I quaderni di Malte Laurids Brigge
pubblicato nel 1910
[...] Io imparo a vedere. Non so perché tutto penetra in me più profondo e non rimane là dove, prima, sempre aveva fine e svaniva. Ho un luogo interno che non conoscevo. Ora tutto va a finire là. Non so che cosa vi accada.
Oggi ho scritto una lettera, e d'improvviso mi sono reso conto d'essere qui solo da tre settimane. Tre settimane altrove, per esempio in campagna, potevano essere un giorno, qui sono anni. Non voglio più scrivere neppure una lettera. Perché devo dire a qualcuno che sto mutando in me? Se muto, non resto quello che ero, e se sono qualcosa di diverso da prima, è chiaro che non ho più conoscenti E a gente estranea, a gente che non mi conosce, mi è impossibile scrivere[...]
PARTE PRIMA
11 settembre, rue Tonllier
E così, qui dunque viene la gente per vivere; crederei piuttosto che si muoia, qui. Sono uscito. Ho visto: ospedali. Ho visto un uomo che barcollava e cadeva. La gente gli si è raccolta intorno, mi è stato risparmiato il resto. Ho visto una donna gravida. Si spostava faticosamente lungo un muro alto e caldo, e lo tastava ogni tanto, come per accertarsi che ci fosse ancora. Sì, c'era ancora. Dietro? Cercai sulla carta: Maison d'accouchement. Bene. La sgraveranno - lo si può fare. Più avanti, rue Saint-Jacques, un grande edificio a cupola. La carta dice: Val-de-grâce, Hôpital militaire. Non avevo davvero bisogno di saperlo, ma non importa. La strada da tutte le parti cominciava a puzzare. Puzzava, per quanto potevo distinguere, di iodoformio, di unto di pommes frites, di angoscia. D'estate tutte le città puzzano. Poi ho visto una casa stranamente cieca, sulla carta non c'era, ma sopra la porta si riusciva ancora a leggere: Asyle de nuit. Di fianco all'ingresso, i prezzi. Li ho letti. Non era caro.
E poi? un bambino in una carrozzina ferma: era gonfio, un po' verde, e aveva una vistosa eruzione sulla fronte. Evidentemente stava guarendo e non faceva male. Il bambino dormiva, la bocca era aperta, respirava iodoformio, pommes frites, angoscia. Era così, non ci si poteva far nulla. L'essenziale era vivere. Era questo l'essenziale.
E non posso far a meno di dormire con la finestra aperta. Tram elettrici attraversano a precipizio la mia camera, scampanellando. Automobili passano su di me. Una porta si chiude di colpo. Da qualche parte un vetro cade tintinnando, sento il riso sonante dei grossi frammenti, quello piccolo e sommesso delle schegge. Poi d'improvviso un rumore sordo, soffocato, dall'altra parte, dentro la casa. Qualcuno sale le scale. S'avvicina, s'avvicina sempre. È qui, è qui a lungo, passa. E di nuovo la strada. Una ragazza strilla: Ah, tais-toi, je ne veux plus! Il tram irrompe in corsa convulsa, qui, via, su tutto. Qualcuno chiama. Gente che corre, si sorpassa. Un cane abbaia. Che sollievo: un cane. Verso il mattino canta anche un gallo, e fa del bene, senza limiti. Poi mi addormento d'improvviso.
Questi sono i rumori. Ma c'è, qui, qualcosa di più pauroso: il silenzio. Io credo che nei grandi incendi arrivi talvolta un istante così, di estrema tensione, i getti d'acqua ricadono, i pompieri non si arrampicano più, nessuno si muove. Senza suono un cornicione nero comincia a muoversi, lassù, e un'alta parete dietro la quale il fuoco si leva furioso si inclina, senza suono. Tutti ristanno e con la testa insaccata fra le spalle, i volti tutti raccolti negli occhi, aspettano il colpo terribile. Così è qui il silenzio.
Io imparo a vedere. Non so perché tutto penetra in me più profondo e non rimane là dove, prima, sempre aveva fine e svaniva. Ho un luogo interno che non conoscevo. Ora tutto va a finire là. Non so che cosa vi accada.
Oggi ho scritto una lettera, e d'improvviso mi sono reso conto d'essere qui solo da tre settimane. Tre settimane altrove, per esempio in campagna, potevano essere un giorno, qui sono anni. Non voglio più scrivere neppure una lettera. Perché devo dire a qualcuno che sto mutando in me? Se muto, non resto quello che ero, e se sono qualcosa di diverso da prima, è chiaro che non ho più conoscenti E a gente estranea, a gente che non mi conosce, mi è impossibile scrivere.
L'ho già detto ? Io imparo a vedere. Sì, incomincio. Va ancora male. Ma voglio mettere a profitto il mio tempo.
Non mi era mai capitato di accorgermi, per esempio, di quanti volti ci siano. C'è un'infinità di uomini, ma i volti sono ancor più numerosi poiché ciascuno ne ha più d'uno. Vi sono persone che portano un volto per anni, naturalmente si logora, diviene laido, si piega nelle rughe, si sforma come i guanti portati in viaggio. Queste sono persone econome, semplici; non mutano di volto, non lo fanno pulire neppure una volta. Va bene così, sostengono, e chi gli può dimostrare il contrario? Solo, viene da chiedersi: poiché hanno più volti, cosa ne fanno degli altri? Li mettono in serbo. Li porteranno i loro figli. Capita anche, però, che li portino i loro cani. E perché no? Una faccia è una faccia.
Altri, si mettono un volto dopo l'altro con rapidità inquietante, e li logorano. A tutta prima sembra loro di averne per sempre; ma sono appena sui quaranta, e già arriva l'ultimo. Questo naturalmente è una tragedia. Non sono abituati a tener da conto i volti, il loro ultimo se ne va in otto giorni, ha dei buchi, in molti punti è sottile come la carta, e allora a poco a poco vien fuori il rovescio, il nonvolto, e vanno in giro con esso.
Ma la donna, la donna: s'era accasciata su di sé, contro le proprie mani. All'angolo di rue Notre-Dame-des-Champs. Appena la vidi così, rallentai il passo. Quando la povera gente riflette, non bisogna disturbarla. Ciò che cerca, forse le viene in mente davvero.
La strada era troppo vuota, la sua vacuità si annoiava e mi tirava via il passo di sotto i piedi e se lo portava in giro sonante, qui e là, zoccolante. La donna si spaventò e si trasse su da sé, troppo in fretta, troppo di forza, così che il volto le rimase fra le due mani. Potevo vederlo giacere in esse, la sua forma cava. Mi costò uno sforzo indescrivibile mantenere gli occhi su quelle mani e non guardare ciò che s'era strappato da esse. Provavo orrore a vedere dal di dentro un volto, ma ancora di più temevo di levare gli occhi su una testa piagata a nudo, senza volto.
Ho paura. Contro la paura bisogna far qualcosa, quando capita d'averla. Sarebbe orribile ammalarsi qui, e se a qualcuno venisse in mente di portarmi all'Hôtel-Dieu vi morirei di sicuro. Quell'Hôtel è un hotel ameno, frequentatissimo. Non ci si può quasi fermare ad osservare la facciata della cattedrale di Parigi, senza correre il pericolo di farsi mettere sotto da una delle tante vetture che attraversano lo spiazzo alla massima velocità per entrare là. Sono piccoli omnibus che scampanellano di continuo, e perfino il duca di Sagan dovrebbe far fermare il suo equipaggio, se un qualsiasi poveretto, moribondo, si fosse messo in testa di entrare difilato nell'hôtel di Dio. I moribondi sono testardi, e si arresta tutta Parigi se Madame Legrand, brocanteuse della rue des Martyrs, arriva in vettura in una certa piazza della Cité. Va notato che le piccole vetture indemoniate hanno finestrini estremamente suggestivi di vetro latteo, dietro ai quali ci si può rappresentare magnifiche agonie; basta la fantasia di una concierge. Se poi uno ha più immaginazione e la volge in altre direzioni, le congetture sono addirittura senza limiti. Ma ho visto anche arrivare vetture di piazza aperte, vetture a tassametro con il mantice alzato, che procedevano con la tariffa solita: due franchi l'ora d'agonia.
Questo eccellente Hôtel è molto antico, già ai tempi del re Clodoveo vi si moriva in pochi letti. Ora si muore in 559 letti. In serie, naturalmente. Con una produzione così enorme ogni singola morte non è proprio ben eseguita, ma non importa. È la quantità che conta. Oggi chi dà ancora valore a una morte ben fatta? Nessuno. Perfino i ricchi, che pure potrebbero concedersi il lusso di morire con ampiezza, incominciano a diventare indifferenti e trascurati; il desiderio di avere una propria morte diventa sempre più raro. Ancora un po', e diventerà rara come una propria vita. Mio Dio, c'è già tutto pronto. Si arriva, si trova una vita, bell'e confezionata, solo da indossare. Uno vuole andarsene o vi è costretto: bene, nessuno sforzo: Voilà votre mort, monsieur. Si muore come capita; si muore la morte spettante alla malattia che si ha (poiché da quando si conoscono tutte le malattie, si sa anche che i diversi esiti letali pertengono alle malattie, non agli uomini; e il malato non ha per così dire nulla da fare).
Nelle cliniche, dove si muore così volentieri e con tanta riconoscenza verso medici e suore, si muore una delle morti previste dall'istituto; è cosa che piace. Se invece si muore in casa, è naturale che si scelga la morte cortese, della buona società, quella che dà già quasi inizio al funerale di prima classe e a tutta la sua bellissima serie di cerimonie. I poveri, allora, sostano dinanzi a una casa così degna, e si riempiono gli occhi. La loro morte è naturalmente banale, senza alcun contorno. Sono già contenti quando ne trovano una che sia più o meno della loro taglia. Può anche essere un po' grande: si cresce ancor sempre un pochino. Solo quando non va bene sul petto o strozza, allora fa tribolare.
Quando penso a casa, dove ora non c'è più nessuno, credo che una volta le cose andassero diversamente. Una volta si sapeva (o si sospettava, forse) di avere in sé la morte come il frutto ha il nocciolo. I bambini ne avevano una piccola in sé e gli adulti una grossa. Le donne l'avevano nel grembo e gli uomini nel petto. La si aveva, e questo dava a ciascuno una speciale dignità e un silenzioso orgoglio.
In mio nonno ancora, che era stato il ciambellano Brigge, si vedeva che portava in sé una morte. E che morte: lunga due mesi e così rumorosa che la si udì fin dalla fattoria.
L'antica e lunga casa padronale era troppo piccola per quella morte, sembrava che si dovessero costruire nuove ali perché il corpo del ciambellano diventava sempre più grande, ed egli voleva essere portato incessantemente da un locale all'altro e cadeva in terribile collera se il giorno non volgeva ancora alla fine e non c'erano più stanze in cui non fosse stato deposto. Allora, con tutto il corteo di domestici, cameriere e cani che aveva sempre intorno, si andava su per le scale, il maggiordomo in testa, fino alla camera in cui era morta sua madre di felice memoria, camera che era stata conservata esattamente come ella l'aveva lasciata ventitré anni prima e nella quale nessuno altrimenti poteva mai entrare. Ora vi irrompeva tutta la muta. Le tende venivano scostate, e la luce vigorosa del pomeriggio d'estate frugava tutti gli oggetti timidi, spauriti e si aggirava maldestra negli specchi spalancati. E altrettanto faceva la gente. C'erano cameriere che per la curiosità non sapevano più dove posare le mani, giovani servitori che fissavano ad occhi spalancati ogni cosa, e domestici più vecchi che muovevano intorno, cercando di ricordare tutto ciò che era stato loro narrato di quella stanza chiusa, in cui ora avevano la fortuna di trovarsi.
Ma soprattutto ai cani sembrava straordinariamente eccitante la sosta in uno spazio ove tutte le cose mandavano odore. I grandi e magri levrieri russi correvano occupati qua e là dietro le spalliere delle poltrone, attraversavano la stanza ondulando in lunghi passi di danza, si drizzavano come cani araldici e, posate le zampe magre sul davanzale della finestra bianco e oro, col muso attento e la fronte ritratta guardavano a destra e a sinistra nella corte. Piccoli bassotti color giallo guanto sedevano nell'ampia poltrona di seta presso la finestra, con l'aria di constatare che tutto era in ordine, e un irsuto cane da punta, di malumore, sfregava il dorso contro lo spigolo di un tavolino dalle gambe dorate, facendo tremare le tazze di Sèvres sul piano dipinto.
Sì, furono ore terribili per quelle cose assorte e sonnolente. Accadde che da libri aperti maldestramente da una mano frettolosa scivolassero fuori ondeggiando petali di rosa che venivano calpestati; oggetti piccoli e fragili venivano afferrati e, poiché si spezzavano subito, rimessi giù velocemente, alcuni anche cacciati in frantumi sotto le tende o buttati dietro la griglia dorata del parafuoco. E di tanto in tanto qualcosa cadeva, cadeva sommesso sul tappeto, cadeva rumoroso sul duro pavimento di legno, si spaccava qua e là, si schiantava bruscamente o andava in pezzi quasi senza rumore, poiché quelle cose, viziate com'erano, non sopportavano il più piccolo urto.
E se a qualcuno fosse venuto in mente di chiedere che cosa fosse la causa di tutto ciò, che cosa aveva richiamato nella camera scrupolosamente custodita quella profusione di rovina, ci sarebbe stata una sola risposta: la morte.
La morte del ciambellano Christoph Detlev Brigge a Ulsgaard. Poiché questi giaceva in mezzo al pavimento, straripando enorme dall'uniforme azzurro cupo, e non si muoveva. Nel suo grande volto, estraneo, ormai irriconoscibile a tutti, gli occhi erano chiusi: egli non vedeva ciò che accadeva. Dapprima s'era cercato di metterlo sul letto, ma l'aveva impedito, poiché odiava i letti da quelle prime notti in cui era venuta crescendo la sua malattia. Anche il letto, lassù, s'era dimostrato troppo piccolo, e non era rimasto altro che deporlo sul tappeto; poiché non aveva voluto scendere ai piani di sotto.
Là giaceva ora, e si poteva pensare che fosse morto. I cani, mentre cominciava lentamente a imbrunire, si erano ritratti l'uno dopo l'altro attraverso lo spiraglio della porta, solo l'irsuto dall'aria corrucciata sedeva presso il padrone, e una delle sue zampe anteriori giaceva grossa e villosa nella mano grande, grigia, di Christoph Detlev. Anche la maggior parte dei servitori stavano ora fuori nel corridoio bianco, che era più chiaro della stanza; ma quelli ancora rimasti dentro volgevano di tanto in tanto sguardi furtivi verso il grande mucchio, nel centro, che s'andava oscurando, e speravano che fosse solo più una grande veste sopra una cosa corrotta.
Ma qualcosa durava ancora. Era una voce, la voce che anche solo sette settimane prima nessuno aveva mai conosciuto: poiché non era la voce del ciambellano. Non era Christoph Detlev la cosa cui apparteneva quella voce, era la morte di Christoph Detlev.
La morte di Christoph Detlev viveva già da molti, molti giorni a Ulsgaard e parlava a tutti e pretendeva. Pretendeva d'essere portata, pretendeva la camera azzurra, pretendeva il salotto piccolo, pretendeva la sala. Pretendeva i cani, pretendeva che si ridesse, si parlasse, si suonasse e si stesse in silenzio, e tutto ciò insieme. Pretendeva di vedere amici, donne e morti, e pretendeva per sé di morire: pretendeva. Pretendeva e gridava.
Poiché, quando era giunta la notte e quei domestici esausti che non dovevano vegliare cercavano di prendere sonno, allora la morte di Christoph Detlev gridava, gridava e gemeva forte, mugghiava così a lungo e incessante che i cani, i quali avevano cominciato a farle coro ululando, ammutolivano e non osavano accucciarsi, e, ritti sulle lunghe e snelle zampe tremanti, avevano paura. E quando per la vasta, argentea notte d'estate danese, dal villaggio udivano che essa mugghiava, balzavano dal letto, come per un uragano, si rivestivano, e senza una parola restavano a sedere intorno alla lampada finché cessava. E le donne che erano prossime a; parto venivano condotte nelle stanze più interne e nelle alcove più serrate; ma la udivano, la udivano come se fosse dentro il loro ventre, e supplicavano di potersi alzare, e giungevano, bianche e larghe, e sedevano fra gli altri con i loro volti intrisi di lineamenti vaghi e confusi. E le vacche, pregne in quei giorni, erano prive d'aiuto e chiuse, e ad una si dovette strappare dal ventre il frutto morto con tutte le viscere, poiché da sé non voleva uscire. E tutti facevano male il loro lavoro consueto e dimenticavano di portar dentro il fieno, siccome durante il giorno erano atterriti all'idea della notte, ed erano così spossati dal molto vegliare e dai paurosi risvegli che non avevan più testa per nulla. E quando alla domenica andavano nella chiesa bianca e tranquilla, pregavano che non vi fosse più alcun signore a Ulsgaard: poiché questo era un signore terribile. E ciò che essi tutti pensavano e pregavano, lo pronunciava dal pulpito il pastore, poiché anch'egli non aveva più notti e non riusciva più a capire Dio. E la campana lo diceva, cui era giunta una rivale spaventosa, che rimbombava tutta la notte e contro la quale essa non poteva nulla, si fosse pur messa a suonare con tutto il suo bronzo. Sì, tutti lo dicevano, e tra i giovani vi fu uno che aveva sognato d'essere penetrato nel castello e d'aver ammazzato con il forcone del letame il Grazioso Signore, e la gente era così furente, così all'estremo, così sovreccitata, che tutti lo stettero a sentire mentre raccontava il suo sogno, e poi, quasi senza volerlo, lo osservarono per vedere se fosse capace di tanto. Tali i sentimenti e i discorsi nell'intera contrada, in cui solo qualche settimana prima il ciambellano era stato amato e compianto. Ma sebbene così parlasse la gente, nulla mutava. La morte di Christoph Detlev, che dimorava a Ulsgaard, non si lasciava far fretta. Era venuta per dieci settimane, e dieci settimane restò. E durante quei giorni fu più signora di quanto fosse mai stato Christoph Detlev Brigge, era come un re che di poi e per sempre viene chiamato Il Terribile.
Questa non fu la morte di un idropico qualsiasi, questa fu la morte cattiva e principesca che per tutta la vita il ciambellano aveva portato dentro di sé e nutrito di sé. Tutto l'eccesso di orgoglio, volontà e imperio che egli non aveva potuto consumare ai suoi quieti giorni, trascorreva nella sua morte, nella morte che ora sedeva e scialava in Ulsgaard.
Come avrebbe mai guardato, il ciambellano Brigge, chi avesse preteso da lui ch'egli dovesse morire una morte diversa? Egli morì la sua pesante morte.
E quando penso alle altre che ho visto o di cui ho sentito parlare: è sempre lo stesso. Tutti avevano una propria morte. Gli uomini che la portavano nell'armatura, dentro, come un prigioniero, le donne che divenivano vecchissime e piccole, e poi in un letto enorme morivano come su un palcoscenico, dinanzi all'intera famiglia, alla servitù e ai cani, riservate e sovrane. Perfino i bambini, i più piccoli anche, non avevano una qualsiasi morte infantile, ma si raccoglievano in sé e morivano quel che già erano e quel che sarebbero divenuti.
E quale bellezza malinconica nelle donne, quand'erano gravide e si reggevano in piedi, e nel loro grosso ventre, su cui giacevano d'istinto le mani esili, c'erano due frutti: un bambino e una morte. Il loro sorriso denso e quasi nutriente nel volto svuotato non scaturiva forse dal loro capire, talvolta, che i due frutti crescevano insieme?
