sabato 6 novembre 2021


 NON SI PUÒ ESSERE PIÙ POVERI CHE DA MORTI

Estratto da Flannery O'Connor "Tutti i racconti"


INTRODUZIONE 

Di Marisa Caramella


Questo racconto riporterà ogni lettore che abbia ricevuto una normale educazione cattolica ai tempi dell’adolescenza e dei primi dubbi sulla credibilità dei dogmi della Chiesa, dall’Immacolata Concezione all’Infallibilità del Pontefice. Tanti di noi hanno probabilmente rinunciato all’ortodossia cattolica per un più “razionale” modo di rapportarsi alla divinità, o per l’agnosticismo, o per l’ateismo, proprio a causa dell’impossibilità di credere, alla lettera, a una di queste incontestabili verità della Chiesa di Roma. E la Resurrezione della Carne è senza dubbio la più difficile da contemplare, per la mente razionale. Chiunque ricorderà la propria immaginazione adolescenziale alle prese con un quadro impossibile: quello dei miliardi di corpi che sorgono intatti dalla tomba per congiungersi con la divinità in Paradiso o per essere dalla medesima cacciati all’Inferno. Non era tanto il concetto di una divinità così crudele da condannare irrevocabilmente anche una sola delle proprie amate creature a una pena eterna, quanto quella schiera di corpi-anime intatti, con le loro caratteristiche umane e mortali, incolonnati dalle fosse scoperchiate verso il cielo, a essere poco credibile, a mettere a dura prova un’immaginazione anche fervida come quella adolescente. Una volta deciso che la Resurrezione della Carne non poteva che essere una pietosa bugia, il passo seguente era quello di mettere in dubbio, se non di ridicolizzare, tutte le altre verità rivelate: e dalla decisione di trovarle ridicole alla perdita della fede, il passo diventava molto breve. E veniva spesso compiuto, da una generazione già messa duramente alla prova, negli anni dell’infanzia, dalla Madonna Pellegrina e dal divieto di recarsi a messa la domenica con la camicetta senza maniche. Sto ovviamente parlando degli anni cinquanta, che sono quelli in cui Flannery O’Connor scrive le sue prime storie (la raccolta A Good Man Is Hard to Find viene pubblicata negli Stati Uniti nel 1955). Ora, rileggendo questi racconti a distanza di una trentina d’anni, succede una cosa straordinaria. La penna della O’Connor riesce a fare il miracolo che più di un decennio di indottrinamento cattolico non era riuscito a compiere: la Resurrezione della Carne torna improvvisamente a essere una possibilità, se non reale almeno contemplabile. E il miracolo lo compie il fatto che non è più la propria scarsa immaginazione a dover venire a patti con una possibilità di così difficile concezione, ma quella di questa eccentrica scrittrice americana. E non è che la O’Connor si metta, dantescamente, a raffigurare le schiere dei risorti, le sfere del Paradiso e gli abissi dell’Inferno. Il miracolo, nel racconto sopraccitato, viene fatto, come tutti i miracoli degni di questo nome, con un materiale molto povero. C’è una squallida baracca in una radura in mezzo ai boschi, nel Sud degli Stati Uniti; c’è un bambino che in quella casa e in quella radura è stato allevato dal vecchio prozio nella convinzione che vita migliore di quella che conducevano in quel posto, dimenticato dagli uomini ma non da Dio, non ci potesse essere; c’è un giovane zio che vorrebbe prendersi cura del bambino: un insegnante, autore di saggi per riviste specializzate, un intellettuale, un uomo razionale; c’è l’assistente sociale che lo accompagna quando questi decide di sottrarre il piccolo al destino cui l’ha condannato la caparbietà del vecchio; e c’è il vecchio, irascibile, violento, testardo, superstizioso, che ha un solo motivo di vita: crescere il piccolo secondo i “principi”, per far sì che sia in grado di seppellirlo cristianamente, al momento buono, in modo che il suo corpo possa affrontare integro il Giorno del Giudizio e la Resurrezione della Carne. Poco importa che il vecchio sia cattolico o genericamente cristiano, l’intenzione della O’Connor è quella di dimostrare la superiorità di ogni convinzione religiosa su quella qualità “diabolica” che è spesso, secondo lei, il buon senso laico. Un quadro, quello fornito da questo racconto (diventato in seguito il primo capitolo del secondo, e più importante, romanzo della O’Connor), che qualunque mente “razionale” non avrebbe problemi ad analizzare e interpretare, fornendo poi soluzioni adeguate; che qualunque scrittore laico non potrebbe che presentare enfatizzando le tinte fosche della superstizione e quelle chiare della presa di coscienza, dell’intervento sociale e umanitario. Un bozzetto ideale per uno scrittore o regista americano della scuola impegnata degli anni sessanta o settanta. Ma che la penna di Flannery O’Connor – che pure non disdegna le tinte fosche, anche se non le adopera certo per colorire la “superstizione” – riesce a presentarci come perfettamente reale senza per questo ipotizzare o auspicare soluzioni di alcun genere, tantomeno razionali, tantomeno umanitarie, tantomeno semplici. Chi è l’eroe positivo della storia? Non certo l’assistente sociale, che viene ridicolizzata e liquidata in poche, lapidarie righe. Non certo l’insegnante-saggista, che fa la stessa fine, e viene raccontato in tutta la sua presunzione e mediocrità. Non certo il vecchio, che pure ha maggiore dignità degli altri, sdraiato nella bara che si è fabbricato da sé in vista della propria cristiana sepoltura. Non certo il ragazzo Tarwater, che si dibatte in un dilemma analogo a quello che la nostra mente razionale cattolicamente educata non riusciva a risolvere. Protagonista del racconto è il “mistero”. Il mistero è, per questa autrice, oltre a quello sotteso a ogni verità rivelata della Chiesa Cattolica, anche quello che anima la scrittura, l’arte, e la rende tale: “Credo che uno scrittore serio descriva l’azione solo per svelare un mistero. Naturalmente, può essere che lo riveli a se stesso, oltre che al suo pubblico. E può anche essere che non riesca a rivelarlo nemmeno a se stesso, ma credo che non possa fare a meno di sentirne la presenza.”1 Una dichiarazione come questa lascia chiaramente intravedere un binomio arte-religione, risolutivo del problema dell’esistenza, se non del suo mistero. Viene quindi da stupirsi che dagli anni cinquanta in poi molti critici e letterati si siano impegnati a spiegare in termini di contraddizione, di dualismo, l’atteggiamento, nella vita e nella scrittura, di un’autrice che in realtà trovava impossibile spiegare con mezzi diversi che non l’arte, la complessità del mondo e dell’uomo. Flannery O’Connor è, insieme a William Faulkner, l’unica scrittrice americana contemporanea che abbia avuto l’onore di vedere la propria opera pubblicata da The Library of America. Su di lei sono stati scritti volumi di critica, gran parte dei quali intesi a svelare il “mistero” della sua fede religiosa cattolica ortodossa, del suo rifiuto di affrontare il razzismo sudista in termini di problema sociale, della sua ostinazione a rappresentare la natura umana come luogo della lotta tra il Bene e il Male, della sua insistenza nel porre il lettore di fronte a personaggi con i quali è possibile identificarsi soltanto superando un’istintiva repulsione, abbandonando ogni compiacimento di sé e della propria immagine e lasciandosi trascinare dal fascino della scrittura.


Note


1 Conversations with Flannery O’Connor, a cura di Rosemary M. Magee, University Press of Mississippi, Jackson & London, 1987, p. 9.

