Mia mamma diceva, quando il chiasso vociante era al massimo in casa: "ma basta insoma" in dialetto mantovano.
martedì 30 novembre 2021
LA MORTE DELL'IMPIEGATO Estratto da: "Racconti" Anton Pavlovic Čechov
domenica 28 novembre 2021
INTRODUZIONE ALLA VERITÀ Franca D'Agostini
QUALE REALTÀ?
Estratto da "INTRODUZIONE ALLA VERITÀ" Franca D'Agostini
Nel suo libro Introduzione alla verità (Bollati Boringhieri, Torino 2011) FRANCA D'AGOSTINI invita i filosofi contemporanei a tornare a pronunciarsi sulla realtà, perché la rinuncia a farlo non è stata la scomparsa della metafisica, bensì “la persistenza ostinata e implicita di una sua versione antica, settecentesca. “È chiaro che non ci intendiamo: usiamo ‘fatto’ in modi diversi. Più precisamente: io uso ‘fatto’ in modo mobile e leggero, per riferirmi a una qualsiasi occorrenza, evento, o azione e situazione. Nietzsche usa ‘fatto’ in modo molto pesante, presumibilmente per riferirsi a fattualità dure, nude e crude. Ma attenzione: io non ho preso nessuna decisione riguardo a come sono fatti i fatti: potrebbero essere interpretazioni o sciami di microparticelle, oggetti del senso comune o astrazioni. Invece si direbbe che Nietzsche abbia già preso questa decisione (se no non direbbe che ‘non esistono’) Visibilmente, Nietzsche usa qui una metafisica (una concezione della realtà) molto restrittiva, ed è nella luce di questa metafisica che preferisce i fatti-interpretazioni ai fatti-fatti. [...] occorre una metafisica per sbarazzarsi della metafisica [...] la ‘rinuncia’ alla metafisica è in verità l’adesione a una metafisica dogmatica, non problematizzata. E più propriamente [...] questa metafisica non problematizzata è [...] un kantismo interpretato in senso iperempirista, con relativo svilimento del realismo, e potenziale deriva costruzionista”.
sabato 27 novembre 2021
Imparare a pensare Estratto da “Questa è l’acqua” David Foster Wallace
Imparare a pensare
Quello che ancora non sapete è quanto sia alta la posta in gioco. Sono passati vent’anni da quando mi sono laureato e nel frattempo ho capito poco alla volta che il cliché secondo il quale le scienze umanistiche «insegnano a pensare» in realtà sintetizza una verità molto profonda e importante. «Imparare a pensare» di fatto significa imparare a esercitare un certo controllo su come e su cosa pensare. Significa avere quel minimo di consapevolezza che permette di scegliere a cosa prestare attenzione e di scegliere come attribuire un significato all’esperienza. Perché se non sapete o non volete esercitare questo tipo di scelta nella vita da adulti, siete fregati. Un vecchio cliché vuole che la mente sia un ottimo servo ma un pessimo padrone. Questo, come molti altri cliché in apparenza fiacchi e banali, in realtà esprime una grande, terribile verità. Non è certo un caso che gli adulti che si suicidano con armi da fuoco si sparino quasi sempre… alla testa. E la verità è che erano quasi tutti già morti da un pezzo quando hanno premuto il grilletto. E date retta a me, il valore reale e schietto della vostra cultura umanistica dovrebbe essere proprio questo: impedirvi di trascorrere la vostra comoda, agiata, rispettabile vita da adulti come morti, inconsapevoli, schiavi della vostra testa e della vostra naturale modalità predefinita che vi impone una solitudine unica, completa e imperiale giorno dopo giorno.
Potrà sembrare un’iperbole, o un’astrazione priva di senso. Perciò mettiamola sul piano pratico. Il fatto è che voi laureandi non avete ancora ben chiaro cosa significhi realmente «giorno dopo giorno».
Ci sono interi aspetti della vita americana da adulti che vengono bellamente ignorati da chi tiene discorsi come questo. I genitori e le persone di una certa età qui presenti sanno benissimo a cosa mi riferisco. Mettiamo, per dire, che sia una normale giornata nella vostra vita da adulti: la mattina vi alzate, andate al vostro impegnativo lavoro impiegatizio da laureati, sgobbate per nove o dieci ore e alla fine della giornata siete stanchi, siete stressati e volete solo tornare a casa, fare una bella cenetta, magari rilassarvi un paio d’ore e poi andare a letto presto perché il giorno dopo dovete alzarvi e ripartire daccapo. Ma a quel punto vi ricordate che a casa non c’è niente da mangiare – questa settimana il vostro lavoro impegnativo vi ha impedito di fare la spesa – e così dopo il lavoro vi tocca prendere la macchina e andare al supermercato. A quell’ora escono tutti dal lavoro, c’è un traffico mostruoso e il tragitto richiede molto più del necessario e, quando finalmente arrivate, scoprite che il supermercato è strapieno di gente perché a quell’ora tutti gli altri che come voi lavorano cercano di ficcarsi nei negozi di alimentari, e il supermercato è orribile, illuminato al neon e pervaso da quelle musichette e canzoncine capaci solo di abbrutire, e voi dareste qualsiasi cosa pernon essere lì, ma non potete limitarvi a entrare e uscire; vi tocca girare tutti i reparti enormi, iperilluminati e caotici per trovare quello che vi serve, manovrare il carrello scassato in mezzo a tutte le altre persone stanche e trafelate col carrello, e ovviamente ci sono i vecchi di una lentezza glaciale, gli strafatti e i bambini iperattivi che bloccano la corsia e a voi tocca stringere i denti e sforzarvi di chiedere permesso in tono gentile ma poi, quando finalmente avete tutto l’occorrente per la cena, scoprite che non ci sono abbastanza casse aperte anche se è l’ora di punta, e dovete fare una fila chilometrica, il che è assurdo e vi manda in bestia, ma non potete prendervela con la cassiera isterica, oberata com’è quotidianamente da un lavoro così noioso e insensato che tutti noi qui riuniti in questa prestigiosa università nemmeno ce lo immaginiamo… fatto sta che finalmente arriva il vostro turno alla cassa, pagate il vostro cibo, aspettate che una macchinetta autentichi il vostro assegno o la vostra carta di credito e vi sentite augurare «buona giornata» con una voce che è esattamente la voce della morte, dopodiché mettete quelle raccapriccianti buste di plastica sottilissima nell’esasperante carrello dalla ruota impazzita che tira a sinistra, attraversate tutto il parcheggio intasato, pieno di buche e di rifiuti, e cercate di caricare la spesa in macchina in modo che non esca dalle buste rotolando per tutto il bagagliaio lungo il tragitto, in mezzo al traffico lento, congestionato, strapieno di Suv dell’ora di punta, eccetera, eccetera. Ci siamo passati tutti, certo: ma non rientra ancora nella routine di voi laureati, giorno dopo settimana dopo mese dopo anno. però finirà col rientrarci, insieme a tante altre squallide, fastidiose routine apparentemente inutili…
Ma non è questo il punto. Il punto è che la scelta entra in gioco proprio nelle boiate frustranti e di poco conto come questa. Perché il traffico congestionato, i reparti affollati e le lunghe file alla cassa mi danno il tempo per pensare, e se non decido consapevolmente come pensare e a cosa prestare attenzione, sarò incazzato e giù di corda ogni volta che mi tocca fare la spesa, perché la mia modalità predefinita naturale dà per scontato che situazioni come questa contemplino davvero esclusivamente me. La mia fame, la mia stanchezza, il mio desiderio di tornare a casa, e avrò la netta impressione che tutti gli altri mi intralcino. E chi sono tutti questi che mi intralciano? Guardali là, fanno quasi tutti schifo mentre se ne stanno in fila alla cassa come tanti stupidi pecoroni con l’occhio smorto e niente di umano; e che odiosi poi quei cafoni che parlano forte al cellulare in mezzo alla fila. Certo che è proprio un’ingiustizia: ho sgobbato tutto il santo giorno, muoio di fame, sono stanco e non posso nemmeno andare a casa a mangiare un boccone e a distendermi un po’ per colpa di tutte queste stupide, stramaledette persone. Oppure, se gli studi umanistici fanno propendere la mia modalità predefinita verso una maggiore coscienza sociale, posso trascorrere il tempo imbottigliato neltraffico di fine giornata a inorridire per tutti gli enormi, stupidi Suv, Hummer e pickup con motore da 12 valvole che bloccano la corsia bruciando tutti e centottanta i litri di benzina che hanno in quei loro serbatoi spreconi e egoisti, posso riflettere sul fatto che gli adesivi patriottici o religiosi sembrano sempre appiccicati sui veicoli più grossi e schifosamente egoisti, guidati dagli autisti più osceni, spericolati e aggressivi, che di norma parlano al cellulare mentre ti tagliano la strada per guadagnare sei stupidi metri nel traffico congestionato, e posso pensare che i figli dei nostri figli ci disprezzeranno per aver sperperato tutto il carburante del futuro, mandando in malora il clima, e a quanto siamo viziati, stupidi, egoisti e ripugnanti, e a come fa tutto veramente schifo e chi più ne ha più ne metta…
Guardate che se scegliete di pensarla così non c’è niente di male, lo facciamo in tanti, solo che pensarla così diventa talmente facile e automatico che non richiede una scelta. Pensarla così è la mia modalità predefinita naturale. È il modo automatico e inconsapevole di affrontare le parti noiose, frustranti e caotiche della mia vita da adulto quando agisco in base alla convinzione automatica e inconsapevole che sono io il centro del mondo, e che sono le mie sensazioni e i miei bisogni immediati a stabilire l’ordine di importanza delle cose. Il fatto è che in frangenti come questo si può pensare in tanti modi diversi. Nel traffico, con tutti i veicoli che mi si piazzano davanti e mi intralciano, non è da escludere che a bordo dei Suv ci sia qualcuno che in passato ha avuto uno spaventoso incidente e ora ha un tale terrore di guidare che il suo analista gli ha ordinato di farsi un Suv mastodontico per sentirsi più sicuro alla guida; o che al volante dell’Hummer che mi ha appena tagliato la strada ci sia un padre che cerca di portare di corsa in ospedale il figlioletto ferito o malato che gli siede accanto, e la sua fretta è maggiore e più legittima della mia: anzi, sono io a intralciarlo. Oppure posso scegliere di prendere mio malgrado in considerazione l’eventualità che tutti gli altri in fila alla cassa del supermercato siano annoiati e frustrati almeno quanto me, e che qualcuno magari abbia una vita nel complesso più difficile, tediosa e sofferta della mia. Vi prego ancora una volta di non pensare che voglia darvi dei consigli morali, o che vi stia dicendo che «dovreste» pensarla così, o che qualcuno si aspetta che lo facciate automaticamente, perché è difficile, richiede forza di volontà e impegno mentale e, se siete come me, certi giorni non ci riuscirete proprio, o semplicemente non ne avrete nessuna voglia. Ma quasi tutti gli altri giorni, se siete abbastanza consapevoli da offrirvi una scelta, potrete scegliere di guardare in modo diverso quella signora grassa con l’occhio smorto e il trucco pesante in fila alla cassa che ha appena sgridato il figlio: forse non è sempre così; forse è stata sveglia tre notti di seguito a stringere la mano al marito che sta morendo di cancro alle ossa. O forse è quella stessa impiegata assunta alla Motorizzazione col minimo salariale che soltanto ieri ha aiutato vostra moglie a risolvere un problema burocratico da incubo facendole una piccola gentilezza di ordine amministrativo. Non è molto verosimile, d’accordo, ma non è nemmeno da escludere: dipende solo da cosa volete prendere in considerazione. Se siete automaticamente certi di sapere cosa sia la realtà e chi e che cosa siano davvero importanti – se volete operare in modalità predefinita – allora anche voi, come me, probabilmente trascurerete tutte le eventualità che non siano inutili o fastidiose. Ma se avrete davvero imparato a prestare attenzione, allora saprete che le alternative non mancano. Avrete davvero la facoltà di affrontare una situazione caotica, chiassosa, lenta, iperconsumistica, trovandola non solo significativa ma sacra, incendiata dalla stessa forza che ha acceso le stelle: compassione, amore, l’unità sottesa a tutte le cose. Misticherie non necessariamente vere. L’unica cosa Vera con la V maiuscola è che riuscirete a decidere come cercare di vederla. Questa, a mio avviso, è la libertà che viene dalla vera cultura, dall’aver imparato a non essere disadattati; riuscire a decidere consapevolmente che cosa importa e che cosa no. Riuscire a decidere che cosa venerare…
Einaudi, 2009
David Foster Wallace
di Don DeLillo*
L’infinito. Questo l’argomento del libro di David Foster Wallace sulla matematica, la filosofia e la storia di un concetto vasto, bellissimo, astratto. Nel libro ci sono riferimenti alla dicotomia di Zenone e alla congettura di Goldbach, al principio di massimalità di Hausdorff. A fare da arioso contrappunto c’è il canto piano di Dave: Allora OK e una cosa tipo e non scherzoe roba del genere.
La sua opera tende ovunque a conciliare ciò che è difficile e consequenziale con un fraseggio che è giovanile, spontaneo e spesso spiritoso, contrassegnato qua e là da qualche piccola curiosa intromissione dal gergo di strada.
«La sua fotografia ha un sapore amaro per me».
«Un imbarazzo quasi talmudico».
«Il piccolissimo buco della serratura di se stesso».
Persiste una vitalità, un vigore sbigottito di fronte alla complessa umanità che troviamo nella sua narrativa, alla perdita e all’inquietudine, all’offuscarsi della mente, alla mancanza di fiducia in se stessi. Ci sono frasi che sparano raggi di energia in sette direzioni. Ci sono racconti che seguono il tortuoso senso di isolamento di un personaggio.