Ho fatto qualcosa contro la paura. Sono rimasto l'intera notte a sedere scrivendo, e ora sono stanco come dopo un ampio giro per i campi di Ulsgaard. È pur duro pensare che tutto ciò non c'è più, che gente estranea abita nell'antica e lunga casa padronale. Può darsi che nella bianca stanza, sotto il tetto, dormano ora le cameriere, dormano dalla sera al mattino il loro sonno pesante e umido.
E non si ha più nulla e nessuno e si viaggia per il mondo con un baule e una cassa di libri e di fatto senza curiosità. Di fatto, senza casa, senza cose ereditate, senza cani, che vita è mai questa? Se almeno si avessero i propri ricordi. Ma chi li ha? Ci fosse l'infanzia, ma è come sepolta. Forse bisogna essere vecchi per riuscire a riavvicinare tutto ciò. Penso che sia bello, essere vecchi.
Oggi era una bella mattina autunnale. Ho attraversato le Tuileries. Tutto ciò che stava rivolto ad oriente, innanzi al sole, abbagliava. Le cose illuminate erano velate di nebbia come da una cortina grigiolucente. Grigio nel grigio, le statue si scaldavano al sole nei giardini non ancora svelati. Qualche fiore si drizzava sulle lunghe aiuole e diceva: Rosso, con una voce sgomenta. Poi giunse sull'angolo, dai Champs-Elysées, un uomo molto alto e snello; portava una stampella, ma non più sotto l'ascella, la reggeva dinanzi a sé, leggera, e di tanto in tanto la batteva a terra sonoramente come il bastone di un araldo. Non poteva reprimere un sorriso di gioia e sorrideva, a tutto, al sole, agli alberi. Il suo passo era esitante come quello di un bambino, ma insolitamente leggero, pieno del ricordo dell'andatura di un tempo.
Quanto può una piccola luna! Ci sono giorni in cui tutto intorno a noi è lucente, leggero, appena accennato nell'aria chiara e pur nitido. Le cose più vicine hanno già il tono della lontananza, sono sottratte a noi, mostrate a noi ma non offerte; e ciò che ha rapporto con gli spazi lontani - il fiume, i ponti, le lunghe strade e le piazze che si prodigano -, tutto ciò ha preso dietro di sé quegli spazi, vi sta sopra dipinto come sulla seta. È impossibile esprimere cosa riesca ad essere, allora, una carrozza d'un verde lucente sul Pont-Neuf o qualcosa di rosso che non si può fermare, o anche solo un manifesto sul muro antincendio di un gruppo di case grigio perla. Tutto è semplificato, composto in piani giusti e chiari come il volto in un ritratto di Manet. E nulla è insignificante e superfluo. I bouquinistes sul quale aprono le loro casse, e il giallo vivido o consunto dei libri, il bruno violetto delle legature, il verde più ampio di una cartella, tutto s'accorda, vale, partecipa e forma un'interezza in cui non manca nulla.
Poi c'è questo gruppo: un carrettino spinto da una donna; davanti per il lungo un organetto. Dietro di traverso una cesta per il bambino che, piccolissimo, si tiene saldo sulle gambe, divertito sotto la sua cuffia, e non vuole farsi metter seduto. Di tanto in tanto la donna gira la manovella dell'organetto. Il piccolo allora torna a tirarsi su, pesta i piedi dentro la cesta, e una ragazzetta con l'abito verde della domenica danza e scuote in alto il tamburello verso le finestre.
Credo che dovrei cominciare a lavorare un poco, ora che imparo a vedere. Ho ventotto anni, ed è come se nulla fosse stato. Ricapitoliamo: ho scritto uno studio sul Carpaccio, brutto, un dramma che si intitola «Matrimonio» e vuole dimostrare con mezzi ambigui una tesi falsa, e dei versi. Oh, ma con i versi si fa ben poco, quando li si scrive troppo presto. Bisognerebbe aspettare e raccogliere senso e dolcezza per tutta una vita e meglio una lunga vita, e poi, proprio alla fine, forse si riuscirebbe poi a scrivere dieci righe che fossero buone. Poiché i versi non sono, come crede la gente, sentimenti (che si hanno già presto), sono esperienze. Per un solo verso si devono vedere molte città, uomini e cose, si devono conoscere gli animali, si deve sentire come gli uccelli volano, e sapere i gesti con cui i fiori si schiudono al mattino. Si deve poter ripensare a sentieri in regioni sconosciute, a incontri inaspettati e a separazioni che si videro venire da lungi, a giorni d'infanzia che sono ancora inesplicati, ai genitori che eravamo costretti a mortificare quando ci porgevano una gioia e non la capivamo (era una gioia per altri), a malattie dell'infanzia che cominciavano in modo così strano con tante trasformazioni così profonde e gravi, a giorni in camere silenziose, raccolte, e a mattine sul mare, al mare, a mari, a notti di viaggio che passavano alte rumoreggianti e volavano con tutte le stelle, e non basta ancora poter pensare a tutto ciò. Si devono avere ricordi di molte notti d'amore, nessuna uguale all'altra, di grida di partorienti, e di lievi, bianche puerpere addormentate che si richiudono. Ma anche presso i moribondi si deve essere stati, si deve essere rimasti presso i morti nella camera con la finestra aperta e i rumori che giungono a folate. E anche avere ricordi non basta. Si deve poterli dimenticare, quando sono molti, e si deve avere la grande pazienza di aspettare che ritornino. Poiché i ricordi di per se stessi ancora non sono. Solo quando divengono in noi sangue, sguardo e gesto, senza nome e non più scindibili da noi, solo allora può darsi che in una rarissima ora sorga nel loro centro e ne esca la prima parola di un verso.
Tutti i miei versi però sono nati diversamente, dunque non sono affatto versi. E scrivendo il mio dramma, quanto mi sbagliavo! Ero un imitatore e un folle ad avere bisogno di un Terzo per narrare il destino di due creature che a vicenda si rendevano difficile la vita? Caddi così facilmente nelle trappola! Eppure avrei dovuto sapere che questo Terzo, che compare in tutte le vite e in tutte le letterature, questo fantasma di un Terzo che non è mai esistito, non ha alcun senso; e che si deve negarlo. Sta fra i pretesti della natura, preoccupata sempre di distogliere l'attenzione degli uomini dai suoi segreti più profondi. È il paravento dietro al quale si svolge un dramma. È lo strepito all'ingresso dell'afono silenzio di un conflitto reale. Si potrebbe pensare che finora sia stato troppo difficile per tutti parlare dei Due di cui di fatto si tratta; il Terzo, proprio perché così irreale, è la parte più facile del lavoro, tutti ne erano capaci. Fin dall'inizio dei loro drammi si nota l'impazienza di giungere al Terzo, quasi non riescono ad aspettarlo. Appena arriva, tutto è a posto. Ma che noia se ritarda! non può accadere assolutamente nulla senza di lui, tutto si ferma, ristagna, aspetta. Già, e se questo arresto, se questa attesa durassero? Come si potrebbe fare, Signor Drammaturgo, e tu, Pubblico che conosci la vita, come si potrebbe fare se lui fosse irreperibile, il viveurprediletto o il giovane presuntuoso che in ogni matrimonio fa girare il suo grimaldello? Come si farebbe se, per esempio, se lo fosse portato via il diavolo? Facciamo un'ipotesi. Una volta tanto ci si accorge delle cavità artificiose e vuote del teatro, vengono tutte murate come buchi pericolosi, solo le tarme ondeggiano via dall'orlo dei palchi attraverso lo spazio vuoto inconsistente. I drammaturghi non godono più delle loro ville nei quartieri eleganti. Tutte le agenzie pubbliche vanno alla ricerca, per proprio tornaconto, nei paesi remoti, dell'Insostituibile che era lui stesso l'azione.
Eppure vivono fra gli uomini non questi «Terzi», ma i Due di cui ci sarebbero da dire infinite cose, di cui non è stato ancora mai detto nulla, sebbene soffrano e facciano e non sappiano cavarsi d'impaccio.
È ridicolo. Sto qui nella mia piccola camera, io, Brigge, che sono arrivato a ventotto anni e che nessuno conosce. Sto qui e sono nulla. E tuttavia questo nulla comincia a pensare e pensa, cinque piani in alto, in un grigio pomeriggio parigino questi pensieri:
È possibile, pensa, che nulla di reale e d'importante sia ancora stato visto, conosciuto e detto? È possibile che si siano avuti millenni di tempo per guardare, riflettere e annotare, e che si siano lasciati passare i millenni come un intervallo di ricreazione in cui si mangia il pane e burro e una mela?
Sì, è possibile.
È possibile che nonostante le scoperte e i progressi, nonostante la civiltà, la religione e la sapienza universale, si sia rimasti alla superficie della vita? È possibile che perfino questa superficie, che sarebbe stata pur sempre qualcosa, l'abbiano ricoperta con un tessuto incredibilmente noioso, così che offra l'aspetto dei mobili del salotto durante le vacanze d'estate?
Sì, è possibile.
È possibile che l'intera storia universale sia stata fraintesa? È possibile che il passato sia falso poiché si è sempre parlato delle sue masse, proprio come se si narrasse del confluire di molti, ma non di quell'uno intorno al quale si assiepavano perché era straniero e moriva?
Sì, è possibile.
È possibile che si sia creduto di dover ricuperare ciò che accadde prima che nascessimo? È possibile che si debba ricordare a ciascuno che egli è scaturito da tutto quanto già fu, e dunque lo conosce e non dovrebbe farsi indottrinare da altri, che hanno un loro altro sapere?
Sì, è possibile.
È possibile che tutti questi uomini conoscano con tanta precisione un passato che non è mai stato? È possibile che tutte le realtà non siano nulla per loro; che la loro vita vada scaricandosi, non connessa a niente, come un orologio in una stanza vuota?
Sì, è possibile.
È possibile che non si sappia nulla di fanciulle che pure vivono? È possibile che si dica «le donne», «i bambini», «i ragazzi» senza il sospetto (nonostante tutto il sapere, senza il sospetto) che da lungo tempo queste parole non hanno più alcun plurale, ma solo innumerevoli singolari?
Sì, è possibile.
È possibile che ci sia gente che dice «Dio» e pensa a qualcosa che apparterrebbe a tutti? E guardiamo anche solo due scolaretti: uno si compra un temperino, e l'altro se ne compra uno uguale il medesimo giorno. E dopo una settimana si mostrano l'un l'altro i due temperini, e accade che i due oggetti ormai si rassomiglino solo molto alla lontana, tanto diverso ciascuno è divenuto in mani diverse. (Sì, aggiunge la madre di uno dei ragazzi: anche se voi, tutti e due uguali, dovete logorare sempre tutto!) E allora: È possibile credere di poter avere un Dio senza che divenga usato?
Sì, è possibile.
Ma se tutto ciò è possibile, se anche solo ha un'ombra di possibilità, allora bisogna pure che qualcosa si faccia nel mondo. Il primo che capita, chiunque abbia avuto questi pensieri inquietanti, deve cominciare a far qualcosa di ciò che fu tralasciato; anche se è uno qualsiasi, se non è per nulla il più adatto: altri non ce ne sono. Questo giovane straniero senza importanza, Brigge, dovrà mettersi a sedere, cinque piani in alto, ed a scrivere, giorno e notte. sì, dovrà scrivere, questa sarà la fine:
Dovevo avere allora dodici anni, tredici al massimo. Mio padre mi aveva portato con sé a Urnekloster. Non so che cosa lo inducesse a far visita al suocero. I due uomini non s'erano visti per anni, dalla morte di mia madre, e neppure mio padre era mai stato nell'antico castello in cui il conte Brahe s'era ritirato solo tardi. In seguito non ho mai più rivisto quella dimora singolare, che dopo la morte del nonno passò in mani estranee. Così come la ritrovo nel ricordo, rielaborato, d'infanzia, non è un edificio; in me è tutta a pezzi; s'è conservata qui una stanza, là una stanza, e poi un pezzo di corridoio che non collega quelle stanze ma se ne sta da solo, frammento. In questo modo tutto è sparso in me, le stanze, le scalinate che s'aprivano con tanta solennità, e altre scale strette a chiocciola, nella cui oscurità si andava come il sangue nelle vene; le stanze della torre, i balconi sospesi in alto, le altane inaspettate, sulle quali si era spinti fuori da una piccola porta: tutto ciò è ancora in me e non cesserà mai d'essere in me. È come se l'immagine di quella casa fosse precipitata dentro di me da un'immensa altezza, frantumandosi sul fondo di me.
Perfettamente conservata nel mio cuore, mi sembra, è soltanto la sala in cui solevamo radunarci per il pranzo, ogni sera alle sette. Di giorno non ho mai veduto quella stanza, non mi ricordo neppure se avesse delle finestre e dove guardassero; ogni volta che la famiglia vi entrava, le candele ardevano nei candelieri pesanti, e pochi minuti bastavano a far dimenticare il giorno e tutto ciò che s'era visto fuori. Quella sala alta, credo con il soffitto a volta, era più forte di tutto; con la sua altezza sempre più buia, con i suoi angoli mai rischiarati, risucchiava da ognuno ogni immagine, senza dar nulla di definito in cambio. Si sedeva là come dissolti; assolutamente senza volontà, senza consapevolezza, senza piacere, senza difesa. Ognuno era come un posto vuoto. Ricordo che quello stato annientante mi causava dapprima una sorta di nausea, come il mal di mare, che superavo soltanto protendendo una gamba fino a toccare col piede il ginocchio di mio padre, che sedeva di fronte. Solo più tardi mi colpì che egli sembrasse capire o almeno tollerare quello strano comportamento, sebbene tra noi ci fosse un rapporto quasi freddo, che non giustificava il mio contegno. Era però quel leggero tocco che mi dava la forza di resistere alla lunga durata dei pranzi. E dopo qualche settimana di sopportazione spasmodica mi ero abituato così bene all'inquietudine sinistra di quelle riunioni, con la quasi illimitata adattabilità dei bambini, che non mi costava più alcuno sforzo restare a tavola per due ore; ormai passavano anzi relativamente in fretta, poiché intanto io mi dedicavo a osservare i presenti.
Mio nonno li chiamava la famiglia, e sentivo anche gli altri usare questo modo di dire, che era del tutto arbitrario. Infatti, sebbene le quattro persone fossero legate alla lontana da vincoli di parentela, tra loro avevano ben poco in comune. Lo zio, che mi sedeva accanto, era un vecchio sul cui volto duro e riarso spiccavano delle macchie nere, conseguenze, come seppi, dell'esplosione di una carica di polvere; lunatico e scontento com'era, aveva preso il congedo con il grado di maggiore, e ora in una stanza a me ignota del castello faceva esperimenti alchemici; sentii dire inoltre dai servitori che era in rapporti con una prigione, da dove una o due volte all'anno gli mandavano dei cadaveri: con quelli si richiudeva per giorni e notti e li dissecava e li preparava secondo un procedimento segreto, in modo che resistessero alla decomposizione. Di fronte a lui era il posto della signorina Mathilde Brahe. Era una persona di età indefinita, una lontana cugina di mia madre, di cui non si sapeva null'altro che manteneva fitta corrispondenza con uno spiritista austriaco, un tal barone Nolde, e gli era così devota da non intraprendere la cosa più insignificante senza aver prima ottenuto il suo consenso o piuttosto la sua benedizione. A quel tempo era straordinariamente pingue, di una pienezza molle e pigra, che sembrava versata senza cura negli abiti sciolti e chiari; i suoi movimenti erano stanchi e vaghi, e gli occhi sempre lacrimosi. E tuttavia c'era qualcosa in lei che mi ricordava mia madre, delicata e sottile. Quanto più la osservavo, trovavo nel suo volto tutti i lineamenti fini e leggeri che dopo la morte di mia madre non ero più riuscito a ricordare bene; solo ora, vedendo Mathilde Brahe ogni giorno, sapevo di nuovo che aspetto aveva avuto la defunta; anzi, lo sapevo forse per la prima volta. Solo ora, da cento e cento particolari, si componeva in me l'immagine della morta, quell'immagine che mi accompagna ovunque. Più tardi mi è divenuto chiaro che nel volto della signorina Brahe si trovavano realmente tutti i particolari dei lineamenti di mia madre, solo, come se un volto estraneo vi si fosse intruso in mezzo, erano staccati tra loro, distorti e non più fusi insieme.
Di fianco a quella signora sedeva il figlioletto di una cugina, un ragazzo circa della mia età, ma più piccolo e gracile. Da una gorgiera pieghettata spuntava il suo collo esile, pallido, e spariva sotto un lungo mento. Le labbra erano sottili e serrate, le pinne del naso vibravano leggermente, e solo uno dei suoi begli occhi bruni scuri era mobile e vivo. Talvolta guardava quieto e triste verso di me, mentre l'altro occhio restava sempre fisso sul medesimo angolo, come se fosse venduto e ormai fuori questione.
A capotavola stava l'enorme poltrona del nonno; un servitore, che aveva da far solo questo, gliela sospingeva sotto, e il vecchio vi occupava uno spazio minimo. C'era gente che chiamava Eccellenza e Maresciallo di Corte quel vecchio signore duro d'orecchio e imperioso, altri gli attribuivano il titolo di generale. Ed egli certo anche possedeva tutte quelle dignità, ma era passato tanto tempo dacché aveva rivestito i suoi uffici, che simili appellativi risultavano ormai quasi privi di senso. Mi pareva, soprattutto, che alla sua personalità in certi momenti così netta e di nuovo pur sempre dissolta, non si potesse unire alcuna denominazione precisa. Non riuscii mai a chiamarlo nonno, sebbene talvolta fosse gentile con me, e perfino mi facesse andare da lui, cercando di dare un'intonazione scherzosa al mio nome. Del resto tutta la famiglia mostrava verso il conte un contegno misto di riverenza e timore, solo il piccolo Erik viveva in una certa familiarità con il vecchio padrone di casa; il suo occhio vivo aveva talvolta rapidi sguardi d'intesa con lui, cui il nonno rispondeva altrettanto rapido; a volte, nei lunghi pomeriggi, li si poteva veder spuntare all'estremità della profonda galleria e si poteva osservare come, la mano nella mano, andassero lungo gli antichi e oscuri ritratti, senza parlare, senza dubbio intendendosi in un altro modo.
Io stavo quasi tutto il giorno nel parco e fuori nei boschi di faggi o nella landa; e per fortuna c'erano dei cani a Urnekloster, che mi accompagnavano; c'erano qua e là un cascinale o un rustico dove potevo avere latte e pane e frutta, e credo che mi godessi abbastanza spensierato la mia libertà, almeno nelle prime settimane, senza lasciarmi angustiare dal pensiero delle riunioni serali. Non parlavo quasi con nessuno perché la mia gioia era starmene solo; soltanto con i cani, a volte, avevo dei brevi discorsi: con loro mi intendevo perfettamente. La taciturnità era d'altronde una sorta di qualità della famiglia; l'avevo imparata da mio padre, e non mi meravigliavo che durante il pasto serale non si pronunciasse quasi parola.
Nei primi giorni dopo il nostro arrivo, tuttavia, Mathilde Brahe fu oltremodo loquace. Chiedeva a mio padre notizie di vecchie conoscenze in città straniere, si ricordava di impressioni remote, si commuoveva fino alle lacrime rievocando amiche defunte e un certo giovane che, lasciava intendere, l'aveva amata senza che ella volesse mai ricambiare il suo sentimento fervido e privo di speranza. Mio padre ascoltava cortesemente, annuendo a tratti col capo, e rispondeva il minimo indispensabile. Il conte, a capotavola, sorrideva continuamente con le labbra abbassate, il suo volto sembrava più grande del solito, era come se portasse una maschera. A volte prendeva la parola egli stesso, e la sua voce non si rivolgeva a nessuno in particolare, ma, sebbene fosse bassissima, si poteva udire in tutta la sala; assomigliava al battito regolare e indifferente di un orologio; intorno ad essa il silenzio sembrava avere una propria risonanza vuota, uguale ad ogni sillaba.