NON SI PUÒ ESSERE PIÙ POVERI CHE DA MORTI

Lo zio di Francis Marion Tarwater era morto solo da mezza giornata quando il ragazzo si ubriacò al punto da non esser più in grado di scavargli la fossa, e un negro di nome Buford Munson, venuto a riempire una brocca d’aceto, fu costretto a finire il lavoro al posto suo, a rimuovere il cadavere dalla tavola della prima colazione, dov’era ancora seduto, e a dargli una decente sepoltura cristiana, con il simbolo del Salvatore piantato sulla tomba e sufficiente terriccio sopra il corpo da evitare che i cani, raspando, lo scoprissero. Buford era arrivato verso mezzogiorno, e quando se ne andò, al tramonto, il ragazzo Tarwater non era ancora tornato dalla distilleria.

Il vecchio era stato il prozio di Tarwater o, almeno, aveva sostenuto di esserlo, e, per quanto ne sapeva il ragazzo, aveva sempre vissuto lì con lui. Lo zio aveva sempre raccontato di aver preso con sé il bambino, col proposito di allevarlo, quando aveva già settant’anni compiuti; era morto a ottantaquattro, quindi Tarwater calcolava di avere quattordici anni. Lo zio gli aveva insegnato a leggere, a scrivere e a far di conto, e gli aveva raccontato la storia del mondo, dalla cacciata di Adamo dal giardino dell’Eden, attraverso tutti i presidenti fino a Herbert Hoover, e poi ancora, per congetture, fino al secondo avvento e al giorno del giudizio. Oltre a fornirgli una buona istruzione, il vecchio l’aveva salvato dall’unico altro parente che aveva, il nipote del vecchio Tarwater, un insegnante che a quel tempo non aveva figli suoi e che avrebbe voluto allevare quello della sorella morta secondo i propri principi. E il vecchio sapeva bene quali fossero, questi principi.

Tarwater aveva passato tre mesi, a casa di questo nipote, che una volta gli aveva offerto ospitalità per carità cristiana: o almeno, così aveva pensato prima di accorgersi che quell’ospitalità non aveva niente a che fare con la carità cristiana o cose del genere. Per tutto il tempo che il vecchio aveva passato in quella casa, il nipote non aveva fatto altro che spiarlo e studiarlo in segreto. Il nipote, che gli aveva dato ospitalità in nome della carità cristiana, si era al tempo stesso insinuato nella sua anima dalla porta di servizio, ponendogli domande ambigue, che avevano più di un significato, disseminando la casa di trappole per vederlo cascarci dentro; e alla fine aveva prodotto un saggio sul suo comportamento, che era stato subito pubblicato in una rivista per insegnanti. Il fetore di questo tradimento aveva raggiunto il cielo, ed era stato il Signore in persona a trarre in salvo il vecchio. Il Signore gli aveva mandato una visione di furore, gli aveva detto di scappare con l’orfanello, di rifugiarsi in un luogo selvaggio e isolato, e allevarci il bambino per giustificare la sua redenzione. Il Signore gli aveva assicurato una lunga vita, e lui aveva prelevato il bambino di sotto il naso all’insegnante e l’aveva portato a vivere in una radura in mezzo ai boschi che aveva in usufrutto fino alla morte.

Alla fine Rayber, l’insegnante, aveva scoperto il loro rifugio ed era venuto a prendersi il bambino. Aveva dovuto lasciare la macchina sulla strada sterrata e farsi un miglio a piedi dentro i boschi, lungo un sentiero che appariva e spariva, prima di arrivare al campo di granturco in mezzo al quale sorgeva la squallida baracca a due piani di Tarwater. Il vecchio aveva spesso e volentieri rievocato per il ragazzo la faccia rossa, sudata, piena di morsi d’insetti, del nipote, che appariva e spariva tra il granturco, seguita dal cappello rosa, adorno di fiori, dell’assistente sociale che si era portato dietro. Il granturco arrivava fino a mezzo metro dalla veranda di casa, e non appena Rayber era uscito fuori di tra le spighe, il vecchio era apparso sulla porta con il fucile, e aveva detto che avrebbe sparato al piede che avesse osato sfiorare la sua soglia. I due erano rimasti immobili a confrontarsi, mentre l’assistente sociale si affacciava di tra le spighe, arruffata e scombussolata come una gallina sorpresa sulla covata. Il vecchio raccontava che, se non fosse stato per l’assistente sociale, suo nipote non avrebbe fatto nemmeno un passo in avanti, ma lei era rimasta lì, in attesa, a spingere indietro le ciocche di capelli tinti di rosso che le si erano incollate alla fronte alta. Entrambi avevano la faccia graffiata e sanguinante per i rovi, e il vecchio ricordava anche un ramoscello di mora che pendeva dalla manica della camicetta dell’assistente sociale. La donna non aveva dovuto far altro che espirare lentamente, come se stesse mandando fuori l’ultimo filo di pazienza esistente in terra, che subito Rayber aveva alzato il piede per deporlo sulla soglia della baracca, ed era stato allora che il vecchio gli aveva sparato alla gamba. I due si erano dati a una fuga precipitosa, sparendo tra le spighe con un gran fruscio, e la donna aveva strillato: “Lei sapeva che era pazzo!” Ma, quando erano usciti fuori sull’altro lato del campo, il vecchio Tarwater aveva visto, dalla finestra del piano di sopra alla quale era corso ad affacciarsi, che l’assistente sociale circondava Rayber con un braccio, per sorreggerlo, mentre il poveretto entrava zoppicando nel bosco. E in seguito era venuto a sapere che l’aveva sposata, anche se lei aveva il doppio dei suoi anni e quindi non avrebbe potuto dargli che un solo figlio. La donna aveva sempre impedito a Rayber di ritornare.

La mattina della sua morte, il vecchio era sceso, si era preparato, come al solito, la colazione e aveva esalato l’ultimo respiro, prima di potersi portare una sola cucchiaiata di cibo alla bocca. Il pianoterra della baracca era occupato unicamente dalla cucina, una stanza grande e buia, con una stufa a legna nel mezzo e un tavolaccio accanto. Negli angoli erano ammucchiati sacchi di mangime e pastone, e c’erano rottami di metallo, trucioli, vecchie corde, scale a pioli e altri materiali infiammabili su tutto il pavimento, nei posti in cui Tarwater o il ragazzo li avevano lasciati. Avevano dormito in cucina fino alla notte in cui una lince era saltata dentro dalla finestra, convincendo il vecchio a portare il letto di sopra, dove c’erano due stanze vuote. A quel tempo, Tarwater aveva profetizzato che tutti quei gradini da salire gli avrebbero portato via dieci anni di vita. Al momento della morte, si era seduto alla tavola della colazione, aveva portato il coltello stretto nella mano rossa e squadrata fin quasi alla bocca, e poi, con un’espressione assolutamente stupefatta, l’aveva abbassato fino ad appoggiare la mano sull’orlo del piatto, sollevandolo di scatto dal ripiano del tavolo.

Era un vecchio taurino, con la testa corta appoggiata direttamente sulle spalle, e occhi d’argento, sporgenti, che sembravano due pesci in lotta per uscir fuori da una rete di fili rossi. Portava sempre un cappello color gesso con la tesa rialzata tutt’intorno, e sopra la maglietta una giacca grigia che una volta era stata nera. Il ragazzo, seduto a tavola di fronte a lui, vide dei cordoni rossi apparirgli in faccia, e un tremito percorrerlo tutto. Era come il tremito di un terremoto cominciato dal cuore che si propagava dappertutto, sul punto di raggiungere la superficie. La bocca gli si piegò bruscamente all’ingiù, su un lato, e rimase esattamente come lui, in perfetto equilibrio, con la schiena a venti centimetri buoni dallo schienale della sedia e lo stomaco imprigionato proprio sotto il bordo del tavolo. I suoi occhi, d’un argento morto, erano fissi sul ragazzo seduto di fronte.