Tutto, e di piú. Questo il titolo del suo libro sull’infinito. Potrebbe essere anche la descrizione del romanzo Infinite Jest, una serissima beffa sulle forme di dipendenza dell’umanità. Possiamo immaginare i suoi testi narrativi e i suoi saggi come stralci di rotoli da un lontano futuro. L’opera la conosciamo già come notizia di prima mano: dallo scrittore al lettore, intimamente, ossessivamente. Lui non ha incanalato le sue doti entro schemi piú angusti. Voleva reggere l’urto della vasta, farneticante, ingovernabile onda della cultura contemporanea.
Ora lo conosciamo come uno scrittore coraggioso in lotta contro la forza che voleva indurlo a rinunciare a se stesso. A distanza di anni sentiremo ancora il gelo che ha accompagnato la notizia della sua morte. Uno dei suoi racconti recenti si conclude con la perentorietà di questa mezza frase: Non una parola di piú.
Ma c’è sempre una parola di piú. C’è sempre un lettore di piú a rigenerare quelle parole. Le parole non smetteranno di pervenirci. Giovinezza e perdita. Questa è la voce di David, americana.
DON DE LILLO
3 novembre 2008.
* Versione rivista dall’autore del discorso tenuto per il Memorial, New York, 23 ottobre 2008.
QUESTA È L'ACQUA
Solomon Silverfish
Solomon
Alle 2:30 del mattino, a letto, Solomon Silverfish, sassone segreto, celta teorico, aveva due notizie per Ira Schoenweiss, all’altro capo del filo. La prima era che a sentire le vicende di quella notte il culo troppo-stupido-e-ciccione-anche-solo-per-commentare-quanto-fosse-stupido-e-ciccione di Ira Schoenweiss era ancora il culo di Ira Schoenweiss solo perché stava dentro una grossa imbracatura giudiziaria che glielo teneva attaccato al corpo. La seconda era che se Silverfish non sbagliava quello era il terzo e peggiore arresto per guida in stato di ebbrezza in due anni, e che si credeva, che Silverfish era un superman? Che faceva miracoli giudiziari? La notizia premio per Ira era che se Ira non teneva la bocca chiusa e questo significava cucita, specie con Zero Kretzman, fino all’arrivo di Silverfish, Silverfish avrebbe ridotto Ira a un colabrodo con le sue mani, risolvendo cosí i problemi di tutti. Solomon disse che Ira lo conosceva troppo bene per non sapere che dicendo che l’avrebbe ridotto a un colabrodo non scherzava. Ira Schoenweiss si disse a un passo dalle lacrime tanto gli dispiaceva dover coinvolgere Silverfish in quella faccenda. Silverfish gli disse di non muoversi, che l’avrebbe raggiunto cosí in fretta da non trovare nemmeno un attimo per vestirsi o mandare giú un boccone. Schoenweiss disse che stava per mettersi a piangere. Silverfish gli disse di non preoccuparsi e di non piangere, non era proprio il caso, poi riattaccò il telefono che teneva sul comodino.
Silverfish si sedette sul letto schiaffeggiando varie volte l’aria a mani aperte, prese a saltellare con il sedere sul materasso per la rabbia, il fastidio e la scocciatura in senso lato. I saltelli servivano anche a far scivolare i pantaloni del pigiama alle caviglie perché Dio non voglia che uno si presenti al Quarantesimo Distretto di Polizia per affrontare Kretzman su una vicenda del genere con i pantaloni del pigiama.
E attraverso le tende bianco diafano della camera da letto di Silverfish, alla vampa color zucca del lampione al sodio giú in strada, si scorgeva la linea drittissima di Sophie Schoenweiss Silverfish che, girata su un fianco, saltellava leggermente anche lei, per effetto dei saltelli di Solomon. Aveva l’ago di una flebo fissato al polso, un tubicino che conduceva alla piantana sul suo lato del letto, una boccia di vetro piena di glucosio, analgesico e antimetabolico, trasparente consommé ora acceso di arancione sporco nella boccia e nel tubicino alla luce filtrata dalle tende diafane della camera da letto e proveniente dal lampione al sodio giú nella strada molto tranquilla e altrettanto rispettabile dove i Silverfish abitavano a Skokie, una certa zona di Chicago. Silverfish, i pantaloni del pigiama ancora ai piedi, guardò per un istante, forse due, l’attutita luce arancione che scendeva goccia a goccia dentro Sophie. Dall’estremità della linea del suo profilo, dal suo cuscino, dove cadeva piú luce, giunse la voce di Sophie.
– È Ira, vero, che chiama a quest’ora? – Silverfish si alzò dal letto con soltanto la giacca del pigiama. Sophie non aveva dormito, si capiva dalla voce. Silverfish scrollò una pila di vestiti su una sedia riconoscendo i pantaloni del giorno prima dal peso nelle tasche. I boxer per fortuna erano ancora dentro i pantaloni. Annusò i boxer che fecero da filtro alla sua voce. – È proprio quell’Ira-sono-un-artista-troppo-importante-e-sensibile-e-neanche-a-dirlo-intellettuale-per-rispettare-le-regole-elementari-del-vivere-civile-che-tutti-dobbiamo-rispettare-e-invece-me-ne-vado-sbevazzando-e-guido-per-la-città-cosí-ubriaco-da-non -reggermi-in-piedi-e-Dio-sa-se-non-poteva-capitare-solo-a-Ira-di-schiantarsi-contro-la-macchina-di-Kretzman-proprio-davanti-al-distretto-di-Dempster-street Schoenweiss, che lo possano appendere al soffitto per le budella mentre Kretzman gliele suona sul culo con la prima cosa appuntita che gli capita a tiro, e piú è appuntita meglio è, fino al mio arrivo –. Silverfish trovò le scarpe e due calzini che chissà se erano uguali.
Sophie si girò con cautela sulla schiena a guardare la sagoma di Silverfish, che si allacciava le scarpe contro il bordo del letto. – La macchina di Zero Kretzman? Parli del signor procuratore distrettuale nonché pubblico ministero Kretzman?
– Parlo di Ira-mi-ficco-sempre-in-qualche-casino-notturno Schoenweiss che a mia moglie è toccato in sorte come fratello! – tuonò Silverfish. Balzò sul letto con l’agilità di una persona molto piú giovane e si mise a cavalcioni su Sophie. Le morse la spalla. Prese la parrucca dal comodino e la lanciò con la scioltezza che viene dall’esercizio sulla boccia di vetro della flebo, che tintinnò oscillando sulla piantana. Silverfish baciò Sophie sullo sterno. Le diede un buffetto sulla pancia. – Cicciona! – sibilò. – La mia oscena cicciona rosa sorella di un giudeo piantagrane, ciccione pure lui.
Sophie rideva forte quanto poteva. Il suono le riecheggiava nel petto come in un impianto elettrico. Con il braccio scollegato sfiorò i bottoni della giacca di Silverfish. – Sei ancora in pigiama, signor imparentato-con-giudeo-piantagrane-e-moglie-cicciona-avvocato-in-missione-umanitaria Silverfish.
– Dovrei mettermi in frac per Ira e Kretzman? Con tanto di code, magari? Fingere che non sia una scocciatura? – Silverfish sentí Sophie sforzarsi in silenzio di respirare sotto il suo peso e si tolse delicatamente, camminò sul materasso con passo lieve e andò a prendere le chiavi sul comò. Vicino alle chiavi trovò una cravatta e se la mise al collo. Sophie respirò guardandolo in quella luce sporca.
Silverfish prese la spazzola e si girò verso il contorno dello scheletro di sua moglie sotto le coperte. – Di’, ti senti in forma? Posso andarmene qualche ora?
– Vattene per sempre, – disse Sophie. – Salva un pittore paffuto da una vita da criminale in prigione. L’infermiera della clinica viene alle dieci ed è a mia completa disposizione tutto il giorno.
– Io non torno molto prima delle dieci, per il tuo Ira sarà dura continuare a vivere dopo che l’avrò ridotto a un colabrodo! – Silverfish schiaffeggiò l’aria.
– Guida come uno che ha la testa sul collo, Solomon.
Silverfish aprí la porta della camera da letto. – Luce accesa, che dici? Un libro da leggere? Televisione?
Sophie sorrise e si passò la mano sul cranio. – Niente luce. Dormivo cosí bene. Un ciocco.
– Un ciocco?
– Un pezzo di legno inanimato, ecco cos’ero, – disse Sophie. – Dormivo come una cosa morta.
– Allora torna a fare il legno inanimato, – bisbigliò Silverfish.
Sophie sorrise. – Cosí mi esercito per quando sarà il momento.
Silverfish strinse gli occhi nella penombra. Sophie lo guardò. Cominciò a scusarsi con bisbigli che solo lui sapeva sentire. Giú in strada, nell’auto in fondo all’isolato, nel buio tra due lampioni, Alan Schoenweiss si puliva l’unghia del pollice con il fermacravatta.
– Sta’ zitta e dormi, in quest’ordine, – disse Silverfish alla moglie. Scese in cucina a mangiare un boccone. Sophie fissò lo spazio della porta socchiusa e il fievole bagliore bianco caldo che ora veniva dal piano di sotto illuminato, mischiandosi al sodio che veniva dalla finestra e creando un arancione verdognolo. Respirò.
Alan
ISTRUZIONI PER UNA PERSONA CHE AMMESSO CHE STIA FACENDO UNA COSA LEGITTIMA E IO PREFERIREI CHE NON FOSSE COSÍ LEGITTIMA POTREBBE VOLER IDENTIFICARE SOLOMON SILVERFISH, L’AVVOCATO, E MAGARI ANCHE SEGUIRLO FINO AL QUARANTESIMO DISTRETTO DEL DIPARTIMENTO DI POLIZIA DI CHICAGO, ALL’ANGOLO TRA DEMPSTER E PROSPECT STREET, CHICAGO, ILLINOIS, ALLE 3:00 DEL MATTINO DI STAMATTINA.
Tenere gli occhi bene aperti casomai comparisse Ford Thunderbird rossa del 1961, nuova di zecca che mantenerla costa Dio sa quanto, decappottabile, con pneumatici da neve ancora montati il tredici di maggio per via del fatto che il proprietario dell’auto ha una paura mortale di guidare sulla neve d’inverno e se ne infischia del rumore, figuriamoci poi dell’usura del battistrada, pur di risparmiarsi la scocciatura di togliere gli pneumatici solo perché il tempo si è aggiustato un po’, che anche a maggio con la neve non si sa mai, qui a Chicago. Questa Thunderbird di notte gira spesso a fari spenti per via del fatto che il soggetto che è proprietario dell’auto ha la testa tra le nuvole, e comunque saprebbe andare nella Quarantesima a occhi chiusi e a proposito, prima di seguirlo troppo da vicino, date retta a me, probabilmente è proprio quello che sta facendo. Alla voce testa tra le nuvole vedi anche il fatto che il soggetto nella Ford Thunderbird rossa del 1961 indossa i pantaloni di un completo costosissimo e devo ammettere assai elegante preso al reparto chic di Marshall Field, in vendita ogni primavera ma meglio andarci in anticipo, e sopra un pantalone del genere ha una vecchia giacca del pigiama di flanella gialla con macchia blu alla dottor Rorschach sul taschino, dovuta al fatto che una volta il soggetto ha tenuto tutta la notte in tasca una penna che perdeva nel sonno. Una cravatta è legata intorno al colletto di flanella del soggetto, legata come spesso il soggetto lega la cravatta quando ha sonno e si lega le scarpe con un mezzo Scappino: sí, la cravatta è legata come si legherebbe il laccio di una scarpa. Attenzione a pericolose sterzate della Thunderbird rossa mentre il soggetto cerca di aggiustare la cravatta nello specchietto retrovisore. Il soggetto frusta l’aria come un demente con mani aperte da karateka quand’è arrabbiato, come lo si vede fare adesso per via della suddetta cravatta, e ha fama di ripetere minacce come la minaccia di «ridurre a un colabrodo» le persone, e la minaccia che le sue mani sono letali come armi. Tali minacce si disperdono spesso tra le raffiche di vento quando il tettuccio della decappottabile è abbassato, vedi adesso per esempio. Quando il tettuccio è abbassato si vede anche che il soggetto, affetto dal problema maschile della perdita dei capelli a chiazze che non auguri nemmeno al tuo peggiore nemico, si fa crescere i capelli grigi lunghi e prodigiosi su un lato della testa e poi li riporta sopra per nascondere una pelata da fare invidia a quel Kojak della televisione, solo che col vento forte, come in una decappottabile, l’aria li sposta facendoli svolazzare da tutte le parti, spesso drizzandoli di fianco e dietro la persona a mo’ di mezza aureola, come se non fosse ridicolo parlare di aureole in rif. a questo soggetto che stanotte potrebbe andarsene tranquillamente all’inferno. Ma avendo vento o gesti nervosi vanificato l’accurata pettinatura, i capelli lunghi del soggetto penzoleranno su un lato della faccia del soggetto come una specie di velo per il resto del giorno, o della notte, oscurando la visione periferica laterale del soggetto e costringendolo spesso a dare varie angolazioni alla testa quando ti parla, angolazioni cosí strane che spesso ti viene voglia di dire smettila di contorcerti e pettinati quei capelli!
