti da visita. Ha
assunto una segretaria che, tra l’altro, era la nipote di Erenburg.
Ha chiamato la sua impresa «Il libro russo».
Druker ha fatto conoscenza con insigni letterati americani, Roman Jakobson,
Malmstad, Edward Brown. Se Roman Jakobson citava una poesia poco nota della
Cvetaeva, Fima si affrettava ad aggiungere:
-Almanacco «Mosty», millenovecentotrenta, pagina duecentosessantaquattro.
I filologi lo amavano per la sua erudizione e il suo disinteresse...
Fima frequentava simposi e conferenze. Conversava nei corridoi con Georges Nivat,
Ottenberg e Rannit. Era in corrispondenza con Vera Nabokova. Custodiva
gelosamente i telegrammi ricevuti da lei: «Mi oppongo decisamente». "Sono in totale
disaccordo». «Non ritengo le condizioni accettabili». Eccetera.
Si è fatto fare un timbro di gomma: «Efim G. Druker - editore», poi uno stemma, un
volume da cui spuntava una penna d’oca, e l’indirizzo. Con ciò i soldi sono finiti.
Druker si è rivolto a Michail Baryšnikov. Baryšnikov gli ha dato millecinquecento
dollari ed un buon consiglio: imparare a fare il massaggiatore. Druker ha trascurato il
consiglio ed è partito per una conferenza ad Amherst. Là ha conosciuto Weidlé e
Karlinskij. Li ha sorpresi per le sue conoscenze; ha ricordato ai due vecchi studiosi
una quantità di pubblicazioni di cui si erano scordati.
Sulla via del ritorno, Druker ha fatto un salto da Jurij Ivask. Ha trascorso una
settimana dal vecchio poeta, conversando di Vaginov e Dobycyn: in particolare su chi
dei due fosse omosessuale.
E di nuovo i soldi sono finiti.
Allora Fima ha venduto una parte della sua eccezionale biblioteca. Con i soldi
ricavati, ha ripubblicato l’opera di Feuchtwanger Süss l’ebreo. Era una strana scelta
per una casa editrice dal nome «Il libro russo». Fima supponeva che la tematica
ebraica avrebbe suscitato l’interesse dei nostri emigranti.
Il libro è uscito con un solo errore di stampa. Sulla copertina era scritto
FEUCHTWAGNER. Si vendeva male. In patria non c’era libertà, ma c’erano i lettori.
Qui di liberta ce n'era tanta, ma i lettori mancavano. Nel frattempo la moglie di
Druker ha chiesto il divorzio. Fima si `e sistemato nel suo ufficio. Il locale era pieno
di casse con Süss l’ebreo. Fima dormiva su queste casse. Ha regalato Süss l’ebreo a
numerosi amici. Con i libri ha saldato i debiti con la nipote di Erenburg. Ha tentato di
scambiarli con salame al negozio russo.
La cosa sorprendente è che tutti, tranne la moglie, lo amavano...