mercoledì 6 dicembre 2017


M5s, tra populismo e giustizialismo 
Dino Cofrancesco  Il Foglio 6/12/2017
Nella sua prima stagione, il Movimento 5 stelle venne salutato dalle frange di una sinistra, che pensava, con nostalgia, alla esaltante contestazione degli “anni formidabili”, come l’alba di un nuovo giorno, dopo tanti anni di “dittatura” berlusconiana e di gioco in difesa attuato da quanti sembravano voler dimenticare le grandi battaglie repubblicane e antifasciste – dalla Resistenza al ’68. Grillo e i suoi avevano atteggiamenti rozzi e ineducati ma erano le forze fresche capaci di rianimare un sistema politico asfittico, in perenne attesa di grandi “riforme di struttura” alle quali nessuno pareva credere più. Un ceto politico stanco e inascoltato, ormai privo di seguito elettorale e sostanzialmente estraneo alla sua tradizionale base sociale – i quartieri popolari cominciavano a votare a destra – ritrovava nei nuovi “barbari” la vitalità perduta. Si rinnovava la vecchia illusione azionista della divisione del lavoro tra il “braccio” e la “mente”: i partiti e i sindacati di sinistra avrebbero provveduto alle quadrate legioni proletarie e gli eredi di Piero Gobetti e di Carlo Rosselli avrebbero fornito i capi, le guide morali e intellettuali della Nuova Italia. Perché sia ieri che oggi gli interlocutori – i molti – avrebbero dovuto accettare il ruolo modesto del”servir messa”, lasciando agli altri – i pochi – il compito di officiarla, resta inspiegabile e, infatti, in entrambi i casi, il progetto andò a monte.
Almeno fino al 2014, però, il feeling tra grillini e sinistra (non liberale) era così forte da indurre molti osservatori, che ricordavano bene i climi che prepararono gli anni di piombo, a vedere nel M5s – fondato nel 2009, soprattutto su iniziativa di Gianroberto Casaleggio – una sorta di costola plebea del ’68. Plebea sia perché sostanzialmente priva di “ideologia” – ovvero di “testi sacri”, di tradizioni intellettuali, di “scuole di pensiero” – sia perché sempre rivolta alla “pancia” della gente e (a parole) disposta ad assecondarne le insofferenze e persino i pregiudizi iscritti nel vecchio repertorio qualunquistico, evergreen nel nostro paese. Con due non poco significative innovazioni, però: l’enfasi posta sulla rete come strumento di democrazia diretta e un radicalismo verde, che nell’ultimo scritto di Casaleggio, Veni Vidi Web (Prefazione di Fedez, Edizioni Adagio) si sposava a tematiche animaliste ispirate a fondamentalismo etico (abolizione della corrida, chiusura dei macelli etc.).
In un’ironica recensione sull’Unità del 22 dicembre 2015, Fabrizio Rondolino – esponente di un’altra sinistra, quella renziana, da tempo riconciliatasi col mercato e coi valori della società aperta – così riassumeva, l’utopia pentastellata: “Nel lager di Casaleggio, oltre ai taglialegna e ai macellai se la vedono brutta in molti: i cacciatori “sono lasciati nudi nei boschi e braccati da personale specializzato con pallettoni di sale grezzo dall’alba al tramonto”, gli avvocati verranno ridotti “a un decimo” (ma, guarda caso, non i pubblici ministeri), “gli ipermercati sono rasi al suolo ovunque”, “le statue di Garibaldi sono state sostituite da statue di Gandhi” (e le altre?), chi inquina “è condannato alla raccolta differenziata a vita nel proprio Comune” (sperando che non sia amministrato, come Livorno, dal M5s), “corrotti e corruttori sono esposti in apposite gabbie sulle circonvallazioni delle città nei week end” (ma non è specificato che cosa faranno nei giorni feriali), chi possiede beni “mobili e immobili per un valore superiore a cinque milioni” deve restituire l’eccedenza, altrimenti sarà “rieducato alla comprensione della vita in appositi centri yoga”. In questo mondo sgangherato e feroce il mercato è stato abolito: la parola sarà tollerata “solo per il mercato rionale”. Al resto ci pensa lo stato, o qualcosa del genere: reddito di cittadinanza universale come “diritto di nascita”, assistenza comunale ai mendicanti, vietata “la speculazione sugli immobili” (e qui non sappiamo dire se Casaleggio ignori l’esistenza della finanza, dove la “speculazione” è assai più feroce e redditizia, o se al contrario sia un accanito speculatore che vuol farla franca), telelavoro “diffuso ovunque” (anche se non è ben chiaro chi mai abbia voglia di faticare, visto che, se non sta in qualche campo di rieducazione yoga o nudo nei boschi, gode felicemente del reddito di cittadinanza) e “lavori pesanti fatti dai robot”. Quali lavori? “La più grande impresa del mondo – annuncia il supremo legislatore – produce biciclette e monopattini”. I pattini a rotelle invece a prezzo pieno? Ma, attenzione, non è una multinazionale, perché queste “sono state dichiarate illegali in tutto il mondo e quindi sciolte”.