Il conte Brahe riteneva che fosse uno speciale riguardo verso mio padre parlare della defunta moglie di lui, mia madre. La chiamava contessa Sibylle, e chiudeva ogni frase come se chiedesse di lei. Mi pareva, non so perché, che si trattasse di una giovane in bianco, che ad ogni istante sarebbe potuta comparire fra noi. Lo sentii anche parlare nel medesimo tono della «nostra piccola Anna Sophie». E quando un giorno chiesi chi fosse quella signorina che sembrava così cara al nonno, seppi che egli voleva dire la figlia del Gran Cancelliere Conrad Reventlow, già moglie morganatica di Federico IV, la quale da quasi un secolo e mezzo riposava a Roskilde. Il passare del tempo non contava nulla per lui, la morte era un piccolo incidente che egli completamente ignorava, le persone che aveva accolto un giorno nella sua memoria esistevano, e in ciò la loro morte non poteva causare il minimo cambiamento. Molti anni più tardi, dopo la morte del vecchio signore, si narrava che egli con la medesima caparbietà considerava anche il futuro come presente. Una volta aveva conversato con una giovane intorno ai figli di lei, in particolare intorno ai viaggi di uno di questi figli, mentre la giovane signora, appena al terzo mese della sua prima gravidanza, sedeva quasi svenuta dall'orrore e dalla paura di fianco al vecchio inesauribilmente loquace.
Cominciò che io risi. Sì, risi forte e non riuscivo a calmarmi. Una sera mancava Mathilde Brahe. Il vecchio servitore quasi cieco, quando giunse al posto di lei, le offrì egualmente il piatto. Per un attimo si irrigidì in quel gesto; poi si allontanò, soddisfatto e dignitoso, come se tutto fosse regolare. Avevo osservato questa scena, e nell'istante in cui la vidi non mi parve affatto comica. Ma un momento dopo, proprio mentre mi infilavo un boccone in bocca, la risata mi salì in gola così rapida che il cibo mi andò di traverso e feci gran rumore. E sebbene questa situazione mi fosse penosa, sebbene mi sforzassi in ogni modo possibile di restare serio, continuavo ad essere scosso dal riso che mi dominava tutto.
Mio padre, quasi per distrarre l'attenzione dal mio contegno, chiese con la sua ampia voce smorzata: «È malata, Mathilde?» Il nonno sorrise al modo suo e rispose poi con una frase cui non prestai attenzione, occupato com'ero di me stesso, e che suonava all'incirca: No, solo desidera non incontrare Christine. Io dunque non capii che per effetto di quelle parole il mio vicino, lo scuro maggiore, si levò e, con un mormorio di scusa indistinto e un inchino verso il conte, lasciò la sala. Mi colpì soltanto che egli, alle spalle del padrone di casa, si voltasse ancora una volta sulla soglia e con la mano e col capo facesse un cenno al piccolo Erik e con mio sommo stupore d'improvviso anche a me, quasi ci esortasse a seguirlo. Ne fui così sorpreso che il riso cessò di tormentarmi. Non prestai, del resto, altra attenzione al maggiore; mi era antipatico, e notai anche che il piccolo Erik non gli dava retta.
Il pranzo continuò a trascinarsi come sempre, e si era giunti proprio al dessert quando il mio sguardo fu afferrato e trattenuto da un movimento che si produsse in fondo alla sala, nella semioscurità. Là, una porta che sapevo sempre chiusa e che mi avevano detto conduceva al mezzanino, s'era aperta piano piano, e ora, mentre volgevo gli occhi con un senso nuovo di curiosità e di sgomento, comparve nell'oscurità del vano della porta una signora vestita di chiaro, sottile, e venne lentamente verso di noi. Non so se facessi un gesto o se emettessi un suono, lo strepito di una sedia rovesciata mi costrinse a distogliere gli occhi dalla strana figura, e vidi che mio padre era balzato in piedi e ora, pallido come un morto, con le braccia abbandonate e le mani contratte, andava verso la signora. Intanto, non tocca da quella scena, ella muoveva verso di noi, passo passo, e non era più distante dal posto del conte quando questi si levò di colpo, afferrò mio padre per il braccio, lo ricondusse alla tavola e lo tenne fermo, mentre la signora sconosciuta, lentamente e indifferente, attraversò lo spazio ora libero, passo passo, in un indescrivibile silenzio, rotto solo dal tintinnio vibrante di un bicchiere, e scomparve per una porta della parete opposta della sala. In quell'istante notai che era il piccolo Erik a chiudere con un profondo inchino la porta dietro la sconosciuta.
Ero l'unico che fosse rimasto a sedere a tavola; ero divenuto così pesante sulla seggiola che mi sembrava di non potermi mai più alzare da solo. Per un momento guardai senza vedere. Poi mi ricordai di mio padre, e vidi che il vecchio lo teneva ancora fermo per il braccio. Ora il volto di mio padre era adirato, colmo di sangue, ma il nonno, le cui dita stringevano il braccio di mio padre come un artiglio bianco, sorrideva con il suo sorriso da maschera. Udii poi che diceva qualcosa, scandendo le sillabe, senza che io riuscissi a capire il significato delle sue parole. Tuttavia caddero profonde nel mio udito, poiché un giorno, saran quasi due anni, le scoprii giù nella mia memoria, e da allora le so. Egli disse: «Tu, Ciambellano, sei violento e scortese. Perché non lasci la gente andarsene per i fatti suoi?» «Chi è quella?» gridò mio padre. «Qualcuno che ha tutto il diritto d'essere qui. Non una estranea. Christine Brahe.» Allora tornò quel silenzio strano e sottile, e di nuovo il bicchiere prese a vibrare. Ma mio padre si liberò con un gesto brusco e si precipitò fuori della sala.
Per tutta la notte lo sentii andare avanti e indietro nella sua camera; poiché anch'io non riuscivo a dormire. Ma d'improvviso verso il mattino mi destai da una sorta di dormiveglia e, con un orrore che mi paralizzò fino al cuore, vidi qualcosa di bianco che sedeva sulla sponda del letto. La disperazione mi diede infine la forza di nascondere la testa sotto la coperta, e là cominciai a piangere atterrito e senza aiuto. D'improvviso fu fresco e chiaro sopra i miei occhi piangenti; li serrai sulle lacrime, per non dover vedere nulla. Ma la voce che ora mi parlava vicinissima mi giungeva tiepida e dolce sul volto, e io la riconobbi: era la voce della signorina Mathilde. Mi calmai subito, e ciò nonostante, anche quando fui del tutto tranquillo, continuai a farmi consolare; sentivo che quella bontà era troppo morbida, e tuttavia la godevo e pensavo d'averla in qualche modo meritata. «Zia,» dissi infine e cercavo di ricomporre sul suo viso dissolto i lineamenti di mia madre: «Zia, chi era la signora?»
«Oh,» rispose la signorina Brahe con un sospiro che mi parve comico, «un'infelice, bambino mio, un'infelice.»
Quel mattino vidi in una stanza dei servitori che preparavano bagagli. Pensavo che saremmo partiti, trovavo del tutto naturale che partissimo. Forse era anche l'intenzione di mio padre. Non ho mai saputo che cosa lo indusse, dopo quella sera, a restare ancora a Urnekloster. Ma non partimmo. Restammo ancora otto o nove settimane in quella casa, sopportammo il peso di quanto vi era di strano, e vedemmo ancora tre volte Christine Brahe.
Allora io non sapevo nulla della sua storia. Non sapevo che da molto, molto tempo era morta nel suo secondo parto, dando alla luce un figlio che crebbe a un destino pauroso e crudele, non sapevo che era una morta. Ma mio padre lo sapeva. Egli, che era un passionale e mirava alla coerenza e alla chiarezza, aveva forse voluto costringersi a sopportare quell'avventura in piena padronanza di sé e senza porre domande? Vidi, senza capire, che lottava con se stesso, senza rendermene conto assistetti infine alla sua vittoria su di sé.
Fu quando vedemmo Christine Brahe per l'ultima volta. Quella sera era comparsa a tavola anche la signorina Mathilde; ma era diversa dal solito. Come nei primi giorni dopo il nostro arrivo, parlava senza sosta, senza seguire un filo e confondendosi in continuazione, e c'era in lei un'inquietudine fisica che la costringeva ad aggiustarsi ogni momento qualcosa nei capelli o nell'abito, finché d'improvviso, con un alto grido lamentoso, balzò in piedi e scomparve.
Nel medesimo istante i miei occhi si volsero da soli verso quella certa porta, e veramente: Christine Brahe entrò. Il mio vicino, il maggiore, fece un movimento violento e breve che si propagò al mio corpo, ma visibilmente non aveva più la forza di alzarsi. Il suo volto bruno, vecchio, macchiato, si volse dall'uno all'altro, la bocca aperta, la lingua che muoveva dentro i denti guasti; poi d'improvviso quel volto scomparve, e la sua testa grigia giacque sulla tavola, e le sue braccia vi giacquero sopra e sotto, come in pezzi, e da qualche parte spuntò una mano avvizzita e macchiata che tremava.
E allora Christine Brahe venne avanti, passo passo, lentamente come una malata, attraverso un indescrivibile silenzio in cui risuonò soltanto il gemito come di un vecchio cane. Ma ecco, a sinistra del grande cigno d'argento pieno di narcisi, spuntò fuori la grande maschera del vecchio con il suo fosco sorriso. Egli levò il bicchiere di vino verso mio padre. E allora vidi mio padre, proprio mentre Christine Brahe passava dietro la sua seggiola, afferrare il suo bicchiere e sollevarlo come qualcosa di molto pesante, un palmo sopra la tavola.
E quella stessa notte partimmo. |[continua]|
|[PARTE PRIMA, 2]|
Bibliothèque Nationale
Io seggo qui e leggo un poeta. Ci sono molte persone nella sala, ma uno non se ne accorge. Sono nei libri. Talvolta si muovono nei fogli, come uomini che dormono e si rigirano tra un sogno e l'altro. Oh, ma come si sta bene fra uomini che leggono! Perché non sono sempre così? Puoi avvicinarti a uno e toccarlo leggermente: non si accorge di nulla. E se alzandoti urti un poco il vicino e ti scusi, accenna col capo verso la parte da cui ode la voce, il suo volto si gira verso di te e non ti vede, e i suoi capelli sono come i capelli di un dormiente. Quanto fa bene, questo. E io seggo qui e ho un poeta. Com'è il destino! Ci sono forse nella sala trecento persone che leggono; ma è impossibile che ognuno di loro abbia un poeta. (Dio sa che cos'hanno.) Non ci sono trecento poeti. Ma vedi quale destino, io, forse il più miserabile tra questi lettori, straniero: io ho un poeta. Sebbene io sia povero. Sebbene il vestito che indosso ogni giorno incominci a essere liso in certi punti, sebbene si possa aver molto da ridire sulle mie scarpe. Il mio colletto però è pulito, anche la mia biancheria, e così come sono potrei entrare in qualsiasi pasticceria, magari sui grands boulevards, e tranquillamente allungare la mano su un vassoio di dolci e prender qualcosa. Non ci troverebbero nulla di strano né mi redarguirebbero indicandomi la porta, poiché la mia è pur sempre una mano da signore, una mano che viene lavata quattro o cinque volte al giorno. Sì, non vi è nulla sotto le unghie, l'indice non è macchiato d'inchiostro, i polsi soprattutto sono irreprensibili. È cosa nota che i poveri non si lavano fin lì. Dalla pulizia dei polsi si possono quindi trarre certe conclusioni. E si traggono. Si traggono nei negozi. Ma ci sono un paio di creature, per esempio sul Boulevard Saint-Michel e in rue Racine, che non si lasciano ingannare, che se ne infischiano dei polsi. Mi guardano e lo sanno. Sanno che in realtà io sono dei loro, che faccio solo un po' di commedia. È carnevale, del resto. E non vogliono guastarmi il divertimento; si limitano a sogghignare un pochino e ammiccano. Nessuno ha visto. D'altra parte mi trattano come un signore. Basta che ci sia qualcuno lì vicino, e divengono perfino ossequiosi. Come se portassi la pelliccia e la mia carrozza mi venisse dietro. Qualche volta do' loro due sous e tremo che possano rifiutarli; ma li prendono. E tutto sarebbe in regola se non avessero un poco sogghignato e ammiccato. Chi sono? Cosa vogliono da me? Da cosa mi riconoscono? Aspettano me? È vero, la mia barba sembra un po' trascurata, e ricorda un poco, ma proprio solo un poco, le loro barbe malate, vecchie, stinte, che mi hanno sempre fatto impressione. Ma non ho io il diritto di trascurare la mia barba? Molti uomini occupati la trascurano, e tuttavia a nessuno viene in mente di considerarli fra i reietti. Poiché so bene che quelli sono dei reietti, non solo dei mendicanti; no, non sono affatto dei mendicanti, bisogna distinguere. Sono rifiuti, bucce di uomini che il destino ha sputato. Umidi della saliva del destino, stanno appiccicati a un muro, a un lampione, a una colonnina pubblicitaria, o gocciolano lungo la strada, lasciandosi dietro una traccia scura e sudicia. Cosa voleva da me quella vecchia che era strisciata fuori da qualche buco, con un cassetto di tavolino da notte in cui rotolavano bottoni e aghi? Perché mi camminava sempre di fianco e mi osservava? Come se cercasse di riconoscermi con i suoi occhi cisposi che sembravano catarro verde sputato fra le palpebre sanguigne da un malato. E come mai quella donna piccola e grigia è rimasta per un quarto d'ora al mio fianco, di fronte a una vetrina, mostrandomi una vecchia, lunga matita che veniva fuori con infinita lentezza dalle sue brutte mani chiuse? Io fingevo di osservare gli oggetti esposti e di non accorgermi di nulla. Ma lei sapeva che l'avevo vista, sapeva che restavo là e mi chiedevo cosa mai facesse. Capivo benissimo, infatti, che non poteva trattarsi solo di una matita: sentivo che la matita era un segno, un segno per iniziati, un segno che i reietti conoscono; sospettavo che intendesse dirmi con quel gesto di andare in qualche posto o di fare qualcosa. E lo strano era che non riuscivo a liberarmi della sensazione che ci fosse davvero un'intesa in cui rientrava quel segno, e che in fondo quella scena fosse qualcosa che avrei dovuto aspettarmi.
Questo accadde due settimane fa. Ma ora non passa quasi giorno senza un simile incontro. Non solo al crepuscolo, ma a mezzogiorno, nelle strade più affollate, ci sono d'improvviso un ometto o una vecchia che mi fanno un cenno, mi mostrano qualcosa e poi scompaiono, come se così fosse stato fatto il dovuto. Può darsi che un giorno venga loro in mente di salire fino alla mia camera, sanno di certo dove abito, e faranno le cose in modo che il concierge non li fermi. Ma qui, cari miei, qui sono al sicuro da voi. Bisogna avere una speciale tessera per poter entrare in questa sala. Su di voi ho il vantaggio di possedere quella tessera. Vado per le strade un po' timoroso, come si può immaginare, ma alla fine mi ritrovo dinanzi a una porta vetrata, la apro come se fossi a casa mia, alla porta successiva mostro la tessera (proprio come voi mi mostrate i vostri oggetti, solo con la differenza che qui mi si capisce e si sa cosa voglio), e poi sono fra questi libri, sono sottratto a voi, come se fossi morto, e siedo e leggo un poeta.
Non sapete che cosa sia un poeta? Verlaine... Nulla? Nessun ricordo? No. Non lo avete distinto fra coloro che conosceste? Distinzioni non ne fate, lo so. Ma è un altro poeta quello che io leggo, un altro che non abita a Parigi, uno completamente diverso. Uno che ha una casa silenziosa sui monti. Risuona come una campana nell'aria tersa. Un poeta felice che narra della sua finestra e delle porte a vetri della sua libreria, che riflettono assorte uno spazio amato e solitario. È il poeta che io sarei voluto divenire; poiché sa tante cose delle fanciulle, e anch'io avrei saputo molto di loro. Sa di fanciulle che sono vissute cent'anni fa; non importa più nulla che siano morte, poiché egli sa tutto. Ed è questo l'essenziale. Egli pronuncia i loro nomi, i nomi lievi, scritti a caratteri lunghi e slanciati, a volute del tempo antico, e i nomi fatti adulti delle loro amiche più grandi, in cui già risuona un po' di destino, un po' di delusione e di morte. Forse, in un cassetto del suo scrittoio di mogano giacciono le loro lettere sbiadite e i fogli sciolti dei loro diari, in cui ricorrono compleanni, gite estive, compleanni. O può darsi che nel cassettone panciuto in fondo alla sua camera da letto ci sia un cassetto in cui si conservano i loro abiti di primavera; abiti bianchi, che furono indossati per la prima volta a Pasqua, abiti di tulle a pois, che erano destinati all'estate ma che non s'aspettava l'estate per indossare. Oh, che destino felice stare nella camera silenziosa di una casa ereditata, fra cose fidate e quiete, stabili, e udire fuori, nel verde giardino leggero e luminoso, le prime cincie che provano il loro canto, e in lontananza l'orologio del villaggio. Starsene seduti e guardare una calda striscia di sole pomeridiano e sapere molte cose di fanciulle scomparse ed essere un poeta. E pensare che anch'io sarei potuto divenire un poeta così, se avessi potuto abitare in qualche luogo, in qualsiasi luogo del mondo, in una delle tante case di campagna, chiuse, di cui nessuno si cura. Mi sarebbe bastata una sola stanza (la stanza chiara, sotto il tetto). Sarei vissuto là dentro con le mie vecchie cose, i ritratti di famiglia, i libri. E avrei avuto una poltrona e fiori e cani e un solido bastone per i sentieri sassosi. E nient'altro. Solo un libro legato in cuoio giallognolo, color dell'avorio, con le sguardie di vecchia carta fiorata: là avrei scritto. Avrei scritto molto, poiché avrei avuto molti pensieri e ricordi di molte persone.
Ma è andata diversamente, Dio saprà perché. I miei vecchi mobili marciscono in un granaio, in cui ho potuto collocarli; e io stesso, sì, mio Dio, io non ho un tetto su di me, e mi piove negli occhi.
Certe volte passo dinanzi a negozietti, per esempio nella rue de Seine. Rigattieri o piccoli commercianti di libri antichi o di acqueforti, con vetrine zeppe. Da loro non entra mai nessuno, evidentemente non fanno affari. Ma se si guarda dentro, li si vede sedere, sedere e leggere, noncuranti; non si curano del domani, non si preoccupano del guadagno, seduto dinanzi a loro hanno un cane, soddisfatto, o un gatto che fa ancora più grande il silenzio strofinandosi lungo le file di libri, quasi spolverasse i nomi sui dorsi.
Oh, se ciò bastasse: vorrei certe volte comperarmi una di quelle vetrine zeppe e sedermi là dietro con un cane per vent'anni.
Fa bene dire forte: «Non è successo nulla.» E di nuovo: «Non è successo nulla.» Ma aiuta?