Ma il soggetto Silverfish con comportamento e modo di vestire eccentrici e voce stentorea come un treno ha, a sentire chi sa il fatto suo, un’aria molto distinta per essere un sessantenne che, problemi di capelli a parte, dicono, non ha altri problemi nella vita, Silverfish con una rotondità fisica compensata dal ragguardevole metro e ottantatre di altezza e da un portamento che la signora Nussbaum moglie del suo socio davanti a un vermouth definisce «principesca» e da occhi intensi che la mia bella mogliettina Orly dice chissà di che colore sono perché ti accorgi soltanto che sono penetranti, e da fronte, guance e naso come quelli di tutti, e da un mento che chi se ne importa se non è il mento piú pronunciato mai attaccato a una persona, è raffinatamente coperto da una ragguardevole barbetta, color sale e pepe, che si collega intorno alla bocca a baffi del medesimo colore, un sistema di peli facciali che copre il labbro superiore e poi il mento sfuggente, molto ragguardevole, e piccolo, come quello che vedi agli intellettuali dell’Europa Orientale in dolcevita nera e giacca sportiva marrone, alla televisione pubblica, ma che direbbe Barbara Nussbaum se le raccontassero che certi della facoltà di giurisprudenza a Chicago, tipi che escludono a priori l’esistenza di una facoltà di giurisprudenza migliore in tutto il Paese, che certi compagni di corso e futuri avvocati di questa nazione sostenevano che il piccolo apparato di barba e baffi di Silverfish, da lui ostentato già alla facoltà di giurisprudenza, anche se un po’ meno ragguardevole, ma con lo stesso problema del mento, che il baffetto, la barbetta e la bocca messi assieme sembravano una certa parte dell’anatomia femminile, non so se mi spiego, e sai le risate che un Silverfish ubriaco e forse già allora squilibrato faceva fare a quei tizi quando teneva la testa da un lato e magari increspava pure le labbra dopo averle inumidite, sai le risate per una «somiglianza» che, credetemi sulla parola perché io c’ero, alla fin fine era solo il frutto sporcaccione di giovani menti cosí sporcaccione e luride che dovrebbero vergognarsi e se vi dicessi chi sono alcuni di costoro e quali uffici importanti occupano adesso vi scapicollereste all’ufficio postale per scrivere a un certo membro del Congresso cosí in fretta da stirarvi i legamenti!
Ma una persona che segue il soggetto Silverfish a distanza di sicurezza ma anche di osservazione dovrebbe stare attenta quando fa quei gesti esasperati con le braccia come certe mosse di karate mentre supera gli uffici dello studio legale Baum, Nussbaum, Schneewind e Silverfish sulla sinistra, tra la Clark e Vine, un angolo, dove Silverfish è socio anziano, come lo sono io al mio studio Alan Schoenweiss e Associati. – Allora, dov’è Mr Associati? – mi domanda quel burlone di Solomon Silverfish ogni volta che ha scolato un cocktail in mia presenza. – Quando riuscirò a incontrare Mr Associati? – Il soggetto Silverfish sa essere un vero cafone, e anche se l’ho sopportato per il bene di mia sorella devo dire Dio mi perdoni che non sono poi tanto sconvolto da quello che è saltato fuori come invece è sconvolto mio fratello Ira. Non mi sono mai fidato di Silverfish come si sono fidati gli altri Schoenweiss con loro presente e ora futuro dispiacere, ma per onestà e io desidero essere onesto a questo riguardo devo ammettere che questo Silverfish è una persona che ha davvero dei punti a suo favore, sempre che siano autentici e non messinscene come poi si scopre che quasi tutto quello che fa è una messinscena. Un esempio forse di un buon punto a suo favore è che anche se Silverfish finge in modo esagerato di considerare il suo lavoro di avvocato alla BNSS una scocciatura, di fatto ama quel lavoro con tutto il cuore che ha in corpo, si capisce anche da come agita la testa di capelli svolazzanti e mena fendenti verso gli uffici che gli sfilano accanto perché, e lo dico con orgoglio e affetto di vecchia data talmente mischiati fra loro che manco ve l’immaginate, Solomon Silverfish ha un profondo rispetto per le leggi degli Stati Uniti d’America e ha anche quello che è sempre sembrato un desiderio sincero di aiutare le persone che si trovano costrette a chiedere aiuto. A Solomon piace aiutare gli altri, questo è vero, tutti, senza distinzioni, perfino uno come l’odioso e delinquentissimo Londell «Troppo Carino» Tyson, un giovanotto nero che di mestiere fa il pappa e che Solomon ha cavato dai pasticci con arti e espedienti giudiziari tante di quelle volte che ormai ho perso il conto, e che nel corso dell’ultimo mese ha pure fatto a Silverfish un paio di favori che grazie a Dio non sono quelli che immagino stiate immaginando voi, il che sarebbe stato molto peggio di quello che Silverfish ha fatto alla nostra Sophie e alla nostra famiglia che l’ha accolto sulla base di una montatura ora smontata grazie a un certo ciabattino, che l’ha preso sotto l’ala della nostra famiglia come un componente della famiglia fidato, e guarda ora come tratta la dignità forse agli sgoccioli della nostra Sophie, che possa guarire presto con le sue forze anche se il marito è un goy disonesto che ora non riesce nemmeno ad aspettare che una certa persona Dio mi perdoni magari muoia prima di gettarsi tra le braccia di una donna piú giovane, tanto giovane da poter essere figlia di tutti noi. Però gli piace, devo ammettere, aiutare quasi tutti, e perfino ora che noi della famiglia Schoenweiss lo rinneghiamo per l’eternità e ci piange il cuore a sentir pronunciare anche solo le lettere del suo nome, devo ammettere che ha quello che può essere considerato un animo generoso per alzarsi nel cuore della notte sapendo che ad aspettarlo non c’è una gonnella ma ci sono Zero Kretzman e mio fratello Ira, che all’occorrenza si rivela un discreto attore drammatico anche se come artista mi convince poco. Cosa si può dire di uno che vende quadri che saprebbe fare anche una scimmia tirando un po’ di pittura su una tela, che vende quei quadri in cambio di denaro sonante a persone rispettabili, certe perfino con una laurea in tasca?
Cose da dire al mio ex parente acquisito Mr ––– ––––– ormai non lo voglio nemmeno piú nominare invece ce ne sono eccome, e Kretzman, che mi deve tanti di quei favori per il suo divorzio che non chiedetemi nemmeno di cominciare l’elenco, è pronto come Ira a recitare la sua parte e ad attirare ––––– in un luogo isolato che come –––– sa bene significa giustizia, per non dire verità, una volta tanto, dove non si potrà sottrarre a un confronto con i suoi cognati e dove, Dio m’assista, mani letali o meno, voleranno parole grosse, ci metterei la firma, e anche un solo tentativo di menare fendenti o ridurre a un colabrodo, non parliamo poi di negare, causeranno tanti di quei problemi che non sto nemmeno a dirlo. Allora lasciamolo parcheggiare nella Quarantesima, sono le 3:15 e saranno le 3:25 quando –––– avrà ultimato il suo leggendario parcheggio parallelo alla ––––, che ha mantenuto un esercito di figli di assicuratori fino all’università, lasciamolo parcheggiare nella Quarantesima tra uno svolazzare di capelli, cravatta e camicia, perché è arrivato il momento che un certo signore barbuto getti la maschera davanti a una certa ragazza dal cuore cosí puro e buono che resto senza parole all’idea che il cuore di Sophie possa andare Dio mi perdoni nella tomba con l’anima in pena e ingannata e una lunga vita di bugie ignote a premere su di lei nella fredda terra, e alla sola idea ammazzeresti il colpevole e ti consumeresti gli occhi per chi ha subito il torto, tanta è la bontà di quella sorella. Non c’è niente che Alan Schoenweiss non farebbe per quella sorella. Anche a costo di causare dolore. Un nuovo sole sorgerà forse, ebbene sí, su una scena di dolore, della quale personalmente non mi reputo la causa quanto semmai il compimento. Chi diceva che piú tempo ci mettono i pezzi a comporsi piú risultano compatti? Non quel certo ––––, mi auguro. È il momento di guardare in faccia la realtà e di gettare la maschera.
Sophie
Sophie Silverfish finí di dare di stomaco e si alzò dalle ginocchia tirando il pigro sciacquone. Prima di cambiarsi la camicia da notte guardò nello specchio a dove prima aveva i seni, sopra l’apertura a farfalla della gabbia toracica, e solo di recente si era accorta della saggezza di chi l’aveva chiamata gabbia. Cosí guardò a dove lei non era. Due larghe buche da golf e, sotto, un gran lavorio screziato di rosso simile a un impianto elettrico rosa dietro il tessuto sbiadito delle cicatrici e le fondamenta sintetiche delle protesi che ora non avrebbe usato nemmeno se Solomon non gliel’avesse proibito. Sophie pesava quarantacinque chili, una radiografia di Sophie. Le cavità di ascelle e inguine e le punte di bacino, gomiti, nocche e spina dorsale tendevano lo stretto involucro della pelle malata come le sporgenze delle corna di un cervo. Sentiva che ciò che lei era rimpiccioliva progressivamente dentro un corpo le cui zone piú distanti diventavano remote, esaurite, scollegate, da scaricare in volo come le fasi di un missile. Troppo spesso ormai gli arti sembravano collegati alla persona né piú né meno delle teste autonome e svolazzanti di un’idra, volitive, recalcitranti e fuori sincrono. La sua bellissima testa era un cranio lucido, una spruzzaglia di alghe al posto dei capelli soltanto sopra le orecchie e un melone liscio teso ben bene sopra come involucro lucente, e poi giú lungo la fronte rugosa come un asse da bucato fino ai graziosi occhi verdi incorniciati da cerchi di un nero cosí carico e totale che sembravano sprofondati dentro le orbite. Sophie premette un dito bianco su un cerchio nero sotto l’occhio, inclinò la testa e si sorrise.
Una fusione. Un distillato ottenuto da precipitati e scorie. Stava sprofondando dentro se stessa. Ancor piú del dolore, o della nausea, era quella la sensazione che le dava il cancro: l’impressione di adattarsi alla dura e friabile struttura dentro di lei, una struttura centrale fatta solo di ossa nere e fumose sorrette e collegate da un’esile costellazione di nodosità e nervi bianchi, che il caldo di veleni impronunciabili accendeva di un bagliore malato. Cadendo un pezzetto alla volta dentro un punto nero e immobile che finiva col diventare tutto quello che c’era.
Sophie ricordava i malati di tubercolosi visti da piccola. Adesso la loro sembrava una morte elegante. Dimagrivano e espettoravano sgargianti colori in delicati fazzoletti di seta, impallidivano sempre piú, diventavano quarzosi e traslucidi, quasi sbiadissero davanti agli occhi distolti del loro mondo, trasferendo ciò che erano in un altrove alto, freddo e delicato. Angeli erano sembrati, e le lenzuola del letto di un lontano cugino malato erano bianco inamidato, pulite come dovrebbero esserlo le ali. Ma laddove la tubercolosi era stata delicata, eterea, ultraterrena, il cancro era scuro e tozzo. Umidiccio, rovente e centripeto.
E tecnico! Come non detestare che di questi tempi sembrava volerci una laurea anche per morire? Che ormai accostarsi a quella cosa che non era vita richiedeva l’impiego della vista e dell’udito oltre che dei sensi di una persona. Quando è troppo è troppo. Per quanto tempo lei e il suo Solomon-che-lei-amava si erano inginocchiati poggiando l’orecchio su uno spaventoso binario ferroviario di acciaio disinfettante ad ascoltare un lontano rumorio medico che diventava un boato: ciste, neoplasma, neoplasma sospetto, linfoma, tumore maligno, mastectomia modificata, radiazioni, remittenza, recidiva, neoplasma sospetto, linfoma con ripercussioni Hodgkins, mastectomia radicale, linfectomia inferiore, metastasi, radiazioni, Metotrexate, Cytoxan, reazione contraria alle aspettative. Il treno si chiamava Moribondo, era l’Espresso del Moribondo, era quello che tutti all’infuori dei medici affabili, rosei e sani parevano sapere. Lo sapeva anche Solomon, ma lui non ci credeva. Il treno si chiamava Moribondo e diventando piú rumoroso si rimpiccioliva anche nel tuo campo visivo puntato sulla realtà. Non ti investiva come fossi una monetina su un binario ma si riduceva a semplice boato che emergeva dal tuo profondo, dove c’era solo il calore crescente di una lotta infuocata tra paroloni incomprensibili. E tu ti accorgevi di essere travolto da quel treno solo quando era troppo tardi per liberarti dal coltello lucido del binario, un coltello che ti taglia per dimostrare che l’orecchio ascoltava se stesso, un coltello il cui lato sottile è anche uno specchio dove vedi quello che senti mentre taglia ciò che sei. Mentre sprofondi e bruci. La malattia che aveva lei tutto era fuorché delicata.
