domenica 21 novembre 2021

LA TENTAZIONE DI ESISTERE Emil Cioran

 


LA TENTAZIONE DI ESISTERE

Emil Cioran

Chi vuole avvicinarsi a Cioran apra questo libro: è forse il suo più perfetto, ma soprattutto è quello che lo rivela nei suoi gesti peculiari, nella fisiologia, nel «ritmo suo proprio, pressante e irriducibile». Maestro attuale di quell'arte del «pensare contro se stessi» che si era già dispiegata in Nietzsche, Baudelaire e Dostoevskij, questo scrittore rumeno, al quale dobbiamo la più bella prosa francese che oggi si scriva, appartiene per vocazione alla schiera dei condannati alla lucidità. Che la lucidità sia una condanna, oltre che un dono, nessuno sa mostrarcelo, con altrettanta precisione, con altrettanta inventiva, quasi da camuffato romanziere. E si tratta di una lucidità macerata dal tempo, dall'eredità di tutta la nostra cultura. Se «c 'è un "odore " del tempo», e così anche «della storia», Cioran è, fra gli animali metafisici, il più addestrato nel riconoscerlo, nell'inseguirlo, anche là dove spesso chi fa professione di storico non avverte le tracce di questa «aggressione dell'uomo contro se stesso». Non c'è osservatore più perspicace di quel «lato notturno» della storia che oggi avvolge il mondo in un manto oscuro. Che cosa sia, che cosa sia stata l'Europa si respira in ciascuna di queste pagine. E mai corriamo in esse il pericolo di cadere in una maiuscola Serietà, «peccato che nulla può riscattare». Trovandosi a vivere in un'epoca dove essere «epigoni è di rigore», Cioran ha voluto spingere l'ironia delle sue buone maniere sino a comporre, in una pagina memorabile di questo libro, un elogio della futilità, di quella «futilità cosciente, acquisita, volontaria» che è la «cosa più difficile al mondo». Per noi che «abbiamo il fenomeno nel sangue», che nasciamo già «in preda alla febbre del visibile», ogni strategia per approssimarsi alla «liberazione da sé e da tutto» implicherà le virtù della leggerezza, dello stile e della mistificazione. Così, «per diventare futili, dobbiamo tagliare le nostre radici, diventare metafisicamente stranieri». Sul destino degli Ebrei o sulla fine dell'antichità, su Pascal o su Saint-Simon, su Gogol o su Epicuro, sulla smania analitica o sulla noia, sulla «superstizione dell'atto» o sui nostri «dèi alla deriva», questo metafisico straniero ha qualcosa di essenziale da dirci, ma non si sofferma mai troppo, come se ogni verità fosse tollerabile soltanto se si mostra nei barbagli di una imprevedibile conversazione. Sarebbe un'inutile lode sottolineare la chiaroveggenza di questo libro, che è del 1956, là dove parla di tendenze storiche, psicologiche, letterarie. Cioran non va letto per trovare conferme. Per lui, la «tentazione di esistere» (a cui dedica un 'ultima ironia: «Esistere è una inclinazione che non dispero di far mia») presuppone una «iniziazione alla vertigine», e la sua pagina comunica al lettore una scossa allarmante per ogni certezza verbale. Eppure, alla fine, la sua prosa amara, corrosiva, diventa una compagnia salutare per tutti coloro che si trovano di fronte «un mondo unificato nel grossolano e nel terribile».



LA TENTAZIONE DI ESISTERE

PENSARE CONTRO SE STESSI

Per quasi tutte le nostre scoperte siamo debitori alle nostre violenze, all'esacerbarsi del nostro squilibrio. Persino Dio, per quanto ci incuriosisca, non lo scorgiamo nell'intimo di noi stessi, bensì al limite esterno della nostra febbre, esattamente nel punto in cui, la nostra rabbia fronteggiando la sua, ne risulta una collisione, uno scontro rovinoso per Lui non meno che per noi. Colpito dalla maledizione insita nell'atto, il violento non forza la propria natura, non va al di là di se stesso se non per farvi ritorno come un forsennato, come un aggressore, seguito dalle proprie imprese venute a punirlo per averle suscitate. Non c'è opera che non si ritorca contro l'autore: il poema annienterà il poeta, il sistema il filosofo, l'avvenimento l'uomo d'azione.

Colui che, rispondendo alla propria vocazione e portandola a compimento, si agita dentro la storia, è causa della propria rovina; l'unico a salvarsi è chi sacrifica talenti e doni per potere, sgombro della sua qualità di uomo, sprofondare nell'essere. Se aspiro a una carriera metafisica, a nessun costo posso conservare la mia identità: devo liquidarne il minimo residuo che mi rimanga; e se, al contrario, mi avventuro in un ruolo storico, il compito che mi spetta sarà quello di esasperare le mie facoltà fino a esplodere con esse. Si perisce sempre a causa dell'io che si assume: portare un nome è rivendicare un modo esatto di crollare.

Fedele alle proprie apparenze, il violento non si scoraggia, ricomincia e si ostina, giacché non può esimersi dal soffrire. Si accanisce affinché gli altri si perdano? E' la via traversa che imbocca per ritrovare la strada della propria perdizione. Dietro la sua aria sicura, dietro le sue fanfaronate, si nasconde un appassionato dell'infelicità. E' quindi fra i violenti che si incontrano i nemici di sé. E noi tutti siamo dei violenti, degli arrabbiati che, avendo smarrito la chiave della quiete, ormai hanno accesso soltanto ai segreti dell'inquietudine.

Invece di lasciare che il tempo ci stritoli lentamente, abbiamo creduto bene di rincarare la dose, di aggiungere ai suoi istanti i nostri. Questo tempo recente, innestato sull'antico, questo tempo elaborato e riflesso doveva ben presto rivelare la sua virulenza: oggettivandosi, sarebbe diventato storia, mostro innalzato da noi contro di noi, fatalità alla quale non è possibile sfuggire, quand'anche si ricorra alle formule della passività, alle ricette della saggezza.

Tentare una cura d'inefficacia; meditare i padri taoisti, la loro dottrina dell'abbandono, del lasciar correre, della sovranità dell'assenza; sul loro esempio seguire il percorso della coscienza quando non è più alle prese con il mondo e si modella sulle cose, come l'acqua, elemento che essi prediligono: possiamo fare tutti i tentativi che vogliamo, mai vi riusciremo. Essi condannano sia la nostra curiosità sia la nostra sete di dolori; in questo si differenziano dai mistici, e in particolare da quelli medioevali, così abili nel raccomandarci le virtù della camicia di crine, della pelle d'istrice, dell'insonnia, dell'inedia e del gemito.

«La vita intensa è contraria al Tao» insegna Lao-zi, l'uomo più normale che mai sia esistito. Ma il virus cristiano ci travaglia: eredi dei flagellanti, prendiamo coscienza di noi stessi solo affinando i nostri supplizi. La religione è in declino? Ne perpetuiamo le stravaganze, così come perpetuiamo le mortificazioni e le grida delle celle di altri tempi, giacché la nostra volontà di soffrire è pari a quella che regnava nei conventi all'epoca del loro splendore. Se la Chiesa non gode più del monopolio dell'inferno, non per questo ci terrà meno avvinti a una catena di sospiri, al culto della prova, della gioia incenerita e della tristezza esultante.

Lo spirito, non meno del corpo, fa le spese della «vita intensa». Maestri nell'arte del pensare contro se stessi, Nietzsche, Baudelaire e Dostoevskij ci hanno insegnato a puntare sui nostri pericoli, ad ampliare la sfera dei nostri mali, ad acquistare esistenza separandoci dal nostro essere. E ciò che per il grande cinese era simbolo di decadimento, esercizio di imperfezione, per noi costituisce l'unica modalità di possederci, di entrare in contatto con noi stessi.

«L'uomo non ami nulla e sarà invulnerabile» (Zhuang-zi). Massima profonda quanto inoperante. Come giungere all'apogeo dell'indifferenza, quando la nostra stessa apatia è tensione, conflitto, aggressività? Non dei saggi tra i nostri antenati, ma degli insoddisfatti, dei velleitari, dei frenetici, di cui bisognerà pure perpetuare i disinganni o gli eccessi.

Sempre secondo questi cinesi, solo lo spirito distaccato penetra l'essenza del Tao; il passionale, invece, non ne percepisce che gli effetti: la discesa nel profondo esige il silenzio, la sospensione delle vibrazioni, anzi delle facoltà. Ma non è forse rivelatore il fatto che la nostra aspirazione all'assoluto si esprima in termini di attività, di lotta, che un Kierkegaard si proclami «cavaliere della fede» e che Pascal non sia altro che un pamphlettista? Attacchiamo, ci dibattiamo; non conosciamo quindi che gli effetti del Tao. Del resto, il fallimento del quietismo, l'equivalente europeo del taoismo, parla chiaro sulle nostre possibilità e prospettive.

Nulla mi pare più contrario alle nostre abitudini che l'apprendistato della passività.