Che la stufa abbia ricominciato a fumare, costringendomi a uscire, non è poi una sciagura. Che io mi senta fiacco e raffreddato, non ha nessuna importanza. Che per tutto il giorno io sia andato in giro per le strade, è colpa mia. Avrei potuto benissimo starmene al Louvre. Oppure no, non avrei potuto. Là c'è certa gente che vuole scaldarsi. Siedono sui divani di velluto e i loro piedi sembrano grossi stivali vuoti, l'uno di fianco all'altro, sulle griglie del riscaldamento. Sono gente estremamente umile, riconoscenti se i custodi, in uniformi scure con molte decorazioni, li tollerano. Ma appena entro io sogghignano. Sogghignano e fanno piccoli cenni. E poi, quando passeggio in su e in giù davanti ai quadri, mi seguono con gli occhi, sempre con gli occhi, sempre con i loro occhi rimestati insieme e fusi tra loro. Dunque era bene che non fossi andato al Louvre. Sono rimasto sempre per le strade. Sa il cielo in quanti sobborghi, quartieri, cimiteri, ponti e passaggi. Non so più dove, ho visto un uomo che spingeva dinanzi a sé un carretto di verdura. Gridava: Chou-fleur, Chou-fleur, e pronunciava fleur con una eu stranamente cupa. Accanto a lui camminava una donna angolosa e brutta, che di tanto in tanto lo urtava. E quando lo urtava, egli gridava. A volte, anche, gridava di sua iniziativa, ma allora era sempre a sproposito, e subito dopo doveva gridare di nuovo poiché erano giunti davanti alla casa di un compratore. Ho già detto che era cieco? No? Ebbene, era cieco. Era cieco e gridava. Falsifico la verità quando dico questo, sopprimo il carretto che lui spingeva, faccio finta di non aver notato che gridava «Cavolfiore». Ma è questo l'essenziale? E se anche fosse l'essenziale, non importa forse ciò che fu per me tutta la scena? Io ho visto un vecchio che era cieco e gridava. Questo ho visto. Visto.
Si crederà che esistono case così? No, si dirà, io falsifico. Questa volta è verità, cui non tolgo nulla, e naturalmente non aggiungo nulla. Dove potrei attingere? Si sa che sono povero. Lo si sa. Case? Ma, per esser precisi, erano case che non c'erano più. Case demolite da cima a fondo. Quel che c'era, erano le altre case, le vicine case alte che un giorno avevano fiancheggiato le distrutte. Si vedeva che erano in pericolo di cadere da quando era stato loro sottratto ogni appoggio di fianco; un'intera incastellatura di lunghe travi incatramate stava conficcata di sgembo fra il suolo coperto di macerie e il muro messo a nudo. Non so se ho già detto che di questo muro parlo. Ma non si trattava, per così dire, del primo muro delle case superstiti (come si sarebbe potuto pensare), bensì dell'ultimo muro delle case demolite. Si vedeva il suo lato interno. Si vedevano a ciascun piano le pareti delle camere, cui erano ancora attaccate le tappezzerie, qua e là gli aggetti dei pavimenti o dei soffitti. A fianco delle pareti delle camere restava ancora, lungo tutto il muro, un vano bianco sporco, e attraverso serpeggiava con andamento indicibilmente ripugnante, da verme, quasi da tubo digerente, la conduttura aperta e arrugginita dei gabinetti. Dei tubi per il gas illuminante erano rimaste tracce grige e polverose all'estremità dei soffitti, e qua e là, inaspettatamente, si arcuavano e correvano dentro la parete colorata e dentro un buco nero e strappato. Soprattutto indimenticabili erano proprio le pareti. La vita tenace di quelle camere non s'era lasciata sopprimere. Era ancora là, si teneva attaccata ai chiodi rimasti, stava sul resto di pavimento largo un palmo, era strisciata sotto gli aggetti degli angoli, ove durava ancora un po' di spazio interno. La si poteva vedere presente nei colori che a poco a poco, di anno in anno, erano cambiati: l'azzurro in verde ammuffito, il verde in grigio, e il giallo in un bianco vecchio e stantio che marciva. Ma era anche presente nelle chiazze di colore più vivo, rimaste dietro gli specchi, i quadri e gli armadi; aveva segnato e stretto sempre più dappresso i loro contorni, per rifugiarsi poi con i ragni e la polvere in questi luoghi nascosti, ora messi a nudo. Era in ogni striscia strappata, era nelle bolle umide sull'orlo inferiore delle tappezzerie, ondeggiava nei brandelli staccati e trasudava dalle macchie schifose, affiorate da tempo. E dalle pareti che erano state azzurre, verdi e gialle, ora inquadrate dai segni delle tramezze distrutte, veniva il soffio di quella vita, il soffio ostinato, pigro, ammuffito, che nessun vento aveva ancora disperso. C'erano in esso i mezzogiorni e le malattie e l'ultimo respiro e il fumo vecchio di anni e il sudore che gocciola sotto le ascelle e inzuppa i vestiti, e l'alito insipido delle bocche e l'odore di grappa dei piedi che fermentano. C'era l'acre dell'urina e il bruciato della fuliggine e il vapore grigio delle patate e il puzzo pesante e liscio dello strutto che diventa vecchio. C'era l'odore lungo e dolce dei lattanti trascurati e l'odore d'angoscia dei bambini che vanno a scuola, e l'afa dei letti dei ragazzi in pubertà. E molto s'era aggiunto dal basso, dall'abisso della strada che vaporava, e altro era colato dall'alto con la pioggia, che sulle città non è pulita. E qualcosa avevano portato i venti casalinghi, deboli, addomesticati, che restano sempre nel la stessa strada, e c'era altro ancora, molto, di cui non si sapeva l'origine. Ho ben detto che erano stati demoliti tutti i muri, tranne l'ultimo? Di questo muro sto parlando. Si dirà che devo essere rimasto là davanti a lungo; ma giuro che mi sono messo a correre non appena ho riconosciuto quel muro. Perché questo è il terribile: che io lo abbia riconosciuto. Qui riconosco tutto, e perciò penetra subito in me: in me è di casa.
Ero piuttosto esaurito, dopo, anzi stremato, e fu perciò troppo per me che egli ancora mi aspettasse. Aspettava nella piccola crémerie dove volli andare a mangiare due uova al burro; ero affamato, per tutto il giorno non avevo mangiato niente. Ma anche allora non riuscii a prendere nulla; prima che le uova fossero pronte, fui risospinto per le vie che mi corsero incontro dense di gente. Era infatti carnevale, e sera, e la gente aveva tempo, se ne andava in giro, strusciandosi gli uni con gli altri. E i loro volti erano pieni della luce che veniva dai baracconi, e il riso sgorgava dalle loro bocche come pus da ferite aperte. Ridevano sempre di più e si accalcavano sempre più stretti, quanto più impaziente cercavo di andare avanti. Lo scialle di una donna mi si impigliò addosso non so come, e io me la trascinai dietro, e la gente mi trattenne e rise, e sentii che avrei dovuto ridere anch'io, ma non ci riuscivo. Qualcuno mi gettò negli occhi una manciata di coriandoli che mi bruciò come una frustata. Agli angoli la gente era ammassata e ferma, gli uni incastrati negli altri, e non c'era in loro altro movimento che un leggero e molle avanti e indietro, come se si accoppiassero stando in piedi. Ma sebbene essi fossero fermi e io corressi come un pazzo lungo il bordo del marciapiede, ove c'erano delle fenditure nella calca, era in verità come se loro si muovessero e io restassi fermo. Poiché nulla mutava; se alzavo gli occhi, scorgevo sempre le stesse case da un lato e i baracconi dall'altro. Forse anche tutto era fermo, e c'era solo una vertigine in me e in loro che faceva girare ogni cosa. Non avevo tempo di riflettervi, ero madido di sudore, e mi girava dentro un dolore stordente, come se nel mio sangue circolasse qualcosa di troppo grosso che dilatava le vene passando. E inoltre sentivo che l'aria era finita da un pezzo e che respiravo solo più l'alito altrui, che i miei polmoni rifiutavano.
Ma ora è passato; ho superato tutto ciò. Siedo nella mia stanza vicino alla lampada; fa un po' freddo, perché non oso provare ad accendere la stufa; e se mandasse fumo e dovessi uscire di nuovo? Siedo e penso: se non fossi povero affitterei un'altra stanza, una stanza con mobili non così logori, non così pieni dei precedenti inquilini, come questi. Da principio mi era difficile, realmente, appoggiare la testa sullo schienale di questa poltrona; nella stoffa verde c'è infatti un certo incavo grigio e unto, al quale sembrano adattarsi tutte le teste. Per molto tempo usai la precauzione di mettermi un fazzoletto sotto i capelli, ma ora sono troppo stanco per farlo; ho scoperto che va bene anche così e che il piccolo incavo è fatto proprio per la mia nuca, su misura. Ma prima di tutto, se non fossi povero, mi comprerei una buona stufa, e brucerei pura e forte legna di montagna, e non queste miserabili têtes-de-moineau, che con il loro fumo fanno venire il fiato corto e la testa confusa. E poi dovrebbe esserci qualcuno che mettesse in ordine senza rumori villani e badasse al fuoco secondo il mio bisogno; perché spesso, quando devo stare inginocchiato per un quarto d'ora dinanzi alla stufa e attizzarla, la fronte tirata per la vampa vicina e il calore negli occhi aperti, consumo tutta la forza per la giornata, e se poi vado fra la gente, hanno naturalmente buon gioco. Talvolta, quando c'è molta calca, prenderei una carrozza per passar via, pranzerei tutti i giorni da Duval... e non mi ficcherei più nelle crémeries... E se lui ci fosse stato anche da Duval? No. Là non avrebbe potuto aspettarmi. Non lasciano entrare i moribondi. Moribondi? Adesso me ne sto nella mia camera; posso tentare di riflettere tranquillamente su ciò che mi è accaduto. È bene non lasciare nulla nell'incerto. Dunque, entrai e a tutta prima vidi solo che il tavolino cui mi siedo ogni tanto era occupato da qualcun altro. Feci un saluto verso il piccolo buffet, ordinai, e mi sedetti lì accanto. Ma allora lo sentii, sebbene non si muovesse. Sentii proprio la sua immobilità e la compresi di colpo. Il legame fra noi era sorto, e io seppi che egli era irrigidito dall'orrore. Seppi che l'orrore l'aveva paralizzato, l'orrore di qualcosa che accadeva in lui. Forse si ruppe in lui un'arteria, forse un veleno che egli temeva da tempo gli entrava nel ventricolo del cuore, forse un grande tumore si levò nel suo cervello come un sole che gli trasformava il mondo. Con indescrivibile sforzo mi costrinsi a guardare dalla sua parte, poiché speravo ancora che fosse tutta immaginazione. Ma scattai in piedi e mi precipitai fuori; perché non mi ero sbagliato. Sedeva là in uno spesso cappotto nero da inverno, e il suo volto grigio, teso, affondava in una sciarpa di lana. La bocca era chiusa, come sotto un grande peso, ma non era possibile dire se i suoi occhi vedessero ancora: occhiali cerchiati, affumicati, vi stavano dinanzi e tremavano un poco. Le narici erano dilatate, e i lunghi capelli sulle tempie scarnite appassivano come per troppo calore. Aveva lunghe orecchie, gialle, con grandi ombre dietro. Sì, sapeva che ora si allontanava da tutto, non solo dagli uomini. Un istante ancora, e tutto avrà perduto il suo senso, e quel tavolino e la tazza e la sedia cui si aggrappava, tutte le cose quotidiane e più vicine, saranno divenute incomprensibili, estranee e ardue. Così, sedeva e aspettava che fosse accaduto. E non si difendeva più.
E io mi difendo ancora. Mi difendo, pur sapendo che il cuore mi ciondola già fuori e che non posso più vivere, anche se i miei tormentatori ora mi lasciano libero. Mi dico: non è successo nulla, e tuttavia sono riuscito a capire quell'uomo solo perché anche in me avviene qualcosa che incomincia ad allontanarmi e a separarmi da tutto. Quanto sono inorridito ogni volta che ho sentito dire di un moribondo: non riesce già più a riconoscere nessuno! Allora mi rappresentavo un volto solitario che si sollevava dai cuscini e cercava, cercava qualcosa di conosciuto, cercava qualcosa di già visto, ma non c'era nulla. Se la mia paura non fosse così grande, mi conforterei al pensiero che non è impossibile vedere tutto in modo diverso e tuttavia vivere. Ma ho paura, ho una paura senza nome di quel mutamento. Non mi sono ancora abituato affatto a stare in questo mondo, che mi sembra buono. Cosa sarebbe di me in un altro? Resterei tanto volentieri fra i significati che mi sono divenuti cari, e se qualcosa deve mutare, vorrei almeno poter vivere tra i cani, che hanno un mondo parente del nostro e le medesime cose.
Ancora per un poco posso scrivere e dire tutto. Ma verrà il giorno in cui la mia mano sarà lontana da me, e quando le ordinerò di scrivere, scriverà parole che non volevo. Spunterà il tempo della spiegazione altra, e non resterà più una parola sull'altra, e ogni senso si dissolverà come le nuvole e ricadrà come acqua. Con tutta la mia paura io sono però, in fondo, come uno che sta dinanzi a qualcosa di grande, e ricordo che già prima una sensazione simile era in me, prima che cominciassi a scrivere. Ma questa volta io sarò scritto. Io sono l'impressione che si trasformerà. Oh, manca ben poco, e potrei capire e approvare tutto. Solo un passo, e la mia profonda miseria diventerebbe beatitudine. Ma non posso fare questo passo, sono caduto e non riesco a rialzarmi, poiché sono spezzato. Ho ancor sempre creduto che un soccorso sarebbe potuto venire. Stanno dinanzi a me, scritte con la mia calligrafia, le preghiere che ho ripetuto sera per sera. Me le sono copiate dai libri in cui le trovavo, affinché mi divenissero vicine e sotto la mia mano si facessero cosa mia. E ora voglio scriverle ancora una volta, qui inginocchiato dinanzi al mio tavolino voglio scriverle; per averle, così, più a lungo che se le leggessi, e ogni parola duri e abbia il tempo di andar morendo.
«Mécontent de tous et mécontent de moi, je voudrais bien me racheter et m'enorgueillir un peu dans le silence et la solitude de la nuit. Âmes de ceux que j'ai aimés, âmes de ceux que j'ai chantés, fortifiez-moi, soutenez-moi, éloignez de moi le mensonge et les vapeurs corruptrices du monde; et vous, Seigneur mon Dieu! accordez-moi la grâce de produire quelques beaux vers qui me prouvent à moi-même que je ne suis pas le dernier des hommes, que je ne suis pas inférieur à ceux que je méprise.»
«Figli di gente infame e spregiata, che erano gli infimi sulla terra. Ora io sono divenuto la loro canzone e devo essere la loro favola.
...si sono aperti un cammino verso di me...
...fu loro così facile nuocermi, che non ebbero bisogno di alcun aiuto.
...ma ora la mia anima cola fuori di me, e il tempo della miseria mi ha afferrato.
Di notte le mie ossa sono trafitte ovunque; e coloro che mi danno la caccia non si mettono a dormire.
La quantità della violenza mi riveste in modo sempre diverso; e mi stringono come con il collo della mia veste...
Le mie interiora bollono e non hanno tregua; il tempo della miseria mi ha assalito...
La mia arpa è divenuta una lamentazione, e il mio flauto un pianto.»
Il medico non mi ha capito. Non ha capito nulla. Certo, era anche difficile da raccontare. Si volle fare un tentativo con una cura elettrica. Bene. Ricevetti una scheda: dovevo trovarmi intorno all'una alla Salpêtrière. Vi andai. Dovetti passare dinanzi a molti padiglioni diversi, attraversare molti cortili in cui sostavano qua e là, sotto gli alberi spogli, persone con berretti bianchi come carcerati. Alla fine giunsi in un locale lungo e scuro, simile a un corridoio, che aveva su un lato quattro finestre dai vetri opachi verdognoli, separate l'una dall'altra da grandi tramezze nere. Dinanzi correva una panca di legno, per tutta la lunghezza, e sulla panca sedevano loro, che mi conoscevano e mi aspettavano. Sì, erano tutti là. Quando mi fui abituato alla penombra del locale, notai che fra coloro che sedevano là, spalla a spalla, in infinita fila, ci poteva anche essere gente diversa, povera gente, manovali, serve, facchini. In fondo, vicino alla parete più corta del corridoio, due donne grasse, probabilmente due portinaie, s'erano allargate comode su due seggiole e chiacchieravano. Guardai l'orologio; era l'una meno cinque. Fra cinque o dieci minuti doveva venire il mio turno; poco male, dunque. L'aria era cattiva, pesante, piena di vestiti e di fiati. Dalla fessura di una porta veniva, intensa e sempre più forte, la frescura dell'etere. Cominciai a camminare avanti e indietro. Mi venne da pensare che mi avevano mandato qui, fra questa gente, in quest'ora affollatissima di visita pubblica. Era per così dire la prima conferma palese che appartenevo ai reietti; il medico lo aveva notato guardandomi? Eppure ero andato a farmi visitare in abiti discretamente buoni, m'ero fatto precedere dal biglietto da visita. Ciò nonostante, in qualche modo doveva essersene accorto, forse io stesso mi ero tradito. Ora, poiché la cosa era fatta, non mi sembrò poi un gran guaio; la gente sedeva in silenzio e non badava a me. Alcuni soffrivano e dondolavano un poco una gamba per sopportare meglio il dolore. Certi avevano posato la testa tra le palme delle mani, altri dormivano profondamente, con volti pesanti e sepolti. Un uomo grasso, con il collo rosso e gonfio, sedeva piegato in avanti, fissava il pavimento e di tanto in tanto sputava rumorosamente su una macchia che sembrava fatta apposta per lui. Un bambino singhiozzava in un angolo; aveva tratto a sé, sulla panca, le lunghe gambe magre e le teneva abbracciate come se dovesse prender congedo da loro. Una donna piccola e pallida, con un cappellino di crespo ornato di fiori neri rotondi messo di sghimbescio sui capelli, aveva intorno alle povere labbra la smorfia di un sorriso, ma le sue palpebre piagate lacrimavano di continuo. Non lontano da lei avevano messo una ragazza con il volto rotondo e liscio e gli occhi sporgenti, senza espressione; la bocca restava aperta, in modo che si vedevano le gengive bianche e viscide con i denti vecchi e guasti. E c'erano molte fasciature. Fasciature che, giro su giro, avvolgevano tutta la testa, finché restava solo più un occhio che non apparteneva più a nessuno. Fasciature che nascondevano e fasciature che mostravano ciò che stava sotto. Fasciature che erano state sciolte e nelle quali ora, come in un letto sudicio, giaceva una mano che non era più una mano; e una gamba fasciata che usciva fuori dalla fila, grossa come un uomo. Andavo avanti e indietro e mi sforzavo di essere calmo. Dedicai la mia attenzione alla parete di rimpetto. Notai che aveva una fila di porte a un battente e non raggiungeva il soffitto, così che il corridoio non risultava completamente separato dai locali che dovevano esserci di fianco. Guardai l'orologio; passeggiando avanti e indietro avevo fatto passare un'ora. Poco dopo giunsero i medici. Prima un paio di giovani che passarono con facce indifferenti, poi quello da cui ero stato, in guanti chiari, chapeau à huit reflets, soprabito impeccabile. Quando mi vide, sollevò un poco il cappello e sorrise distratto. Speravo adesso d'essere chiamato subito, ma passò un'altra ora. Non mi ricordo come la trascorsi. Passò. Arrivò un vecchio con un grembiule macchiato, una specie di infermiere, e mi toccò sulla spalla. Entrai in una delle stanze attigue. Il medico e i giovani sedevano a una tavola e mi guardavano, mi fu data una sedia. Bene. E adesso avrei dovuto spiegare come mi sentivo. Il più brevemente possibile, s'il vous plaît. Poiché i signori non avevano molto tempo. Mi sentivo strano. I giovani sedevano e mi guardavano con la curiosità superiore e professionale che avevano imparato. Il medico che conoscevo si lisciava il pizzo nero e sorrideva distratto. Pensai che sarei scoppiato a piangere, ma mi sentii dire in francese: «Ho già avuto l'onore di dare a lei tutte le informazioni che potevo. Se ella ritiene necessario metterne al corrente questi signori, potrà certamente farlo in poche parole dopo il nostro colloquio, mentre a me riuscirebbe molto difficile.» Il medico si alzò con un sorriso cortese, si ritrasse alla finestra con gli assistenti e disse qualche parola che accompagnò con un gesto della mano orizzontale e oscillante. Dopo due minuti uno dei giovani tornò, miope e svagato, verso la tavola e disse, cercando di guardarmi con severità: «Lei dorme bene?» «No, male.» Di nuovo si ritrasse nel gruppo. Discussero ancora un poco, poi il medico si volse verso di me e mi fece sapere che mi avrebbero richiamato. Gli ricordai che mi avevano dato appuntamento per l'una. Sorrise e fece qualche gesto rapido, sussultante, con le sue manine bianche, che voleva dire che era straordinariamente occupato. Me ne tornai dunque nel corridoio, dove l'aria era diventata molto più pesante, e ricominciai a passeggiare avanti e indietro, sebbene mi sentissi stanco da morire. Alla fine, quell'odore umido e addensato mi fece girare la testa; sostai vicino alla porta d'ingresso e la aprii un poco. Vidi che fuori era ancora pomeriggio e c'era un po' di sole, e questo mi fece indicibilmente bene. Ma non ero rimasto là un minuto, che mi sentii chiamare. Una donna che sedeva a un tavolino, due passi più in là, mi sibilò qualcosa. Chi mi aveva detto di aprire la porta? Risposi che non riuscivo a sopportare quell'aria. Bene, erano fatti miei, ma la porta doveva restare chiusa. Non era lecito aprire una finestra? No, proibito. Decisi di ricominciare a passeggiare avanti e indietro, poiché era in fondo una sorta di distrazione e non dava fastidio a nessuno. Ma alla donna del tavolino, adesso, non piaceva neanche questo. Non avevo un posto? No, non lo avevo. Però passeggiare non era permesso; bisognava che mi cercassi un posto. Uno doveva esserci ancora. La donna aveva ragione. In realtà c'era un posto di fianco alla ragazza con gli occhi sporgenti. Vi sedetti con il senso che questa situazione dovesse certamente preludere a qualcosa di terribile. A sinistra c'era dunque la ragazza con le gengive guaste; solo dopo un po' di tempo riuscii a capire cosa c'era a destra. Era una massa enorme, immobile, che aveva un volto e una grande mano pesante, inerte. I lato del volto che io vedevo era vuoto, senza lineamenti e senza ricordi, ed era inquietante che l'abito fosse come quello di un cadavere, vestito per la bara. La sottile cravatta nera era legata intorno al colletto in quello stesso modo lento, impersonale, e si vedeva che la giacca era stata infilata da altri sul corpo privo di volontà. La mano era stata posata da altri su quei pantaloni, là dove giaceva, e perfino i capelli sembravano pettinati dalle donne che lavano i morti ed erano disposti rigidi come i peli di un animale imbalsamato. Osservavo tutto ciò con attenzione, e mi venne in mente che quel posto mi era dunque stato destinato, poiché ora infine mi credevo giunto al punto della mia vita in cui sarei rimasto. Sì, il destino segue vie strane.