E che male. Spesso Sophie sentiva un male cane, chissà cos’avrebbe fatto Solomon se l’avesse saputo. E poi la nausea! I farmaci che le somministravano a casa, sotto il controllo del gentilissimo personale della clinica, non erano cattivi come le vecchie medicine, niente a che vedere con le medicine dell’ospedale, ma ciò non toglie che Sophie avesse una nausea quasi costante tutti i giorni. I muscoli dello stomaco sembravano quelli di un atleta, erano di pietra a furia di allenarli sulla tazza del bagno di cui conosceva ogni curva, macchia e puntino neanche fosse una vecchia amica; avvertiva perfino le pulsazioni a malapena visibili dell’acqua sul fondo quasi fossero gli spasmi del proprio cuore e delle proprie viscere. La malattia era orribile. Solomon si era perfino esposto a rischi legali per procurarle un po’ di marijuana, tanto la faceva penare quella nausea. Gliel’aveva data un giovane cliente, un certo Londell Tyson, che si faceva chiamare anche Troppo Carino, un ragazzo simpatico e educatissimo, ce l’aveva scritto in faccia, anche se portava un cappello viola con una piuma di struzzo rosa e usava un linguaggio che una madre, a sentirlo, si sarebbe strappata il cuore dal petto. E le prime settimane che era tornata a casa la marijuana l’aveva aiutata, conteneva qualcosa che eliminava la nausea, certe volte le stimolava perfino l’appetito e Solomon le si metteva a cavalcioni sul petto con dei dolci e la imboccava mentre lei rideva. E le aveva stimolato anche, Dio solo sa perché dopo tanto che là sotto era come morta, dei desideri sessuali, e sapeva benissimo che per l’ultima volta in vita sua si era accostata al sesso quei pomeriggi in cui Solomon le aveva offerto un dito delicato tenendo l’altra mano sotto il mento barbuto mentre sorrideva guardandola negli occhi rossi e lei gli accarezzava il velo sciolto di capelli spettinati con mano scheletrica e tremante. Ora però la marijuana le fa precipitare gli zuccheri del sangue mandandola quasi in coma quando cerca di fumarla. Sophie preferisce avere lo stomaco in subbuglio piuttosto che andare in coma e dormire tutto il tempo. Il tempo passato a dormire è tempo senza Solomon. E il tempo con Solomon per Sophie e con Sophie per Solomon spiega come mai l’hanno rimandata a casa quell’ultimo mese. Il tempo con Sophie spiega come mai Solomon in ufficio trascura praticamente tutto fuorché le emergenze. Sophie è la vita di Solomon e viceversa, non si discute. Dopo trentadue anni di simile fortuna e felicità, Sophie non sa nemmeno da dove cominciare a ringraziare Dio in ginocchio. Il tempo da malata insieme a Solomon è molto meglio del tempo normale in qualsiasi altro luogo, e viceversa: Solomon considera allo stesso modo il tempo passato con Sophie malata. È tutto vero anche se Solomon in realtà non vuole ammettere che Sophie è malata; o meglio, cosí malata da impedire a una Sophie Silverfish malata di tenere testa a qualunque cosa il mondo possa scagliare addosso a una persona che sta bene, incluso Solomon Silverfish, l’avvocato pazzo che si ritrova per marito. Solomon ha giocato con la malattia della moglie in quel modo frenetico che ha di giocare con tutte le cose che lo toccano nel profondo. La prendeva in giro e la torturava. Accusava una Sophie radiografica di obesità dirompente. Le tirava l’orecchio reggendole la testa sopra il water. Si lamentava a gran voce dell’umidore salato che sentiva in bocca quando di notte le baciava le lacrime silenziose di un dolore silenzioso. Pasticciava con le sue parrucche. Una volta col rossetto le aveva disegnato sul cranio una faccia sorridente con gli occhi storti mentre lei dormiva. Certe volte usava il vuoto lasciato da un seno per poggiare il mezzo melone della colazione a letto, il mattino. Sophie sa che a un estraneo può sembrare poco gentile. Essendo sua moglie da anni sa anche che Solomon riserva la gentilezza a chi secondo lui ne ha bisogno perché è messo male. Diventa gentile con qualcuno quando gli dispiace per lui. E a Sophie Solomon non farebbe mai il torto di dispiacersi per lei. Sophie sa che solo Solomon sa che una Sophie malata è sotto tutti gli aspetti importanti pur sempre una Sophie, non un insieme di bacchette e tubicini da accarezzare e coccolare. Ecco perché, pensò Sophie mettendosi a letto con una camicia da notte pulita e prendendo due salatini da mandar giú perché una persona che vomita deve avere sempre qualcosa nello stomaco altrimenti vomita acido, provateci voi se pensate che sia divertente, e si rimise l’ago della flebo in quella tavoletta da cribbage gialla e piena di lividi che era il suo polso, applicando di nuovo il cerotto con maestria e pratica consumate, sollevando lo sguardo sulla boccia di zucchero e medicina con l’assurda parrucca sbilenca di capelli neri in quella luce al sodio arancione bruciato, ecco perché, pensò Sophie, il suo Solomon era una persona magica ora piú che mai, e perché nel suo animo c’era tanto di quell’amore per lui da salvarla anche ora che era mortalmente malata.
È una cosa difficile da afferrare, il percome delle cose. Durante tutto questo brutto periodo Solomon ha fatto sentire e capire a Sophie che lei è la malata, non la malattia. Lei è quello che è, non quello che ha dentro. Sophie respira molto meglio sapendo che lei per Solomon non morirà mai, e a questo Sophie aggiunge un viceversa ancora migliore riguardo alla vita di Solomon.
Ecco perché Sophie d’ora in poi prenderà solo gli antidolorifici che le evitano di smaniare peggiorando la situazione per tutti quanti. Vuole stare con suo marito e con se stessa. Solomon Silverfish, a parte il favore non da poco di averla amata per trentadue anni rendendola la donna piú felice sulla faccia della terra, ha aiutato Sophie a usare la malattia per capire ciò che lei è e ciò che non è. Non sa di averlo fatto, perché da quando in qua anche il migliore dei maghi sa di usare la magia sulle persone e non la semplice abilità di uno svelto di mano e sciolto di lingua? Sophie crede di avere ormai capito alla sua età che la magia altro non è se non il semplice rapporto tra una persona e le altre persone che la circondano.
Era nel letto, nell’arancione, due cracker mandati giú e innaffiati con la tiepida acqua naturale del bicchiere sul comodino. Respirò abituando a piccole dosi lo sguardo a quella specie di luce, e si sentí meglio. Il braccio si intiepidí per la sostanza che veniva iniettata dall’alto. Lei aspettò il sorgere del sole e Solomon, e fece quello che sempre si fa quando si aspetta. Ricordò.
Ecco Sophie Schoenweiss che conosce Solomon Silverfish nel 1953 al ballo di beneficenza che la facoltà di legge dell’Università di Chicago dà a favore dell’ospedale B’- nai B’rith di Berwyn, dove Sophie studia da infermiera. Ecco Alan Schoenweiss, il fratello magro e dai capelli come spaghetti che presenta Sophie a un tranquillo ragazzo di Vienna, in Virginia, residente nello stesso campus della facoltà di legge dell’Università di Chicago. La cosa buffa del ragazzo è che è uscito dall’infermeria dell’università appena la settimana prima perché si è rotto la mascella, oltre che tutt’e due le braccia e le spalle, nel tentativo di vincere una scommessa che l’aveva visto impegnarsi con Alan e altri studenti a guidare un’auto al centro del campus usando solo il sedere. Il ragazzo che azionava i pedali accovacciato sotto di lui era ancora in trazione. Al ballo Silverfish teneva le braccia di gesso bianco spalancate come uno psicotico che volesse abbracciarti, o come quelle di Gesú sulla croce nel Nuovo Testamento; e gli occhi sopra il pizzetto, il baluginio metallico del filo che gli imbrigliava la mascella, il baffo spelacchiato e il naso, quegli occhi fatti di luce videro qualcosa in Sophie Schoenweiss, qualcosa che di rimando vide anche lei. Sophie socializzò con un invalido temporaneo. Interesse? Cosí, tanto per interesse, provate voi a ballare con uno che ha le braccia rotte e la base della spina dorsale che a detta di tutti non è in perfette condizioni. Come far girare il manichino di un negozio per tutto il negozio, dicono Alan e Ira. Sophie arrossisce e si mette a ridere. Ma provate voi a uscire con uno che per un mese e mezzo anziché parlare mugugna tra i denti serrati! O provate a provare di scoprire com’è una persona che vostro fratello Allie definisce una quantità sconosciuta, un simpatico ragazzo venuto da Tidewater, una regione del Sud, anche se non ha l’accento del Sud, un ragazzo serio e sveglio Dio solo sa quanto con un futuro davanti, benché Alan la avvisi in tutta onestà di stare attenta perché a volte sembra volubile o squilibrato, a volte sbraita per oscuri motivi, guida con il sedere, schiaffeggia l’aria, mena fendenti ai muri e durante la colazione si sfrega gli occhi con le nocche impazzite come una specie di scoiattolo ogni mattina di ogni santo giorno. Chissà qual è la sua confessione, per non dire il suo orientamento; Alan non ha mai visto Silverfish con la kippah in testa ma in questo periodo di confusione e di Corea non si sa mai. Provate voi a essere confusi. Provate voi a innamorarvi di uno mezzo scassato che non sapete nemmeno com’è tutto intero. Ma quando tutto va a meraviglia forse provare è l’ultimo dei problemi.
Sophie, a letto, sonnecchiava, e i brandelli di ricordi affioravano con l’intermittenza stroboscopica che precede i sogni. Ecco una luminosa tempesta di ghiaccio, due sposini nella nuova casetta a schiera di un agglomerato di Cicero. Lo scintillio grigio del ghiaccio su un croccante prato marzolino, altro ghiaccio bagnato che cade da un cielo incolore. Solomon lo guarda da una finestra, Sophie dietro di lui gli circonda la grossa vita con le braccia, i capelli una cascata nera che gli ricade sul braccio, il mento sulla sua spalla, guarda anche lei. Le sporche palline dei cristalli di Cicero colpiscono il prato duro, le perle balzellano e saltano schizzando vivacemente a fior di ghiaccio. La voce di Solomon, pacata, piena di sogni Silverfish, il fiato appanna un cerchio color arcobaleno sulla finestra mentre lui fissa le perle saltellanti, sussurrando fra sé cavalletta, cavalletta, cavalletta. Un uomo giovane che Sophie ama sogna la vita dentro il ghiaccio mentre lei giocherella col suo orecchio.
Ecco Solomon e Sophie insieme a Tata, il dottor Otto Schoenweiss e Mama, la signora Schoenweiss, in una baita del Wisconsin, vicino a un lago, in vacanza. Sophie e Mama nella cucina della baita. La signora Schoenweiss fa mettere a Sophie il grembiule ma poi l’impasto vuole stenderlo lei. Rovente luce prandiale dalla finestra. Dalla finestra si vedono anche il lago e, sulla spiaggia del lago, Solomon e Tata concludono la passeggiata lunga e seria che in vacanza fanno ogni giorno. Tata con le mani dietro la schiena, Solomon che agita le sue in aria, girandosi al suono della propria voce che Sophie sente appena. Dietro i due che passeggiano una brezza insistente trasforma la superficie del lago in pelle di elefante. Odore di madre e di impasto.
Ecco il dolore. Pena e sofferenza fisica e mentale. Ecco Sophie, malata, meno un tumore maligno appena asportato e, a proposito, anche un seno. È malata, imbottita di farmaci, bianca come una radice, gli occhi da procione, e sogna da sveglia. Ecco un animale scatenato che fa il diavolo a quattro intorno al suo letto d’ospedale. In un intorpidimento di dolore e anestetico Sophie vede Solomon Silverfish fare il matto, girare torno torno la stanza, schiaffeggiare mura e mobili, ruotare su se stesso, menare fendenti alle sbarre metalliche del letto simile a una culla, poi incombere su Sophie urlando e smaniando, una bruma colorata a schiumargli dalla bocca sotto l’accecante luce bianca. Schiaffeggia e si strappa la pelata e i capelli sciolti piroettando e sbraitando ripetutamente sulla sagoma di una Sophie malata la parola Finiscila! Finiscila Finiscila! urla Silverfish. La mezza testa di capelli ondeggia furiosamente mentre fa quella danza della rabbia, mentre salta per schiaffeggiare un soffitto troppo alto per le mani letali, mentre sibila rivolto alle infermiere dalle bocche cucite, e poi urla di nuovo a Sophie la parola Finiscila! La lingua di Sophie è una cosa morta e imbottita di farmaci, un ciocco di legno inanimato, lei cerca di dire a Silverfish: Finire che cosa? Dimmi cos’ho cominciato e lo finisco subito ma non viene fuori niente. È in preda al panico sotto la medicina che le agita le palpebre e aromatizza l’aria che respira. È sofferente, abbattuta, malata. Sente venire da Solomon una vampa di rabbia senza precedenti come se l’avesse tradito con la malattia e la mutilazione. Non sente invece le proprie lacrime finché non si fanno roventi. Si fanno roventi quando Sophie in quell’offuscamento capisce che gli schiaffi e le urla del suo Silverfish sono per il cancro, non per lei, che la rabbia e la furia sono dirette non a una Sophie senza seno bianca-come-una-radice, bensí a quella cosa scura, tozza, umidiccia e centripeta che le ha portato via parte del corpo, che l’animale scatenato urla per avvisare la cosa che c’è dentro Sophie di farla finita e di lasciarla in pace altrimenti scatenerà un putiferio! Silverfish con il completo comprato da Field’s, le ciabatte e il velo grigio di capelli alla fine viene portato via dagli inservienti in bianco stanco, tre marcantoni troppo grossi per farsi minacciare dalla minaccia di essere ridotti a un colabrodo. Sophie resta lí e le guance tracciano roventi righe di lacrime scaturite da una cosa che non è gioia né dolore, con in piú un pizzico di medicine. Stavolta, l’unica in cui un Solomon Silverfish abbia alzato la voce con una Sophie Silverfish, Solomon non aveva alzato la voce perché era arrabbiato con Sophie; ce l’aveva con una cosa dentro di lei, il treno il coltello l’orecchio il binario il rimpicciolimento e la fusione, la cosa che le era entrata in corpo senza invito e senza scopo se non l’intento di fare del male. A partire da quel giorno dentro una culla di metallo con le lenzuola bianche inamidate e l’altro seno una bomba a orologeria e il veleno in molti linfonodi del corpo Sophie sa e lo sa per davvero che per il Solomon-chelei-ama lei non è solamente il suo corpo o quello che c’è dentro il suo corpo. Che la malattia è una cosa che hai, non una cosa che sei. Se Sophie andasse a raccontarlo al primo che passa quello forse riderebbe per l’importanza che la donna magra e bianco-radice dà a una semplice stupidaggine come quella. Sarà anche semplice, ma quella cosa salva la vita di Sophie quando ce n’è piú bisogno. Ecco Sophie che dal corridoio sente arrivare dei Finiscila! sempre piú attutiti e ha quasi la sensazione che lei e Solomon, o meglio, lei-e-Solomon, non moriranno mai per davvero, indipendentemente da dove o che cosa sono. Avverte attraverso la promessa di altro dolore e altra nausea una sensazione di pulizia e sicurezza nuove di zecca, come gelo scaldato, avvolto in una coperta bollente sul grembo di una madre che irradia una mite fiamma in toni dolci e minuscoli gesti.
Una cosa che per lei era magica, ricordò Sophie sonnecchiando alla luce arancione che filtrava dalla finestra diafana mentre la medicina le riscaldava il braccio. Sentiva i cracker nello stomaco. Erano le 3:30. Attraverso un sogno madido ecco il suono del campanello di casa Silverfish e qualcuno che entrava subito dopo, usando la chiave. Mary l’infermiera della clinica non arrivava mai presto e non suonava il campanello. Sophie sentí delle voci reali lungo le scale.