Il ragazzo sentì il tremito trasmettersi al proprio corpo e percorrerlo tutto, leggero. Capì che il vecchio era morto anche senza toccarlo, e restò seduto a tavola davanti al cadavere: finì la colazione in preda a una specie di cupo imbarazzo, come se si trovasse alla presenza di una persona nuova e non riuscisse a trovare niente da dirle. Alla fine, fece con voce querula: “Calma, calma. Ti ho già detto che ci penso io.” La sua voce suonò come quella di uno sconosciuto, come se la morte avesse cambiato lui, invece del vecchio.

Si alzò, portò il piatto fuori dalla porta di servizio e lo mise sul gradino più basso. Due galletti selvatici, neri, con le zampe lunghe, si precipitarono attraverso il cortile verso il piatto e lo ripulirono. Tarwater si sedette su una lunga cassapanca di pino sulla veranda, e le sue mani si misero automaticamente a sbrogliare un pezzo di corda, mentre la faccia lunga, a forma di croce, fissava davanti a sé, oltre la radura, i boschi che correvano a ondate grigie e viola fino a sfiorare la fortezza azzurra della fila di alberi che si stagliava contro il cielo vuoto del mattino.

La radura distava di parecchio non solo dalla strada sterrata, ma anche dalla carraia e dal sentiero, e i vicini più prossimi, di colore, non bianchi, dovevano ancora attraversare il bosco, facendosi largo tra i rami dei pruni, per raggiungerla. Il vecchio aveva piantato un acro di cotone, sulla sinistra, oltre la recinzione, fin quasi a ridosso della casa. I due trefoli di filo spinato tagliavano a metà il campo di cotone. Un banco di nebbia, a forma di gobba, strisciava verso la barriera, pronto a passarci sotto come un segugio bianco, e ad avanzare nel cortile.

“Ora sposto quel recinto,” disse Tarwater. “Non voglio un recinto proprio in mezzo al campo.” Parlava con una voce ancora strana e sgradevole, sonora, e pronunciò tra sé e sé il resto di quel pensiero: perché ora questo posto è mio, che mi appartenga o meno, perché io sono qui e nessuno riuscirà a mandarmi via. Se qualche insegnante oserà venire a reclamare la proprietà, lo ucciderò.

Indossava una tuta sbiadita e un cappello tirato giù sulle orecchie come un berretto. Imitava l’abitudine dello zio di non togliersi mai il cappello tranne che per coricarsi. Aveva sempre imitato le abitudini dello zio, fino a quel momento, ma: se voglio spostare quel filo spinato prima di seppellirlo, non ci sarà un’anima a impedirmelo, pensò, nessuno farà obiezione.

“Seppelliscilo, prima, e falla finita,” disse la voce sonora e sgradevole dello sconosciuto, e il ragazzo si alzò e andò in cerca della pala.

La cassapanca di pino sulla quale si era seduto era la bara destinata allo zio, ma lui non intendeva usarla. Il vecchio era troppo pesante perché un ragazzo magro come lui potesse sollevarlo oltre il bordo della cassa, e il vecchio Tarwater, nonostante l’avesse fabbricata con le sue mani qualche anno prima, aveva detto di lasciar perdere, se non fosse riuscito a infilarcelo al momento buono, e di limitarsi a metterlo nella fossa così com’era, di controllare solo che fosse abbastanza profonda. La voleva profonda tre metri, aveva detto, non solo due e mezzo. Aveva lavorato alla cassa a lungo, e quando l’aveva finita ci aveva inciso sopra: MASON TARWATER, CON DIO, ci era saltato dentro, là, sulla veranda, e ci si era sdraiato lungo disteso, per un bel po’, invisibile tranne che per lo stomaco che sporgeva dal bordo come una grossa pagnotta troppo lievitata. Il ragazzo, ritto di fianco alla cassa, l’aveva osservato a lungo. “Questa è la fine che facciamo tutti,” aveva detto il vecchio in tono soddisfatto, e la voce raschiante si era alzata dalla cassa, sincera ed esuberante.

“Sei troppo grosso per questa cassa,” aveva detto il ragazzo. “Dovrò sedermi sul coperchio, o aspettare che tu marcisca.”

“Non aspettare,” aveva detto il vecchio. “Ascolta. Se al momento buono non ti sarà possibile usare la cassa, se non riuscirai a sollevarla o che so io, allora lascia perdere e mettimi nella fossa così come sono. Ma che sia profonda. Tre metri, non solo due e mezzo: tre. Potrai farmici rotolare dentro, alla peggio. Rotolerò, vedrai. Dovrai prendere un paio di assi, appoggiarle sopra i gradini, farmi rotolare giù, e scavare la fossa nel punto in cui andrò a fermarmi. E non farmici rotolare dentro fino a quando non sarà abbastanza profonda. Appoggiami contro una fila di mattoni, per non lasciare che rotoli prima del tempo, e stai attento che i cani non mi ci spingano dentro col muso prima che sia finita. Sarà meglio che tu li rinchiuda, i cani,” aveva detto.

“E se muori nel tuo letto?” aveva chiesto il ragazzo. “Come farò a trascinarti giù per le scale?”

“Non morirò nel mio letto,” aveva detto il vecchio. “Appena capirò che è arrivato il momento, correrò di sotto. Mi avvicinerò più che potrò alla porta. Ma se per caso dovessi rimanerci proprio lassù, mi farai rotolare giù per le scale, ecco tutto.”

“Dio mio,” aveva detto il bambino.

Il vecchio si era alzato a sedere dentro la cassa e aveva abbassato di colpo il pugno sul bordo. “Ascolta,” aveva detto. “Non ti ho mai chiesto niente. Ti ho preso, ti ho allevato e ti ho salvato da quell’idiota giù in città, e adesso tutto quello che voglio da te in cambio è che quando morirò tu mi metta nella terra alla quale appartengono i defunti e pianti una croce sulla tomba perché tutti sappiano che sono là sotto. Ecco tutto quello che voglio da te, nient’altro al mondo.”

“Sarà già molto se riuscirò a metterti sottoterra,” aveva detto il bambino. “Sarò troppo stanco per piantare anche la croce. Non avrò tempo per queste stupidaggini.”

“Stupidaggini!” aveva sibilato lo zio. “Imparerai cos’è una stupidaggine il giorno in cui quelle croci verranno raccolte! Seppellire convenientemente i morti potrebbe essere l’unico onore che mai riserverai a te stesso. Ti ho portato quassù per crescerti come un cristiano,” aveva urlato, “e che io sia dannato se non lo diventerai!”

“Se io non avrò la forza di far tutto da solo,” aveva detto il bambino, guardando il vecchio con studiato distacco, “avviserò lo zio giù in città, perché possa venire quassù a prendersi cura di te. L’insegnante,” aveva poi aggiunto con accento strascicato, osservando che i segni sulla faccia butterata del vecchio erano già impalliditi contro il viola della pelle. “Ci penserà lui, a te.”

I fili rossi che trattenevano gli occhi del vecchio si erano ingrossati. Aveva afferrato il bordo della cassa con entrambe le mani e aveva dato una spinta in avanti, come se volesse farla volar giù dalla veranda. “Mi farebbe cremare,” aveva detto con voce rauca. “Mi farebbe cremare in un forno e spargerebbe le mie ceneri. ‘Zio,’ mi ha detto una volta, ‘tu appartieni a una razza quasi estinta!’ Sarà ben contento di pagare un becchino per bruciarmi e poter spargere le mie ceneri,” aveva detto. “Lui non crede nella resurrezione. Lui non crede nel giorno del giudizio. Lui non crede nel...”