(L'epoca moderna inizia con due isterici: Don Chisciotte e Lutero). Se elaboriamo il tempo, se lo produciamo, è perché ci ripugnano l'egemonia dell'essenza e la sottomissione contemplativa che essa presuppone. Considero il taoismo la prima e l'ultima parola della saggezza: eppure vi sono refrattario, i miei istinti lo rifiutano, così come rifiutano di "subire" qualsiasi cosa, a tal punto pesa su di noi l'eredità della ribellione. Il nostro male? Secoli di attenzione al tempo, di idolatria del divenire. Ce ne affrancheremo forse facendo ricorso alla Cina o all'India?

Ci sono forme di saggezza e di liberazione che non possiamo né cogliere dall'interno, né trasformare in nostra sostanza quotidiana, e neppure imprigionare in una teoria. La liberazione, se realmente ci sta a cuore, deve procedere da noi stessi: a nulla serve cercarla altrove, in un sistema già fatto o in qualche dottrina orientale. E' tuttavia ciò che spesso accade a più di uno spirito avido, come suol dirsi, d'assoluto. Ma la sua saggezza è una contraffazione, la sua liberazione un raggiro. Io non accuso soltanto la teosofia e i suoi adepti, ma tutti coloro che si fanno forti di verità incompatibili con la loro natura. Più d'uno ha l'India facile e s'immagina d'averne colto i segreti, mentre nulla in realtà ve lo predispone, né il carattere, né la formazione, né le inquietudini.

Che pullulare di falsi «liberati» che ci guardano dall'alto della loro salvezza! Hanno la coscienza a posto; non pretendono forse di porsi "al di sopra" dei loro atti? Sopruso intollerabile. Per di più, mirano così in alto che qualsiasi religione convenzionale sembra loro un pregiudizio di famiglia, e il loro «spirito metafisico» non può certo esserne saziato. La cosa migliore, quindi, è rifarsi all'India. Ma dimenticano che essa postula l'accordo fra l'idea e l'atto, l'identità di salvezza e di rinuncia. Quando si possiede «lo spirito metafisico» queste sono inezie di cui non ci si cura affatto.

Dopo tante frodi e imposture, conforta starsene a guardare un mendicante. Lui almeno non mente, né mente a se stesso: la sua dottrina, se ne ha una, egli la incarna; il lavoro, non lo ama e lo dimostra, poiché non desidera possedere nulla, coltiva la propria spoliazione, condizione della propria libertà. Il suo pensiero si risolve nel suo essere e il suo essere nel suo pensiero. Manca di tutto, egli è se stesso, egli dura: vivere immediatamente l'eternità significa vivere giorno per giorno. Così, per lui, gli altri sono imprigionati nell'illusione. E se da loro dipende, si vendica studiandoli, esperto com'è dell'altra faccia dei sentimenti «nobili». La sua pigrizia, di una qualità molto rara, fa veramente di lui un «liberato», sperso in un mondo di ottusi e di sciocchi. Sulla rinuncia ne sa ben più di molte delle vostre opere esoteriche. Per convincervene non avete che da uscire per strada... Ma no! voi preferite i testi che esaltano la mendicità. Poiché le vostre meditazioni non hanno alcuna conseguenza pratica, non c'è da stupirsi che l'ultimo dei vagabondi valga più di voi. E' possibile concepire il Buddha fedele alle sue verità e al suo palazzo? Non si è «liberato in vita» e, insieme, proprietario.

Io mi levo contro il propagarsi della menzogna, contro coloro che fanno sfoggio della loro pretesa «salvezza» e la puntellano con una dottrina che non proviene dal loro intimo. Smascherarli, farli scendere dal piedistallo dove si sono issati, metterli alla gogna, è questo un compito cui nessuno dovrebbe restare indifferente. Perché ad ogni costo va impedito di vivere e morire in pace a coloro che hanno troppo buona coscienza.

Quando, ad ogni occasione, ci mettete davanti «l'assoluto», ostentate una certa qual aria profonda, inaccessibile, quasi steste dibattendovi in un mondo lontano, con una luce, con delle tenebre che appartengono solo a voi, signori di un regno al quale nessuno al di fuori di voi avrà mai accesso. A noi altri mortali elargite solo qualche briciola delle grandi scoperte che lì avete fatto, qualche residuo delle vostre prospezioni. Ma tutte le vostre fatiche non approdano ad altro che a questo povero vocabolo, frutto delle vostre letture, della vostra dotta frivolezza, del vostro nulla libresco e delle vostre angosce d'accatto.

Quanto all'assoluto, tutti i nostri sforzi si riducono a minare la sensibilità che ad esso conduce. La nostra saggezza - o piuttosto la nostra non-saggezza - lo ripudia; relativista, essa ci propone un equilibrio, non già nell'eternità, bensì nel tempo.

L'assoluto "che evolve", quest'eresia di Hegel, è diventato il nostro dogma, la nostra tragica ortodossia, "la filosofia dei nostri riflessi". Chi crede di potersi sottrarre a questo dogma, dà prova di furfanteria o di cecità. Ridotti all'apparenza, ci tocca sposare una saggezza incompleta, miscuglio di sogno e scimmiottatura. Se l'India, per citare ancora Hegel, rappresenta «il sogno dello spirito infinito», l'inclinazione del nostro intelletto, come quella della nostra sensibilità, ci costringe a concepire lo spirito incarnato, limitato a percorsi storici, lo spirito puro e semplice, che non abbraccia il mondo ma i "momenti" del mondo, tempo spezzettato al quale non sfuggiamo che saltuariamente, e quando tradiamo le nostre apparenze.

Poiché la sfera della coscienza si restringe nell'azione, chi agisce non può pretendere all'universale: l'agire è un aggrapparsi alle proprietà dell'essere a detrimento dell'essere, a una forma di realtà a scapito della realtà. Il grado del nostro affrancamento si misura dalla quantità di imprese da cui ci saremo emancipati, così come dalla nostra capacità di convertire ogni oggetto in non-oggetto. Ma non significa nulla parlare di affrancamento a proposito di una umanità frettolosa, dimentica del fatto che non possiamo riconquistare la vita né goderne senza prima averla abolita.

Noi respiriamo troppo velocemente per poter cogliere le cose in se stesse o denunciarne la fragilità. Il nostro ansimare le postula e le deforma, le crea e le sfigura, e ad esse ci incatena. Mi agito, emetto così un mondo altrettanto sospetto della speculazione con cui lo giustifico, aderisco al movimento, il quale mi trasforma in generatore di essere, in artigiano di finzioni, mentre il mio brio cosmogonico mi fa dimenticare che, trascinato dal turbine degli atti, non sono altro se non un complice del tempo, un emissario di universi caduchi.

Ingozzati di sensazioni e del loro corollario - il divenire -siamo dei non-liberati per inclinazione e per principio, dei condannati di prim'ordine che, in preda alla febbre del visibile, frugano in quegli enigmi di superficie, ben degni della nostra trepidazione e del nostro sfinimento.

Se vogliamo recuperare la nostra libertà, ci converrà deporre il fardello della sensazione, non reagire più al mondo attraverso i sensi, rompere i legami. Ora, ogni sensazione è legame, il piacere come il dolore, la gioia come la tristezza. L'unico ad affrancarsi è lo spirito che, puro d'ogni commercio con esseri o oggetti, si esercita alla propria vacuità.

Quanto alla felicità, la maggioranza di noi riesce a resisterle; l'infelicità è ben altrimenti insidiosa. L'avete assaporata? Non ne sarete mai sazi; la cercherete con avidità e, preferibilmente, là dove non si trova; e allora là la proietterete, visto che senza infelicità tutto vi sembrerebbe inutile e opaco. Ovunque essa si trovi, scaccia il mistero o lo rende luminoso. L'infelicità che è sapore e chiave delle cose, accidente e ossessione, capriccio e necessità, vi farà amare l'apparenza in ciò che questa ha di più potente, di più durevole e di più vero, e lì vi terrà per sempre avvinti perché, «intensa» per natura, è, come ogni «intensità», servitù, assoggettamento. L'anima indifferente e nulla, l'anima disancorata - come elevarsi a essa? E come conquistare l'assenza, la libertà dell'assenza? Questa libertà non figurerà mai tra i nostri costumi, non diversamente dal «sogno dello spirito infinito».

Per identificarsi in una dottrina venuta di lontano, si dovrebbe adottarla senza restrizioni: a che vale ammettere le verità del buddhismo per poi rifiutare la trasmigrazione, la base stessa dell'idea di rinuncia? O sottoscrivere al Vedanta, accettare la concezione dell'irrealtà delle cose e comportarsi come se queste esistessero? Incongruenza inevitabile per ogni spirito educato nel culto dei fenomeni.

Ora dobbiamo ben ammetterlo: abbiamo "il fenomeno" nel sangue. Possiamo disprezzarlo o aborrirlo, non per questo cessa di essere il nostro patrimonio, il nostro capitale di smorfie, il simbolo dei nostri spasmi di quaggiù. Razza di convulsionari, al centro di una farsa che ha proporzioni cosmiche, abbiamo impresso all'universo le stimmate della nostra storia, e mai saremo capaci di questa illuminazione che invita alla placidità nella morte. E' per mezzo delle nostre opere, e non dei nostri silenzi, che abbiamo scelto di scomparire: il nostro avvenire si legge nel ghigno dei nostri volti, nei nostri tratti di profeti dilaniati e affannati. Il sorriso del Buddha, questo sorriso che sovrasta il mondo, non rischiara i nostri volti.