Tutti tranne Troppo Carino
I primi, svariati minuti dopo l’arrivo dell’assonnato Solomon Silverfish nella stanza degli interrogatori del Quarantesimo distretto del Dipartimento di Polizia dove Ira Schoenweiss avrebbe dovuto essere trattenuto, interrogato, intimidito e pungolato con oggetti acuminati invocando tra le lacrime l’aiuto e la maestria di Silverfish, quei minuti furono pieni di confusione! Alan Schoenweiss, fratello di Ira e Sophie, avvocato divorzista nonché giocatore di golf dilettante, scivolò silenziosamente con soltanto i calzini e senza scarpe lungo il corridoio della centrale di polizia al seguito di Silverfish, e gli stava ancora silenziosamente dietro quando Silverfish aprí la porta della stanza degli interrogatori entrando alla maniera di ogni avvocato che entra in una stanza in veste di avvocato: guardando l’orologio. Silverfish si aspettava di trovare il cognato e cliente solo soletto in una stanza illuminata e meditava di dedicare come minimo svariati minuti a fare una bella ramanzina a Ira. Invece entrando Silverfish trovò la stanza buia, le sagome indistinte di due persone al tavolo degli interrogatori e una sedia in un angolo con uno strano aggeggio predatore curvato sopra, il tutto a malapena e tra l’altro arcanamente illuminato dal fievole marrone giallognolo di un vecchio lampione giú in strada la cui luce si sforzava di trapassare la finestra e la protezione di ferro. Mentre Silverfish cercava a tentoni di accendere la luce, pensando di avere interrotto qualcosa perché il sergente di turno gli aveva dato delle indicazioni sbagliate, Alan Schoenweiss varcò all’improvviso la soglia alle sue spalle con fare risoluto, nonostante i calzini, e urlò all’orecchio di Silverfish: – È arrivato il momento di gettare la maschera, Solomon Silverfish! – con una tensione drammatica che Zero Kretzman rovinò scattando in piedi dietro il tavolo e urlando nello stesso istante:
– La farsa è finita! – col risultato che Solomon sentí solo un guazzabuglio di stupide metafore teatrali urlate a squarciagola. Ma le urla sorprendenti, che si aggiungevano al buio sorprendente, che si aggiungeva alla precedente sonnolenza e alla scocciatura in senso lato, bastarono a far sí che Silverfish aggredisse e schiaffeggiasse la risoluta figura di Alan, che nella relativa oscurità Silverfish non riconobbe, e Alan si vide costretto a mettersi in salvo usando i calzini per scivolare forsennatamente sul pavimento piastrellato al capo opposto della stanza, e mentre Silverfish restava momentaneamente interdetto a domandarsi cosa stesse succedendo in senso lato, Zero Kretzman corse ad accendere la luce rivelando se stesso, Alan e anche la sagoma di Ira, dopodiché Zero chiuse la porta a chiave e mise la chiave in bocca fingendo di ingoiarla, a fini simbolici. Silverfish guardò prima lui, poi Alan, che si era rimesso le scarpe e le stava allacciando appoggiato al bordo del tavolo, poi Ira, che sbatteva rapidamente e ripetutamente gli occhi dietro gli occhiali spessi un dito tormentandosi la bocca con la grossa mano chiara e lentigginosa. Kretzman finse di tossire e mise la chiave non-ingoiata-per-davvero nel taschino della giacca del completo pied-de-poule. Dopo la tosse ci fu un attimo di silenzio in cui Silverfish si guardò intorno.
– Una spiegazione, Ira? – disse Silverfish, inclinando la testa per guardare attraverso il velo di capelli scompigliati-dalla-Thunderbird-del- 1961 Kretzman, che stava addossato alla porta chiusa a chiave con le braccia conserte e gli occhi cosí stretti che aveva due fessure perlacee al posto degli occhi. – Che c’entrano maschere e farse? Hai conciato l’auto di Zero cosí male da aver bisogno di me e Allie messi assieme, e nonostante questo Kretzman sta qui a guardare di traverso, chiudere la porta a chiave e fingere di tossire?
– Ipocrita, – disse Alan Schoenweiss da dietro il tavolo. Si alzò. – Impostore. Ciarlatano. Falso. Imbroglione. Mistificatore. Blasfemo. Traditore di fiducia e di sorelle.
– Potremmo aggiungere demonio? – domandò Kretzman a Alan.
– Potremmo aggiungerlo senza esitazioni, – disse Alan.
– Demonio, – disse Kretzman a Silverfish.
Solomon Silverfish, sassone sorpreso, celta confuso, tastò la cravatta-ancora-incasinata e guardò Ira Schoenweiss. Ira stava pulendo gli occhiali con la manica della camicia. Alan aveva avviato il rabbioso lavorio di guancia e labbra tipicamente Shoenweiss, preludio fisico a uno scambio di parole grosse. Zero Kretzman si diresse verso la già citata sedia nell’angolo della stanza, l’oggetto predatore curvato sopra che ora rivelava di essere un’enorme lampada di solida fattura presa in prestito dal reparto delle foto segnaletiche. Kretzman accese la lampada e la sedia sottostante s’illuminò di una luce bianca e accecante. Kretzman indicò la sedia a Silverfish con gesto solenne mentre Alan guardava impaziente e Ira giocherellava con il labbro.
– Luce? – disse Silverfish. – Mi strappate dal letto e da mia moglie nel cuore della notte per piazzarmi sotto la luce?
– Non pronunciare quella parola, – disse Alan Schoenweiss.
– Luce?
– Moglie.
– Lasciaglielo dire finché non abbiamo sentito la sua versione, – bisbigliò Ira. Silverfish si tastò la barbetta guardando Ira. – Ho come la sensazione che un certo cognato non abbia distrutto nessuna macchina –. Ira si guardò i pollici. Silverfish diede uno schiaffetto all’aria. – Vedrai che ti riduco a un colabrodo, signor Cicciabugiardo Ira Schoenweiss, – disse.
– E non usare quel tono, – disse Alan senza scomporsi. – Sto usando un tono che non dovrei usare?
– È il tono di uno che cerca di imitare un ebreo, – disse Kretzman dalla sedia e dalla lampada. Guardò Alan. – È appropriato dire imitare?
– Imitare sarà urlato a squarciagola, perciò preparate le orecchie – disse Alan. Squadrò Silverfish indicando la giàvarie-volte-citata sedia sotto il cilindro di luce.
Silverfish rimase lí impalato lasciando che gli Schoenweiss guardassero la sua faccia passare dalla confusione e dal leggero fastidio a una pericolosa rabbia condita forse da una punta di furia. Alan fece di nuovo per indicare la sedia bloccandosi impacciato a metà gesto.
– Drizzate tutti quanti le orecchie, – disse Silverfish. Riportò un po’ di capelli sopra la testa con una mano. – Sono un sessantenne con una professione forense e una Ford Thunderbird nuova di zecca. Deve ancora nascere chi mi piazza sotto la luce.
– Quell’uomo ha vissuto con te nella menzogna per trentadue anni e all’incirca sette mesi, – disse la signora Schoenweiss, seduta sul bordo del letto dei Silverfish, sfiorando la guancia di Sophie. – Quell’uomo ha finto di far parte del nostro retaggio, della nostra storia, religione e fede dal primo momento in cui ha posato gli occhi sulla nostra Sophie. Ha dato per scontata e oltraggiato la fiducia di una famiglia.
– Peggio, – disse il dottor Schoenweiss, e scosse la testa rivolto alla finestra dopo aver aperto le tende bianche. – Peggio, – disse. – Una cultura. Un popolo.
– Peggio ancora, – disse la signora Schoenweiss. Si sporse poggiando l’altra mano su quel bastone protetto dalla coperta che era il ginocchio di Sophie. – Una moglie, – sussurrò con fare teatrale.
– Quell’uomo, a sentire Allie che l’ha sempre visto sbagliarsi di grosso sulle cose che contano, si è rivelato una nullità, – disse il dottor Schoenweiss. – Un perfetto signor Nessuno. Una maschera. Uno che si atteneva a tutte le regole del tempio. Una faccia allegra ogni venerdí a casa nostra. Ma dietro quella faccia, dietro quella maschera, chi c’era?
– Un perfetto Nessuno, – disse la signora Schoenweiss. – Magari un diavolo. Hai presente: «A goy bleibt a goy», un gentile resta pur sempre un gentile. Non è nemmeno piú un gentile. È un chissacché. Il giovane shaygets di un tempo è ormai va’ a sapere da quanto una cosa che non esiste, una bugia con le braccia, le zampe e gli occhi di un animale e una lingua veloce che va’ a sapere quante altre bugie ha detto e vissuto e possa Dio risparmiare alla nostra Sophie il dolore di scoprirlo. Solo a pensarci mi vengono i brividi.
– Capisci perché abbiamo capito che ora che lo sappiamo noi dovevi saperlo anche tu, – disse il dottor Schoenweiss, la faccia sporcata dalla vampa di colore al sodio che filtrava dalla finestra. – Vivere in una menzogna morale per non dire emotiva la bellezza di trent’anni. Essere sposata e congiungersi a una cosa che come unica cosa finge di essere una cosa che non è –. Si girò a guardare Sophie, sospirò passandosi la mano tra i folti capelli bianchi. – Quel diavolo di un goy ha costretto anche te a vivere nella menzogna. Fortuna che grazie a tuo fratello Allie puoi dare un calcio a tutto –. Guardò la signora Schoenweiss, che annuiva rivolta a Sophie. Il dottore si schiarí la gola. – Siamo venuti con tutte le naturali riserve dei genitori.
– Dei genitori preoccupati e amorevoli, – disse la signora Schoenweiss.
– ... una preoccupazione e un amore cosí grandi da convincerli a causare magari un po’ di dolore e di sofferenza pur di salvare una figlia che non ha rinunciato a una vita di bugie e finzioni. Non puoi sapere quanto ci ha fatto penare questa decisione.
La signora Schoenweiss guardava schifata la boccia di medicina con la testa di capelli sbilenchi sulla piantana della flebo. Tolse la parrucca sistemandola delicatamente sulla testa di Sophie.
Sophie si tolse la parrucca con altrettanta delicatezza poggiandola sul letto accanto a sé. Squadrava i genitori. – Vi siete presentati prima dell’alba per dirmi che mio marito è un diavolo di un signor Nessuno non ebreo e non goy?
– Marito è un termine ormai improprio, – disse il dottor Schoenweiss, tornando a girarsi verso la finestra. – Diciamo piuttosto, per essere generosi, persona. E diciamo anche che siamo qui nel momento piú opportuno. Alan e Ira stanno parlando con la persona alla stazione di polizia aiutati dal signor Kretzman –. Si interruppe. – Convinceranno la persona a concedere l’annullamento.
– Annullamento?
Gran parte della confusione e dei problemi derivarono dal fatto che Silverfish si rifiutò di sedere sotto il fiotto bianco di luce sulla già citata sedia, percorrendo invece il perimetro della stanza degli interrogatori della stazione di polizia come un animale pericoloso nella gabbia dello zoo, e dal fatto che Zero Kretzman – che, a voler essere sinceri fino in fondo, era uno zero quanto a cervello oltre che a fascino e perfino a capacità legali, e che non si era mai tolto la soddisfazione di vincere una causa contro Silverfish, e che tra le altre cose aveva stipulato un accordo di divorzio vantaggiosissimo grazie all’inverosimile abilità di Alan Schoenweiss, e che si trovava a voler disperatamente mettere Silverfish in una brutta posizione e al tempo stesso aiutare Alan Schoenweiss, un Alan cosí arrabbiato che in quel momento la pressione sanguigna rappresentava un pericolo – dal fatto che Kretzman continuasse a seguire Silverfish intorno alla stanza con una piccola torcia sfilata dalla tasca del pantalone pied-de-poule, cercando continuamente di puntarla sulla faccia continuamente girata di Silverfish, per sottoporlo a un parziale terzo grado; e quella specie di quadriglia tra chi puntava la luce e chi la evitava andò avanti finché Silverfish, che a dire il vero non aveva mai rivolto la violenza del proprio corpo contro nessuno, si stufò talmente di quell’assortimento di domande, accuse e parole grosse, di Kretzman e della sua luce in faccia, che alla fine strappò di mano a Kretzman la piccola torcia e cercò di ficcargliela nel naso, riuscendo soltanto a cavargli quasi un occhio, e di conseguenza Kretzman lanciò un urlo e cadde con l’abito e tutto il resto in ginocchio con le mani sulla faccia. Tale sviluppo tolse il vento alle vele sorprendentemente sensibili di Silverfish e, dopo essere rimasto qualche istante in piedi accanto alla figura di Zero che, in ginocchio, sembrava pregare in silenzio per salvarsi la vita e l’occhio, dopo qualche istante cosí Silverfish si ritrovò al tavolo degli interrogatori davanti a Alan e Ira Schoenweiss al limitare del rovente getto di luce proveniente dalla speciale sedia. A loro si uní momentaneamente anche Kretzman, con uno sfregio rosso sulla guancia e il labbro inferiore tremante. Silverfish si rivolse a Ira, che aveva uno sguardo fisso e inespressivo negli occhi simili a quelli di una formica, ingigantiti e non umani, tanto erano spessi gli occhiali.
Nel frattempo Alan non aveva staccato un attimo lo sguardo gelido dagli occhi penetranti di Solomon Silverfish. – Delle tante spiegazioni per il tuo comportamento di una vita me ne vengono in mente due, – disse in tono pacato, usando le dita per disegnarsi sotto il mento la guglia di una chiesa. – Una. Hai smaniato e sbavato tanto per la nostra Sophie quel giorno del 1953 al ballo da essere disposto a fingerti in un certo senso ebreo per una vita intera di inganni e finzioni.
– Finzioni?
– Oppure, due, cosa in un certo senso ancora piú sinistra e inquietante, allora come adesso sei cosí... – Alan ruppe la guglia e agitò una mano in aria, come se la parola giusta fosse lassú da qualche parte.