“I morti non si curano dei particolari,” l’aveva interrotto il ragazzo.

Il vecchio l’aveva preso per la tuta e l’aveva trascinato fino alla cassa, di modo che le loro facce erano venute a trovarsi a pochi centimetri l’una dall’altra. “Il mondo è stato fatto per i morti. Pensa a tutti i morti che ci sono,” aveva detto, e poi, come se avesse trovato la risposta a ogni insolenza, aveva aggiunto: “Ci sono un milione di volte più morti che non vivi, e i morti sono morti da un tempo un milione di volte più lungo di quanto i vivi non siano vivi!” E aveva lasciato andare il ragazzo con una risata.

Solo da un leggero fremito degli occhi, Tarwater aveva lasciato capire di essere scosso da quelle parole, e un minuto dopo aveva detto: “L’insegnante è mio zio. Il solo consanguineo che avrò vivo quando tu sarai morto, e se volessi andare da lui, ci andrei, adesso.”

Il vecchio l’aveva guardato in silenzio per quello che era sembrato un intero minuto. Poi aveva battuto due manate sui lati della cassa, ruggendo: “Chi è attratto dalla peste, alla peste! Chi dalla spada, alla spada! Chi dal fuoco, al fuoco!” e il bambino si era messo a tremare visibilmente.

Lo zio è vivo ora che il vecchio è morto, pensò mentre andava a prendere la pala, ma che si provi a venir qui e a cacciarmi dalla proprietà e gli farò vedere io! Lo ucciderò! “Va’ da lui e che tu sia dannato,” aveva detto il vecchio. “Ti ho salvato finché ho potuto, ma se tu andrai da lui non appena sarò morto, non potrò più far niente per te.”

La pala era a terra, appoggiata alla parete del pollaio. “Non metterò mai più piede in città,” disse Tarwater. “Non andrò mai da lui. Né lui né nessun altro potrà mai cacciarmi da questo posto.” Decise di scavare la fossa sotto il fico, perché il cadavere del vecchio avrebbe fatto bene alla pianta. Il terreno era sabbioso, in superficie, ma c’era un blocco solido più sotto, e la pala mandò un rumore metallico, quando Tarwater la infilò nella sabbia. Cento chili di carne da seppellire, pensò, e restò fermo con un piede appoggiato alla pala, chino in avanti, con gli occhi fissi sul cielo bianco che si intravedeva tra le foglie dell’albero. Gli ci sarebbe voluto tutto il giorno, per scavare una fossa abbastanza grande in quel terreno duro, solido, e l’insegnante ci avrebbe messo solo un minuto, a bruciare il cadavere.

Tarwater non aveva mai visto l’insegnante, ma aveva visto suo figlio, un bambino che somigliava al vecchio Tarwater. Il vecchio era stato così sconvolto dalla somiglianza, quella volta che erano andati da loro, in città, che era rimasto sulla porta, con gli occhi fissi sul bambino e la lingua che gli rotolava dentro la bocca come quella di un idiota. Quella era stata la prima e l’unica volta che il vecchio aveva visto il bambino. “Tre mesi laggiù,” diceva. “Che vergogna. Tradito per tre mesi nella casa dei miei stessi parenti, e se quando sarò morto vorrai consegnarmi a chi mi ha tradito e vedere il mio corpo ridotto in cenere, fa’ pure. Fa’ pure, ragazzo!” aveva gridato, alzandosi a sedere nella cassa, con la faccia tutta chiazze. “Fa’ pure, e lascia che mi riducano in cenere, ma poi sta’ attento alla morsa che ti stringerà il collo, così!” e aveva piegato la mano ad artiglio, nell’aria, per far vedere a Tarwater la morsa che l’avrebbe perseguitato. “Verrò gonfiato dal lievito nel quale lui non crede,” aveva detto, “e non brucerò. E quando me ne sarò andato, starai meglio qui in questi boschi, da solo, con tutta la luce che quel sole nano riesce a mandare, che non in città con lui!”

La nebbia bianca aveva attraversato il cortile ed era sparita dentro una depressione del terreno, e ora l’aria era trasparente e vuota. “I morti sono poveri,” disse Tarwater con la voce dello sconosciuto. “Non si può esser più poveri che da morti. Dovrà accontentarsi.” Nessuno mi può più dar fastidio, pensò. Nessuno. Mai più. Nessuna mano si alzerà più a trattenermi. Un cane color sabbia batté la coda per terra, poco lontano, e alcune galline nere grattarono l’argilla che Tarwater aveva scoperto con la pala. Il sole era scivolato oltre la linea azzurra degli alberi e, circondato da un alone giallo, si stava spostando lentamente nel cielo. “Adesso posso fare tutto quello che voglio,” disse il ragazzo, addolcendo la voce dello sconosciuto per poterla sopportare. Potrei ammazzare queste galline, se me ne venisse voglia, pensò, guardando gli inutili volatili neri che lo zio aveva allevato con tanta cura.

“Faceva un sacco di sciocchezze,” disse lo sconosciuto. “La verità è che era infantile. Ma come, quell’insegnante non gli aveva mai fatto del male. L’aveva solo osservato e aveva scritto giù quello che aveva visto e sentito per pubblicarlo in un giornale in modo che anche gli altri insegnanti potessero leggerlo. Ora, cosa c’è di male a fare una cosa come questa? Ma niente, niente. Chi se ne frega di quello che leggono gli insegnanti. E il vecchio pazzo si è comportato come se gli avessero affondato un coltello nell’anima. Be’, non è mica morto per quello, nemmeno per sogno. È campato altri quindici anni e ha tirato su un ragazzo per seppellirlo proprio come voleva.”

Mentre Tarwater squarciava il terreno con la pala, la voce dello sconosciuto prese un tono di furia contenuta e continuò a ripetere: “Tu devi seppellirlo tutto intero e con le tue sole forze, mentre quell’insegnante lo brucerebbe in un minuto.” Dopo un’ora e più di lavoro, la fossa era profonda solo una trentina di centimetri, non quanto il cadavere, comunque, non ancora. Tarwater si sedette sull’orlo dello scavo per un po’. Il sole era come una piaga bianca, purulenta nel cielo. “I morti sono molto più impegnativi dei vivi,” disse lo sconosciuto. “Quell’insegnante non ci crederebbe mai, nemmeno per un minuto, che nel giorno del giudizio i corpi marcati dalla croce risorgeranno. Nel resto del mondo le cose vanno diversamente da come ti hanno insegnato.”

“Lo so. Ci sono stato, là fuori, io,” borbottò Tarwater. “Nessuno deve insegnarmi niente.”