Al limite concepiamo la felicità, mai la beatitudine, appannaggio di civiltà fondate sull'idea di salvezza, sul rifiuto di assaporare i propri mali, di pascersi di essi; ma, sibariti del dolore, rampolli di una tradizione masochista, chi di noi esiterebbe tra il sermone di Benares e l'«Héautontimoroumenos» di Baudelaire? «Io sono la piaga e il coltello», ecco il nostro assoluto, la nostra eternità.

Quanto ai nostri redentori, venuti fra noi a nostro maggior danno, amiamo la nocività delle loro speranze e dei loro rimedi, la foga che mettono nel favorire ed esaltare i nostri mali, il veleno che c'infondono le loro parole di vita. E se siamo esperti nella sofferenza senza via d'uscita, è a loro che lo dobbiamo. A quali tentazioni, a quali estremi ci conduce la lucidità! La diserteremo per rifugiarci nell'incoscienza?

Chiunque si salva con il sonno, chiunque ha del genio "mentre dorme": non c'è differenza tra i sogni di un macellaio e quelli di un poeta. Ma la nostra chiaroveggenza non può tollerare che una tale meraviglia duri, né che l'ispirazione sia messa alla portata di tutti: il giorno ci sottrae i doni che la notte ci dispensa. Solo il pazzo possiede il privilegio di passare senza contrasti dall'esistenza notturna a quella diurna: nessuna distinzione per lui tra il sogno e la veglia. Egli ha rinunciato alla nostra ragione, come il vagabondo ai nostri beni. Entrambi hanno trovato la strada che conduce fuori della sofferenza e risolto tutti i nostri problemi; restano così dei modelli che non possiamo seguire, dei salvatori senza adepti.

Già frughiamo nei nostri mali, eppure quelli altrui non ci attirano meno. Nell'epoca delle biografie, nessuno avvolge le proprie piaghe senza che noi non tentiamo di scoprirle per esporle alla luce del sole; se non vi riusciamo, delusi voltiamo le spalle.

Quanto a colui che è finito sulla croce, non è certo perché egli ha sofferto "per noi" che conta ancora ai nostri occhi, ma per aver sofferto e basta, e innalzato delle grida tanto profonde quanto gratuite. Perché ciò che veneriamo nei nostri dèi non sono che le nostre sconfitte "in bello".

Votati a forme degradate di saggezza, contagiati dalla durata, in lotta con questa infermità che ci disgusta almeno quanto ci seduce, in lotta con il tempo, noi siamo costituiti di elementi che concorrono tutti a fare di noi dei ribelli divisi tra un richiamo mistico senza alcun rapporto con la storia e un sogno sanguinario che ne è il simbolo e l'aureola. Se avessimo un mondo nostro, poco importerebbe che fosse quello della pietà o dello scherno! Non lo avremo mai, la nostra posizione nell'esistenza trovandosi al crocevia fra le nostre suppliche e i nostri sarcasmi, zona di impurità dove si mescolano sospiri e provocazioni. Chi è troppo lucido per adorare, lo sarà anche per demolire, oppure non demolirà che le proprie... rivolte; infatti a che pro ribellarsi per poi ritrovare l'universo "intatto"? Monologo irrisorio. Si insorge contro la giustizia e l'ingiustizia, contro la pace e la guerra, contro i propri simili e contro gli dèi. Poi si finisce col pensare che l'ultimo dei rimbambiti è forse più saggio di Prometeo. Eppure non si riesce a soffocare dentro di sé un grido insurrezionale, e si continua a imperversare senza motivo: pietoso automatismo che spiega perché siamo tutti dei Luciferi da statistiche.

Contaminati dalla superstizione dell'atto, crediamo che le nostre idee debbano "giungere a uno scopo". Che cosa di più contrario alla concezione passiva del mondo? Ma è questo il nostro destino: essere degli incurabili che "protestano", dei polemisti in barella.

Le nostre conoscenze, come le nostre esperienze, dovrebbero paralizzarci, e renderci indulgenti verso la stessa tirannia, visto che rappresenta una costante. Siamo abbastanza chiaroveggenti da essere tentati di deporre le armi; nondimeno il riflesso della ribellione trionfa sui nostri dubbi; e benché potremmo diventare degli stoici perfetti, l'anarchico rimane desto in noi e si oppone alla nostra rassegnazione.

«La storia, non l'accetteremo mai», tale mi sembra essere l'adagio della nostra impotenza a essere dei veri saggi o dei veri pazzi. Saremmo piuttosto degli istrioni della saggezza e della follia? Qualunque cosa facciamo, siamo costretti a una profonda insincerità riguardo ai nostri atti.

Secondo ogni evidenza un credente si identifica, fino a un certo punto, con ciò che fa e con ciò in cui crede; non è rilevante in lui lo scarto tra la lucidità, da una parte, e le azioni e i pensieri, dall'altra. Questo scarto si amplia a dismisura nel falso credente, in colui che ostenta delle convinzioni senza aderirvi. L'oggetto della sua fede è un succedaneo. Diciamolo chiaramente: la mia rivolta è una fede che sottoscrivo senza credervi. Ma non posso non sottoscriverla. Non mediteremo mai abbastanza le parole di Kirillov su Stavrogin: «Quando crede, non crede di credere e quando non crede, non crede di non credere».

Più ancora che lo stile, è il ritmo stesso della nostra vita che è fondato sull'"onorabilità" della rivolta. Poiché siamo restii ad ammettere l'identità universale, poniamo l'individuazione, l'eterogeneità come fenomeno primordiale. Ora, ribellarsi significa postulare questa eterogeneità, significa concepirla in un certo modo come anteriore all'avvento degli esseri e degli oggetti. Se io oppongo l'Unità, sola veridica, alla molteplicità, inevitabilmente menzognera, se, in altri termini, assimilo l'"altro" a un fantasma, la mia rivolta si svuoterà di senso, la rivolta che per esistere deve partire dalla irriducibilità degli individui, dalla loro condizione di monadi, di essenze circoscritte. Ogni atto istituisce e riabilita la pluralità, e conferendo realtà e autonomia alla persona riconosce implicitamente la degradazione, il frantumarsi dell'assoluto. Ed è da esso, dall'atto, e dal culto che lo accompagna, che procede la nostra tensione spirituale, e questo bisogno di esplodere e di distruggerci "nel cuore della durata". La filosofia moderna, instaurando la superstizione dell'Io, ne ha fatto la molla dei nostri drammi e il perno delle nostre inquietudini. A nulla serve rimpiangere il riposo nell'indistinzione, il sogno neutro dell'esistenza senza qualità; ci siamo voluti "soggetti", e ogni soggetto è rottura con la quiete dell'Unità. Chiunque tenti di attenuare la nostra solitudine o i nostri tormenti, agisce contro i nostri interessi e la nostra vocazione. Noi misuriamo il valore dell'individuo dal numero dei suoi disaccordi con le cose, dalla sua incapacità di essere indifferente, dal suo rifiuto a tendere verso l'oggetto. Da qui il declassamento dell'idea di Bene, da qui la moda del Diavolo.

Finché viviamo in mezzo a terrori eleganti, ci accontentiamo benissimo di Dio.

Quando altri, più sordidi perché più profondi, si presero cura di noi, ci occorse un altro sistema di riferimento, un altro "patrono". Il Diavolo era la figura vagheggiata.

Tutto in lui si accorda con la natura degli avvenimenti di cui è l'agente, il principio regolatore: "i suoi attributi coincidono con quelli del tempo". Imploriamolo dunque, poiché, lungi dall'essere il prodotto della nostra soggettività, una creazione del nostro bisogno di blasfemia o di solitudine, egli è il padrone dei nostri interrogativi e del nostro panico, l'istigatore dei nostri smarrimenti. Le sue recriminazioni, le sue violenze non sono prive di equivoci: questo «grande Triste» è un ribelle che dubita.

Fosse semplice, tutto d'un pezzo, non ci interesserebbe granché; ma i suoi paradossi, le sue contraddizioni sono i nostri: egli riunisce in sé le nostre impossibilità, serve da modello alle rivolte che conduciamo contro noi stessi, all'odio di noi stessi. La formula dell'inferno? E' in questa forma di rivolta e di odio che va cercata, nel supplizio dell'orgoglio abbattuto, in questa sensazione di essere una "tremenda" quantità irrisoria, nei tormenti dell'«io», di questo «io» col quale ha inizio la nostra fine...

Fra tutte le finzioni, quella dell'età dell'oro è per noi la più sconcertante: come ha potuto sfiorare le immaginazioni? Ed è proprio per denunciarla, e in segno di ostilità, che la storia, "aggressione dell'uomo contro se stesso", ha preso slancio e forma; di modo che votarsi alla storia significa imparare a insorgere, a imitare il Diavolo. Non lo imitiamo mai così bene come quando, a scapito del nostro essere, noi emettiamo tempo, lo proiettiamo all'esterno e lasciamo che si converta in avvenimenti. «D'ora in poi non vi sarà più tempo», quel metafisico improvvisato che è l'Angelo dell'Apocalisse annuncia così la fine del Diavolo, la fine della storia. I mistici hanno dunque ragione nel cercare Dio in se stessi o altrove, fuorché in questo mondo di cui fanno tabula rasa, senza per questo abbassarsi alla rivolta. I mistici si lanciano fuori del secolo: follia di cui noi, prigionieri della durata, siamo raramente capaci. Se almeno fossimo tanto degni del Diavolo quanto loro lo sono di Dio!