– Privo di identità, – bisbigliò Ira, guardando la macchia d’inchiostro sul taschino del pigiama di Silverfish.
Alan annuí. – Cosí privo di identità nella vita da essertene inventata una ancora prima di venire all’Università di Chicago a insinuare la tua falsa persona nella nostra amicizia e negli affetti di Sophie.
– Mancanza di identità? Insinuare?
– Loro sanno per certo che non sei né sei mai stato ebreo, – disse Kretzman, sorridendo quel tanto che gli concedeva la guancia. Si schiarí la gola. – Sapevi bene che Alan e Orly andavano al Sud a giocare a golf durante le vacanze prima della Pasqua ebraica. Sapevi anche che andavano nella Tidewater County in Virginia. Alan era in bagno a sfogliare l’elenco del telefono. Quand’ecco che ti trova Solomon Silverfish padre. Ciabattino. Scarpaio.
– Ormai quasi in pensione, – disse Silverfish, e annuí sorridendo.
– Oltre che nemmeno lontanamente ebreo, – disse Alan, rifacendo la guglia e usandola per darsi dei colpetti al mento. – Perché il sottoscritto è andato a trovare quel certo ciabattino, come se i privati facessero ancora le scarpe di questi tempi.
– Vedessi però che scarpe, se ricordo bene, – disse Silverfish. – Una vera specialità. Non c’era lavoro né piede troppo grande o troppo piccolo. Che scarpe!
– Non era ebreo, però, e nemmeno deceduto, a proposito, oltre che di una religione troppo inconsistente e superficiale per incantare il sottoscritto, – disse Alan.
– Gli hai parlato di me? Gli hai detto dove siamo io e Sophie? – Silverfish si sporse verso di lui.
– Ero troppo scioccato per dire qualcosa alla persona che mi stava davanti, – disse Alan. – Uno di quei cosiddetti tra virgolette cristiani rinati del Sud che prendono la religione dalla tivú o dalle videocassette arrivate per posta. Sul bavero portava una croce di plastica che luccicava al buio. E aveva una moglie che per decenni ha venduto cosmetici bussando alla porta di estranei e ora guida una Cadillac rosa.
– Una Lincoln, – disse Silverfish. – Della Mercury. Ho seguito un po’ le tracce di mamma e papà.
– Alla famiglia hai fatto credere che quei genitori fossero morti.
– Abbiamo tagliato i ponti quand’ero giovane. Non ci rivolgiamo quasi nemmeno piú la parola. Non ho mai parlato di genitori con voi. Non averne parlato vi ha spinti a credere che fossero morti?
– Non hai parlato del fatto che ti hanno cresciuto da goy amorale senza nemmeno la parvenza di una religione degna di questo nome, che ti sei presentato dalla nostra Sophie con un’identità culturale interessante né piú né meno di un formaggio da ammannirle per tutti gli anni della sua vita? – sibilò Alan, rosso in viso. S’interruppe, dandosi una calmata. – Parlavi come noi. Ci hai portati fuori strada con quel tuo modo di parlare.
– Parlare? Ho per caso letto la Costituzione Americana sbagliata? Non è un Paese dove si può parlare liberamente, questo?
– Qui c’è il dolo, Solomon, – si intromise Kretzman, sorridendo un pochino con un solo lato della faccia. Ignorò lo sguardo inferocito di Alan. – Parlavi con l’intento di imitare e fuorviare.
– Parlavo come parlavano i miei amici. Mi adeguavo. Parlavo come parlava la donna-che-amo-e-che-mi-ha-fatto-felice-per-trent’anni. Parlavo come mia moglie.
– Ti sei presentato al tempio, – bisbigliò Ira Schoenweiss. – Hai accettato gli inviti alla preghiera. Ti sei attenuto ai mitzvah, hai recitato il Mairev. Hai ballato la horah. Ti sei seduto al tavolo del seder. Hai bevuto Mogen David e mangiato pane azzimo.
– Ero compagno e ospite di mia moglie. Non ho detto una sola volta di essere nato ebreo.
– Ti sei convertito? – disse Kretzman. – Sei andato da solo a convertirti da qualche parte? È cosí che è andata?
– Sappiamo tutti che non può essere cosí, – disse Alan con un sospiro. – E poi, convertirti da che cosa? Dall’aver finto di essere chi non sei? Ha fatto una scelta, no? – disse guardando Silverfish. – Ha scelto di fuorviare e fingere fin dall’inizio. È stato abile e attento. Non l’avevano quasi sentito nemmeno parlare prima che gli levassero le ingessature e i fili dell’incidente d’auto, e a quel punto la nostra Sophie era già vittima del suo incantesimo.
– Demonio, – disse Kretzman.
Alan fece altri sospiri, sfregandosi le tempie. – Ti sei servito perfino del tuo stesso nome per ingannare, – disse. – Hai sfruttato anche quello –. Abbassò lo sguardo sul notes e sul dossier che aveva davanti. – Dopo un minimo di ricerche ho scoperto senza grandi difficoltà che il nome Silverfish in realtà deriva dal sassone antico «seolfor-fisc», termine idiomatico che significa grossomodo: «Pastore che ama alcune delle sue pecore oltre i limiti del buon gusto». Kretzman rise sotto i baffi. Alan guardò Silverfish scuotendo la testa. – Un nome non soltanto non ebreo, ma pure ripugnante. E «Solomon», a sentire lo scarpaio, non viene dai testi sacri ma da un certo Arnette Solomon, vice del generale Robert Lee durante la Guerra Civile, schiacciato dal suo cavallo alla Battaglia di Antietam. Una falsità dall’inizio alla fine.
– Mi sono dato il nome da solo? Ora sarei anche responsabile dei nomi? – Silverfish assestò qualche debole fendente al tavolo degli interrogatori. – Che storia è mai questa, Allie? Di che parliamo?
Alan Schoenweiss si sporse verso di lui. – In tutta serietà parliamo dell’annullamento di un matrimonio.
Silverfish guardò Alan come si guarda un pazzo.
– L’annullamento di un matrimonio mai coniugato per davvero perché è stato coniugato con l’inganno, – disse Zero Kretzman.
– Consumato, Zero, – mormorò Ira.
All’improvviso si capí che erano tutti stanchi. Silverfish guardò i suoi accusatori acquisiti. Si sfregò gli occhi. Scosse la testa, agitando i capelli. – Cosí dicendo date per scontata una cosa fondamentale oltre che sbagliata, – disse. – Date per scontato che tra me e Sophie sia come tra me e chiunque altro, nella fattispecie voi. Date per scontato che Sophie proceda alla cieca come voi. Tra me e Sophie ci sono gli stessi segreti che tra Ira e la sua pancia. Vale a dire nessuno.
– Nostra sorella non ingannerebbe né mentirebbe come hai fatto tu.
– Ma quale inganno e inganno, Alan, per l’amor di Dio –. Silverfish alzò la voce svettando sugli altri, la luce del lampione filtrata dalla pesante protezione di ferro alla finestra della stazione di polizia che gli tracciava un accenno di scacchiera sul viso. – E posso chiedervi perché cavolo fare questa cosa nel cuore della notte? Dimmi perché proprio ora, Allie. Perché ora in generale e ora in particolare?
– Ora in generale perché cosí sotto la fredda terra mia sorella non sarà schiacciata dal peso di anni di oltraggi alla sua fiducia e a quella della famiglia, – disse Alan in tono pacato. – Ora in particolare perché volevamo che fosse ora in particolare. Vogliamo veder sorgere un’alba del tutto nuova su Solomon Silverfish. Vogliamo guardarti guardare il sole che sorge sulla tua persona.
– E anche perché non dimentichiamo che con ogni probabilità vorrai andare al cimitero di prima mattina, – disse Kretzman. – Lungi da noi l’idea di trattenerti.
– Zero, per favore, – disse Ira.
Alan si sporse un altro po’. – Parliamo di annullamento sulla base dell’inganno, – disse, – oppure di divorzio sulla base dell’adulterio morboso –. Scosse la testa guardando il dossier. – E saprai senz’altro a cosa mi riferisco.
– Adulterio? Morbosità?
– Fare il cretino nel cimitero della famiglia di tua moglie, – disse un Kretzman dalla guancia gonfia, scuotendo la testa. – Scopazzare di nascosto sulle tombe dei tuoi parenti acquisiti con una fanciulla cosí giovane che potrebbe essere figlia per tutti noi.
Solomon si guardò intorno. – Fermi tutti. Mi sono perso. Di cosa sarei accusato ora?
Alan strinse le labbra e sollevò il dossier. – Ho assunto una persona che seguisse un certo Solomon Silverfish.
Silverfish fece tanto d’occhi. – Mi hai fatto seguire? E perché mai?
– L’investigatore che ho assunto sostiene e giura di averti visto varie volte al Sinai, cimitero degli Schoenweiss da generazioni. Ti vede là la mattina. Nel toupé di una giovincella. Sostiene anche di averti visto con i suoi occhi tra le braccia di una ancora piú giovane. Dice che certe volte balli sulle tombe. Le tombe degli Schoenweiss. Che smani. Cioè che vai scopazzando nei modi piú impensati. Con una ragazza giovane, mentre nostra sorella è malata e si fida di te.
– E voi credete a una cosa simile? – disse Silverfish. – Questo presunto inseguitore avrebbe le prove di quello che dice? Vi ha convinto dicendo di avermi visto con i suoi occhi? Ha delle foto? Mi piacerebbe proprio vederle.
– Ammette di avere dei problemi con la macchina fotografica, – disse Alan. – Sostiene che per procurarsi le foto richieste per un qualsivoglia processo gli basta che tu ti dia per qualche altra mattina ai tuoi bagordi irrispettosi e traditori. Io e Ira, però, non possiamo né desideriamo sopportarlo. Volevamo affrontarti e sentire quello che hai da dire, faccia a faccia.
– Dopo trent’anni di finzioni e menzogne vorresti che credessero a te anziché a una persona che non ha nessun interesse a mentire? – disse Kretzman.
– Kretzman, ti riduco a un colabrodo tale che non te lo scordi mai piú, – bisbigliò Silverfish. Guardò la grata, la finestra. Gli parve di scorgere l’accenno di un’ombra sfocata della prima luce mattutina. Ma non era detto.
Ira Schoenweiss si mise a piangere sommessamente. La mano che non reggeva un lurido fazzoletto a quadretti contro il naso era sul tavolo, una cosa flaccida e lentigginosa vicino al punto dove qualcuno sottoposto in passato a interrogatorio aveva lasciato intendere con un’incisione nel legno del tavolo che Zero Kretzman si facesse da solo una cosa anatomicamente impossibile.
Silverfish mise la mano pelosa sulla mano bianca di Ira. Rimasero cosí. La lampada presa al reparto delle foto segnaletiche emise un acuto, fievole lamento.
– Racconta, – bisbigliò Alan.
– Confessa, – bisbigliò Kretzman.
Qualcuno all’esterno bussò alla porta chiusa a chiave con fare concitato.
Se volete vedere degli ottantenni che magari io e voi ci arrivassimo cosí bene, guardate i genitori di Sophie. Il dottor Otto Schoenweiss e consorte. Il dottor Schoenweiss, dentista in pensione alto, dritto e in carne come un albero ben piantato, i folti capelli bianchi pettinati indietro a sormontare una faccia da uccello da preda di dimensioni maestose, con occhi che hanno visto il dolore e il declino nella bocca degli uomini e conoscono poco la paura e meno ancora la pietà. È un uomo la cui bellezza di uomo è pari alla dignità e all’eleganza. Il suo bavero sembra sempre reclamare un garofano. E la bellezza della signora Schoenweiss consiste nell’essere ben conservata, e fa piú effetto a ottantadue che a quarantadue anni perché che ci crediate o no è rimasta piú o meno uguale. Fisicamente fredda e dura fin dalla nascita, è invecchiata protetta come una mosca nell’ambra, l’interno vistosamente immune al tempo mentre solo l’involucro traslucido diventava via via piú duro e friabile e forse un po’ meno trasparente. I capelli neri duri e vaporosi che non cambiano forma dai tempi di Eisenhower, l’età del viso una questione non tanto di rughe quanto di rigidezza, il corpo sottile, spigoloso e coriaceo che a sbatterci la mano ti faresti male, le unghie di un rosso violento e simili ad artigli che ben si combinano con i suddetti maestosi tratti da uccello del marito dentista. Non un solo tremito nelle mani dei due Schoenweiss. Anziani in forma che dovrebbero essere d’esempio. Hanno sempre fatto sentire Sophie morbida, piccola e leggermente sporca. E, adesso, è in loro presenza che sente piú forte la puzza della propria malattia.
– Annullamento o divorzio, – dice la signora Schoenweiss lisciando la coperta di Sophie. – Preferibilmente l’annullamento sulla base di un matrimonio contratto con l’inganno. È questo che io e Tata, dopo tanto penare fra noi, veniamo a consigliarti.
– Veniamo adesso, caldi di letto, per veder cominciare insieme, tutti e tre, un giorno nuovo e sincero per la nostra unica figlia, – disse il dottor Schoenweiss, alla finestra, controllando l’orologio. – Anche se Mama va a colazione dalla signora Rotner a Hindsdale per il bridge.
– Lascia perdere la colazione, – disse la signora Schoenweiss, perlustrando con gli occhi il viso della figlia. – Io, Tata, Allie e Ira ne abbiamo discusso a lungo. In questo preciso istante Zero Kretzman, il procuratore distrettuale, li sta aiutando a torchiare quel falso per costringerlo a fare quella che secondo gli Schoenweiss è la cosa migliore, anche a costo di usare minacce di ripercussioni legali.
Sophie fece tanto d’occhi. – Dunque Ira ha mentito per far andare Solomon alla stazione di polizia con Allie e Kretzman? Ira Schoenweiss ha mentito nel cuore della notte all’unico vero amico che ha? Mente per contribuire a tendere una trappola che fa leva sulla messinscena, il trauma e l’ingiustizia?