D'improvviso si levarono vicinissime le grida che si susseguirono rapide di un bambino atterrito, che si difendeva, e poi un pianto sommesso, trattenuto. Mentre mi sforzavo di capire da che parte venissero, tremò di nuovo un piccolo grido soffocato, e udii voci che domandavano, una persona che ordinava a mezzavoce, e cominciò a ronzare una qualche macchina indifferente e non si preoccupò di nulla. Allora mi ricordai di quella mezza parete, e mi fu chiaro che tutto avveniva di là dalle porte e che là si lavorava. Di tanto in tanto, infatti, compariva l'infermiere con il grembiule macchiato e faceva un cenno. Non pensavo neppure più che potesse riferirsi a me. Era il mio turno? No. C'erano due uomini con una poltrona a rotelle; vi caricarono sopra la massa; e ora vidi che si trattava di un vecchio paralitico, che aveva anche un altro lato, più piccolo, logorato dalla vita, con un occhio aperto, torbido e triste. Lo portarono dentro, e di fianco a me rimase una quantità di posto. E io sedevo e pensavo che cosa avrebbero fatto alla ragazza stolida e se anche lei avrebbe gridato. Là dietro le macchine ronzavano piacevolmente regolari come in un'officina, non avevano nulla di inquietante.
Ma d'improvviso tutto fu silenzio, e nel silenzio parlò una voce superiore e presuntuosa che mi sembrò di conoscere:
«Riez!» Pausa. «Riez. Mais riez, riez.» Io ridevo già. Era inesplicabile che l'uomo là dentro non si decidesse a ridere. Una macchina prese a crepitare, ma subito tornò muta, furono scambiate delle parole, poi si levò di nuovo la medesima voce energica e ordinò: «Dites-nous le mot: avant.» Compitando: «a-v-a-n-t »... Silenzio. «On n'entend rien. Encore une fois...»
E allora, quando là dentro si udì il balbettio caldo e spugnoso: allora per la prima volta dopo molti, molti anni, ci fu di nuovo. Ciò che mi aveva cacciato dentro il primo, profondo orrore, quando, bambino, ero a letto con la febbre: la Grande Cosa. Sì, l'avevo sempre chiamata così quando tutti stavano intorno al letto e mi tastavano il polso e mi chiedevano cosa mi avesse spaventato: la Grande Cosa. E quando andavano a chiamare il medico e questi veniva e mi parlava, allora io lo pregavo che soltanto mandasse via la Grande Cosa, tutto il resto era niente. Ma anch'egli era come gli altri. Non poteva levarla via, sebbene allora io fossi piccolo e dovesse riuscire facile aiutarmi. E ora c'era di nuovo. Prima s'era solo assentata, non era tornata neppure nelle notti di febbre, ma adesso c'era, sebbene io non avessi la febbre. Adesso c'era. Adesso cresceva da me come un tumore, come una seconda testa, ed era una parte di me, anche se non poteva certo appartenere a me, grossa com'era. C'era, come un grosso animale morto che una volta, quando ancora viveva, era stato la mia mano o il mio braccio. E il mio sangue scorreva attraverso me e attraverso lei, come attraverso un solo ed unico corpo. E il mio cuore doveva faticare moltissimo per spingere il sangue nella Grande Cosa: non c'era quasi sangue abbastanza. E il sangue penetrava malvolentieri dentro la Grande Cosa e ne rifluiva malato e guasto. Ma la Grande Cosa si gonfiava e mi cresceva dinanzi alla faccia come un bubbone caldo e bluastro e mi cresceva dinanzi alla bocca, e sul mio ultimo occhio c'era già l'ombra del suo orlo.
Non riesco a ricordarmi come venni fuori attraverso i molti cortili. Era sera, e mi smarrii nel quartiere sconosciuto e risalii in una certa direzione dei boulevards con infiniti muri e poi, siccome non c'era fine, nella direzione opposta fino a una piazza. Là imboccai una strada, e vennero altre strade che non avevo mai visto, e altre ancora. Tram elettrici sfrecciavano ogni tanto a destra e a sinistra abbaglianti con uno scampanellio duro e battente. Ma sui loro cartelli c'erano nomi che non conoscevo. Non sapevo in quale città mi trovassi e se là, in qualche luogo, avessi un'abitazione e cosa dovessi fare per non dovere più continuare ad andare.
E ora di nuovo questa malattia, che mi ha sempre colpito in modo così strano. Sono certo che la si sottovaluta. Proprio come si esagera l'importanza di altre malattie. Questa malattia non ha alcun suo carattere specifico, assume i caratteri di colui che essa afferra. Con sicurezza sonnambolica trae fuori da ciascuno il suo pericolo più profondo, che sembrava svanito, e glielo ripresenta dinanzi, vicinissimo, per l'ora più prossima. Uomini che una volta, al tempo della scuola, hanno provato il vizio solitario, le cui complici deluse sono le mani povere e dure dei ragazzi, vi ricadono di nuovo, oppure ricomincia in loro una malattia che da bambini avevano superato; o ricompare un'abitudine perduta, un certo movimento esitante del capo, che anni prima era stato loro tipico. E con ciò che ritorna, si risolleva tutta una confusione di ricordi smarriti che gli pendono addosso come alghe umide su un oggetto riaffiorante dalle acque. Vite di cui non si sarebbe mai saputo nulla vengono a galla e si mescolano con ciò che realmente è stato, e rimuovono un passato che si credeva di conoscere: poiché in ciò che vien su c'è una forza riposata e nuova, mentre ciò che durava presente è stanco per essere stato troppo spesso ricordato.
Sono a letto, cinque piani in alto, e la mia giornata che nulla interrompe è come un quadrante senza le sfere. Come una cosa che, perduta da molto tempo, si ritrova un bel mattino al suo posto, non sciupata, in buono stato, quasi più nuova che al momento della perdita, come se qualcuno se ne fosse preso cura: così sta, qua e là sulla mia coperta, ciò che avevo perduto dell'infanzia ed è come nuovo. Tutte le angosce perdute sono di nuovo qui.
L'angoscia che un piccolo filo di lana che sbuca dall'orlo della coperta sia duro, duro e aguzzo come un ago d'acciaio; l'angoscia che questo bottoncino della mia camicia da notte sia più grosso della mia testa, grosso e pesante; l'angoscia che questa briciola di pane, che ora cade dal mio letto, divenga di vetro e vada in frantumi, e il pensiero opprimente che con questo si infranga tutto, tutto per sempre; l'angoscia che questo lembo di busta stracciata sia qualcosa di proibito che nessuno deve vedere, qualcosa di indicibilmente prezioso, per cui non vi è nella camera un posto abbastanza sicuro; l'angoscia di inghiottire, mentre mi addormento, il pezzo di carbone che sta davanti alla stufa; l'angoscia che qualsiasi numero cominci a crescere nel mio cervello, fino a non trovar più spazio in me; l'angoscia che io stia giacendo sul granito, granito grigio; l'angoscia che io possa gridare e che si raduni gente dinanzi alla porta e che alla fine l'abbattano, l'angoscia che io possa tradirmi e dire tutto ciò che temo, e l'angoscia che io non riesca a dire nulla, poiché tutto è indicibile, e le altre angosce... le angosce.
Ho pregato per avere la mia infanzia, ed essa è tornata, e sento che è ancor sempre dura come un tempo e che non è servito a nulla invecchiare. |[continua]|
|[PARTE PRIMA, 3]|
Ieri la febbre andava meglio, e oggi la giornata inizia come primavera, come la primavera nei quadri. Proverò ad andare alla Bibliothèque Nationale dal mio poeta che non ho più letto da tanto tempo, e forse, dopo, potrò passeggiare lentamente attraverso i giardini. Forse c'è vento sopra il grande stagno che ha acqua così reale, e i bambini vanno a varare le loro navi con le vele rosse e le stanno a guardare.
Oggi non me l'aspettavo, sono uscito così coraggioso come se fosse la cosa più naturale e più semplice. E tuttavia c'è stato di nuovo qualcosa che mi ha preso come un pezzo di carta, mi ha appallottolato e buttato via, c'è stato qualcosa di inaudito.
Il Boulevard Saint-Michel era vuoto e ampio, e si camminava senza fatica per il suo lieve pendio. In alto si aprivano finestre con un preludio cristallino, e il loro riflesso volava sulla strada come un uccello bianco. Passò una carrozza con le ruote rosso vivo, e più lontano, in fondo, qualcosa di verde chiaro. Cavalli coi finimenti lucidi trottavano sulla carreggiata nera e bagnata, lavata. Il vento era mosso, nuovo, dolce, e tutto saliva: odori, grida, campane.
Passai dinanzi a uno dei caffè in cui la sera suonano i finti, rossi zigani. Dalle finestre aperte strisciava fuori con la coscienza sporca l'aria della notte trascorsa. Camerieri impomatati stavano lì davanti alle porte, a lavare. Uno chinato gettava, una manciata dopo l'altra, sabbia gialla sotto i tavolini. Un passante lo toccò e gli accennò al fondo della strada. Il cameriere che era rossissimo in faccia aguzzò per un momento lo sguardo, poi un riso si diffuse per le sue guance rasate, come se vi fosse versato. Fece cenno agli altri camerieri, girò un paio di volte, rapidamente, la faccia ridente a destra e a sinistra, per chiamarli senza perdere nulla di quanto vedeva. Ora erano tutti là e guardavano o scrutavano, sorridenti o seccati poiché non avevano scoperto nulla che facesse ridere.
Sentii cominciare in me un poco d'angoscia. Qualcosa mi spingeva a passare sul marciapiede opposto; ma presi soltanto a camminare più in fretta e involontariamente osservai le poche persone che stavano dinanzi a me, senza notare in esse nulla di particolare. Vidi però che uno, un fattorino con un grembiule blu e una cesta vuota sulla spalla, seguiva con lo sguardo qualcuno. Quando ne ebbe abbastanza, si girò verso le case e, a un commesso che dall'altra parte rideva, fece il gesto della mano oscillante davanti alla fronte che tutti conoscono. Poi ammiccò con gli occhi neri e mi venne incontro soddisfatto e dondolandosi.
Mi aspettavo di veder comparire, non appena i miei occhi avessero avuto campo libero, una qualche figura insolita e sorprendente, ma vidi che dinanzi a me c'era soltanto un uomo alto e secco con il soprabito scuro e un cappello nero floscio sui capelli corti, di un biondo scialbo. Verificai che negli abiti e nel comportamento di quell'uomo non ci fosse nulla di risibile, e già cercavo di guardare di là da lui, più innanzi sul boulevard, quando egli inciampò su qualcosa. Poiché ero proprio dietro di lui, feci io stesso attenzione, ma, giunto in quel punto, vidi che non c'era nulla, assolutamente nulla. Proseguimmo entrambi, io e lui, la distanza fra noi rimase la stessa. Si arrivò ora a un incrocio, e avvenne in quel momento che l'uomo dinanzi a me discendesse i gradini del marciapiede saltellando su una gamba, come fanno talvolta i bambini che camminando balzellano o saltano quando son contenti. Sul marciapiede opposto egli risalì semplicemente con un unico, lungo passo. Ma non appena fu su, fece di nuovo corta una gamba e saltellò sull'altra una volta, due, tre. Si sarebbe potuto di nuovo prendere quel movimento improvviso per un incespicare, se ci si fosse convinti della presenza di un minuscolo inciampo, un nocciolo, la buccia scivolosa di un frutto, qualsiasi cosa; e lo strano era che l'uomo stesso sembrava credere nella presenza di un inciampo, poiché ogni volta si volgeva a guardare il punto molesto con lo sguardo tra infastidito e pieno di rimprovero che si ha in questi casi. Ancora una volta una sorta di ammonimento mi spinse a passare dall'altra parte della strada, ma non gli diedi retta e continuai a seguire quell'uomo, rivolgendo alle sue gambe tutta la mia attenzione. Devo confessare che mi sentii stranamente sollevato poiché per una ventina di passi non si ripeté quel saltellare, ma quando allora sollevai gli occhi mi accorsi che all'uomo era capitato un altro fastidio. Gli si era alzato il bavero del soprabito; e non riusciva ad abbassarlo, per quanto si desse da fare in continuazione, ora con una mano ora con l'altra. È cosa che capita. E questo non mi turbò. Ma subito dopo mi avvidi con immensa meraviglia che le due mani dell'uomo erano impegnate in due gesti diversi: uno furtivo, rapido, con cui egli senza accorgersene si sollevava il bavero, e un altro ampio, continuo, quasi sillabato con eccessiva lentezza, che avrebbe dovuto ripiegarlo giù. Questa osservazione mi confuse a tal punto che passarono due minuti prima che notassi nel collo dell'uomo, dietro al soprabito sollevato e alle mani nervosamente agitate, il medesimo terribile saltellare bisillabo che aveva appena abbandonato le sue gambe. Da quell'istante fui legato a lui. Capii che quel saltellare vagava per il suo corpo, cercando qua e là di prorompere. Compresi la sua angoscia dinanzi alla gente, e cominciai io stesso a scrutare guardingo se i passanti notavano qualcosa. Una fitta gelida mi percorse la schiena quando d'improvviso le sue gambe fecero un piccolo salto convulso, ma nessuno aveva visto, e decisi di incespicare un poco anch'io nel caso che qualcuno vi prestasse attenzione. Sarebbe stato un modo di far credere ai curiosi che sulla via ci fosse realmente un piccolo, invisibile inciampo, sul quale per caso avevamo urtato ambedue. Ma mentre meditavo questo soccorso, l'uomo aveva trovato da sé una nuova e ottima scappatoia. Ho dimenticato di dire che portava un bastone; era un semplice bastone di legno scuro con l'impugnatura liscia e ricurva. E, nella sua angoscia di cercare un rimedio, gli era venuto in mente di tenere il bastone con una mano (chissà a che cosa l'altra gli sarebbe potuta ancora servire!) stretto alla schiena, dritto lungo la spina dorsale, premendolo contro le reni e infilando l'impugnatura ricurva nel colletto, in modo da sentirlo duro come un puntello tra la vertebra cervicale e la prima vertebra dorsale. Era un atteggiamento non sorprendente, tutt'al più un po' baldanzoso; l'inattesa giornata di primavera poteva giustificarlo. A nessuno veniva in mente di voltarsi, e tutto andava liscio. È vero che, all'incrocio successivo, balzarono fuori di nuovo due saltelli, due piccoli saltelli a metà repressi, assolutamente senza importanza; e di essi l'unico davvero visibile fu combinato così bene (c'era appunto il tubo di un idrante attraverso la strada) che non vi fu nulla da temere. Sì, tutto andava ancora bene; di tanto in tanto anche l'altra mano afferrava il bastone e lo premeva più stretto, e il pericolo era di nuovo superato. Tuttavia, senza che potessi farci nulla, la mia angoscia cresceva. Sapevo che, mentre egli camminava e con enorme sforzo cercava di sembrare indifferente e distratto, il terribile moto convulso si accumulava nel suo corpo; era anche in me l'angoscia con cui lui sentiva crescere e crescere, e lo vedevo aggrapparsi al bastone quando quell'impulso cominciava a scuoterlo da dentro. L'espressione di quelle mani era allora così inesorabile e dura che riponevo ogni speranza nella sua volontà, che doveva essere grande. Ma a cosa poteva servire una volontà? Doveva giungere l'istante in cui la sua forza si sarebbe esaurita, non poteva tardare. E io, che lo seguivo con il cuore in gola, io raccoglievo come denaro quel po' di forza che mi restava, e mentre guardavo le sue mani lo pregavo di servirsene se gli occorreva. Credo che se ne sia servito; cosa potevo fare, se di più non ne avevo?
Sulla Place Saint-Michel c'erano molti veicoli e qua e là gente frettolosa, più volte ci trovammo fra due carrozze, e allora egli riprendeva fiato e si lasciava andare un poco, come per riposarsi, e un po' saltellava, un po' faceva di sì con la testa. Era forse l'astuzia con cui la malattia prigioniera voleva prendere il sopravvento. La volontà era spezzata in due punti, e il cedimento aveva lasciato nei muscoli invasati uno stimolo leggero, allettante, e la coercizione del ritmo a due tempi. Ma il bastone era ancora al suo posto, e le mani parevano cattive e adirate; così iniziammo il ponte, e tutto andava liscio. Andava liscio. Vi fu ora un'incertezza nella sua andatura, ora fece due passi di corsa, e si fermò. Si fermò. La sinistra si sciolse cauta dal bastone e si sollevò così lenta che la vidi tremare nell'aria; egli spinse un po' indietro il cappello e si passò la mano sulla fronte. Volse un poco la testa, e il suo sguardo errò sul cielo, le case e l'acqua, senza afferrare, e poi egli cedette. Il bastone non c'era più, egli protese le braccia come per volare, e da lui proruppe quasi una forza della natura e lo curvò innanzi e lo strappò indietro e lo fece oscillare e inclinare e scagliò fuori, tra la folla, la sua forza di danza. Già c'era molta gente intorno a lui, e non lo vidi più.