La ribellione gode di una onorabilità indebita, per convincersene è sufficiente riflettere su come si usa qualificare gli animi che ne sono incapaci. Vengono chiamati ignavi. E' pressoché certo che noi siamo inaccessibili a ogni forma di saggezza perché scorgiamo in essa una sorta di ignavia trasfigurata. Per quanto ingiusta sia una simile reazione, non posso negare di provarla anche nei confronti del taoismo stesso. Pur sapendo che esso raccomanda l'annullamento di sé e l'abbandono in nome dell'assoluto e non dell'indolenza, lo rifiuto proprio quando credo di averlo adottato; e se mille volte do ragione a Lao-zi, pure capisco meglio un assassino. Tra la serenità e il sangue, è verso il sangue che si inclina "naturalmente". L'assassinio presuppone la rivolta e ne è il coronamento: colui che ignora il desiderio di uccidere potrà a suo piacimento professare opinioni sovversive, non sarà mai niente altro che un conformista.

Saggezza e ribellione: due veleni. Incapaci di assimilarle con semplicità, non troviamo in nessuna delle due una formula di salvezza. Resta il fatto che nell'avventura luciferina abbiamo acquistato una maestria che non avremo mai nella saggezza. Per noi la "percezione" stessa è insurrezione, inizio di trance o di apoplessia. Perdita di energia, volontà di fare uso delle nostre disponibilità. Insorgere alla minima occasione comporta un'irriverenza verso noi stessi, verso le nostre forze.

Da dove trarre le energie per la contemplazione, questo dispendio "statico", questa concentrazione nell'immobilità? Lasciare le cose tali e quali, guardarle senza volerle modellare, percepirne l'essenza, niente di più ostile all'andamento del nostro pensiero; al contrario, aspiriamo a plasmarle, a torturarle, ad attribuire loro le nostre rabbie.

Non può essere altrimenti: idolatri del gesto, del gioco e del delirio, amiamo il temerario tanto in poesia che in filosofia. Il "Dao-de-Jing" va più in là di "Une saison en enfer" o di "Ecce homo". Ma Lao-zi non ci propone alcuna vertigine, mentre Rimbaud e Nietzsche, acrobati che si dimenano al limite estremo di se stessi, ci invitano ai loro pericoli. I soli a sedurci sono gli ingegni che si sono distrutti per aver voluto dare un senso alla loro vita.

Nessuna via d'uscita per colui che oltrepassa il tempo e insieme vi si impantana, che accede sussultando alla sua ultima solitudine e nondimeno sprofonda nell'apparenza.

Indeciso, dilaniato, si trascinerà da malato della durata, esposto simultaneamente all'attrazione del divenire e dell'atemporale. Se, a prestar fede a Meister Eckhart, c'è un «odore» del tempo, a maggior ragione deve essercene uno della storia. Come restarne insensibili? Su un piano più immediato distinguo l'illusione, la nullità, la putredine della «civiltà»; tuttavia mi sento solidale con questa putredine: "sono il fanatico di una carogna". Ce l'ho col nostro secolo per averci soggiogati fino al punto di ossessionarci anche quando ce ne distacchiamo. Nulla di valido può nascere da una meditazione di circostanza, da una riflessione sull'avvenimento. In altri tempi più felici, gli animi potevano sragionare liberamente, quasi non appartenessero a nessuna epoca, emancipati com'erano dal terrore della cronologia, inabissati in un momento del mondo che, per essi, si confondeva con il mondo stesso. Senza curarsi della relatività della loro opera, vi si consacravano interamente. Geniale sciocchezza per sempre scomparsa, esaltazione feconda, per nulla compromessa dalla coscienza dilacerata. Supporre ancora l'atemporale e sapere tuttavia che noi "siamo" tempo, che produciamo tempo, concepire l'idea di eternità e prediligere il nostro nulla; derisione da cui emergono sia le nostre ribellioni sia i dubbi che nutriamo nei loro confronti.

Cercare la sofferenza per evitare il riscatto, seguire a ritroso il cammino della liberazione, tale è il nostro apporto in materia di religione: degli illuminati biliosi, dei Buddha e dei Cristi ostili alla salvezza, e che predicano ai miserabili il fascino della propria miseria. Razza superficiale, se vogliamo. Ciò non toglie tuttavia che il nostro primo antenato ci abbia lasciato in eredità soltanto l'orrore del paradiso. Nel dare un nome alle cose, preparava il suo decadimento e il nostro. E se volessimo porvi rimedio dovremmo cominciare col privare l'universo dei nomi con cui fu battezzato, levando l'etichetta che, apposta ad ogni apparenza, le dà risalto e le conferisce un simulacro di senso. Nell'attesa, tutto in noi, fin nelle fibre nervose, ha ribrezzo del paradiso. Soffrire: il solo modo d'acquisire la sensazione d'esistere; esistere: l'unica maniera di salvaguardare la nostra perdizione. Così sarà fintanto che una cura di eternità non ci avrà disintossicati dal divenire, finché non saremo prossimi a quello stato in cui, secondo un buddhista cinese, «l'istante vale diecimila anni» .

Poiché l'assoluto corrisponde a un senso che non abbiamo saputo coltivare, abbandoniamoci a tutte le ribellioni: finiranno certo per ritorcersi contro se stesse, contro noi stessi... Forse allora riconquisteremo la nostra supremazia sul tempo; a meno che, tutt'al contrario, nel sottrarci alla calamità della coscienza, non raggiungiamo le bestie, le piante e gli oggetti, e quella stupidità primordiale di cui, per colpa della storia, abbiamo perso finanche il ricordo

SU UNA CIVILTÀ' ESAUSTA

Chi appartiene organicamente a una civiltà non può identificare la natura del male che la mina. La sua diagnosi non conta gran che; il giudizio che ha su di essa lo concerne; se le usa dei riguardi è per egoismo.
Meno coinvolto, più libero, l'estraneo la esamina senza calcolo e meglio ne coglie i punti deboli. Se la civiltà cade in rovina, accetterà all'occorrenza di cadere con essa, di constatare gli effetti del "fatum" su di essa e su di sé. Quanto ai rimedi, non ne possiede e neppure ne propone. Poiché sa che non si può "curare" il destino, non si spaccia per guaritore con nessuno. La sua unica ambizione: essere all'altezza dell'Incurabile...

Di fronte all'accumularsi dei loro successi, i paesi d'Occidente non fecero fatica ad esaltare la storia, ad attribuirle un significato e una finalità. La storia apparteneva a loro, loro ne erano gli agenti: doveva dunque seguire un percorso razionale... Così la posero di volta in volta sotto il patronato della Provvidenza, della Ragione o del Progresso. Mancava loro il senso della fatalità; finalmente cominciano ora ad acquisirlo, costernati dall'assenza che li aspetta in agguato, dalla prospettiva della loro eclissi. Da soggetti che erano eccoli diventati oggetti, per sempre spossessati di quello splendore, di quella mirabile megalomania che finora li aveva resi inaccessibili all'irreparabile. Ne sono a tal punto coscienti, oggi, che misurano la stupidità di un'intelligenza dal suo grado di attaccamento agli avvenimenti. Che c'è di più normale, dal momento che gli avvenimenti avvengono "altrove"? E' solo se si mantiene l'iniziativa negli avvenimenti che ci si sottomette ad essi. Ma per poco che si serbi il ricordo di un'antica supremazia, si sogna ancora di eccellere, non fosse che nello smarrimento.

Francia, Inghilterra e Germania hanno alle spalle il loro periodo d'espansione e di follia. E' "la fine dell'insensato", l'inizio di guerre difensive. Non più avventura collettiva, non più cittadini ma individui esangui e disingannati, pronti ancora a rispondere a un'utopia, a patto che venga dall'esterno e li esenti dal fastidio di concepirla. Se in altri tempi morivano per il nonsenso della gloria, ora si abbandonano a una frenesia rivendicatrice. La «felicità» li tenta; è il loro ultimo pregiudizio, da cui quel peccato d'ottimismo che è il marxismo trae la sua energia.

L'abbacinarsi, il servire, il consacrarsi al ridicolo o alla insulsaggine di una causa, sono tutte stravaganze di cui non sono più capaci. Quando una nazione comincia a sfiorire, si instrada verso la condizione di massa. Se anche disponesse di mille Napoleoni, si guarderebbe bene dal compromettere la propria tranquillità o quella degli altri. Chi terrorizzare, e come, se si hanno riflessi vacillanti? Se tutti i popoli si trovassero allo stesso grado di fossilizzazione o di codardia, si intenderebbero facilmente: alla insicurezza subentrerebbe la stabilità di un patto fra pusillanimi...