Si tratta di aspetti dottrinari che non vanno presi troppo sul serio giacché l’identità di un partito – o di un movimento – non è definita dalla sua “filosofia”, o meglio dalla sua “visione del mondo”, né dal programma elettorale ma dalle battaglie, espresse in gesti simbolici, con le quali si identifica agli occhi di seguaci ed elettori. L’elettore comunista o l’elettore democristiano, in genere avevano solo un vago sentore del marxismo o delle dottrine sociali della chiesa e quasi mai, nel periodo elettorale, si prendevano la briga di leggersi il programma del partito, che restava chiuso negli armadi delle Federazioni.. A motivarlo erano gli obiettivi concreti – e spesso drammatizzati – che gli venivano presentati e che spesso non avevano tanto a che fare con gli interessi quanto con i valori: la diga contro il comunismo! L’arresto del clerico-fascismo etc.
A far adottare alla sinistra una strategia dell’attenzione nei confronti dei pentastellati erano cose come la partecipazione intesa come la quintessenza di una citizenship, fondata sulla dignità e sul rispetto dei diritti di tutti, con la connessa riprovazione morale per gli assenti e gli astenuti che se ne stanno alla finestra, pronti a beneficiare delle conquiste civili ottenute dagli altri (“La libertà / non è star sopra un albero / non è neanche avere un’opinione / la libertà non è uno spazio libero / libertà è partecipazione”, cantava Giorgio Gaber nel 1972.); la democrazia diretta, vista come liquidazione dei vecchi partiti e dei loro “buoni” uffici di mediazione sempre più costosi per i cittadini e sempre meno utili (per non dir altro);la disponibilità a scendere in piazza, “a metterci la faccia”, a gridare ad alta voce, come Howard Beale – il protagonista di “Quinto Potere” (1976) di Sidney Lumet, impersonato da un grande Peter Finch – la propria rabbia contro i padroni del pensiero, della politica, dell’economia. Per una sinistra già prima del secondo ’89 smarrita culturalmente e abbandonata dalla sua base sociale, era il classico richiamo della foresta.
Dario Fo, Moni Ovadia, don Andrea Gallo etc., grazie a Grillo, avevano ritrovato la loro giovinezza. Valga per tutti il peana di Monia Ovadia nel 2011 “quello che ha fatto il Movimento di Beppe Grillo e lui personalmente è un servizio straordinario a questo paese, perché ha avuto la forza, il coraggio e la perseveranza di denunciare e di smascherare vergogne senza nome, senza di lui, senza il Movimento che si è costruito intorno alla sua figura, ma che poi ha una sua dignità e autonomia noi molte cose non avremmo potuto saperle e non avremmo potuto avere quel cuneo che questo Movimento rappresenta per non permettere e anche per impedire ai politici di sedersi sui loro vizi”. E le citazioni potrebbero continuare per intere pagine.
Col passare degli anni, però, il M5s, che in questo ricorda la parabola del fascismo che metteva la sordina a vari punti del programma sansepolcrista via via che si avvicinava al potere, sembra aver attenuato il suo sinistrismo aggressivo sì da provocare la delusione cocente di simpatizzanti come Paolo Flores d’Arcais (Il Movimento 5 stelle non è più votabile, La Repubblica del 18 marzo 2017), il disgusto di Gad Lerner, colpito dall’antisemitismo di Grillo, e il deciso raffreddamento del Fatto quotidiano – compensato solo dall’apertura di credito del Manifesto che ancora l’11 giugno 2016, pubblicava un articolo di Guido Liguori, stimato studioso di Antonio Gramsci, dal titolo Perché si può votare 5 stelle.
E’ innegabile, tuttavia, che il Movimento, nonostante la piattaforma Rousseau, dichiari superata la distinzione destra/sinistra, incurante di quanto scriveva Maurice Duverger: se qualcuno mi dice che non ha più senso parlare di destra e sinistra, non ho dubbi, è uno di destra.
Del resto, se si esaminano le caratteristiche che inducono uno dei più seri studiosi del populismo in Italia, Marco Tarchi, a definire populista il grillismo (v. il saggio Dieci anni dopo, in Quaderno di Sociologia, n.65, 2014), la sinistrizzazione del M5s qui sostenuta, potrebbe ingenerare più di un dubbio. Le elenco in ordine sparso: “il popolo, come insieme dei cittadini, è il depositario di tutte le virtù che l’odierna classe dirigente nega o trascura”; “ostilità verso l’invadenza dello stati nella vita della gente comune”; “denuncia della ‘truffa’ implicita nel meccanismo della rappresentanza, accusato di escludere i non addetti ai lavori dalla gestione della cosa pubblica e dunque di annullare il fondamento della democrazia”; “invocazione di una politica estera isolazionista che tuteli invia esclusiva dli interessi del paese”; polemiche contro le istituzioni transnazionali e diffidenza nei confronti dell’Unione Europea; rifiuto della lotta di classe e “ruolo positivo del ceto medio, spina dorsale dell’unità nazionale”: le piccole e medie imprese etc.; “richiami alla tradizione popolare” ed “esaltazione delle radici italiane” che spiega la preferenza per lo ius sanguinis rispetto allo ius soli; “messa in guardia contro le ricadute di un’eccessiva apertura dei confini ai flussi migratori. Sfiducia negli intellettuali; estraneità del capo alla politica. “Anche l’esaltazione delle virtù della rete telematica può rientrare nella sfera populista”, conclude Tarchi.