Che senso avrebbe avuto continuare ad andare in giro? ero vuoto. Come un foglio vuoto fui spinto lungo le case, di nuovo su per il boulevard.
Cerco di scriverti, sebbene in realtà non ci sia nulla da aggiungere dopo un addio necessario. Ma cerco di farlo, credo di doverlo fare, poiché nel Panthéon ho visto la Santa, la donna santa e solitaria e il tetto e la porta e dentro la lampada con il suo modesto cerchio di luce e fuori la città dormiente e il fiume e la lontananza nel chiaro di luna. La Santa veglia sulla città dormiente. Ho pianto. Ho pianto, perché tutto ciò in una volta era troppo inaspettato. Ho pianto là davanti, non potevo più trattenermi.
Sono a Parigi, chi lo viene a sapere se ne rallegra, i più mi invidiano. Hanno ragione. È una grande città, grande, piena di strane tentazioni. Quanto a me, devo ammettere d'essere in un certo senso soggiaciuto a loro. Credo che non si possa dire altrimenti. Sono soggiaciuto a queste tentazioni, e ciò ha avuto come conseguenza alcuni cambiamenti, se non nel mio carattere, almeno nella mia visione del mondo e in ogni caso nella mia vita. Sotto questi influssi si è formato in me un modo completamente diverso di vedere le cose, ci sono alcune differenze che mi separano dagli uomini più di tutto ciò che mi accadde finora. Un mondo mutato. Una nuova vita piena di nuovi significati. Per il momento mi è difficile, poiché tutto è troppo nuovo. Sono un principiante anche nell'essere me stesso.
Non sarebbe possibile una volta vedere il mare?
Sì ma, figurati, mi illudevo che tu potessi venire. Non avresti potuto dirmi se c'è un medico? Ho dimenticato di informarmi. Del resto ora non ne ho più bisogno.
Ti ricordi l'incredibile poesia di Baudelaire «Une Charogne»? Può darsi che ora io la capisca. A parte l'ultima strofa, egli aveva ragione. Cosa avrebbe potuto fare, se questo gli capitava? Era suo compito, in quell'orrore solo in apparenza ripugnante, vedere l'Essere che vale fra tutto l'Essere. Non c'è scelta e rifiuto. Credi che Flaubert abbia scritto per un caso il suo Saint-Julien-l'Hospitalier? Mi pare che ciò che conta sia questo: riuscire a giacere accanto al lebbroso e riscaldarlo con l'ardore del cuore delle notti d'amore; non può portare altro che bene.
Non credere soltanto che qui io soffra di delusioni, al contrario. Talvolta stupisco della prontezza con cui rinuncio per il reale, anche se è brutto, a tutto ciò che mi aspettavo.
Mio Dio, se qualcosa di ciò si potesse partecipare ad altri! Ma allora sarebbe, allora sarebbe? No, è solo a prezzo d 'essere soli.
L'esistenza del terribile in ogni particella dell'aria. Lo respiri con la trasparenza; ma in te si deposita, diviene duro, acquista tra le viscere forme puntute, geometriche; poiché tutto il tormento e l'orrore che è stato nelle piazze dei patiboli, nelle camere di tortura, nei manicomi, nelle sale operatorie, sotto gli archi dei ponti nel tardo autunno: tutto ciò ha una tenace esistenza imperitura, tutto ciò insiste su di sé e, geloso di tutto ciò che è, s'attacca alla propria terribile realtà. Gli uomini vorrebbero poterne dimenticare molto; il loro sonno lima dolcemente quei solchi nel cervello, ma i sogni lo ricacciano e calcano di nuovo i disegni. E gli uomini si svegliano e ansimano e fanno dissolvere nell'oscurità la luce di una candela e bevono, come acqua zuccherata, la penombra che acquieta. Oh, ma su quale sostegno si regge quella sicurezza! Basta voltarsi di pochissimo, e di nuovo lo sguardo è di là dalle cose note e amichevoli, e il contorno che un attimo prima era ancora tanto consolatore si precisa come un bordo di orrore. Guàrdati dalla luce che fa più cavo lo spazio; non volgere gli occhi intorno, se forse un ombra non si erga come un sovrano dietro al tuo capezzale. Meglio forse se tu fossi rimasto nell'oscurità e il tuo cuore illimitato avesse cercato di essere il cuore pesante di tutto l'indistinguibile. Ora ti sei raccolto in te, ti vedi terminare nelle tue mani, di tanto in tanto con un gesto impreciso calchi di nuovo il tuo volto. E in te non c'è quasi più spazio; e quasi ti acquieta che in questa esiguità, in te, il grandissimo non possa soggiornare; che anche l'inaudito debba contenersi e limitarsi a seconda delle proporzioni. Ma fuori, fuori non ha misura prevista; e se là fuori cresce, sale, si colma anche in te, non nei vasi che in parte stanno in tuo potere, o nel flemma dei tuoi organi più imperturbabili: sale per i capillari, succhiato su per i tubi nelle estreme diramazioni della tua esistenza infinitamente ramificata. Là sale, là ti sormonta, va più in alto del tuo respiro, al limite del quale tu fuggi come nel riparo ultimo. Oh, e poi, poi? Il tuo cuore ti spinge fuori da te, il tuo cuore ti incalza alle spalle, e sei già quasi fuori di te e non puoi più tornare indietro. Come un coleottero calpestato, coli fuori di te, e quel po' di durezza che ti resta alla superficie, e quel po' di adattamento, sono privi di senso.
notte senza oggetti! O finestra che di fuori è opaca, o porte chiuse con cura! Norme d'altri tempi, ereditate, convalidate, mai del tutto comprese. O silenzio nella tromba delle scale, silenzio dalle camere accanto, silenzio alto presso i soffitti! O madre: o tu, l'unica che ha sostituito tutto questo silenzio, una volta, al tempo dell'infanzia. Che lo prende su di sé, dice: non avere paura, sono io. Che a notte fonda ha il coraggio d'essere questo silenzio per chi ha paura, chi muore di paura. Accendi un lume, e già il rumore sei tu. E tieni il lume dinanzi a te e dici: sono io, non avere paura. E lo deponi, lentamente, e non c'è dubbio: sei tu, sei tu la luce intorno alle cose consuete e amiche, che sono là senza intenzioni nascoste, buone, semplici, sincere. E se qualcosa si agita sulla parete o fa un passo sulle tavole dell'impiantito: tu soltanto sorridi, sorridi, sorridi trasparente sullo sfondo chiaro nel volto impaurito che ti scruta, come se fossi una cosa sola con il più lieve rumore, come se con esso fossi d'accordo, partecipe dei suoi segreti. Vi è sulla terra un potere che uguagli il tuo potere? Vedi, i re giacciono irrigiditi e il narratore non riesce a distrarli con le sue storie. Sul seno beato della favorita serpeggia in loro l'orrore e li fa vacillanti e fiacchi. Ma tu giungi e tieni l'orrore dietro di te e lo copri completamente di te; non come un sipario che qua e là esso potrebbe sollevare. No, come se tu lo avessi oltrepassato, al grido di chi aveva bisogno di te. Come se tu fossi giunta molto al di là di tutto ciò che può sopravvenire, e alle spalle avessi soltanto il tuo accorrere qui, il tuo eterno cammino, il volo del tuo amore.
Il mouleur dinanzi al quale passo ogni giorno ha esposto vicino alla porta due maschere. Il volto della giovane annegata, di cui si prese l'impronta alla Morgue perché era bello, perché sorrideva, perché sorrideva così ingannevole, come se sapesse. E sotto il suo volto che sa. Quel nodo duro di sensi stretti saldamente insieme. Quell'inesorabile autocondensazione di una musica che incessante vuole esalare. Il volto di colui al quale un dio ha chiuso l'udito, affinché non ci fossero più suoni che i suoi. Affinché non fosse confuso dalla torbidezza e dalla caducità dei rumori. Egli, in cui era la loro chiarezza e durata; affinché solo i sensi senza suono gli calassero dentro un mondo, senza suono, un mondo teso, che attende, non ancora maturo, prima della creazione del suono.
Compitore del mondo: come ciò che ricade in pioggia sulla terra e sulle acque, negligente ricade, casualmente ricade, invisibile e lieto della legge torna a levarsi da ogni cosa e sale e si libra nell'aria e forma i cieli: così si alzò da te l'ascensione dei nostri precipitati e cinse il mondo di una cupola di musica.
La tua musica: avrebbe dovuto avvolgere il mondo; non noi. Ti avrebbero costruito un pianoforte nella Tebaide; e un angelo ti avrebbe condotto dinanzi allo strumento solitario, attraverso le catene di montagne desertiche in cui riposano re ed etere e anacoreti. E si sarebbe di nuovo slanciato in alto, via, timoroso che tu cominciassi. E allora saresti fluito, o Scorrente, non udito da alcuno; per restituire all'universo ciò che solo l'universo sopporta. I beduini sarebbero fuggiti superstiziosi, lontano; ma i mercanti si sarebbero gettati a terra al limitare della tua musica, come se fossi tu la tempesta. Solo qualche leone si sarebbe aggirato intorno a te, la notte, atterrito di sé, minacciato dal suo sangue eccitato.
Chi potrà ora sottrarti a orecchie che sono avide? Chi caccerà dalle sale della musica i venali con il loro sterile udito che fornica ma non genera mai? sprizza un seme raggiante, e giocano con esso come puttane, o cade come il seme di Onan fra tutti mentre giacciono nei loro piaceri incompiuti.
Ma, o sovrano, se un udito vergineo giacesse con il tuo suono: morirebbe di beatitudine o concepirebbe l'infinito e il suo cervello fecondato dovrebbe scoppiare nel parto sonoro.
Non sottovaluto. So che ci vuole coraggio. Ma supponiamo per un momento che uno lo possegga, questo courage de luxe, coraggio di andar loro dietro e poi sapere per sempre (chi potrebbe, poi, dimenticarlo o confonderlo?) dove vanno infine a strisciare e cosa fanno per tutto il resto della giornata e se di notte dormono. Questo specialmente bisognerebbe appurare: se dormono. Ma il coraggio non basta. Poiché essi vanno e vengono non come l'altra gente, che sarebbe facilissimo seguire. Ora ci sono, ora non ci sono più, posati e tolti come soldatini di piombo. I luoghi in cui li si incontra sono un po' fuori mano, ma per nulla nascosti. I cespugli finiscono, la strada s'incurva un poco intorno al prato: essi sono là e hanno intorno moltissimo spazio trasparente, come se fossero sotto una campana di vetro. Potresti prenderli per gente che passeggia meditabonda, quegli uomini poco appariscenti, dalla figura piccola, modesta sotto ogni aspetto. Ma sbagli. Vedi come la mano sinistra cerca qualcosa nella tasca obliqua del vecchio soprabito; e come trova e trae fuori e solleva nell'aria con un gesto goffo e vistoso qualcosa di piccolo? Non passa un minuto e ci sono due, tre uccelli, passeri che s'accostano curiosi saltellando. E se all'uomo riesce di adeguarsi al loro concetto ben preciso di immobilità, non c'è alcuna ragione perché non debbano avvicinarsi ancora di più. E finalmente il primo spicca il volo e frulla per un po', nervoso, all'altezza di quella mano che offre (lo sa Dio!) un pezzettino di pane consunto e dolce con dita che non vogliono prendere, che palesemente rinunciano. E quanta più gente si raccoglie intorno a lui, a debita distanza naturalmente, tanto meno egli ha qualcosa in comune con loro. Sta lì come un candeliere che finisce di ardere, e fa luce con il residuo dello stoppino e ne è tutto caldo e resta sempre immobile. E come li attiri, come li adeschi, questo i molti, piccoli, sciocchi uccelli non sanno giudicarlo. Se gli spettatori non ci fossero e lo si lasciasse star lì quanto occorre, sono certo che d'un tratto un angelo giungerebbe e si farebbe forza e mangerebbe dalla debole mano la vecchia, dolce briciola. Come sempre, vi è la gente a impedirlo. Badano a che giungano solo uccelli; trovano che così ce n'è a sufficienza e affermano che egli non è in attesa di altro. Che cosa potrebbe aspettare quel vecchio fantoccio sciupato dalla pioggia, piantato in terra un po' di traverso, come le polene di navi nei giardinetti del mio paese? forse sta così, poiché un tempo si drizzava contro la prua della sua vita, là dove è maggiore il movimento? Ora è così dilavato, perché un giorno fu variopinto? Vuoi chiederglielo?
Solo non chiedere nulla alle donne, se le vedi offrire il becchime. Potresti perfino seguirle; lo fanno camminando; sarebbe facilissimo. Ma lasciale andare. Non sanno come avviene. D'un tratto hanno nella borsa una quantità di pane, e tirano fuori grossi pezzi di sotto la logora mantiglia, pezzi che sono un pochino biascicati e umidi. Fa loro bene che la loro saliva vada un po' per il mondo, che gli uccellini volino in giro con quel sapore, anche se naturalmente lo dimenticano subito.
Avevo dinanzi i tuoi libri, o caparbio, e cercavo di intenderli come fanno gli altri, che non ti lasciano tutto raccolto insieme e si sono presi la loro parte, soddisfatti. Perché non sapevo ancora cosa fosse la gloria, la demolizione pubblica di un essere in divenire, nel cui cantiere penetra la folla per rubargli le pietre.
giovane ignoto, in cui cresce qualcosa che ti fa rabbrividire, approfitta d'essere sconosciuto. E se ti contraddicono quelli che ti stimano da nulla, e se ti abbandonano del tutto quelli che frequenti, e se vogliono estirparti per causa del tuo amato pensiero, che cos'è questo pericolo chiaro, che ti tiene raccolto in te, di contro alla subdola ostilità della gloria, più tardi, che diffondendoti ti rende innocuo?
Non pregare nessuno di parlare di te, neppure con disprezzo. E se il tempo passa e ti accorgi che il tuo nome gira fra la gente, non prenderlo più sul serio di quanto trovi sulle loro labbra. Pensa: si è guastato, e deponilo. Prendine un altro, qualsiasi, affinché Dio possa chiamarti nella notte. E nascondilo a tutti.
Tu, il più solitario, il più appartato, come sono andati a recuperarti nella tua gloria! Appena ieri erano contro di te, fino in fondo, e ora ti frequentano come un loro pari. E portano in giro con sé le tue parole nelle gabbie della loro presunzione e le mostrano sulle piazze e le eccitano un po', standosene al sicuro. Tutte le tue terribili belve.
Ti lessi per la prima volta, solo quando mi furono sfuggite e mi assalirono nel mio deserto, le disperate. Disperato come tu stesso fosti alla fine, tu, il cui cammino è segnato falso su ogni carta. Come un'incrinatura, attraversa i cieli l'iperbole di questa tua via senza speranza, che solo per un momento piega verso di noi e si allontana colma di orrore. Cosa ti importava che una donna rimanesse o partisse e che uno fosse colto dalla vertigine e uno dalla follia e che i morti fossero vivi e i viventi sembrassero morti: cosa ti importava? Tutto questo era ben naturale per te; vi passavi attraverso come si va per un atrio, e non ti fermavi. Ma là indugiavi ed eri costretto a chinarti, ove il nostro accadere bolle, precipita e muta colore, all'interno. Più all'interno di quanto alcuno avesse mai raggiunto; una porta ti si spalancò, ed ecco, fosti agli alambicchi nel riflesso del fuoco. Là, ove non portasti con te mai nessuno, o diffidente, là sedevi e discernevi i passaggi. E là, poiché ti era nel sangue la rappresentazione e non la figurazione o il racconto, là prendesti la decisione mostruosa di ingrandire, tu da solo, quell'infinitesimo che tu stesso scorgevi soltanto attraverso i vetri dei vasi, così che stesse dinanzi a migliaia, immenso, dinanzi a tutti. Sorse il tuo teatro. Non potevi aspettare che quella vita quasi senza spazio condensata dai secoli in gocce fosse scoperta dalle altre arti e gradualmente divenisse visibile per i singoli, che a poco a poco sarebbero convenuti insieme a esaminarla e infine avrebbero chiesto, tutti, di veder confermate le nobili voci nel simbolo della scena spalancata dinanzi a loro. Questo non potevi aspettarlo, eri là, dovevi tu prenderti cura di ciò che è più arduo misurare: un sentimento che cresceva di mezzo grado, l'angolo di deviazione di una volontà gravata quasi da nulla, che tu riuscivi a leggere avvicinandoti molto, il lieve intorbidarsi in una goccia di desiderio e il quasi impercettibile mutamento di colore in un atomo di fiducia: questo, tu dovevi verificare e custodire; poiché in quei processi ora stava la vita, la nostra vita, che era scivolata dentro di noi, che si era ritratta così all'interno, così in profondo, da non giustificare neppur più congetture.
Destinato com'eri alla rappresentazione, poeta tragico fuori del tempo, dovevi trasformare di colpo questa capillarità nei gesti più convincenti, nelle cose più concrete. Allora commettesti la violenza senza esempio della tua opera, che sempre più impaziente, sempre più disperata cercava tra il visibile l'equivalente per la visione interna. C'era un coniglio, una soffitta, una sala in cui qualcuno andava e veniva: c'era un tintinnio di vetri nella stanza accanto, un incendio dinanzi alle finestre, c'era il sole. C'era una chiesa e una valle rocciosa che assomigliava a una chiesa. Ma questo non bastava; alla fine dovettero entrare le torri e le montagne intere; e le valanghe, che seppelliscono i paesaggi, si riversarono sulla scena sovraccarica di cose concrete, per amore dell'inconcepibile. Allora non ce la facesti più. Le due estremità che avevi curvato fino a congiungerle, scattarono via l'una dall'altra; la tua forza pazzesca sfuggì dalla verga flessibile, e fu come se la tua opera non fosse stata.
Come capire altrimenti perché tu, alla fine, non volessi più allontanarti dalla finestra, caparbio come fosti sempre. Volevi vedere i passanti; poiché ti era venuta l'idea che un giorno con loro si sarebbe potuto fare qualcosa, se ci si fosse decisi a cominciare.
Allora soltanto mi accorsi che non è possibile dire nulla di una donna; notai come, raccontando di lei, la riservassero in bianco, come nominassero e descrivessero gli altri, i dintorni, i luoghi, gli oggetti fino a un determinato punto in cui tutto si fermava, dolcemente e quasi con cautela si fermava al contorno leggero, mai ricalcato, che la racchiudeva. Com' era? chiedevo allora. «Bionda, quasi come te,» rispondevano ed enumeravano molti altri particolari, tutto ciò che ancora sapevano; ma così lei si faceva di nuovo imprecisa, e non riuscivo più a rappresentarmi nulla. Riuscivo proprio a vederla, solo quando Maman mi raccontava la storia che tornavo sempre a chiedere.
E ogni volta che giungeva alla scena del cane, soleva chiudere gli occhi e tenere con una sorta di fervore il viso chiusissimo e tuttavia trasparente tra le mani che lo toccavano fredde alle tempie. «Io l'ho visto, Malte,» assicurava: «Io l'ho visto.» Fu nei suoi ultimi anni ormai che udii questo racconto da lei. Al tempo in cui non voleva più vedere nessuno ed in cui sempre, anche in viaggio, portava con se il piccolo colino d'argento, fitto, con il quale filtrava ogni bevanda.
Non prendeva più cibi solidi, se non un po' di biscotto o di pane che, quando era sola, spezzettava e mangiava briciola a briciola, come mangiano le briciole i bambini. Ormai la dominava completamente il suo terrore degli aghi. Agli altri per scusarsi diceva soltanto: «Non sopporto proprio più nulla, ma non dovete preoccuparvi, mi trovo benissimo così.» A me però poteva volgersi d'improvviso (ero già un pochino cresciuto) e dirmi con un sorriso che le faceva molta fatica: «Quanti aghi ci sono, Malte, e sono sparsi dappertutto! e se si pensa alla facilità con cui possono cadere...» Si sforzava di dirlo come un semplice scherzo; ma rabbrividiva di orrore al pensiero di tutti quegli aghi non ben fissati, che ad ogni momento potevano cadere ovunque.