Puntare sulla scomparsa degli istinti guerrieri, credere alla generalizzazione della decrepitezza o dell'idillio significa vedere lontano, troppo lontano: utopia, presbitismo dei vecchi popoli. I popoli giovani al contrario, rifuggendo dalla scappatoia di un inganno, vedono le cose dal punto di vista dell'azione: la prospettiva che scelgono è proporzionata alle loro imprese. Sacrificando la comodità all'avventura, la felicità alla efficacia, non ammettono la legittimità di idee contraddittorie, la coesistenza di posizioni antinomiche: che cosa vogliono se non sminuire le nostre inquietudini con il... terrore, e rinvigorirci stroncandoci? Devono tutti i loro successi alla loro selvatichezza, giacché quel che conta per loro non sono i sogni ma gli impulsi. Sono attratti da un'ideologia? Questa ravviva il loro furore, valorizza il loro fondo barbarico, li tiene all'erta. Quando i vecchi popoli ne adottano una, questa li intorpidisce, pur dispensando quel poco di febbre che consente loro di credersi in qualche modo vivi: lieve accesso d'illusione.

Una civiltà esiste e si afferma soltanto grazie ad atti di provocazione. Comincia a rinsavire? Segno che si sgretola. I suoi momenti culminanti sono dei momenti temibili, durante i quali la civiltà, lungi dall'immagazzinare forze, ne prodiga.

Smaniosa di estenuarsi, la Francia si prefisse il compito di sperperare le proprie; e vi riuscì, aiutata dal suo orgoglio, dal suo zelo aggressivo (non ha forse fatto in mille anni più guerre di ogni altro paese?). Malgrado il suo senso dell'equilibrio - persino i suoi eccessi risultarono felici - non poté accedere alla supremazia se non a detrimento della sua sostanza. Del proprio esaurirsi fece il suo punto d'onore. Amante della formula, dell'idea esplosiva, dello schiamazzo ideologico, mise il genio e la vanità al servizio di tutti gli avvenimenti sopravvenuti negli ultimi dieci secoli. E dopo essere stata una prima donna, eccola che se ne sta rassegnata, timorosa, a ruminare rimorsi e apprensioni, a riposarsi del suo splendore, del suo passato. Fugge il suo volto, trema di fronte allo specchio... Le rughe di una nazione sono altrettanto visibili di quelle di una persona.

Quando si è fatta una grande rivoluzione, non se ne scatena un'altra della stessa importanza. Quando a lungo si è stati gli arbitri del gusto, non si cerca più, una volta perduto il posto, di riconquistarlo. Quando si desidera l'anonimato, si è stanchi di servire da modello, d'essere seguiti, scimmiottati: a che scopo tenere ancora salotto per intrattenere l'universo?

Queste verità lapalissiane la Francia le conosce troppo bene per doversele ripetere.

Nazione del gesto, nazione teatrale, ha amato la sua recitazione quanto il suo pubblico. Ne è esasperata, vuole abbandonare la scena, e non aspira più che alle "quinte dell'oblio".

Che essa abbia fatto uso di ispirazione e di talento, non v'è dubbio, ma ingiusto sarebbe rimproverarglielo: tanto varrebbe accusarla d'essersi realizzata e compiuta.

Le virtù che fecero di lei una nazione privilegiata, le ha smussate a furia di coltivarle, di valorizzarle, e non è certo per mancanza d'esercizio che oggi i suoi talenti impallidiscono e scolorano. Se l'ideale di una vita di benessere (mania delle epoche declinanti) la possiede, l'assilla, la eccita in maniera esclusiva è perché essa non è più che un nome per una totalità d'individui, una società piuttosto che una volontà storica.

Il disgusto che prova verso le sue antiche ambizioni di universalità e di onnipresenza raggiunge proporzioni tali che solo un miracolo potrebbe salvarla da una sorte provinciale.

Da quando ha abbandonato le sue mire di dominio e di conquista, la malinconia, noia generalizzata, la mina. Flagello delle nazioni sulla difensiva, la malinconia devasta la loro vitalità; piuttosto che correre ai ripari, esse la subiscono e vi si abituano fino a non poter più farne a meno. Tra la vita e la morte, esse troveranno sempre uno spazio sufficiente per schivare l'una e l'altra, per evitare di vivere, per evitare di morire.

Come potrebbero, cadute in una lucida catalessi, sognando un eterno statu quo, reagire all'oscurità che le assedia, all'avanzata di civiltà opache?

Se vogliamo sapere quel che è stato un popolo e perché è indegno del suo passato, non dobbiamo far altro che esaminare i volti che maggiormente lo contraddistinsero.

Quel che fu l'Inghilterra, i ritratti dei suoi grandi uomini lo dicono a sufficienza.

Quale emozione nel rimirare alla National Gallery queste teste virili, talvolta delicate, quasi sempre mostruose, l'energia che ne promana, l'originalità dei tratti, la arroganza e la fermezza dello sguardo! Poi, pensando alla timidezza, al buon senso, all'impeccabilità degli Inglesi d'oggi, capiamo perché non sappiano più rappresentare Shakespeare, perché lo svigoriscano e lo rendano effeminato. Ne sono tanto lontani quanto dovevano esserlo da Eschilo i Greci delle epoche tarde. Più niente di elisabettiano negli Inglesi d'oggi: usano quel che resta loro di «carattere» per salvare le apparenze, per conservare la facciata. Si paga sempre caro l'aver preso «la civiltà» sul serio, l'averla troppo assimilata.

Chi concorre alla formazione di un impero? Gli avventurieri, i bruti, il canagliume, tutti coloro che non hanno il pregiudizio dell'«uomo». Alla fine del Medioevo, l'Inghilterra, straripante di vita, era feroce e triste: nessuno scrupolo di onorabilità veniva a contrariare il suo desiderio di espansione. Da essa emanava quella melanconia della forza così caratteristica dei personaggi shakespeariani. Pensiamo ad Amleto, a quel pirata sognatore: i suoi dubbi non alterano la sua foga: nulla in lui della debolezza di un ragionatore. I suoi scrupoli? Se ne crea per sovrabbondanza di energia, per gusto della riuscita, per la tensione di una volontà "inesauribilmente" malata. Nessuno fu più liberale, più generoso verso i propri tormenti, e nessuno ne fu altrettanto prodigo.

Lussureggianti ansietà! come potrebbero gli Inglesi attuali elevarvisi? Del resto non vi ambiscono molto. Il loro ideale è l'uomo "comme il faut": ne sono pericolosamente vicini. Ecco forse l'unica nazione che in un universo sguaiato s'ostina ancora ad avere dello «stile». L'assenza di volgarità assume lì dimensioni allarmanti: essere impersonale costituisce un imperativo, far sbadigliare il prossimo una legge. A forza di distinzione e di insipidezza, l'Inglese diventa sempre più impenetrabile e sconcerta per il mistero che gli si attribuisce a dispetto di ogni evidenza.

Reagendo contro la propria intima natura, contro le maniere di un tempo, minato dalla prudenza e dalla modestia, l'Inglese si è forgiato un comportamento, una regola di condotta che doveva allontanarlo dal suo genio. Dove sono le sue manifestazioni di sfrontatezza e di superbia, le sfide, le arroganze di un tempo? Il romanticismo fu l'ultimo sussulto del suo orgoglio. In seguito, diventato modesto e virtuoso, lasciò che si sgretolasse l'eredità di cinismo e insolenza di cui lo credevamo così fiero. Invano cercheremmo in lui le tracce del barbaro che fu: i suoi istinti sono tutti strangolati dalla sua decenza. Invece di spronarlo, di incoraggiarne le follie, i suoi filosofi l'hanno sospinto nel vicolo cieco della felicità. Deciso ad essere felice, lo diventò. E la sua felicità, esente da pienezza, da rischio e da ogni suggestione tragica, lo ha ridotto a questa avviluppante mediocrità in cui si compiacerà per sempre. Dobbiamo stupirci che sia diventato il personaggio che il Nord predilige, un modello, un ideale per Vichinghi avvizziti? Finché era potente lo si detestava, lo si temeva; ora lo si comprende; presto lo si amerà... Non è più un incubo per nessuno. Egli si difende dall'eccesso, dal delirio, in cui vede un'aberrazione o una villanìa. Quale contrasto tra gli antichi eccessi e la saggezza che ora attraversa! E' solo a prezzo di grandi abdicazioni che un popolo diventa "normale".

«Se il sole e la luna si mettessero a dubitare, si spegnerebbero immediatamente» (Blake). L'Europa dubita da tempo... e se la sua eclissi ci sgomenta, Americani e Russi la contemplano sia con serenità sia con gioia.

L'America si erge di fronte al mondo come un nulla impetuoso, come una fatalità priva di sostanza. Niente la preparava all'egemonia; e tuttavia tende ad essa, non senza qualche esitazione. Al contrario di altre nazioni che dovettero passare attraverso tutta una serie di umiliazioni e di sconfitte, l'America non ha conosciuto finora che la sterilità di una fortuna ininterrotta. Se in avvenire tutto continuerà a riuscirle allo stesso modo, la sua comparsa sarà stata un accidente irrilevante. Coloro che presiedono ai suoi destini, che prendono a cuore i suoi interessi, dovrebbero prepararle dei brutti giorni; perché smetta di essere un mostro di superficialità, ha bisogno di una prova di grande portata. Forse non ne è lontana. Dopo aver vissuto finora ignara dell'inferno, si appresta a discendervi. Se cerca un destino, lo troverà solamente sulle rovine di tutto ciò che fu la sua ragion d'essere.