Il politologo fiorentino ha ragione – a parte l’esaltazione delle “radici italiane” smentita clamorosamente dal sostegno pentastellato alla commemorazione delle vittime meridionali degli invasori piemontesi – sennonché resta poi da spiegare il motivo per cui alle elezioni presidenziali del 2013 e del 2015, tra i votati del Movimento, non si sia trovato una sola figura di politico, di professionista, di giurista di area moderata: da Stefano Rodotà a Ferdinando Imposimato, da P. L. Bersani a Gustavo Zagrebelsky, le preferenze non sono andate neppure per sbaglio a qualche esponente vicino al riformismo renziano. Per non parlare delle questioni bioetiche in cui i grillini si ritrovano sempre regolarmente vicino alle componenti più laiciste delle due Camere (a parte l’ambiguità sui vaccini).
Sennonché lo spirito eversivo del grillismo potrebbe ancora venir messo in dubbio se il suo populismo non avesse un aspetto inquietante, sommamente inquietante, che fa del caso italiano un caso a sé, sul quale i maggiori esperti del fenomeno non hanno, a mio avviso, riflettuto abbastanza – o a essere più precisi, non hanno riflettuto affatto. Si tratta di quella che Indro Montanelli chiamava una rivoluzione all’italiana, ovvero la rivoluzione fatta col consenso dell’Arma dei Carabinieri. Nel caso dei pentastellati, la ribellione all’ordine politico esistente può contare sul sostegno di una parte consistente della Magistratura, dagli Antonio Ingroia, ai Nino di Matteo, dai Ferdinando Imposimato ai Piercamillo Davigo. Il grillismo è divenuto il braccio armato del giustizialismo e ,al pari di questo rappresenta una minaccia mortale per la civiltà liberale, che è civiltà di forme e non di contenuti, che incorona il vincitore della competizione elettorale svolta secondo le regole, anche se il vinto è qualitativamente superiore.
A disposizione del Giudice Inquisitore i Cinque stelle mettono un corpo armato di sbirri pronti ad accatastare le legna e ad accendere i roghi. Un caso classico di affinità elettive. Il movimento che ha nel “governo ladro” la forma più incurabile della sua paranoia trova la sponda di giudici, come Piercamillo Davigo, che dichiarano “non mi occupo di politica ma di politici quando rubano”. La colpa per eccellenza, quella che non si perdona , è il furto: il magistrato non dice che suo compito è perseguire i reati – dall’abuso di potere alla violenza fisica – no, la sua missione è snidare i ladri, ad esempio quelli che evadono il fisco, non volendo dare allo stato la metà delle loro (talora modeste) entrate.
Naturalmente credo anch’io che quanti rubano vadano severamente puniti ma, in una società enormemente complessa come la nostra, credo pure che comportamenti leciti e comportamenti illeciti non siano facilmente separabili come le biglie bianche e nere deposte nell’urna elettorale. La pretesa di giudici e politici di poter riconoscere, al di là di ogni ragionevole dubbio, i criminali dalle persone perbene fa correre un brivido sotto la schiena specie quando si vedono certi politici e certi imprenditori, oggettivamente discutibili, oggetto di vere e proprie persecuzioni giudiziarie laddove i loro avversari sono intoccabili e santificati proprio perché loro avversari.
La rabbia incomposta dei grillini nei confronti degli esponenti del centrodestra, l’assoluta mancanza di fair play dimostrata dopo la proclamazione dei risultati elettorali in Sicilia, quando il candidato sconfitto si è rifiutato di telefonare al vincitore per non contaminarsi, l’appoggio incondizionato dato a Pietro Grasso che non aveva ritenuto opportuno lo scrutinio segreto per l’espulsione di Berlusconi dal Senato (contravvenendo a una precisa disposizione del Regolamento del Senato), il verso fatto al livido Travaglio ogni volta che si parla del Cavaliere (il “pregiudicato”) sono episodi simbolici che dovrebbero far paura. Gli Incorruttibili (che poi sono dei Tartufi mascherati da Saint-Just) terrorizzano più dei “corrotti” giacché corrotti essendo un po’ tutti, quanti pensano di non esserlo sono clonazioni di Dorian Gray che hanno nascosto in chissà quale armadio il loro repellente ritratto.