Ma quando raccontava di Ingeborg, non poteva succederle nulla; allora abbandonava ogni cautela; allora parlava più forte, allora rideva al ricordo del riso di Ingeborg, allora si era costretti a vedere quanto Ingeborg era stata bella. «Ci teneva tutti allegri,» diceva, «anche tuo padre, Malte, quel che si dice allegro. Ma poi, quando dichiararono che sarebbe morta, sebbene sembrasse soltanto un po' inferma, e tutti le fossimo intorno e glielo nascondessimo, una volta si alzò a sedere sul letto e disse fra sé, simile ad una persona intenta ad ascoltare come qualcosa risuoni: "Non dovete controllarvi così; lo sappiamo tutti, e io posso tranquillizzarvi, ciò che accade è per il meglio, non ne posso più"; lei, che ci teneva tutti allegri. Chissà se una volta lo capirai, quando sarai grande, Malte? Pensaci un giorno, forse ti verrà in mente. Sarebbe molto bello se ci fosse qualcuno che capisce queste cose.»
«Queste cose» occupavano Maman quando era sola, ed era sempre sola in quegli ultimi anni.
«Io non ci arriverò mai, Malte,» diceva talvolta con il suo sorriso singolarmente ardito che non voleva essere veduto da nessuno e colmava tutto il suo scopo già solo affiorandole sulle labbra. «Ma che nessuno si senta attirato a scoprirle! se fossi un uomo, sì, proprio, se fossi un uomo ci rifletterei sopra, con ordine e dal principio. Perché un principio ci deve pur essere, e se si riuscisse ad afferrarlo, già sarebbe qualcosa. Ah, Malte, noi passiamo, così, e mi sembra che tutti siano distratti e occupati e non prestino la giusta attenzione al nostro passare. Come se cadesse una stella e nessuno la vedesse e nessuno formulasse per sé un desiderio. Non dimenticarti mai, Malte, di desiderare qualcosa per te. Al desiderare non si deve rinunciare mai. Credo che non ci sia adempimento, ma ci sono desideri che durano a lungo, per tutta la vita, tanto che l'adempimento si finisce per non attenderlo più.»
Maman aveva fatto portare su nella sua camera il piccolo secrétaire di Ingeborg, spesso ve la trovai dinanzi, poiché potevo entrare da lei senza bussare. Il mio passo svaniva completamente nel tappeto, ma lei mi sentiva e mi tendeva una mano al di sopra della spalla. La mano era senza peso, e la baciavo quasi come il crocifisso d'avorio che mi porgevano la sera prima che mi addormentassi. A quello scrittoio basso, con un piano che le si schiudeva dinanzi, ella sedeva come a uno strumento musicale. «C'è tanto sole dentro,» diceva, e davvero l'interno era singolarmente chiaro, di antica lacca gialla con fiori dipinti, sempre uno rosso e uno blu. E dove ce n'erano tre insieme, uno violetto separava gli altri due. Questi colori e il verde del sottile viticcio orizzontale erano tanto scuriti quanto il fondo restava luminoso, pur senza propriamente esser chiaro. Ne risultava uno strano accordo smorzato di toni che stavano tra loro in interiori rapporti, senza esprimerli fuori. Maman estraeva i cassettini che erano tutti vuoti. «Oh, rose,» diceva e si chinava un poco nell'odore vago che non era svanito. Si figurava sempre che d'improvviso si sarebbe potuto trovare ancora qualcosa in un cassetto segreto, a cui nessuno aveva pensato e che cedeva solo alla pressione di una qualche molla nascosta. «Salterà fuori d'un tratto, vedrai,» diceva seria e ansiosa e tirava in fretta tutti i cassetti. Ma le carte rimaste veramente nei cassetti le aveva messe insieme con cura e chiuse, senza leggerle. «Non le capirei, Malte, sarebbero di certo troppo difficili per me.» Aveva la convinzione che tutto fosse troppo complicato per lei. «Nella vita non c'è una classe per principianti, da noi si pretende sempre il più difficile.» Mi assicurarono che era divenuta così dalla morte terribile di sua sorella, la contessa Öllegaard Skeel, che morì bruciata poiché prima di un ballo volle appuntarsi in un altro modo i fiori nei capelli dinanzi alle candele dello specchio. Ma negli ultimi tempi Ingeborg le sembrò la cosa più difficile da capire.
E ora voglio scrivere la storia, così come Maman la raccontava quando la pregavo.
Era mezza estate, il giovedì dopo i funerali di Ingeborg. Dal posto in cui si prendeva il tè, sulla terrazza, si vedeva la cuspide della tomba di famiglia tra gli enormi olmi. Avevano apparecchiato come se a quella tavola non si fosse mai seduta una persona in più, e ci sedemmo intorno spaziati a nostro comodo. E ciascuno aveva portato con sé qualcosa, un libro o un cestino da lavoro, così che stavamo perfino un po' stretti. Abelone (la sorella minore di Maman) serviva il tè, e tutti eravamo occupati a passare in giro qualcosa, solo tuo nonno dalla sua poltrona guardava verso casa. Era l'ora in cui si aspettava la posta, e succedeva il più delle volte che la portasse Ingeborg, trattenuta in casa più a lungo dalle disposizioni per la cena. Nelle settimane della sua malattia avevamo avuto ormai ampiamente il tempo per disabituarci alla sua venuta; poiché sapevamo per certo che non poteva venire. Ma quel pomeriggio, Malte, in cui veramente non poteva più venire: ella venne. Forse la colpa fu nostra; forse noi l'abbiamo chiamata. Perché ricordo che a un tratto mi trovai là seduta mentre mi sforzavo di rammentarmi cosa fosse ora diverso. Subito non mi fu possibile dire cosa; l'avevo completamente dimenticato. Alzai gli occhi e vidi tutti gli altri vòlti verso la casa, non in un modo speciale, strano, ma tranquillamente, nella solita attesa. E fui sul punto di (mi vien freddo, Malte, quando ci penso) ma, Dio mi protegga, fui sul punto di dire: «Perché tarda?» Quando già Cavalier, come faceva sempre, balzò di sotto la tavola e le corse incontro. Io l'ho visto, Malte, io l'ho visto. Le corse incontro, sebbene lei non venisse; per lui veniva. Capimmo che le correva incontro. Due volte si girò a guardare verso di noi, come per interrogare. Poi si precipitò a lei, come sempre, Malte, proprio come sempre, e la raggiunse; poiché cominciò a saltare intorno, Malte, a qualcosa che non c'era, e poi a balzare in alto per leccarla, in alto. Lo udivamo guaire di gioia, e siccome continuava nei suoi salti rapidi, uno dopo l'altro, si sarebbe potuto credere che davvero ce la nascondesse con quei balzi. Ma d'un tratto ci fu un ululato e, trascinato dal suo stesso balzo, esso si girò nell'aria e ricadde, stranamente goffo, e giacque appiattito in modo singolare e non si mosse. Dall'altro lato della casa usciva il servitore con le lettere. Esitò un istante; evidentemente non era per nulla facile avanzare verso i nostri volti. E già tuo padre gli faceva cenno di fermarsi. Tuo padre, Malte, non amava gli animali; ma quella volta avanzò lentamente, mi parve, e si chinò sul cane. Disse al servitore qualcosa, qualcosa di breve, un monosillabo. Vidi il servitore accorrere per raccogliere Cavalier. Ma allora tuo padre stesso prese l'animale e, come se sapesse esattamente dove portarlo, entrò in casa.
Una volta che durante questo racconto s'era fatto quasi buio, fui sul punto di raccontare a Maman della «mano»: in quel momento ci sarei riuscito. Già prendevo fiato per cominciare, quando mi resi conto d'aver capito benissimo perché il servitore non fosse riuscito ad avanzare verso i loro volti. E nonostante l'oscurità ebbi paura del volto di Maman se poi vedesse ciò che io avevo visto. In fretta presi fiato un'altra volta perché sembrasse che non avevo voluto far altro. Un paio d'anni più tardi, dopo la strana notte nella galleria di Urnekloster, riflettei per giorni interi se dovessi confidarmi con il piccolo Erik. Ma egli, dopo il nostro colloquio notturno, s'era di nuovo chiuso per me, mi evitava; credo mi disprezzasse. E proprio per questo volevo raccontargli della «mano». Mi figuravo che sarei cresciuto nella sua considerazione (e non so per quale ragione ci tenevo moltissimo), se fossi riuscito a fargli capire che avevo realmente vissuto quell'episodio. Ma Erik era tanto abile nello scansarmi che non se ne fece nulla. E d'altronde noi partimmo quasi subito. Così, ed è abbastanza singolare, questa è la prima volta che racconto (e, dopo tutto, solo per me) una vicenda che ora risale lontano, alla mia infanzia.
Quanto fossi piccolo allora, lo so poiché stavo inginocchiato sulla poltrona per arrivare bene al tavolino su cui disegnavo. Era sera, d'inverno, se non sbaglio, nella casa di città. Il tavolino stava nella mia camera, tra le finestre, e nella camera non c'era altra lampada se non quella che illuminava i miei fogli e il libro di Mademoiselle; Mademoiselle infatti sedeva accanto a me, un po' più indietro, e leggeva. Quando leggeva era molto lontana non so se fosse nel libro; poteva leggere per ore, girava i fogli di rado, e avevo l'impressione che le pagine sotto i suoi occhi divenissero sempre più piene, come se lei vi vedesse parole in più, determinate parole di cui aveva bisogno e che non c'erano. Mi veniva in mente questo mentre disegnavo. Disegnavo lentamente, senza un'intenzione molto precisa, e quando non sapevo andare avanti guardavo il foglio con il capo un po' inclinato a destra; così scoprivo sempre, subito, ciò che ancora mancava. Erano ufficiali a cavallo che galoppavano alla battaglia, o già vi stavano nel mezzo, e questo era molto più facile, poiché quasi bastava fare il fumo che avvolgeva tutto. Maman veramente sostenne sempre che avevo disegnato isole; isole con grandi alberi e un castello e una scalinata e fiori sulla riva, che si specchiavano nell'acqua. Ma credo che inventasse, o che debba essere stato più tardi.
Sta di fatto che quella sera io disegnavo un cavaliere, un cavaliere solo e ben distinto su un cavallo stranamente bardato. Era così multicolore che dovevo spesso cambiare matita, ma soprattutto dominava il rosso, lo riprendevo ogni momento. Ne avevo bisogno di nuovo; allora rotolò di sghembo (lo vedo ancora) sul foglio illuminato fino all'orlo del tavolino e, prima che potessi fermarlo, cadde di fianco a me e scomparve. Ne avevo proprio bisogno subito, ed era molto noioso scendere giù a cercarlo. Maldestro com'ero, calarmi fino a terra mi costò molti armeggii; mi sembrava d'avere le gambe troppo lunghe, non riuscivo a tirarmele via di sotto; le membra, stando inginocchiato per troppo tempo, mi si erano intorpidite; non sapevo se appartenevano a me o alla poltrona. Finalmente arrivai giù, un po' confuso, e mi trovai su una pelle stesa sotto il tavolino fino al muro. Ma allora si presentò una nuova difficoltà. Abituati alla luce di lassù e ancora accesi dai colori sulla carta bianca, i miei occhi non riuscivano a distinguere nulla sotto il tavolino, ove il nero mi sembrò così serrato che ebbi timore di urtarvi. Mi affidai quindi al tatto e, in ginocchio, puntellandomi sulla sinistra, cominciai a percorrere con la destra il pelo fresco e lungo del tappeto, che sentivo perfettamente familiare; solo che della matita non c'era traccia. Pensai che stavo perdendo un sacco di tempo e volevo già chiamare Mademoiselle e pregarla di reggermi la lampada, quando notai che per i miei occhi, aguzzatisi involontariamente, l'oscurità si faceva a poco a poco più trasparente. Già potevo distinguere, in fondo, il muro che finiva in uno zoccolo chiaro; mi orientavo tra le gambe del tavolino; soprattutto riconoscevo la mia mano, con le dita aperte, che da sola, un poco come un animale acquatico, si muoveva lì sotto e frugava il fondo. La guardavo, ricordo, quasi con curiosità; mi pareva che sapesse cose che non le avevo insegnato, poiché lì sotto di propria volontà si aggirava tastando, con movimenti che non le avevo mai visto. La seguivo nel suo avanzare, mi interessava, ero preparato a qualsiasi cosa. Ma come avrei potuto aspettarmi che ad un tratto le venisse incontro dal muro un'altra mano più grande, insolitamente magra, come io non avevo ancora mai visto. Avanzava frugando allo stesso modo, dalla parte opposta, e le due mani aperte si muovevano incontro alla cieca. La mia curiosità non era ancora soddisfatta, ma d'improvviso finì e ci fu solo orrore. Sentii che una di quelle mani mi apparteneva e che si addentrava in qualcosa di irreparabile. Con tutto il diritto che avevo su di lei la trattenni e lentamente la tirai indietro, schiacciata sul palmo, mentre non abbandonavo con gli occhi l'altra che continuava a frugare. Capii che non avrebbe smesso, non so dire come mi rialzai. Ero sprofondato nella poltrona, battevo i denti, e avevo così poco sangue in volto che mi pareva mi si fosse sbiancato anche l'azzurro degli occhi. Mademoiselle, volevo dire e non riuscivo, ma allora ella stessa si spaventò, gettò via il libro e si inginocchiò vicino alla poltrona e gridò il mio nome; credo che mi scosse. Ma io ero perfettamente cosciente. Inghiottii un paio di volte; poiché ora volevo raccontare.
Ma come? Feci uno sforzo indescrivibile su di me, ma quell'avvenimento non si poteva esprimere in modo che un altro capisse. Se mai c'erano parole adatte, io ero troppo piccolo per trovarle. E d'improvviso mi afferrò l'angoscia che esse, sebbene superiori alla mia età, potessero d'un tratto apparire, quelle parole, e mi sembrò più terribile di tutto che io allora fossi costretto a dirle. Ripercorrere una volta ancora la realtà di là sotto, diversa, mutata, dal principio; ascoltarmi mentro l'ammettevo, non ne avevo più la forza.
È naturalmente immaginazione, se ora affermo che già a quel tempo sentissi che qualcosa era entrato così nella mia vita, proprio nella mia, qualcosa con cui sarei dovuto andarmene solo, sempre e sempre. Mi vedo giacere nel lettino a sponde e non dormire e presentire in un qualche modo impreciso che la vita sarebbe stata così: piena di cose particolari, che sono destinate soltanto a un singolo e che non si riescono a dire. Certo è che a poco a poco sorse in me un triste e pesante orgoglio. Mi figuravo un andar per il mondo, pieno di vita interiore e taciturno. Provavo una violenta simpatia per gli adulti; li ammiravo, e mi proponevo di dire loro che li ammiravo. Mi proponevo di dirlo a Mademoiselle alla prima occasione.
E venne allora una delle malattie che miravano a dimostrami che quella non era stata la prima esperienza, mia, di vita. La febbre frugava in fondo a me e di laggiù tirava fuori esperienze, immagini, fatti, di cui non avevo saputo nulla; giacevo là, sovraccarico di me, e aspettavo il momento in cui mi sarebbe stato comandato di rimettere di nuovo a posto tutto dentro di me, per bene, in ordine. Cominciavo, ma tutto mi cresceva fra le mani, opponeva resistenza, era troppo. Allora mi prendeva la rabbia, e ammucchiavo tutto dentro di me e lo schiacciavo; ma non riuscivo a richiudermici sopra. E gridavo, semiaperto com'ero, gridavo e gridavo. E quando cominciavo a guardare fuori di me, loro stavano già da un pezzo intorno al mio letto e mi tenevano le mani, e c'era una candela, e le grandi ombre si agitavano dietro di loro. E mio padre mi ordinava di dire cosa avessi. Era un ordine amichevole, sommesso, ma era pur sempre un ordine. Ed egli diveniva impaziente se non rispondevo.
Maman non veniva mai di notte, o anzi, sì, una volta venne. Avevo gridato e gridato, ed era venuta Mademoiselle e Sieversen, la governante, e Georg, il cocchiere; ma non era servito a nulla. E alla fine allora avevano mandato la carrozza a prendere i miei genitori che erano a un gran ballo, credo dal principe ereditario. E d'un tratto sentii la carrozza entrare in cortile, e mi quietai, sedetti sul letto e guardai verso la porta. E ci fu un po' di fruscio nelle altre stanze, e Maman entrò in abito di corte di cui neppur più si curava, e mi corse vicino e lasciò cadere dietro di sé la sua pelliccia bianca e mi prese fra le braccia nude. E tastai. stupito e deliziato come non mai, i suoi capelli e il suo piccolo viso curato e le fredde gemme alle sue orecchie e la seta all'orlo delle sue spalle che odoravano di fiori. E restammo così e piangemmo teneramente e ci baciammo, finché sentimmo che c'era mio padre e che dovevamo separarci. «Ha la febbre alta,» sentii dire timidamente Maman, e mio padre mi prese la mano e contò le pulsazioni. Era in uniforme di capocaccia, con il bel nastro azzurro, largo e marezzato, dell'ordine dell'Elefante. «Che sciocchezza chiamarci,» disse verso l'interno della camera, senza guardarmi. Avevano promesso di tornare se non ci fosse stato nulla di grave. E infatti non era nulla di grave. Ma sulla coperta trovai il carnet di ballo di Maman e delle camelie bianche che non avevo ancora mai visto e che mi posai sugli occhi appena sentii quanto erano fresche.
Ma interminabili, in quelle malattie, erano i pomeriggi. Al mattino dopo la notte cattiva si cadeva sempre nel sonno, e quando ci si destava e si credeva che fosse di nuovo mattino, allora era pomeriggio e restava pomeriggio e non cessava di essere pomeriggio. Si giaceva nel letto rifatto e forse si cresceva un poco alle articolazioni e si era troppo stanchi per figurarsi una cosa qualsiasi. Il gusto della purée di mele durava a lungo, ed era già molto riuscire a spiegarlo in qualche modo, involontariamente, e lasciar circolare in sé al posto dei pensieri quella pura acidità. Più tardi, quando tornavano le forze, i cuscini venivano ammucchiati dietro la schiena, e ci si poteva sedere e giocare con i soldatini; ma cadevano troppo facilmente dalla tavoletta inclinata e sempre tutta una fila insieme; e non ci si era ancora ripresi alla vita tanto da ricominciare sempre da capo. D'improvviso era troppo, e si pregava che portassero via tutto, subito, e faceva bene rivedere soltanto le due mani, un po' distanti sulla coperta sgombra.
Se Maman veniva per una mezz'ora e leggeva favole (per le vere, lunghe letture c'era Sieversen), non era per amore delle favole. Poiché ci trovavamo d'accordo nel non amare le favole. Ci facevamo un'altra idea del meraviglioso. Trovavamo che se tutto si svolgeva in modo naturale era più meraviglioso, sempre. Non davamo molta importanza al volare per l'aria, le fate ci deludevano, e dalle metamorfosi ci aspettavamo soltanto un mutamento molto superficiale. Leggevamo un poco, però, per sembrare occupati; ci era spiacevole, se fosse entrato qualcuno, dover subito spiegare che cosa davvero stavamo facendo; in particolare di fronte a mio padre ostentavamo quell'evidenza.