Quanto alla Russia, non si può esaminare il suo passato senza sentire un brivido, un terrore "di prima qualità". Passato sordo, fatto di attesa, di ansia sotterranea, passato di talpe indemoniate. L'irruzione dei Russi farà tremare le nazioni; intanto hanno già introdotto l'assoluto in politica. E' questa la sfida che lanciano a un'umanità rosa dai dubbi, alla quale non mancheranno di dare il colpo di grazia. Se noi non abbiamo più anima, loro ne hanno da vendere. Prossimi alle loro origini, a quest'universo affettivo in cui lo spirito aderisce ancora alla terra, al sangue, alla carne, i Russi "sentono" ciò che pensano; le loro verità, come i loro errori, sono sensazioni, stimoli, atti. In realtà essi non pensano, deflagrano. Ancora fermi allo stadio in cui l'intelligenza non attenua né dissolve le ossessioni, ignorano gli effetti nocivi della riflessione, così come quegli eccessi della coscienza nei quali quest'ultima diventa fattore di sradicamento e anemia.

Possono dunque incamminarsi tranquillamente. Cos'hanno da affrontare se non un mondo linfatico? Non c'è nulla davanti a loro, nulla di vivo col quale possano scontrarsi, nessun ostacolo: non fu uno di loro ad usare per primo, in pieno diciannovesimo secolo, la parola «cimitero» a proposito dell'Occidente? Presto arriveranno in massa per visitarne le spoglie. I loro passi sono già percettibili a orecchi fini. Chi potrebbe opporre alle loro superstizioni in marcia anche solo un simulacro di certezza?

Fin dal secolo dei Lumi l'Europa non ha cessato di scalzare i propri idoli in nome dell'idea di tolleranza; comunque, finché fu potente, credette in questa idea e si batté per difenderla. I suoi stessi dubbi non erano che convinzioni mascherate; siccome attestavano la sua forza, aveva il diritto di vantarsene e il mezzo per imporli; ora non sono più che sintomi di snervatezza, vaghi sussulti di un istinto atrofizzato.

La distruzione degli idoli porta con sé quella dei pregiudizi. Ora, i pregiudizi - finzioni "organiche" di una civiltà - assicurano la sua durata, ne conservano la fisionomia. Essa deve rispettarli, se non tutti, almeno quelli che le sono peculiari e che nel passato ebbero l'importanza di una superstizione o di un rito. Se li considera quali pure convenzioni, se ne disferà sempre più, senza potere, con i propri mezzi, sostituirli. Ha votato un culto al capriccio, alla libertà, all'individuo? Conformismo di buona lega. Basta che smetta di piegarvisi, e capriccio, libertà, individuo diventeranno lettera morta.

Un minimo d'incoscienza è necessaria se ci si vuole mantenere nella storia. Agire è una cosa; sapere che si agisce è un'altra. Quando la chiaroveggenza investe l'atto e vi si insinua, l'atto si disfa e con esso il pregiudizio, la cui funzione consiste appunto nel subordinare, nell'asservire la coscienza all'atto... Colui che smaschera le proprie finzioni, rinuncia alle proprie energie e come a se stesso. Ne accetterà quindi delle altre che lo negheranno, perché queste non saranno scaturite dal suo intimo. Nessun essere che abbia a cuore il proprio equilibrio dovrebbe oltrepassare un certo grado di lucidità e di analisi. Quanto ciò è più vero per una civiltà, la quale vacilla per poco che denunci gli errori che consentirono la sua crescita e il suo splendore, per poco che metta in dubbio le sue verità!

Non senza rischio si abusa della propria facoltà di dubitare. Lo scettico, quando non trae più alcun principio attivo dai suoi problemi e interrogativi, si avvicina al proprio epilogo, anzi lo cerca, gli corre incontro: qualcun altro tronchi le sue incertezze, qualcun altro lo aiuti a soccombere! Non sapendo più qual uso fare delle sue inquietudini e della sua libertà, pensa con nostalgia al boia, anzi lo invoca. Coloro che a nulla hanno trovato risposta, sopportano gli effetti della tirannide meglio di coloro che hanno trovato risposta a tutto. Ed è così che di fronte alla morte i dilettanti fanno meno storie dei fanatici. Durante la Rivoluzione più d'un ex nobile affrontò il patibolo con il sorriso sulle labbra; quando toccò ai giacobini, vi salirono preoccupati e scuri in volto: morivano in nome di una verità, di un pregiudizio. Oggigiorno, dovunque volgessimo lo sguardo, non vedremmo che surrogati di verità, di pregiudizio; quanto a coloro cui anche tale surrogato manca, paiono più sereni ma il loro sorriso è meccanico: un povero, ultimo riflesso d'eleganza...

Né Russi né Americani erano abbastanza maturi, e neppure abbastanza corrotti intellettualmente per «salvare» l'Europa o riabilitarne la decadenza. I Tedeschi, ben altrimenti contaminati, avrebbero potuto conferirle una parvenza di durata, una coloritura d'avvenire. Ma, imperialisti in nome di un sogno ottuso e di un'ideologia ostile a tutti i valori sorti dal Rinascimento, avrebbero compiuto la loro missione alla rovescia, e guastato tutto per sempre. Chiamati a reggere il continente, a dargli un'apparenza di sviluppo, foss'anche per poche generazioni (il ventesimo secolo avrebbe dovuto essere tedesco, nel senso in cui il diciottesimo fu francese), seppero essere così maldestri da affrettarne lo sfacelo. Non contenti di averlo sconvolto e lasciato sottosopra, ne fecero per di più regalo alla Russia e all'America, giacché è per loro che seppero così bene guerreggiare e crollare. Così, eroi per conto terzi, autori di una tragica baraonda, son venuti meno al loro compito, al loro vero ruolo. Dopo aver meditato ed elaborato i temi del mondo moderno, prodotto Hegel e Marx, sarebbe stato loro dovere mettersi al servizio di un'idea universale e non di una visione da tribù. E tuttavia questa stessa visione, per grottesca che fosse, testimoniava in loro favore: non rivelava forse che essi soli in Occidente conservavano qualche residuo di freschezza e di barbarie, e che ancora erano capaci di un grande disegno o di una vigorosa insanità? Ma ora sappiamo che non hanno più il desiderio né la capacità di correre verso nuove avventure, che il loro orgoglio, perduta la sua mordacità, si debilita come loro, e che, vinti a loro volta dal fascino dell'abbandono, finiranno col portare il loro modesto contributo allo scacco generale.

Così com'è, l'Occidente non sussisterà indefinitamente: si prepara alla propria fine, non senza conoscere un periodo di sorprese... Pensiamo a quel che fu tra il quinto e il decimo secolo. Una crisi ben più grave lo attende; un altro stile si delineerà, popoli nuovi si formeranno. Per il momento raffiguriamoci il caos. Già molti vi si rassegnano. Invocando la Storia con l'idea di soccombervi, abdicando "in nome dell'avvenire", essi sognano, per il bisogno di sperare "contro se stessi", di vedersi sviliti, calpestati, «salvati»... Un simile sentimento condusse l'antichità a quel suicidio che fu la promessa cristiana.

"L'intellettuale stanco" riassume le deformità e i vizi di un mondo alla deriva. Egli non agisce, patisce; se si volge all'idea di tolleranza, non vi trova l'eccitante di cui avrebbe bisogno. Il terrore, sì, glielo procura, così come le dottrine delle quali è il risultato. E' forse la sua prima vittima? Non se ne lamenterà. La sola a sedurlo è la forza che lo stritola. Voler essere libero significa voler essere se stesso; ma è esasperato di essere se stesso, di camminare nell'incertezza, di vagare attraverso le verità. «Mettetemi le catene dell'Illusione», sospira, mentre dice addio alle peregrinazioni della Conoscenza. Così, si getterà a capofitto in qualsiasi mitologia che gli assicuri la protezione e la pace del giogo. Poiché rinuncia all'onore di addossarsi le proprie ansie, egli si imbarcherà in imprese dalle quali si aspetta sensazioni che non può attingere da se stesso, di modo che gli eccessi della sua stanchezza consolideranno le tirannie. Chiese, ideologie! polizie: cercatene l'origine nell'orrore che egli nutre verso la propria lucidità piuttosto che nella stupidità delle masse. Quest'aborto si trasforma, in nome di un'utopia da menefreghista, in becchino dell'intelletto, e, persuaso di far cosa utile, prostituisce quell'«inebetitevi» che fu la tragica esortazione di un genio solitario come Pascal.

Iconoclasta sconfitto, disgustato dal paradosso e dalla provocazione, alla ricerca dell'impersonalità e della consuetudine, semiprostrato, maturo per il dozzinale, egli abdica alla propria singolarità e si riconcilia con la moltitudine. Più nulla da rovesciare se non se stesso, ultimo idolo da abbattere... Le proprie rovine lo attirano.