– Ingiustizia è una parola molto lontana dall’ingiustizia quando si parla della persona di cui stiamo parlando, – sibilò la signora Schoenweiss mostrando denti che in sessantun’anni erano stati unicamente motivo di gioia e di orgoglio per il marito. Poi fece un sospiro e si ammorbidí. – Non costringerci a fare una cosa dolorosa. Te lo chiedo come madre. Non costringerci a darti le informazioni che ti daremmo se fossimo costretti a dartele, Sophie.
– No, no, diamole le informazioni, – disse Sophie, spostando lo sguardo dalla madre al padre. – Informiamoci pure –. Respirò toccando la parrucca che aveva accanto. – Che ne dite se vi informo io per un minuto circa? Che succede quando il dottor Prinzmetal scopre che io e Solomon non possiamo avere figli per colpa mia? Ce lo ricordiamo? Come si sente ciascuno di noi? Informiamoci su come ci sentiamo. Ira, Alan e Orly Schoenweiss sono dispiaciuti per Ira, Alan e Orly Schoenweiss, perché non possono diventare zii e zia dei piccoli Silverfish. Il dottor Otto Schoenweiss e signora sono dispiaciuti per il dottor Otto Schoenweiss e signora, perché la famiglia non si allarga oltre i figli di Allie e Orly. Sophie Silverfish è dispiaciuta per Sophie Silverfish, perché non può diventare madre e perché ha deluso la famiglia Schoenweiss e il marito-che-lei-ama –. S’interruppe, respirò e sbatté gli occhi malati e viscosi guardando fuori dalla finestra verso il piccolo cerchio sospeso di luce arancione sempre piú tenue dei lampioni. – E per chi è dispiaciuto Solomon Silverfish? – disse. – Solomon Silverfish è dispiaciuto soltanto per Sophie Silverfish, ecco per chi. Fiori ogni giorno per una settimana, sorprese e calore d’ogni genere e specie. Finge di dire che a pensarci bene lui i bambini non li sopporta, anche se possiamo sempre adottarne uno senza grandi problemi, se io e lui lo vogliamo. Dice che può trasformare la stanzetta dei bambini che avevate fatto costruire voi in uno studio per sé, pieno di peluche e con gli orsacchiotti sulla carta da parati. Mai un pensiero per Solomon Silverfish da parte di Solomon Silverfish. Mai un pensiero che non fosse per sua moglie, benedetta la mia fortuna perché è una vera magia che lui mi ami al punto da anteporre i miei sentimenti ai suoi –. Respirò. – Parliamo delle prestazioni legali gratis per tutti gli Schoenweiss, senza contare i vari Rotner, Kripke e Gupta e tutti quelli a cui basta fare il nome degli Schoenweiss; o se non proprio gratis comunque a prezzi stracciati, mentre Allie si rifiuta bellamente di fare altro che divorzi per tutti quanti, cosa che a me, fossi al posto dell’adorata Orly, darebbe da pensare. Parliamo di Solomon che per vent’anni tira fuori di galera quel piantagrane ubriacone per guida in stato d’ebbrezza nel cuore della notte. Parliamo di me, parliamo del fatto che Solomon ha dimostrato sempre e solo di amare sua moglie, la quale non merita né ha mai meritato un amore e una persona cosí –. Respirò. – Parliamo del cancro. Ricordiamoci che una certa persona si è accampata nella mia stanza al B’nai B’rith per una cosa come ventiquattr’ore al giorno finché i medici non dicono che quel Silverfish ha già penato abbastanza e gli danno il permesso di portarmi a casa. Parliamo di un uomo che trascura un lavoro che ama e che è la sua vita per la moglie che dimostra di amare di piú proprio quando lei ha piú bisogno di saperlo. Parliamo di un uomo con questa moglie che è mutilata...
– Sophie.
– Una moglie priva di importanti attributi femminili, che le pupille di quest’uomo ancora si dilatano quando i suoi occhi mi guardano. Un uomo che mi guarda ridurmi a un mucchietto d’ossa e protuberanze e odora il mio odore e asciuga le mie lacrime e quando serve porta via i miei escrementi come fossero regali e pulisce il mio vomito quando non faccio in tempo ad andare in bagno e non mi fa mai sentire debole, sporca, o meno persona, o meno Sophie del giorno in cui ha ballato insieme a me con le braccia rotte –. Sophie ebbe un violento attacco di tosse. – Potreste anche scoprire che è un marziano venuto dallo spazio, per quanto me ne importa. È mio marito e io e lui siamo uniti da una cosa chiamata amore che, casomai non l’aveste ancora sentita nominare, non è solo un sentimento, è un modo di vivere la vita con una persona, e la vostra Sophie malata è fatta di questo amore, di questa vita e di questo Silverfish, e la mia vita è la sua e tutt’e due siamo quello che siamo grazie all’altro –. Respirò rumorosamente. – Perciò se parlate ancora di divorzio, annullamento e fine del matrimonio mi vedrò costretta con grande rammarico a chiedervi di andarvene da casa mia –. Si appoggiò di nuovo ai cuscini. Quel discorso le aveva fatto diventare la pelle grigia, madida di sudore, e gli occhi verdi erano infossati dentro le orbite rotonde nere e livide, ancora piú nere di prima.
– Ma quell’uomo ha mentito! – urlò il dottor Schoenweiss dalla finestra, dimostrando che forse una cosa in lui era invecchiata: la voce per gridare. – Bugie sistematiche, della peggior specie, per una vita intera. Un popolo e una cultura...
– Un popolo e la sua cultura non valgono una cicca se a tenerli insieme non c’è quello che Dio, e lo ringrazio ogni minuto, ha concesso a me e al mio Solomon di avere insieme, – disse Sophie piú forte che poteva. Respirò e chiuse gli occhi. Deglutí. – E questa è una, la cosa che ho detto. Ecco l’altra. Credete davvero che sia cosí stupida? Solomon non mi ha mai detto una sola bugia, né io ho mai detto a mio marito una cosa che non fosse vera.
– Ti ha detto che la sua era una messinscena?
– Potrei vivere con un uomo trent’anni e non conoscere il suo cuore? Se tu e Mama vi amate, fate la messinscena quando ricordate le vostre origini?
– Dunque ti ha detto: Sophie, ha detto, non sono ebreo ma diamola a bere alla fiduciosa famiglia? Facciamoci due risate?
– Non mi hai capito. No, non l’ha fatto.
– Allora posso chiederti cos’ha fatto?
Sophie guardò i propri capelli sul letto. – Abbiamo semplicemente smesso di essere diversi l’uno dall’altra nelle cose che contano.
– E invece salta fuori che tu sei diversa, ecco perché dopo esserci dati tanta pena siamo venuti.
– Non è cosí, – disse Sophie. Respirò. Deglutí. Sotto il sudore era diventata del colore che hanno le vongole vecchie.
– Ti senti bene, Sophie? – La signora Schoenweiss la guardava.
– Sto per vomitare, temo, – disse Sophie con un filo di voce. Cercò debolmente di uscire dalle coperte. Aveva il polso ancora legato al tubicino. La boccia piena di luce tintinnò sulla piantana.
– Oddio –. La signora Schoenweiss si alzò dal letto e indietreggiò, tastandosi i lati dei capelli, guardando. – Oddio.
Sophie diede di stomaco sul letto. Una volta finito smise di sprofondare dentro se stessa e tornò a sprofondare nei cuscini.
– Troppo tardi, – disse. – Un attacco di nausea –. Tossí.
– Mi sa che il nuovo sole sta per sorgere, – disse il dottor Schoenweiss dalla finestra.
– Lascia perdere il sole! Tua figlia ha appena vomitato sul letto!
– Ora sto bene, credo, – disse Sophie con un filo di voce.
– Viene qualcuno a pulire? – domandò la signora Schoenweiss da diversi metri di distanza. Guardò il letto e la camicia da notte di Sophie.
– Mary, quella della clinica, alle dieci. Sto bene. Scusate.
– Ti senti bene?
– Sono stanca, Mama.
– È colpa nostra che siamo venuti cosí. L’ho detto ad Alan ho detto sole o non sole, signora Rotner o non signora Rotner.
Sophie scosse la testa umida. – Colpa vostra la stanchezza? No. Dare per scontato che vostra figlia non sappia leggere dentro un cuore e che vostro-cognato-che-vivuole-bene-piú-che-a-se-stesso non sia la persona che è, che... – tossí di nuovo, – sia diverso. Gettate discredito su tutti gli Schoenweiss e su due... Silverfish.
– Ti senti bene?
– Sto bene.
– È sangue, quello? Otto, vedo del sangue!
– Sangue?
C’era del sangue.
– Otto!
– Sophie?
– Chiamate mio marito.
– Chiama l’ospedale!
– Chiamate mio marito.
– Chiamo Alan.
– Otto, ma lei sta bene?
– Chiamate Solomon, per favore.
– Otto, sta sanguinando!
– Che ti credi, che sono cieco? Che non vedo il sangue?
– Sophie?
– Sto bene.
Ecco Solomon Silverfish, due mesi fa, a marzo, sessantenne, la sera del giorno in cui i medici avevano riportato Sophie in ospedale dopo che la febbre era schizzata alle stelle arroventando ogni cielo. Recidiva, avevano sentenziato i medici senz’ombra di dubbio, forse anche metastasi. Ora è sera e Silverfish è a casa a lavare i piatti incrostati della colazione, a lavare se stesso e a preparare le cose da portare a Sophie nella stanza d’ospedale al reparto oncologia. È profondamente sconvolto. In questo momento si predispone a lavare i piatti, strizzando le ultime gocce di detersivo liquido dalla bottiglia quasi vuota dentro il lavandino pieno d’acqua tiepida. Guarda il lavandino di schiuma, le bolle tante piccole cupole rifrangenti viola e rosso diafano. Fuori è tutto uno sciogliersi delle nevi di marzo. Le auto passando rombano sulla neve di marzo sciolta. In casa di Silverfish invece è la fine di una lunga estate gialla. La testa di Silverfish è insieme ai piatti dentro l’acqua saponata del lavandino. La braccia schiaffeggiano un pochino l’aria. Sotto l’acqua dei piatti lui lancia un unico lunghissimo urlo. L’urlo di Silverfish riempie le bolle di sapone che lasciano il lavandino. Salgono. Turbinano nell’aria della cucina schiaffeggiata appena da Silverfish, salgono e scoppiano contro il soffitto con piccoli, nitidi friniti avanzati dall’urlo di Silverfish. Ci sono tante di quelle bolle che sembra di essere al Lawrence Welk Show. Il suono invece è quello delle cavallette di tanto tempo prima, un campo di cavallette e insetti tra il friabile tabacco della Virginia, la gramigna e il grano nano, a cuocere e urlare in una canicola tarda e secca che si porta dietro l’odore della propria fine. Vi provocherebbe uno choc fisico scoprire quanto tempo Silverfish riesca a tenere una nota.
Ecco di nuovo Silverfish, di nuovo sessantenne, la mattina prestissimo, stamattina, nella Thunderbird rossa decappottabile, tornare a casa a tutta velocità dalla centrale di polizia dove si trovava. Con lui ci sono Alan e Ira
Schoenweiss. E anche Zero Kretzman. Le parole pronunciate nell’auto sono per l’esattezza nessuna. La nenia di una sirena in lontananza. Il vento colpisce con violenza i capelli di Silverfish. I capelli scagliati da un lato dal vento coprono la faccia di Ira Schoenweiss, compresi gli occhiali assai appannati. Ira non accenna un solo gesto per spostare il velo di capelli. Tutti i semafori vengono ignorati. Il cielo a est, sopra il lago, sta passando dal nero a qualunque sia il colore piú chiaro che viene subito dopo il nero.
Troppo Carino
Se ti va di giocare, lascia perdere l’amico mio S. S. Perché l’amico mio ti fa un culo cosí con quella ventiquattrore, quelle bracciacce che va sparazzando di qua e di là e la voce come il treno soprelevato che t’acchiappa al volo dal binario, c’ha un ruggito che manca poco che t’inghiotte. Meglio girare al largo dall’amico mio. Ti fa un culo cosí, ti fa. Ma a quel figlio di buona donna ci piace il mio karma, va’ a sapere perché. E pure a me mi piace quel bianco di merda. È fuori come un balcone. C’ha la moglie col cancro e cazzi vari. Sembra una specie di morta vivente e cazzi vari. Ma che ti credi che l’amico mio l’ama quella bagascia? L’amico mio fra un po’ muore tanto che l’ama. Sono pappa e ciccia quei due. È sempre a lei che ci va a rompere i coglioni per ogni minima stronzata, come fai con le bagasce quando diventano uguali a te. S. S. ora è un mese che fa? piglia e mi porta a cena al suo country club. Io sono tutto in tiro quella sera e porto il culo in ’sto posto pieno di facce color vomito tirate a lucido e in tenuta da funerale e vestitini scollacciati addosso alle vecchie bagasce piatte come tavole e il luccichio di scintille delle forchette d’argento che è come uno che quando si fa poi dopo è cieco. Uno stronzetto collo smoking non ti prova a levarmi il cappello prima che ci fa sedere? Il muso bianco ha rischiato di brutto, caro mio. Ma l’amico mio S.S. ci pensa lui, e zitto zitto dice al pinguino che o si leva di torno o lo riduce a un colabrodo, e il pinguino schioda senza un fiato. Me ne sto lí che mi mangio ’ste buonezze dei bianchi con la bella argenteria del club e davanti c’ho pure una buonezza di scotch whisky d’annata, mentre l’amico mio non beve e manco tocca quasi cibo, sta solo lí che per un casino di tempo mi guarda che mastico e cazzi vari, mi rende nervoso, e alla fine si guarda attorno e s’avvicina tanto che ci vedo gli spazi fra i capelli lunghi e fini fini che fanno pena e cazzi vari col riportino sopra la zucca. Si guarda attorno e s’avvicina e ci chiede a Troppo Carino un poco d’erba per la sua bagascia, che quella piglia le medicine per il cancro che ci fanno vomitare pure gli occhi che si sente cosí male che vorrebbe morire tanto che c’ha la nausea. L’amico mio ci chiede a Troppo Carino un po’ di marijuana di prima qualità, che è cosí che dice lui, perché alla sua bagascia cosí non ci fa piú male la pancia e cazzi vari. Io piglio m’alzo subito e lo porto alla mia macchina che sta al parcheggio e ci do una bustina di quella proprio buona che Troppo Carino quel giorno ce l’aveva per sé. Non voglio manco che l’amico mio mi paga, non voglio mica. Oh, ci dico, tu tieni il culo mio e quello delle mie bagasce fuori dal gabbio e allo sgobbo cosí Troppo Carino se la passa cosí bene che se ne sbatte assai d’essere pagato e cazzi vari. Ci dico che non voglio sentirci dire stronzate, solo che la sua bagascia si sente meglio prima è meglio è. E quella è roba che t’aggiusta un casino di cose, t’aggiusta. Troppo Carino la dà a Candice, a Monica e a Wardine quando sono cosí ubriache che poco ci manca che vomitano davanti ai clienti e cazzi vari. Una bagascia che vomita davanti al cliente quel cliente poi se lo scorda per sempre. E le bagasce devono stare allo sgobbo. La roba che c’ho dato all’amico mio le rimette al mondo, le rimette.