Due o tre anni prima, lo zio l’aveva portato in città per andare dall’avvocato e cercare il modo di tagliar fuori Rayber dalla successione e lasciare la proprietà direttamente a Tarwater. Tarwater si era seduto davanti alla finestra dell’avvocato, al dodicesimo piano, e aveva guardato giù dentro la fossa della via cittadina, mentre lo zio parlava d’affari. Durante il tragitto dalla stazione allo studio, aveva camminato a testa alta tra la massa di metallo in movimento e il cemento cosparso degli occhi piccolissimi della gente. Il luccichio dei suoi, di occhi, era protetto dalla tesa rigida di un cappello nuovo, grigio, in perfetto equilibrio sulle orecchie sporgenti. Prima di intraprendere quel viaggio, aveva letto l’almanacco, e sapeva che c’erano sessantamila persone in quella città, persone che l’avrebbero visto per la prima volta. Avrebbe voluto fermarsi a stringer la mano a tutti, e dire che si chiamava Francis Marion Tarwater, e che era lì solo per un giorno, per accompagnare lo zio dall’avvocato. La sua testa si girava di scatto a guardare ogni persona che passava, fino a quando non avevano cominciato a esser troppe, e si era reso conto che i loro occhi non si piantavano nei suoi come quelli della gente di campagna. Alcuni passanti lo urtavano, e quel contatto, che avrebbe dovuto stabilire un rapporto lungo una vita, non serviva a niente, perché le sagome proseguivano dritte per la loro strada a testa china, mormorando delle scuse che Tarwater avrebbe accettato, se solo si fossero date la pena di fermarsi e aspettare. Davanti alla finestra dell’avvocato, si era inginocchiato, aveva lasciato ciondolare la testa giù verso la strada fluttuante e cosparsa di puntolini che si muovevano là sotto come un fiume di latta, e aveva guardato il riverbero del sole che vagava pallido nel cielo pallido. Bisogna fare qualcosa di particolare, per costringerli a guardarti, aveva pensato. Non hanno nessuna intenzione di guardarti solo perché Dio ti ha fatto. Quando tornerò per restare, aveva detto tra sé e sé, farò qualcosa che obbligherà tutti a incollare gli occhi su di me; e sporgendosi ulteriormente, aveva visto il proprio cappello cadere giù delicatamente, smarrito, indifferente. La brezza ci si era gingillata un po’, prima che scomparisse schiacciato dal traffico sottostante. Tarwater si era portato le mani alla testa nuda, ed era ricaduto all’indietro, dentro la stanza.

Lo zio stava discutendo con l’avvocato, e tutt’e due picchiavano i pugni sul ripiano del tavolo che li separava, piegavano le ginocchia e picchiavano i pugni contemporaneamente. L’avvocato, un uomo alto con la testa a cupola e il naso aquilino, continuava a ripetere, contenendo a malapena uno strillo acuto nella voce: “Ma non sono stato io, a fare il testamento. E nemmeno la legge.” E la voce raschiarne dello zio: “Non posso farci niente. Mio padre non avrebbe voluto che le cose andassero in questo modo. Bisogna tagliarlo fuori. Mio padre non avrebbe sopportato di vedere un idiota ereditare la sua proprietà. Non è questa la sua volontà.”

“Ho perso il cappello,” aveva detto Tarwater.

L’avvocato si era buttato indietro contro lo schienale della poltrona, l’aveva fatta girare cigolando verso Tarwater, e aveva guardato il bambino senza un’ombra di interesse negli occhi azzurro pallido. Poi era tornato a girarsi cigolando, e aveva detto allo zio: “Non c’è niente che io possa fare. Lei sta sprecando il suo tempo e il mio. Le conviene rassegnarsi a questo testamento.”

“Senta,” aveva detto il vecchio Tarwater, “c’è stato un momento in cui ho pensato di essere un uomo finito, vecchio e malato, sul punto di morire, senza soldi, senza niente, e ho accettato l’ospitalità di quell’idiota perché era il mio parente più prossimo ed era suo dovere, se così vogliamo dire, prendersi cura di me, solo che pensavo che lo facesse per carità, pensavo...”

“Io non posso farci niente se lei o il suo parente avete fatto o detto o pensato questo e quello,” aveva detto l’avvocato, e aveva chiuso gli occhi.

“Mi è caduto il cappello,” aveva detto Tarwater.

“Io sono soltanto un avvocato,” aveva detto l’avvocato, lasciando vagare lo sguardo sopra le file di libri color argilla che fortificavano il suo ufficio.

“Ormai probabilmente ci è passata sopra una macchina.”

“Senta,” aveva detto lo zio, “per tutto quel tempo, lui non ha fatto altro che studiarmi per un saggio che stava scrivendo. Mi ha preso con sé solo per studiarmi da vicino per questo saggio. Ha fatto prove segrete su di me, sangue del suo sangue, ha spiato dentro la mia anima come un guardone, e poi mi ha detto: ‘Zio, tu sei un esemplare di una razza quasi estinta!’ Quasi estinta!” aveva esclamato il vecchio, stridulo, riuscendo appena a trarre di gola un filo di voce. “Lo vede anche lei, se sono estinto!”

L’avvocato aveva chiuso gli occhi e aveva sorriso con una guancia sola.

“Ci saranno pure altri avvocati,” aveva ringhiato il vecchio. Se n’erano andati, e avevano fatto visita ad altri tre avvocati, senza interruzione, e Tarwater aveva contato undici uomini con un cappello che avrebbe potuto essere o non essere il suo. Alla fine, quando erano usciti dallo studio del quarto avvocato, si erano seduti sul davanzale della finestra di una banca, e lo zio si era frugato in tasca per cercare i biscotti che si era portato dietro. Ne aveva dato uno a Tarwater. Il vecchio aveva sbottonato la giacca e aveva permesso al proprio stomaco di sporgere in avanti e rilassarsi, mentre mangiava. Le sue mascelle lavoravano furiosamente. La pelle tra una cicatrice e l’altra si era fatta rosa, poi viola, poi bianca, e le cicatrici sembravano saltare da un posto all’altro. Tarwater era molto pallido, e i suoi occhi lucevano di una strana profondità vuota. Portava un vecchio fazzoletto da lavoro sulla testa, con quattro nodi agli angoli. Non osservava più i passanti, che invece ora osservavano lui. “Grazie a Dio, abbiamo finito, qui, e possiamo tornarcene a casa,” aveva borbottato.

“Non abbiamo affatto finito, qui,” aveva detto il vecchio. Si era alzato di scatto e si era incamminato lungo la strada.

“Gesù mio,” aveva sibilato il ragazzo, facendo un balzo per raggiungerlo. “Non possiamo restar seduti un momento? Non hai proprio un minimo di buon senso? Ti dicono tutti la stessa cosa. La legge è una sola, e non c’è niente che tu possa farci. L’ho capito perfino io. Perché non vuoi capirlo anche tu? Che cosa ti succede?”

Il vecchio camminava a grandi passi con la testa spinta in avanti, come se stesse annusando la pista di un nemico.

“Dove andiamo?” aveva chiesto Tarwater, dopo che erano usciti dal quartiere degli affari, mentre stavano oltrepassando file di case bulbose con verande sporche di fuliggine che incombevano sui marciapiedi. “Ascolta,” aveva detto, dando un colpo sull’anca allo zio, “non ti ho mai chiesto di portarmi qui.”

“Me l’avresti chiesto ben presto,” aveva borbottato il vecchio. “Fai il pieno adesso che puoi.”

“Io non ho mai chiesto di fare il pieno. Non ho mai nemmeno chiesto di venire qui. Sono arrivato qui prima ancora di sapere che qui era qui.”

“Ricordati una cosa,” aveva detto il vecchio. “Quando mi chiederai di tornarci, non dimenticarti che ti ho detto di ricordarti che non ti piace, qui.” E avevano continuato a camminare, percorrendo un tratto di marciapiede dopo l’altro, passando davanti a file e file di case incombenti con le porte semiaperte che lasciavano passare un po’ di luce asciutta a rischiarare i corridoi macchiati all’interno. Alla fine, erano sbucati in un altro quartiere dove le case erano tozze e quasi identiche: ciascuna aveva un fazzoletto d’erba davanti, e pareva un cane acquattato con una bistecca rubata tra le zampe. Dopo qualche isolato, Tarwater si era lasciato andare sul marciapiede e aveva detto: “Non farò un passo di più.”