E mentre le sta a guardare, modella le fattezze di nuovi dèi o ripristina gli antichi battezzandoli con nomi nuovi. Non più in grado di sostenere la dignità di essere difficile, sempre meno incline a soppesare le verità, si contenta di quelle che gli vengono offerte. Sottoprodotto del suo io, striscia ormai -demolitore infiacchito - davanti agli altari o a ciò che li sostituisce. Al tempio come al meeting il suo posto è là dove si canta, dove la sua voce è sovrastata, dove non sente più se stesso. Parodia del credere? Poco gliene importa poiché comunque non aspira che a desistere da se stesso. A un ritornello e approdata la sua filosofia, in un "Osanna" è naufragato il suo orgoglio!

Siamo giusti: al punto in cui sono le cose, cos'altro potrebbe fare? Il fascino e l'originalità dell'Europa risiedevano nell'acutezza del suo spirito critico, nel suo scetticismo militante, aggressivo; questo scetticismo ha fatto il suo tempo. Così l'intellettuale, frustrato dai suoi dubbi, cerca una compensazione nel dogma. Giunto ai confini dell'analisi, costernato dal nulla che vi scopre, torna sui suoi passi e cerca di appigliarsi alla prima certezza che incontra; ma gli manca l'ingenuità per aderirvi pienamente; da quel momento, fanatico "senza convinzioni", non è più che un ideologo, un pensatore ibrido come se ne trovano in tutte le epoche di transizione.

Partecipe di due stili differenti egli è, per la forma della sua intelligenza, tributario dello stile che scompare e, per le idee che difende, di quello che si profila. Per meglio comprenderlo, raffiguriamoci un sant'Agostino convertito solo a metà che vacilla e si destreggia, e che del cristianesimo abbia fatto proprio soltanto l'odio per il mondo antico. Non viviamo forse in un'epoca simmetrica a quella che vide nascere "La città di Dio"? Difficilmente si potrebbe concepire un libro più attuale. Oggi come allora gli animi hanno bisogno di una verità semplice, di una risposta che li liberi dai propri interrogativi, di un vangelo, di una tomba.

I momenti di raffinatezza nascondono un principio di morte: niente è più fragile della finezza. L'abuso che se ne fa conduce ai catechismi, conclusione dei giochi dialettici, cedimento di un intelletto non più assistito dall'istinto. La filosofia antica, impelagata nei suoi scrupoli, aveva involontariamente aperto la via al semplicismo dei bassifondi; le sette religiose pullulavano, alle scuole seguirono i culti. Un'analoga disfatta ci minaccia: già imperversano le ideologie, mitologie degradate, da esse saremo impoveriti, annullati. Non potremo sostenere ancora per molto il fasto delle nostre contraddizioni. Molti sono coloro che si accingono a venerare un qualsiasi idolo e a servire una qualsiasi verità, purché l'uno e l'altra siano loro imposti e non debbano compiere lo sforzo di scegliere la propria vergogna o il proprio disastro.

Quale che sia il mondo a venire, gli Occidentali vi sosterranno la parte dei "graeculi" nell'impero romano Ricercati e disprezzati dai nuovi conquistatori, essi non avranno a disposizione, per ispirare rispetto, che le acrobazie della propria intelligenza o l'artificio del proprio passato. Già si distinguono nell'"arte di sopravvivere a se stessi". Ovunque sintomi di esaurimento: la Germania ha già dato prova di sé nella musica: come pensare che vi eccellerà ancora? Ha consumato le risorse della sua profondità, come la Francia quelle della sua eleganza. L'una e l'altra - e insieme ad esse tutto questo angolo di mondo - sono giunte al fallimento, il più prestigioso dai tempi dell'antichità. In un secondo tempo verrà la liquidazione: prospettiva non trascurabile, tregua la cui durata non si lascia calcolare, periodo di facilità nel quale ciascuno, di fronte alla liberazione finalmente giunta, sarà felice di lasciarsi alle spalle i tormenti della speranza e dell'attesa.

Fra tante sue perplessità e indolenze, l'Europa serba tuttavia una convinzione, una sola, che nulla al mondo le farebbe abbandonare: quella di aver un avvenire di vittima, di immolata. Una volta tanto risoluta e intransigente, si crede perduta, vuole esserlo e lo è. Del resto, non le è stato detto da tempo ormai che verrà assoggettata e schernita da nuove razze? Nel momento in cui sembrava in pieno sviluppo, nel diciottesimo secolo, l'abate Galiani constatava già il suo declino e glielo annunciava.

Rousseau, da parte sua, vaticinava:

«I Tartari diventeranno i nostri padroni: questa rivoluzione mi appare ineluttabile».

Diceva il vero. Quanto al secolo seguente, è noto il detto di Napoleone sui Cosacchi e le angosce profetiche di Tocqueville, di Michelet o di Renan. Questi presentimenti hanno preso corpo, queste intuizioni sono ormai moneta corrente. Non si abdica da un giorno all'altro: è necessaria un'atmosfera di distacco accuratamente predisposta, una leggenda della disfatta. Ora, questa atmosfera si è creata e così la leggenda. E come i precolombiani, pronti e rassegnati a subire l'invasione di lontani conquistatori, dovettero piegarsi quando costoro arrivarono, così gli Occidentali, troppo edotti, troppo consapevoli della loro servitù a venire, non intraprenderanno nulla per scongiurarla. Non ne avrebbero, d'altronde, né i mezzi, né il desiderio, né l'audacia.

I crociati, diventati coltivatori di orti, sono svaniti in questa posterità casalinga dove non resta più traccia di nomadismo. Ma la storia è nostalgia dello spazio e orrore di casa propria, sogno vagabondo e bisogno di morire lontano... , ma la storia è proprio ciò che più non vediamo dintorno.

Esiste una sazietà che incita alla scoperta, alla invenzione di miti, menzogne istigatrici di azioni: è ardore insoddisfatto, entusiasmo morboso che diventa sano non appena si fissa su un oggetto; ne esiste un'altra che, dissociando lo spirito dai suoi poteri e la vita dalle sue energie, impoverisce e inaridisce. Ipostasi caricaturale della noia, la sazietà disfa i miti o ne falsa l'uso. Una malattia, insomma. Chi voglia conoscerne i sintomi e la gravità, a torto andrebbe a cercarli lontano: si osservi, scopra fin dove l'Ovest lo ha segnato ...

Se la forza è contagiosa, la debolezza non lo è meno; ha il suo fascino; non è facile resisterle. Quando i debilitati sono una moltitudine, vi incantano, vi schiacciano: quale mezzo adottare contro un continente di abulici? E poiché il mal di volontà è per giunta piacevole, di buon grado ci si abbandona ad esso. Niente di più dolce che trascinarsi al di qua degli avvenimenti; e niente di più "ragionevole". Ma senza una buona dose di demenza, nessuna iniziativa, nessuna impresa, nessun gesto. La ragione: ruggine della nostra vitalità. E' il pazzo che è in noi ad obbligarci all'avventura; se ci abbandona, siamo perduti: tutto dipende da lui, perfino la nostra vita vegetativa; è lui che ci invita, che ci costringe a respirare, ed è ancora lui a far sì che il nostro sangue circoli nelle vene. Se ne va via? eccoci soli! Non si può essere insieme "normali" e vivi. Se io resto in una posizione verticale e mi accingo a colmare l'istante che giunge, se insomma concepisco il futuro, un felice guasto della mia mente ne è la causa. Sussisto e agisco in quanto sragiono, in quanto mando ad effetto i miei vaneggiamenti. Se divento sensato, ecco che tutto mi intimidisce: scivolo verso l'assenza, verso sorgenti che non vogliono scorrere, verso quella prostrazione che la vita dovette conoscere prima di concepire il movimento, accedo "a furia di viltà" alla natura intima delle cose, interamente costretto a un abisso di cui non so cosa fare poiché mi isola dal divenire. Un individuo, al pari di un popolo, di un continente, si estingue quando gli ripugnano i progetti e gli atti sconsiderati, quando, invece di arrischiarsi e di precipitarsi verso l'essere, vi si rintana, vi si trincera: metafisica della regressione, dell'al di qua, arretramento verso il primordiale!

Nella sua spaventosa ponderatezza, l'Europa si rifiuta a se stessa, al ricordo delle sue impertinenze e delle sue bravate, e perfino a "questa passione per l'inevitabile", supremo onore della sconfitta. Refrattaria a ogni forma di eccesso, a ogni forma di vita, l'Europa delibera e delibererà sempre, anche dopo aver cessato di esistere: non fa già l'effetto di un conciliabolo di spettri?

... Ricordo un povero diavolo che, ancora a letto a un'ora tarda della mattinata, diceva a se stesso con un tono imperioso: «Vuoi! vuoi!». La commedia si ripeteva ogni giorno: si addossava un compito che non poteva realizzare. Per lo meno, opponendosi al fantasma che era, disprezzava le delizie del suo letargo. Non si può dire altrettanto dell'Europa: avendo scoperto, al culmine dei suoi sforzi, il regno del non-volere, esulta perché ora sa che la sua rovina nasconde un principio di voluttà e intende approfittarne. L'abbandono la incanta e la soddisfa pienamente. Il tempo continua a scorrere? Non se ne allarma poi molto; che se ne occupino gli altri, è affar loro; questi altri non hanno idea di quale sollievo si possa provare a sguazzare in un presente che non conduce da nessuna parte...