Ma l’amico mio piglia e dice che la sua bagascia è la vita sua. Dice che la sua bagascia è lui, dice. Sophie si chiama. Che è carina pure, la bagascia. Una volta la vado a trovare all’ospedale del cancro coll’amico mio. Ma quant’è secca ’sta bagascia, oh. Gli occhi tutti pesti attorno al fuori, e il dentro tutto impiastricciato da quello che vede che sta per arrivare. Tutt’impiastricciati dalla morte, oh. Come Brenda quando s’è sparata in vena quella merda tailandese che c’aveva dato Reginald e ha capito subito che proprio no, quella merda non andava e che mo’ ci lasciava le bucce. Gli occhi vedono la morte e s’impiastricciano tutti come quelli della bagascia che veniva. Se a Troppo Carino ci chiedi com’è darci una leccatina là sotto a una bagascia che sa che sta per lasciarci le bucce lui mica te lo sa dire. Ci devi passare per capirlo. Ma l’amico mio dice che la sua bagascia è la vita sua, dice. Chi ci capisce è bravo. M’ha messo in moto le rotelle della capoccia, m’ha messo. Il Carino qui presente non vedeva l’ora di telare da quell’ospedale, caro mio, quel posto tanfava di merda incrostata e tutti gli occhi erano biglie impiastricciate, ma quella bagascia secca e sofferente senza capelli né tette e coi bozzi su tutto il corpo suo bianco è la vitadell’amico mio. Mica scherza, quello. Ci dico S. S., ci dico, io l’amore lo vedo da certe angolazioni che tu manco te le sogni ma mai ho visto un bianco che ama una bagascia come tu ami ’sto stecchino senza tette dentro a ’sto lettino di ferro. Che ti credi, che l’amico mio s’incazza? Non s’incazza mai con Troppo Carino, quello. Guarda solo Troppo Carino in faccia cogl’occhi belli azzurro dopobarba e profondi come tutta quanta la testa e mi domanda se amo me stesso. E quando dico chi cazzo devo amare se non quel culo nero di Troppo Carino, l’amico mio dice te lo dico io, negretto, lui mi chiama cosí, negretto, e mi stende. Mi dice ce l’hai davanti, Londell. La bagascia è la mia vita. La vera lei, per il sottoscritto, non è malata, è solo che al momento non sta proprio una bellezza e cazzi vari. Altro che una bellezza ci dico la bagascia è conciata proprio male con tutti quei bozzi e i tubi che ci spuntano dappertutto. L’amico mio si scalda. Dice che tubi bozzi e cazzi vari sono la malattia e cazzi vari, non la sua Sophie. Che non c’è malattia che può mettere le grinfie sue bianche e congelate su quello che la sua signora è per davvero. L’amico mio lui sí che la sa lunga. E Troppo Carino sa che è per questo che S. S. non sta lí a torcersi le budella e a consumarsi gli occhi e cazzi vari, è tutto serietà di ferro e logica avvocatesca, vuole che la bagascia sua non sente piú male dentro. All’amico mio ci do certa roba di prima qualità giusto lí nel parcheggio. M’ha steso, m’ha, ’sto ebreo. Come se non era manco bianco e cazzi vari. Come se era un casino di cose tutte quante assieme.
Ma questa qui, questa è roba bianca assai. E buona? Louise, Louise. Si capisce che è roba buona perché quando che entra dentro è una goduria. Devi vedere cosa che non provano le bagasce. Che poi è il mestiere di Troppo Carino. È roba che mi sono procurato da DuWayne. DuWayne se la fa dare da un muso giallo che vive colla sorella. Quello conosce certi in Birmania. DuWayne sa come te l’ho conciato Reginald dopo che ci ha dato quella roba a Brenda, e mo’ sta attento che alle bagasce non ci succede niente. Ti scivola dentro che è una bellezza quella roba, oh. Si scioglie e tu senti dentro tanti ghirigori lisci lisci come il ghiaccio che si scioglie dentro al gin d’estate e ti sale bollente e sottile per tutto quanto il corpo finché non arriva alla testa e tu ti stacchi da terra come una mongolfiera, ti stacchi. L’amico mio S.S. dice a Troppo Carino io l’eroina non l’approvo, Londell. Niente eroina, grazie tante. L’eroina è una faccenda legale brutta e rischiosa. Ma a fine serata a Troppo Carino ci piace di mettersi comodo nella macchina sua a contare i guadagni e a fare le prove e cazzi vari per capire che si cacciano in corpo le bagasce. Un capo che non divide l’ago con le sue bagasce è un pappamolla e cazzi vari. Wardines sta lí fatta come una biglia sul sedile posteriore, ci devo togliere il laccio emostatico tanto che è partita, ’sta bagascia. Sto dentro una nebbia birmana calda e rosa e cazzi vari pure io mo’ e c’ho intenzione di rannicchiarmi e farmi un bel viaggetto interiore per un po’ di spazio e tempo, finché non torno coi piedi per terra tutto infoiato che poi una volta a casa mi faccio Wardine e magari pure Monica. Prima però Troppo Carino guarda l’alba dal parabrezza della macchina sua. Volete vivere una cosa bella della vita? Giratevi a est e guardate il sole sorgere sotto l’effetto di certa roba birmana di quella buona. Quel sole ti rivolta come un calzino, ti rivolta. Il posto dove a Troppo Carino piace di piú guardarlo è ’sto bel cimitero antico dei bianchi, il cimitero Sinai, un parco mortifero per ricconi a un tiro di sputo da Pulaski e Fuller. Parcheggi la macchina in ’sta stradina di lapidi vicino al cancello laterale a ovest, ti spari ’sta roba buona di DuWayne, parti e guardi la vita salire in un cerchio di sangue al rallentatore sopra file di morte bianco lapide. Cazzo, ti vengono i brividi per quanto è bello e strano. Quello sorge e tu senti dentro ’sta cosa sciogliersi e guardi quella figata della curva nera del cielo di Dio diventare cenere e poi viola e poi rosso sangue su un oceano di ghiaccio di musi bianchi che sotto le lapidi bianche fanno certi sorrisi freddi e bianchi. Troppo Carino mo’ vede il sole diventare rosso e cazzi vari. Capito? Una mezza moneta rovente che brucia a est tra le sbarre di ’sto cancello di ferro a ovest fa una gabbia di sangue dell’alba e c’è ’sta foschia mattutina che sembrano tanti fiumi di carta sulla terra grigioverde e le lapidi bianche e Troppo Carino non sa se è foschia dell’alba o è lui che è fatto ma è sangue bollente, quella luce, sangue bollente che pompa dietro la gabbia di quel cancello con quelle sbarre belle nuove di ferro chiaro e una stella grande quanto il sole che sta pure lei in cima al cancello, una stella strana ma proprio strana, manco che due triangoli scopassero nel cielo con quella cazzo di nebbia rosso sangue che brucia e li attraversa e si spacca in tante ombre puntute e angoli smangiati di luce sangue.
E io ci provo, caro mio. Sento Wardine fare le fusa come una gatta mentre attraverso il parabrezza pulito guardo il cerchio intero del sole tutto nuovo che comincia a sanguinare attraverso l’erba verde lucida e bagnata, la pietra fredda e due mezze stelle che scopano nel fuoco. E sono cosí fatto che comincio a sclerare e alla luce di quel calore rosso e nuovo attraverso il vetro attraverso il parabrezza mi sembra che vedo l’amico mio S. S. dietro la gabbia di un cancello. È l’amico mio. L’amico mio S. S. è lí, tra le lapidi che girano e girano, e balla pure con una bagascia! E attraverso la foschia birmana che c’ha dentro gli occhi Troppo Carino guarda il fuoco e vedo. Sono l’amico mio e la sua bagascia, la secca, mo’ però mica è secca, caro mio, lei e l’amico mio due ragazzini sembrano, pieni di sogni latte e fotti, e ballano dritti dritti con un’allegria tutta nuova in quella foschia di sangue nuovo, ballano torno torno a un mucchio di lapidi bianche che non c’hanno il nome sul marmo. E il cancello a ovest manda un luccicore ch’è troppo rosso per essere giusto, e l’amico mio e la sua bella giovincella ballano, lei lo tiene per la vita mentre lui c’ha le braccia belle spalancate, come se s’è fatto male, come che sta inchiodato all’aria e cazzi vari. Ballando ballando tornano alla lapide e la bagascia dell’amico mio apre le gambe con ’ste belle calze bianche da infermiera o da suora, mette le gambe attorno alla vita dell’amico mio, che lui sta sulla lapide fredda, e colle mani sue tutto da sola ’sta bella bagascetta toma toma si prende ’ste calze bianche e se le strappa, se l’abbassa, e quelle scendono squarciate ai lati delle gambe che sono due belle gambe bianche, curve lucide di latte, io mi raddrizzo dentro la macchina e lei fa alzare l’amico mio, e si fanno le cosette come i bambini, troppo pulite, troppo felici, l’amico mio sul marmo, e gli unici rumori che senti sono il respiro mio e il respiro di Wardine e ’sto mugolio alto alto e fino fino del cancello in fiamme e le lapidi che sparano un fuoco di luce tutto loro al sole. Troppo Carino comincia a pensare che ’sta roba di DuWayne dev’essere che è un po’ troppo forte quando l’amico mio e la sua signora che c’ha attorno cominciano a venire verso il cancello, verso di me, S. S. che cammina come niente fosse con le braccia inchiodate in un mare di nebbia rossa che s’alza attorno alle gambe biancolatte biancopanna che lei ci tiene attorno, e la bagascia c’ha la testa buttata all’indietro, e l’amico mio c’ha gli occhi negli occhi di Troppo Carino attraverso la luce, la gabbia e il vetro, e io succede che sclero, caro mio. Il sole è piú caldo piú gonfio piú rosso piú nuovo di ogni altro ieri, e una nebbia di sangue che non mi riesco a levare dagli occhi s’alza attorno all’amico mio che poi si vedono solo la faccia e un gira gira di capelli lucidi neri come la notte che poi sono i bei capelli di Sophie la sua signora, e lei ci tiene le braccia intorno al collo e ride cosí felice che Troppo Carino non l’ha mai sentita una cosa cosí. Sono troppo fatto. La nebbia birmana rossa scoppia come atomi di luce e cazzi vari, brucia attraverso la gabbia e la macchina e io e i miei occhi, gli occhi sos di Troppo Carino bruciano ch’è una bellezza, e le ossa sono un forno, e Wardine si lamenta per conto suo. La luce passa attraverso tutti quanti noi, e il rosso che ch’ho dentro ribolle attorno all’amico mio e alla sua signora, e poi il sole brilla di un giallo bello nuovo nuovo ma la gabbia della tomba rimane piena della luce insanguinata di prima, e le lapidi e le stelle vanno a fuoco e poi io mi caco sotto e dalla bocca mi esce il succo del libro degli ebrei perché vedo la faccia biancovomito, biancopanna, biancomorte dell’amico mio alle sbarre della gabbia delle tombe, e la sua signora gli sta combinando qualcosa nel rosso che c’è dietro, e sopra a tutto quel nuovo rumore forte l’amico mio dice negretto zitto zitto e io lo sento che l’amico mio dice negretto, vuoi sapere l’ultima? E da come parla oggi capisco che è sempre l’amico mio. C’ho la bocca piena di paura sporca e l’amico mio fa vieni qui col dito, e io mi chiedo se la sua signora s’è persa nel rosso, e Troppo Carino si ritrova col naso spiaccicato contro il parabrezza e l’amico mio Solomon Silverfish sta lí nel sangue della gabbia infuocata e apre la bocca per dire cazzo nessun bastardo bianco ha il diritto di sapere e io lecco con la lingua secca e sporca il vetro pulito e bollente, e aspetto. E poi dal nuovo sole esce la signora Sophie dell’amico mio che sta dietro all’amico mio alle sbarre e ci attorciglia i bei capelli notte attorno alla faccia e alla barbetta e lo acceca nel sangue e la mia bagascia Wardine là dietro piglia e mi mette le mani sugli occhi e sussurra lenta come la crema emolliente biancomorte indovina chi sono Carino caro, mi copre la visuale, e ride e mi respira dentro l’orecchio come s’è cosí fatta che col cavolo che ci ritorna sulla terra, e c’ha le belle mani scure sopra la mia faccia e gli occhi colla foschia e ride e la signora dell’amico mio grida forte dall’alto e il dentro della mano di Wardine è sangue che mi acceca sangue che vedo arrivare dalla nuova luce e bruciare attraverso le mani sangue che vedo pompare in una gabbia di belle ossa sottili che dall’odore sono bianche come lapidi. E in quella gabbia di ossa il sole rosso va su e giú e su e giú.