“Non so nemmeno dove stiamo andando e non farò un passo di più!” aveva gridato dietro alla sagoma pesante dello zio, che non si era fermato né girato a guardare. Allora, in un secondo, era saltato in piedi e aveva ricominciato a seguirlo, pensando: se gli succedesse qualcosa, sarei perduto, qui.

Il vecchio continuava ad avanzare instancabile come se l’odore del sangue lo guidasse sempre più vicino al posto in cui si nascondeva il suo nemico. All’improvviso aveva imboccato il breve viale che portava a una casa giallo pallido, e si era avvicinato con andatura rigida alla porta bianca, con le spalle pesanti raccolte in avanti come se volesse sfondarla a mo’ di bulldozer. Aveva sferrato un pugno al legno, ignorando un battente di ottone lucidato. Quando Tarwater l’aveva raggiunto, la porta si era già aperta e nel vano era apparso un bambino piccolo, grasso, dal colorito roseo. Aveva i capelli bianchi, portava un paio di occhiali cerchiati d’acciaio, e guardava il vecchio con due occhi d’argento pallido identici ai suoi. I due erano rimasti immobili a fissarsi: il vecchio Tarwater con il pugno alzato, la bocca aperta e la lingua che rotolava da una parte all’altra come quella di un idiota. Per un attimo il bambino grasso era parso immobilizzarsi per la sorpresa. Poi era scoppiato in una risata sguaiata. Aveva alzato il pugno, aveva aperto la bocca, e aveva cominciato a far rotolare la lingua a tutto spiano. Gli occhi del vecchio sembravano sul punto di uscire dalle orbite.

“Di’ a tuo padre,” aveva ruggito, “che io non sono estinto!”

Il bambino aveva cominciato a tremare come se fosse stato investito dallo spostamento d’aria di una deflagrazione, e aveva accostato la porta, nascondendosi quasi del tutto. Lo spiraglio lasciava vedere soltanto uno dei suoi occhi protetti dalle lenti. Il vecchio aveva afferrato Tarwater per una spalla, l’aveva costretto a girarsi, e l’aveva spinto giù per il vialetto, via da quella casa.

Non ci era ritornato mai più, non aveva mai più rivisto il cugino, non aveva mai visto l’insegnante, e sperava, disse allo sconosciuto che stava scavando la fossa con lui in quel momento, di non vederlo mai, con l’aiuto di Dio, anche se non aveva niente contro di lui e gli sarebbe dispiaciuto ucciderlo. D’altra parte, se fosse venuto fin lassù, a immischiarsi in quelli che non erano affari suoi se non per quanto riguardava la legge, sarebbe stato costretto a farlo.

“Ascolta,” disse lo sconosciuto, “perché mai dovrebbe voler venire quassù, dove non c’è niente?”

Tarwater ricominciò a scavare e non rispose. Non cercò la faccia dello sconosciuto, ma ormai sapeva che era intelligente, benevola e saggia, protetta da un cappello a tesa larga e rigida. Non provava più antipatia per il suono della voce. Semplicemente, di tanto in tanto, gli sembrava quella di uno sconosciuto. Cominciò a capire che solo in quel momento stava iniziando a conoscere se stesso, come se non gli fosse stato possibile farlo prima della morte dello zio, come se lui glielo avesse impedito.

“Non voglio negare che il vecchio fosse una brava persona,” disse il nuovo amico, “ma come hai detto tu: non si può essere più poveri che da morti. I morti devono accontentarsi. Ora la sua anima se ne è andata da questa terra mortale, e il suo corpo non può più sentire nessun tormento: né del fuoco né di altro.”

“Era al giorno del giudizio, che pensava,” disse Tarwater.

“Be’,” disse lo sconosciuto, “non credi anche tu che una croce piantata nel 1954 o nel 1955 o nel 1956 marcirebbe del tutto, prima del giorno del giudizio? Che diventerebbe polvere, come le sue ceneri, se tu lo riducessi in cenere? E lascia che ti dica un’altra cosa: come farà, Dio, con i marinai annegati in mare e mangiati dai pesci mangiati da altri pesci mangiati da altri pesci e così via...? E che mi dici delle persone bruciate naturalmente nell’incendio della loro casa? Bruciate in un modo o nell’altro, o ingoiate e ridotte in poltiglia da qualche macchina? E di tutti quei soldati saltati in aria e disintegrati? Di tutti quelli naturalmente ridotti in pezzi?”

“Se lo bruciassi,” disse Tarwater, “non sarebbe una cosa naturale, sarebbe una cosa fatta apposta.”

“Oh, capisco,” disse lo sconosciuto. “Il giorno del giudizio ti preoccupa, ma non per lui, per te.”

“Questi sono affari miei,” disse Tarwater.

“Non è che voglia farmi gli affari tuoi,” disse lo sconosciuto. “Non me ne importa niente. Tu sei solo in questo posto sperduto. Solo per sempre in questo posto sperduto con la poca luce che quel sole nano riesce a mandare. Non c’è un’anima a cui importi qualcosa di te, per quanto ne so.”

“Redento,” borbottò Tarwater.

“Fumi?” chiese lo sconosciuto.

“Fumo se mi va, e non fumo se non mi va,” disse Tarwater. “Seppellisco se ce n’è bisogno, e non seppellisco se non ce n’è bisogno.”

“Vai a dare un’occhiata, per vedere se è caduto dalla sedia,” suggerì il nuovo amico.

Tarwater lasciò cadere la pala nella tomba e tornò verso casa. Aprì di poco la porta e appoggiò la faccia alla fessura. Lo zio fissava lo sguardo torvo su un punto vicino a lui, come un giudice davanti a una terribile prova. Il ragazzo chiuse in fretta la porta e tornò alla tomba. Aveva freddo, nonostante il sudore che gli incollava la camicia alla schiena.

Il sole era proprio sopra la sua testa, apparentemente immobile, come se trattenesse il fiato in attesa che il mezzogiorno passasse. La tomba era profonda circa sessanta centimetri. “Tre metri, ricordatelo,” disse lo sconosciuto, e rise. “I vecchi sono egoisti. Bisogna aspettarsi pochissimo, da loro. Bisogna aspettarsi pochissimo da chiunque,” aggiunse, e lasciò andare un sospiro piatto, come un refolo di sabbia alzato e lasciato cadere all’improvviso dal vento.

Tarwater alzò gli occhi e vide due sagome avanzare attraverso il campo, un uomo e una donna di colore, ciascuno con una brocca vuota per l’aceto appesa a un dito. La donna, alta, dai tratti indiani, portava un cappello verde. Passò sopra la staccionata senza fermarsi e avanzò nel cortile verso la tomba. L’uomo abbassò il filo di ferro, lo scavalcò con una gamba, e la seguì da vicino. Tenevano gli occhi fissi sulla fossa, e si fermarono accanto all’orlo per guardar giù dentro il terreno squarciato con un’espressione sconvolta e soddisfatta. L’uomo, Buford, aveva una faccia avvizzita e scura come un panno bruciato, più scura del cappello che portava. “Il vecchio se n’è andato,” disse.

La donna alzò la testa e lasciò andare un gemito lento e prolungato, acuto e formale. Mise giù la brocca, incrociò le braccia, poi le alzò per aria e tornò a gemere.

“Dille di piantarla,” disse Tarwater. “Comando io, qua, adesso, e non voglio lamenti di negri.”

“Ho visto il suo spirito per due notti,” disse la donna. “L’ho visto per due notti e non aveva riposo.”

“È morto soltanto questa mattina,” disse Tarwater. “Se quello che volete è riempire quelle brocche, datemele e continuate a scavare mentre le riempio.”

“Prediceva la propria morte da anni,” disse Buford. “Lei l’ha visto in sogno per molte notti e non aveva riposo. Io lo conoscevo bene. Lo conoscevo bene davvero.”