Vivere qui è la morte; altrove, il suicidio. Dove andare? L'unica parte del pianeta dove l'esistenza sembrava aver qualche giustificazione è raggiunta dalla cancrena.

Questi popoli arcicivilizzati sono i nostri fornitori di disperazione. Per disperare non abbiamo infatti che da guardarli, osservare le macchinazioni della loro mente, l'indigenza delle loro brame, smorzate e quasi spente. Dopo aver così a lungo peccato contro la propria origine e trascurato il selvaggio, l'orda - loro punto di partenza -, sono obbligati a constatare di non possedere più una sola goccia di sangue unno.

Lo storico antico, dicendo di Roma che non poteva più sopportare i propri vizi né i loro rimedi, ha definito meno la propria epoca di quanto non abbia anticipato la nostra. Grande era senza dubbio la stanchezza dell'Impero, ma essa, disordinata e inventiva, sapeva ancora, per ingannare, coltivare il cinismo, il fasto e la ferocia, mentre quella alla quale assistiamo nella sua rigorosa mediocrità, non possiede nessuno di quei prestigi che illudono. Troppo flagrante, troppo sicura, essa evoca un male il cui ineluttabile automatismo rassicurerebbe paradossalmente sia il paziente che il medico: agonia in debita forma, esatta come un contratto, agonia stipulata, senza capricci né lacerazioni, ben degna di quei popoli che, non contenti d'aver respinto i pregiudizi che stimolano la vita, respingono anche quello che la giustifica e la costituisce: il pregiudizio del divenire.

Irruzione collettiva nella vacuità! Ma non inganniamoci: questa vacuità, diversa in ogni punto da quella che il buddhismo definisce «sede della verità», non è né compimento né liberazione, né positività espressa in termini negativi, né ancor meno sforzo meditativo, volontà di spoliazione e di nudità, conquista della salvezza, ma slittamento privo di nobiltà e di passione. Nata da una metafisica anemica, essa non può essere la ricompensa di una ricerca o il coronamento di un'inquietudine.

L'Oriente avanza verso la sua vacuità, vi prospera e vi trionfa, mentre noi ci impantaniamo nella nostra dove smarriamo le nostre ultime risorse. Decisamente, tutto si degrada e si corrompe nelle nostre coscienze: il vuoto stesso vi diventa impuro.

Tante conquiste, acquisizioni, idee, dove andranno a perpetuarsi? In Russia? in Nord America? Entrambe hanno già tratto le conseguenze dal peggio dell'Europa...

L'America Latina? Il Sudafrica? L'Australia? E' da quella parte che bisogna, così sembra, aspettarsi il rimpiazzo. Rimpiazzo caricaturale.

L'avvenire appartiene alla periferia del globo.

Se nelle cose dell'ingegno volessimo soppesare i successi dal Rinascimento in poi, non saranno quelli della filosofia a fermarci, poiché la filosofia occidentale non supera la greca, l'indiana o la cinese, tutt'al più le raggiunge in alcuni punti. Siccome rappresenta solo una varietà dello sforzo filosofico in generale, si potrebbe al limite farne a meno e opporle le meditazioni di Shankara, di Lao-zi, di Platone. Non è così per la musica, questo grande pretesto del mondo moderno, fenomeno che non ha confronti in nessun'altra tradizione: dove trovare l'equivalente di un Monteverdi, di un Bach, di un Mozart? E' attraverso la musica che l'Occidente rivela la sua fisionomia e raggiunge la profondità. Se l'Occidente non ha creato una saggezza né una metafisica che gli fossero del tutto proprie, e nemmeno una poesia della quale si possa dire che non ha esempio, in compenso ha proiettato nelle sue produzioni musicali tutta la sua forza di originalità, la sua finezza, il suo mistero e la sua capacità di ineffabile. Ha potuto amare la ragione fino al pervertimento; eppure il suo vero genio fu un genio affettivo. Il male che più lo onora? L'ipertrofia dell'anima.

Senza la musica l'Occidente non avrebbe prodotto che uno stile di civiltà insignificante, scontato... Se depositerà dunque il suo bilancio, la musica sola testimonierà che non si è sprecato invano, che davvero aveva qualcosa da perdere.
All'uomo accade talvolta di sfuggire alle persecuzioni del desiderio, alla tirannia dell'istinto di conservazione. Lusingato dalla prospettiva del decadimento scalza la propria volontà, si ingegna all'apatia, si erge contro se stesso, e chiama in aiuto il suo cattivo genio. Esagitato, in preda a mille attività che gli nuocciono, scopre un dinamismo di cui non aveva sospettato l'attrattiva, il dinamismo del disgregamento.

Ne è tutto fiero: potrà infine rinnovarsi "a sue spese".

Nell'intimo degli individui, come delle collettività abita un'energia distruttrice che permette loro di sgretolarsi con un certo brio: esaltazione acida, euforia dell'annientamento! Nell'abbandonarsi ad essa sperano forse di guarire da quella malattia che è la coscienza. Di fatto, ogni stato cosciente ci estenua, ci sfibra, cospira al nostro logoramento; più cresce il suo dominio su di noi, più vorremmo far ritorno alla notte che precedeva le nostre veglie, immergerci nell'assopimento anteriore alle macchinazioni, all'attentato dell'Io. Aspirazione di menti spossate e che spiega perché mai in certe epoche l'individuo, esasperato di inciampare sempre in se stesso, di rimasticare la propria differenza, si volga verso quei tempi in cui, essendo tutt'uno con il mondo, ancora non aveva piantato in asso gli esseri né era degenerato in uomo.

Avidità e orrore della coscienza, la Storia traduce il desiderio di un animale malato di compiere la propria vocazione e insieme la paura di riuscirvi. Paura giustificata: quale disgrazia lo attende al traguardo della sua avventura! Non viviamo forse in uno di quei momenti in cui, in uno spazio dato, egli ci fa assistere alla sua ultima metamorfosi?

Quando passo in rassegna i meriti dell'Europa, mi intenerisco e me ne voglio per dirne tanto male; se, invece, ne enumero i punti deboli una rabbia mi scuote. Vorrei allora che sparisse al più presto e che ne svanisse il ricordo. Ma altre volte, nell'evocarne e gli onori e le vergogne, non so verso quali inclinare: la amo con rimpianto, la amo con ferocia, e non le perdono di avermi costretto a dei sentimenti fra i quali non mi è consentito scegliere. Se almeno potessi starmene indifferente a guardare la delicatezza, le attrattive delle sue piaghe! Per gioco ho aspirato a crollare con lei, e a questo gioco mi sono appassionato. Nessuno sforzo mi è sembrato troppo grande per riappropriarmi della grazia che fu sua e di cui conserva ancora alcune tracce, per riviverla, per perpetuarne il segreto. Vana fatica! - Un uomo delle caverne impigliato in merletti...

Lo spirito è vampiro. Si fissa su una civiltà? La lascia prostrata, disfatta, senza respiro, priva dell'equivalente spirituale del sangue, la spoglia della sua sostanza, come dell'impulso che la trascinava ad atti e a scandali di prim'ordine. Impegnata in un processo di deterioramento da cui nulla la distrae, essa ci offre l'immagine dei nostri pericoli e la contraffazione del nostro avvenire: è il nostro vuoto, "è noi"; vi ritroviamo le nostre inettitudini e i nostri vizi, la nostra volontà vacillante e i nostri istinti polverizzati. La paura che ci ispira: paura di noi stessi! E se, proprio come essa, giacciamo prostrati, disfatti, senza respiro, è perché anche noi abbiamo conosciuto e subito il vampirismo dello spirito.

Se anche non avessi mai intuito l'irreparabile, un rapido sguardo all'Europa sarebbe bastato a farmene provare il brivido. Preservandomi dal vago, essa giustifica, attizza e lusinga i miei terrori, ricopre per me la funzione assegnata al cadavere nella meditazione del monaco.

Sul letto di morte, Filippo Secondo fece venire suo figlio e gli disse: «Ecco dove tutto ha fine, anche la monarchia». Al capezzale di questa Europa, non so quale voce mi avverte: «Ecco dove tutto ha fine, anche la civiltà».

A che serve polemizzare con il nulla? E' tempo di ricomporci, di trionfare sulla fascinazione del peggio. Non tutto è perduto: restano i barbari. Da dove emergeranno? Non importa. Per il momento, ricordiamoci che presto si metteranno in marcia, e che, pur preparandosi a festeggiare la nostra rovina, meditano sui mezzi per risanarci, per porre termine al nostro raziocinare e ai nostri sproloqui. Nell'umiliarci, nel calpestarci, ci conferiranno energia sufficiente per aiutarci a morire, o a rinascere.

Che vengano a sferzare il nostro pallore, a rinvigorire le nostre ombre, che ci riportino la linfa che ci ha abbandonati. Avvizziti esangui, non possiamo reagire contro la fatalità: gli agonizzanti non si coalizzano né si ammutinano. Come contare sul risveglio, sulle collere dell'Europa? La sua sorte e persino le sue rivolte sono decise altrove. Stanca di durare, di intrattenersi ancora con se stessa, l'Europa è un vuoto verso il quale muoveranno ben presto le steppe... un altro vuoto, un vuoto "nuovo".