“Povero caro dolce bambino,” disse la donna a Tarwater, “che cosa farai ora qui tutto solo in questo posto sperduto?”

“Farò gli affari miei,” ringhiò il ragazzo, strappandole di mano la brocca, e allontanandosi così in fretta che quasi perse l’equilibrio. Attraversò a grandi passi il campo dietro casa verso il limitare dei boschi che circondavano la radura.

Gli uccelli si erano rifugiati nel folto del bosco per sfuggire al sole di mezzogiorno, e un tordo, nascosto da qualche parte davanti a Tarwater, lanciò ripetutamente le stesse quattro note, intervallate da una pausa di silenzio. Tarwater si mise a camminare più in fretta, poi cominciò a procedere balzelloni, e in un attimo si trovò a correre come se qualcuno lo inseguisse, scivolando giù per i pendii viscidi di aghi di pino, afferrandosi ai rami degli alberi per trascinarsi, ansimando, su per chine ugualmente viscide. Attraversò di corsa un muro di caprifoglio, e superò con un salto il letto sabbioso di un torrente quasi asciutto, per ricadere contro l’alto argine di argilla che costituiva la parete posteriore di una fossa nella quale il vecchio nascondeva il liquore di scorta. Era una specie di buca nell’argine, coperta da un grosso macigno. Tarwater cominciò a darsi da fare per rimuovere il macigno, mentre lo sconosciuto, da sopra la spalla ansimava: “Era pazzo! Era pazzo! Ecco tutto! Era pazzo!” Tarwater riuscì a smuovere il macigno, tirò fuori un recipiente nero dalla buca, e si sedette contro l’argine, stringendolo al petto. “Pazzo!” sibilò lo sconosciuto, lasciandosi andare di colpo al suo fianco. Il sole apparve, avanzando furtivamente dietro le cime degli alberi che si ergevano sopra il nascondiglio.

“Un uomo di settant’anni che prende un bambino e lo porta con sé nei boschi per allevarlo nel modo giusto! E se fosse morto quando tu avevi solo quattro anni? Saresti riuscito a trasportare il malto fino alla distilleria, da solo? Saresti riuscito a mantenerti? Non ho mai sentito dire di un bambino di quattro anni capace di mandare avanti una distilleria.”

“Non ho mai sentito dire di una cosa del genere,” continuò. “Tu non eri niente per lui, solo qualcosa che sarebbe diventato abbastanza grande da seppellirlo quando sarebbe venuto il momento, e adesso che è morto non deve più occuparsi di te, ma tu devi mettere sottoterra un quintale della sua carne. E non credere che non si infiammerebbe come un tizzone se ti vedesse mettere in bocca una goccia di liquore,” aggiunse. “Direbbe che ti fa male, ma la sua paura sarebbe che tu ne bevessi troppo e non fossi più capace di seppellirlo. Diceva di averti portato a vivere quassù per allevarti secondo i principi, e il suo principio era questo: che tu fossi in grado di seppellirlo al momento buono, e marcare con una croce il luogo della sua sepoltura.”

“Be’,” disse in tono più dolce, non appena il ragazzo ebbe preso una lunga sorsata dal recipiente, “un po’ di liquore non ti farà male. La moderazione non ha mai fatto male a nessuno.”

Un braccio infuocato scivolò giù per la gola di Tarwater, come se il diavolo si stesse già insinuando dentro di lui per afferrargli l’anima. Socchiuse gli occhi al sole rabbioso che strisciava dietro la più alta frangia di alberi.

“Vacci piano,” disse il suo amico. “Ricordi quei negri che hai visto una volta, tutti ubriachi, che cantavano inni sacri e ballavano intorno a quella Ford nera? Gesù, non sarebbero certo stati così contenti di esser redenti, se non avessero avuto tutto quel liquore in corpo. Io non darei troppa importanza alla mia redenzione, se fossi in te,” disse. “Certa gente prende tutto troppo sul serio.”

Tarwater prese a bere con più lentezza. Si era ubriacato solo una volta, prima di allora, e quella volta lo zio l’aveva picchiato con un’asse di legno, e aveva detto che il liquore gli avrebbe corroso l’intestino. Un’altra delle sue bugie, perché il suo intestino non si era affatto corroso.

“Dovresti aver chiaro in testa, ormai,” disse il suo buon amico, “che il vecchio ti ha preso in giro per tutta la vita. Avresti potuto essere un damerino di città già da dieci anni. Invece sei stato privato di ogni compagnia tranne la sua, hai vissuto in una stalla a due piani nel mezzo del terreno più brullo di questa terra, sempre dietro a un mulo e a un aratro da quando avevi sette anni. E come fai a sapere che l’istruzione che ti ha dato è quella buona? Forse ti ha insegnato un sistema di cifre che nessun altro usa. Come fai a sapere che due più due fa davvero quattro? Che quattro più quattro fa otto? Forse gli altri non usano questo sistema. Come fai a sapere che c’è stato davvero un Adamo, e che Gesù ti ha davvero reso le cose più facili con la redenzione? E come fai a sapere che ti ha davvero redento? Non hai altro che la parola di quel vecchio, e ormai dovrebbe esserti chiaro che era pazzo. Quanto al giorno del giudizio,” disse lo sconosciuto, “ogni giorno è il giorno del giudizio.”

“Non sei forse abbastanza grande da poter giudicare da te, ormai? Tutto quello che fai, tutto quello che hai mai fatto, non ha forse dato buoni o cattivi risultati davanti ai tuoi occhi, e di solito prima del calar del sole? Sei mai riuscito a farla franca con qualche cosa? No, no, e nemmeno hai mai pensato di poterci riuscire,” disse. “Già che ci sei, puoi anche berlo tutto quel liquore. Una volta superato il limite, è fatta, non si può più tornare indietro, e quella spirale che senti venir giù dal cervello,” disse, “quella è la mano del Signore che ti impartisce la benedizione. Ti ha dato la libertà. Quel vecchio era il macigno davanti alla tua porta, e il Signore l’ha fatto rotolare via. Naturalmente non è ancora rotolato abbastanza lontano. Devi finire il lavoro da te, ma Lui ne ha già fatto parecchio. RingraziaLo.”

Tarwater non sentiva più le gambe. Sonnecchiò per un po’, con la testa piegata di lato, la bocca aperta, e il liquore che gli sgocciolava giù per il fianco della tuta, dal punto in cui il recipiente gli si era rovesciato in grembo. Alla fine le gocce si fecero più rade, all’imboccatura: si formavano, si ingrossavano e cadevano, silenziose, misurate e color del sole. Il cielo luminoso e uniforme cominciò a svanire, involgarendosi di nuvole fino a riempirsi completamente d’ombra. Tarwater si svegliò con un sussulto in avanti, e i suoi occhi misero faticosamente a fuoco, solo per un istante, qualcosa che sembrava uno straccio buttato vicino alla sua faccia.

Buford disse: “Non è questo il modo di comportarsi. Il vecchio non se lo merita. Non c’è riposo finché i morti non sono sepolti.” Era accovacciato sui talloni, una mano stretta intorno al braccio di Tarwater. “Sono andato laggiù alla porta e l’ho visto seduto al tavolo. Non l’hai nemmeno sdraiato sopra un’asse. Dovrebbe esser disteso, e bisognerebbe mettergli del sale sul petto, se si vuole aspettare a seppellirlo fino a domattina.”

Le palpebre del ragazzo si strinsero per trattenere l’immagine, e in un secondo distinse due occhi piccoli e rossi di vesciche. “Il vecchio merita di esser sepolto in una tomba abbastanza grande per lui,” disse Buford. “Ha vissuto in profondità la vita, ha vissuto in profondità il dolore di Gesù.”

“Negro,” disse il ragazzo, muovendo la lingua stranamente gonfia, “metti giù le mani.”

Buford gli tolse la mano dal braccio. “Ha bisogno di riposo,” disse.

“Avrà tempo di riposare quando avrò finito con lui,” disse Tarwater in tono vago. “Vattene e lascia che badi io, ai fatti miei.”

“Nessuno ti vuol scocciare,” disse Buford, alzandosi. Aspettò un minuto, chino a guardare la sagoma afflosciata contro l’argine. La testa del ragazzo era piegata all’indietro, sopra una radice che sporgeva dalla parete di argilla. Aveva la bocca aperta, e il cappello, rovesciato in su, gli tagliava la fronte con una linea retta, proprio sopra gli occhi semiaperti. Gli zigomi sporgevano, stretti e sottili come le braccia di una croce, e sotto di essi le guance incavate avevano un’aria antica, come se il suo scheletro fosse vecchio quanto il mondo. “Nessuno ti vuol scocciare,” borbottò il negro, facendosi largo oltre il muro di caprifoglio senza voltarsi a guardare. “Sono fatti tuoi. Veditela da solo.”

Tarwater tornò a chiudere gli occhi.

Un uccello notturno lo svegliò con un lamento non lontano. Non era un lamento stridente, solo un ump-ump intermittente, come se l’uccello dovesse richiamare alla mente il senso del proprio dolore, prima di ripeterlo. Le nuvole correvano convulse nel cielo nero, e c’era una luna radiosa e instabile che sembrava saltar su di qualche palmo per poi tornar giù di scatto e ricominciare da capo. Questo perché, Tarwater se ne rese conto in un istante, il cielo si stava abbassando, stava venendo giù in fretta a soffocarlo. L’uccello mandò un grido e volò via in tempo, e Tarwater si buttò dentro il letto del torrente e si accovacciò sulle mani e sulle ginocchia. La luna si rifletteva come fuoco pallido nelle poche pozze d’acqua tra la sabbia. Tarwater si buttò contro il muro di caprifoglio e cominciò a farsi largo furiosamente tra le fronde, confondendo il profumo dolce e familiare con il peso che calava su di lui. Quando si rimise in piedi, dall’altra parte della siepe, il terreno nero si alzò lentamente e lo ributtò a terra. Un lampo roseo accese i boschi, e Tarwater vide le sagome nere degli alberi saltar fuori dalla terra, tutt’intorno a lui. L’uccello notturno ricominciò a lamentarsi dal folto nel quale era andato a rifugiarsi.

Tarwater si alzò e cominciò a muoversi in direzione della radura, a tastoni, da un albero all’altro. I tronchi erano molto freddi e asciutti, sotto le sue mani. C’era un rombo di tuono, lontano, e un continuo guizzar di lampi pallidi incendiava un tratto del bosco dopo l’altro. Alla fine Tarwater vide la baracca, alta nel mezzo della radura, nera e desolata, con la luna rosa che la sovrastava tremante. I suoi occhi luccicarono come cavità aperte di luce, mentre attraversava il cortile trascinandosi dietro la propria ombra schiacciata. Non girò la testa verso quella parte del cortile nella quale aveva cominciato a scavare la fossa.

Si fermò vicino all’angolo posteriore, più lontano, della casa, si accovacciò per terra, e guardò i rifiuti ammassati là sotto, vecchie gabbie di polli e barili, vecchi stracci e scatole. Aveva quattro fiammiferi in tasca. Strisciò sotto la casa e cominciò a dar fuoco qua e là agli oggetti, uno dopo l’altro, sempre strisciando, poi uscì sul davanti, sotto la veranda, lasciando che il fuoco alle sue spalle divorasse goloso il materiale secco, infiammabile, e le assi di legno del pavimento. Attraversò la radura davanti alla casa, passò sotto la barriera di filo spinato, e si inoltrò nel campo arato senza guardare indietro, fino a quando non raggiunse il limitare dei boschi. Solo allora si guardò alle spalle e vide che la luna rosa era caduta giù sul tetto della casa e stava scoppiando. Cominciò a correre, spinto avanti nel folto dei boschi da due occhi argentei, strabuzzati, che crescevano, immensamente sorpresi, al centro dell’incendio dietro di lui.

Verso mezzanotte uscì sulla strada e si fece dare un passaggio da un commesso viaggiatore che rappresentava un fabbricante di tubi di rame in tutto il Sud-Est, e che diede al ragazzo silenzioso quello che secondo lui era il miglior consiglio che si potesse dare a un giovane che cercava di trovarsi un posto nel mondo. Mentre correvano lungo la strada nera e dritta, sorvegliata su entrambi i lati da una buia parete di alberi, il commesso viaggiatore disse che secondo la sua esperienza personale era impossibile vendere un tubo di rame a qualcuno che non si amava. Era un uomo magro, con la faccia lunga e stretta come una gola che sembrava ridotta agli incavi più acuti. Portava un cappello grigio, rigido, a tesa larga, di quelli che usavano gli uomini d’affari quando volevano sembrare cow-boy. Disse che l’amore era l’unica politica che funzionava novantacinque volte su cento. Disse che quando andava a vendere un tubo a qualcuno, si informava sempre della salute della moglie e dei figli, prima. Disse di avere un taccuino in cui segnava i nomi dei familiari di ogni cliente e i loro problemi. La moglie di un cliente aveva il cancro, e lui aveva segnato il suo nome sul taccuino e ci aveva scritto accanto cancro. E tutte le volte che passava dal negozio di ferramenta dell’uomo si informava sulla salute della poveretta. L’aveva fatto finché non era morta. Poi aveva cancellato il nome e ci aveva scritto sopra morta. “E ringrazio il cielo, quando muoiono,” disse il commesso viaggiatore, “uno di meno da ricordare.”

“Non si deve niente ai morti,” disse Tarwater a voce molto alta, aprendo bocca praticamente per la prima volta, da quando era salito in macchina.

“E i morti non devono niente a quelli che restano,” disse lo sconosciuto. “Ed è così che dovrebbero andare le cose, a questo mondo: nessuno dovrebbe dover niente a nessuno.”

“Guardi,” disse Tarwater sporgendosi in avanti, accostando la faccia al parabrezza, “stiamo andando nella direzione sbagliata. Stiamo tornando da dove siamo venuti. Ecco l’incendio. Ecco l’incendio che ci eravamo lasciati alle spalle.” Davanti a loro, il cielo era acceso da un leggero bagliore, costante, non come quello provocato dai lampi. “Ecco l’incendio che ci siamo lasciati alle spalle!” disse il ragazzo, con voce alta ed eccitata.

“Ragazzo, devi avere qualche rotella fuori posto,” disse il commesso viaggiatore. “Quella davanti a noi è la città. Quello è il bagliore delle luci della città. È la prima volta che viaggi?”

“Lei ha sbagliato direzione,” disse il ragazzo. “Quello è l’incendio.”

Lo sconosciuto torse bruscamente la faccia solcata. “Non ho mai sbagliato direzione in vita mia,” disse. “E non ho visto nessun incendio, da dove vengo. Vengo da Mobile. E so dove sto andando. Che cosa ti succede, si può sapere?”

Tarwater restò immobile a guardare il bagliore davanti a sé. “Mi ero addormentato,” borbottò. “Mi sto svegliando soltanto adesso.”

“Be’, avresti dovuto ascoltarmi, invece,” disse il commesso viaggiatore. “Ho detto cose che dovresti sapere.”