Solo quando eravamo assolutamente sicuri di non essere disturbati, e fuori imbruniva, poteva succedere che ci abbandonassimo ai ricordi, ai ricordi comuni che ci sembravano vecchi e di cui sorridevamo; poiché da allora eravamo cresciuti entrambi. Ci veniva in mente che c'era stato un tempo in cui Maman desiderava che io fossi una bambina e non quel ragazzo che ero. In qualche modo l'avevo indovinato, e mi era venuta l'idea, certi pomeriggi, di bussare alla porta di Maman. Quando chiedeva chi fosse, ero felice di gridare da fuori «Sophie», facendo una voce così bellina che mi solleticava la gola. E quando poi entravo (nella vestina da casa, un po' da bimba, che oltre tutto portavo con le maniche rimboccate), ero semplicemente Sophie, la piccola Sophie di Maman, che si occupava della casa e a cui Maman doveva fare la treccia perché non capitasse nessuna confusione con il cattivo Malte, se mai fosse tornato. Cosa, questa, per nulla desiderata; tanto a Maman quanto a Sophie riusciva gradito che egli non ci fosse, e le loro conversazioni (che Sophie sosteneva sempre con la stessa voce acuta) consistevano per lo più nell'enumerare le malefatte di Malte e nel lamentarsi di esse. «Ah, quel Malte,» sospirava Maman. E Sophie sapeva un'infinità di cose sulla cattiveria dei ragazzi in generale, come se ne conoscesse un mucchio.
«Vorrei proprio sapere cosa ne è stato di Sophie,» diceva poi Maman d'improvviso, fra quei ricordi. Allora, certo, Malte non poteva darle più nessuna risposta. Ma se Maman sosteneva che sicuramente era morta, egli la contraddiceva con ostinazione e la scongiurava di non credere così, sebbene poi non potesse provare il contrario. |[continua]|
|[PARTE PRIMA, 4]|
Se ora ripenso a tutto ciò, posso stupire che sempre tornassi dal paese di quelle febbri e mi riabituassi alla vita tutta in comune, in cui ciascuno voleva essere sostenuto nella sensazione di trovarsi fra cose conosciute, e in cui ci si adeguava tanto scrupolosamente alle cose comprensibili. Se si aspettava qualcosa, e arrivava oppure non arrivava, una terza possibilità era esclusa. C'erano cose che erano tristi, una volta per tutte, c'erano cose piacevoli e una quantità di cose indifferenti. Ma se vi preparavano una gioia, quella era una gioia, e dovevate comportarvi in conformità. In fondo tutto questo era molto semplice, e una volta che si era scoperto il meccanismo, tutto andava da sé. Entro quei limiti prestabiliti rientrava tutto; le lunghe, monotone ore di scuola, quando fuori era estate; le passeggiate, che si dovevano raccontare in francese; le visite per cui vi chiamavano dentro e vi trovavano buffi, mentre eravate proprio tristi, e si divertivano con voi come con l'espressione afflitta di certi uccelli che non ne hanno altra. E naturalmente i compleanni, a cui invitavano bambini che conoscevate appena, bambini imbarazzati che vi mettevano in imbarazzo, o sfacciati che vi graffiavano il viso, e rompevano quel che avevate appena ricevuto in dono, e che poi se ne andavano d'un tratto, mentre tutto giaceva alla rinfusa fuori dalle scatole e dai cassetti. Ma quando si giocava da soli, come sempre, poteva accadere che d'improvviso si uscisse fuori da quel mondo prestabilito e in complesso innocuo e si finisse in mezzo a rapporti che erano totalmente diversi e imprevedibili.
Mademoiselle aveva ogni tanto la sua emicrania, che giungeva straordinariamente violenta, e quelli erano i giorni in cui era difficile trovarmi. So che mandavano il cocchiere nel parco, quando a mio padre veniva in mente di chiedere di me e io non c'ero. Dall'alto, da una delle camere degli ospiti, potevo vederlo correre fuori e gridare il mio nome all'imbocco del lungo viale. A Ulsgaard le camere degli ospiti si trovavano sotto il tetto, l'una di fianco all'altra, e restavano quasi sempre vuote, poiché a quel tempo avevamo visite molto di rado. Accanto ad esse c'era lo stanzone d'angolo che esercitava su di me un'attrazione fortissima. Vi si trovava soltanto un vecchio busto, che rappresentava credo l'ammiraglio Juel, ma nelle pareti c'erano tutt'intorno profondi e grigi armadi a muro, così che la finestra si apriva nel muro vuoto e imbiancato al di sopra di essi. In una porta avevo trovato la chiave, e apriva tutte le altre. Così, in poco tempo, avevo passato in rivista ogni cosa: le marsine da ciambellano del diciottesimo secolo, gelide di intessuti fili d'argento, e i loro bei panciotti ricamati; le uniformi degli ordini di Dannebrog e dell'Elefante, che sembravano a tutta prima vesti da donna, tanto erano ricche e complicate, con fodere morbide al tatto. Poi i veri vestiti femminili che, tenuti separati dalle loro armature, pendevano rigidi come le marionette di un dramma troppo grande, così definitivamente passato di moda che le loro teste erano state adoperate altrimenti. Ma c'erano anche armadi in cui era buio quando li si apriva, buio di uniformi abbottonate fino al collo, che sembravano molto più logore di tutto il resto e che veramente desideravano non essere più conservate.
Nessuno troverà strano che io tirassi fuori ogni cosa e la inclinassi alla luce; che accostassi a me o mi gettassi addosso questo o quell'abito; che frettolosamente mi infilassi un costume che poteva adattarmisi un poco e, curioso ed eccitato, corressi nella camera degli ospiti più vicina, dinanzi alla stretta specchiera composta di vari riquadri, ciascuno di un diverso verde. Ah, come si tremava al pensiero d'esserci dentro, e com'era affascinante quando ci si era! Quando qualcosa s'avvicinava affiorando dal torbido, più lentamente di voi, poiché lo specchio quasi non credeva e, sonnolento com'era, non voleva ripetere subito ciò che gli suggerivate. Ma alla fine doveva, naturalmente. Ed era allora qualcosa di molto sorprendente, di estraneo, completamente diverso da come vi immaginavate, qualcosa di repentino, di autonomo, che scorgevate in un attimo, per riconoscervi poi nell'istante seguente, non senza una certa ironia che per un filo poteva distruggere tutto il piacere. Ma se cominciavate subito a parlare, a inchinarvi, se vi facevate un cenno, vi allontanavate continuando a guardare indietro, e poi tornavate con decisione e con impeto, allora avevate l'immaginazione dalla vostra parte, finché vi piacesse.
Imparai allora a conoscere l'influsso che può venire, immediato, da un dato costume. Appena avevo indossato uno di quegli abiti, dovevo riconoscere che ero in suo potere; che mi prescriveva i gesti, l'espressione del viso, perfino le idee; la mia mano, su cui cadeva e tornava a cadere il polsino di pizzo, non era affatto la mia solita mano; si muoveva come un attore, sì, potrei dire che osservava se stessa, per quanto esagerato sembri. Queste finzioni tuttavia non giungevano mai al punto che io mi sentissi estraniato da me; al contrario, in quanti più modi mutavo, tanto più divenivo certo di me. Divenivo sempre più ardito; mi slanciavo sempre più in alto; poiché la mia destrezza nel riafferrarmi era fuor di dubbio. Non mi accorgevo della tentazione che si celava in quella sicurezza rapidamente crescente. Per mia fatalità, un giorno, l'ultimo armadio che fino allora credevo di non poter aprire cedette, per offrirmi anziché abiti tutta una confusione di costumi da maschera, il cui fantastico svariare mi fece avvampare le guance. Impossibile enumerare tutto ciò che era là. Oltre a una bautta che mi è rimasta in mente, c'erano dei domino di vari colori, c'erano costumi femminili che tintinnavano di monete cucite alla stoffa; c'erano dei Pierrot che mi sembrarono sciocchi, e pantaloni a pieghe turcheschi, e berrette persiane da cui scivolavano fuori sacchetti di canfora, e corone con pietre stupide, inespressive. Disprezzavo un poco tutto questo; era di una irrealtà così povera e pendeva così floscio e misero e strascicava giù inerte quando lo si tirava alla luce. Ma quello che mi diede una sorta di ebrezza furono gli spaziosi mantelli, i fazzoletti, gli scialli, i veli, tutte quelle stoffe cedevoli, grandi, mai usate, che erano morbide e carezzevoli o così scivolose che non si riuscivano quasi ad afferrare, o così leggere che svolavano via come un vento, o grevi di tutto il loro peso. Solo in esse vidi davvero libere e infinite possibilità di trasformazione: di essere una schiava che viene venduta, o di essere Jeanne d'Arc o un vecchio re o un mago; ora tutte queste metamorfosi erano a mia disposizione, specialmente perché c'erano anche maschere, grandi visi minacciosi o stupefatti con vere barbe e sopracciglia folte o arcuate. Non avevo mai visto maschere prima d'allora, ma capii subito che le maschere dovevano esistere. Risi quando mi venne in mente che avevamo un cane che sembrava portarne una. Rividi i suoi occhi affettuosi che nel muso peloso guardavano sempre come da dietro una maschera. Ridevo ancora mentre mi travestivo, e così dimenticai completamente che cosa volevo rappresentare. D'altronde, era nuovo ed emozionante deciderlo solo dopo, davanti allo specchio. Il volto che mi misi aveva un odore stranamente vuoto, aderiva strettamente al mio, ma potevo comodamente guardare attraverso, e solo quando la maschera fu a posto mi scelsi ogni sorta di fazzoletti che avvolsi al capo come una specie di turbante, così l'orlo della maschera, che finiva in basso in un immenso mantello giallo, anche in alto e di fianco era quasi completamente nascosto. Alla fine, non sapendo più cosa inventare, mi ritenni travestito a sufficienza. Afferrai ancora un grosso bastone che, con il braccio teso in fuori più che potevo, feci avanzare al mio fianco, e così mi trascinai non senza fatica ma, mi parve, pieno di dignità, nella camera degli stranieri, verso lo specchio.
Fu davvero grandioso, oltre ogni aspettativa. Lo specchio rimandò istantaneamente l'immagine, era troppo convincente. Non sarebbe stato neppure necessario fare molti gesti; quell'apparizione era perfetta anche se restava ferma. Ma si trattava ora di sapere che cosa propriamente fossi, e così mi voltai un poco e sollevai infine le braccia: grandi gesti, quasi di scongiuro, capivo che erano l'unica cosa adatta. Però, proprio in quel momento solenne, percepii accanto a me, smorzato dal mio travestimento, un rumore composito; spaventatissimo, persi di vista l'essere che era là dentro e fui molto stizzito nel vedere che avevo rovesciato un tavolinetto rotondo con Dio sa quali oggetti, probabilmente fragilissimi. Mi chinai come meglio potevo e vidi confermate le mie peggiori previsioni: sembrava che tutto fosse in pezzi. I due inutili pappagalli di porcellana verde e violetta si erano naturalmente rotti, in due modi diversi ma altrettanto maligni. Una scatola, dalla quale rotolarono dei bonbons che parevano seriche crisalidi d'insetti, aveva gettato via il coperchio, si vedeva soltanto la sua metà, l'altra era affatto scomparsa. La cosa più sgradevole era però un flacone frantumato in mille minuscoli pezzi, da cui era schizzato il resto di non so quale vecchia essenza, che ora formava una macchia dalla fisionomia molto ripugnante sul pavimento chiaro. L'asciugai in fretta con qualcosa che mi pendeva di dosso, ma solo divenne più nera e piacevole. Ero completamente disperato. Mi rialzai e cercai un oggetto qualsiasi con cui potessi rimediare tutto. Ma non ce n'era nessuno. Ed io ero anche talmente ostacolato nel vedere e in ogni movimento, che crebbe in me la rabbia per la mia situazione irragionevole che non capivo più. Tirai da tutte le parti quel che avevo in dosso, ma soltanto si serrava sempre più stretto. I cordoni del mantello mi strozzavano, e la bardatura sulla mia testa premeva come se aumentasse sempre di più. Inoltre l'aria era divenuta torbida e quasi appannata dall'esalazione vecchia del liquido versato.
Acceso e furibondo mi precipitai dinanzi allo specchio e cercai di vedere faticosamente attraverso la maschera il lavorio delle mie mani. Ma egli aveva atteso solo questo. Era venuto per lui il momento di ripagarmi. Mentre mi affannavo, in oppressione a dismisura crescente, a cacciarmi fuori in qualche modo dal travestimento, mi costrinse, non so con che cosa, ad alzare gli occhi e mi dettò un'immagine, no, una realtà, una estranea, inconcepibile, mostruosa realtà di cui fui pervaso contro la mia volontà: poiché ora era lui il più forte, e lo specchio ero io. Fissavo quel grande, terribile sconosciuto dinanzi a me, e mi pareva mostruoso essere solo con lui. Ma nell'istante stesso in cui pensavo ciò, giunse l'estremo: persi conoscenza, semplicemente mancai. Per un secondo ebbi un indescrivibile, doloroso e vano desiderio di me, poi fu soltanto più lui: non ci fu nulla fuori di lui.
Corsi fuori, ma ora era lui che correva. Inciampava dappertutto, non conosceva la casa, non sapeva dove andare; scese una scala, nel corridoio piombò addosso a una persona che si liberò gridando. Si aprì una porta, uscì gente: oh, oh com'era bello conoscerla! Era Sieversen, la buona Sieversen, e la cameriera e l'uomo dell'argenteria: ora tutto si sarebbe risolto. Ma non accorsero e salvarono; la loro crudeltà fu senza limiti. Rimanevano là e ridevano, mio Dio, erano capaci di rimanere là e ridere. Piangevo, ma la maschera non lasciava uscire le lacrime, scorrevano dentro sul mio viso e si asciugavano subito e di nuovo scorrevano e si asciugavano. E infine mi inginocchiai dinanzi a loro, come mai s'è inginocchiato un uomo; mi inginocchiai e levai a loro le mani e implorai: «Tiratemi fuori, se ancora si può, e tenetemi voi,» ma loro non udirono; non avevo più voce.
Sieversen raccontava fino ai suoi ultimi giorni come fossi caduto a terra e come loro avessero continuato a ridere, credendo che rientrasse nel gioco. C'erano abituati, con me. E come, però, io fossi poi rimasto per terra e non avessi risposto. E lo spavento, quando finalmente scoprirono che ero privo di sensi e giacevo là come un pezzo fra tutti quei panni, proprio come un pezzo.
Il tempo passava con rapidità incalcolabile, e d'un tratto era già di nuovo il giorno in cui si doveva invitare il pastore dottor Jespersen. Era per noi e per lui una penosa e interminabile colazione. Abituato ai vicini piissimi che ogni volta annullavano se stessi per riguardo a lui, egli fra noi non era assolutamente al suo posto; era per così dire finito sulla terra ferma e boccheggiava. La respirazione branchiale che aveva sviluppato in sé, ora gli riusciva faticosa, si formavano bolle e tutto ciò non era privo di pericolo. Materia di conversazione, a dire il vero, non ce n'era quasi; le rimanenze venivano vendute a prezzi incredibili, era una liquidazione generale. Il dottor Jespersen, da noi, doveva limitarsi a essere una sorta di privato; proprio quello che non era mai stato. Fin là dove arrivava con la memoria, era stato sempre un funzionario del settore anima. L'anima era per lui un'istituzione pubblica, che egli rappresentava, e riusciva a non essere mai fuori servizio, neppure nei rapporti con sua moglie, «la sua modesta e fedele Rebecca, santificata dai parti», come in un altro caso si espresse Lavater.
(Quanto a mio padre, il suo atteggiamento di fronte a Dio era perfettamente corretto e di impeccabile cortesia. In chiesa mi sembrava talvolta che fosse un capocaccia al servizio di Dio, quando stava ritto e aspettava e si inchinava. Maman invece trovava quasi offensivo che qualcuno potesse essere in rapporti di cortesia con Dio. Se fosse capitata in una religione dalle usanze esteriori e particolareggiate, sarebbe stata per lei una beatitudine rimanere inginocchiata per ore e gettarsi a terra e farsi grandi segni di croce dal petto alle spalle. Non mi insegnò propriamente a pregare, ma si sentiva rassicurata sapendo che mi inginocchiavo volentieri e giungevo le mani, ora intrecciando le dita, ora palma contro palma, a seconda che mi sembrasse più espressivo. Lasciato abbastanza in pace, attraversai precocemente una serie di esperienze che solo molto più tardi, in un periodo di disperazione, riferii a Dio, e con tale violenza che esso si formò e scoppiò quasi nel medesimo istante. È chiaro che dovetti ricominciare dall'inizio. E all'inizio, appunto, pensai talvolta di avere bisogno di Maman, sebbene naturalmente fosse più giusto venirne a capo da solo. E d'altronde ella era già morta da tempo.)
Di fronte al dottor Jespersen, Maman poteva essere quasi sgarbata. Cominciava con lui una conversazione, che quegli prendeva sul serio, e poi, quando il pastore si ascoltava parlare, lei giudicava che bastasse così, e lo dimenticava d'improvviso, come se se ne fosse andato. «Ma come può,» diceva talvolta di lui, «andare e venire fra la gente che sta per morire?»
Venne anche da lei in quell'occasione, ma certamente ella non lo vide più. I sensi l'abbandonarono uno dopo l'altro, per prima la vista. Era d'autunno, dovevamo già rientrare in città, ma allora lei si ammalò, o piuttosto cominciò subito a morire, a morire lentamente e desolatamente su tutta la superficie. Vennero i medici, e un certo giorno si ritrovarono tutti insieme e signoreggiarono sulla casa intera. Per un paio d'ore fu come se appartenesse al Consigliere Segreto e ai suoi assistenti e noi non avessimo più nulla da dire. Ma subito dopo persero ogni interesse, vennero solo più uno alla volta, come per pura cortesia, per accettare un sigaro e un bicchiere di porto. E Maman intanto moriva.
Si aspettava solo più l'unico fratello di Maman, il conte Christian Brahe, che, come ancora si ricorda, era stato per un certo tempo al servizio della Turchia, ove, come si diceva sempre, aveva ottenuto molti riconoscimenti. Giunse un mattino in compagnia di un servitore straniero, e rimasi sorpreso nel vedere che era più alto di mio padre e all'apparenza anche più vecchio. I due uomini si scambiarono subito alcune parole che, come sospettai, si riferivano a Maman. Ci fu una pausa. Poi mio padre disse: «È molto sfigurata.» Non capii questa espressione, ma rabbrividii nell'udirla. Ebbi l'impressione che anche mio padre avesse dovuto fare uno sforzo per pronunciarla. Ma era soprattutto il suo orgoglio che soffriva ad ammetterlo.
Solo molti anni dopo sentii di nuovo parlare del conte Christian. Fu a Urnekloster, ed era Mathilde Brahe che amava raccontare di lui. Sono certo però che presentava i singoli episodi abbastanza a modo suo, poiché la vita dello zio, di cui alla gente e anche alla famiglia giungevano sempre solo delle voci, voci che egli non smentiva mai, si poteva interpretare in infiniti modi. Urnekloster è ora in suo possesso. Ma nessuno sa se vi abiti. Forse continua a viaggiare, com'era sua abitudine; forse la notizia della sua morte è per via da qualche remotissima parte della terra, scritta di pugno del servitore straniero in cattivo inglese o in qualche lingua sconosciuta. Forse quell'uomo non darebbe segno di sé, dovesse mai sopravvivergli. Forse ambedue sono da lungo tempo scomparsi e si trovano soltanto più sulla lista dei passeggeri di una nave dispersa, sotto nomi che non erano i loro.
Certo, ogni volta che una carrozza entrava a Urnekloster, mi aspettavo sempre di vedere giungere lui, e mi batteva il cuore in modo strano. Mathilde Brahe sosteneva: egli arrivava così, era la sua particolarità capitare d'improvviso, quando meno lo si credeva possibile. Non arrivò mai, ma la mia immaginazione si occupò di lui per settimane, avevo la sensazione che fossimo tenuti ad avere un rapporto, noi due, e volentieri avrei appreso qualcosa di vero su di lui.
Tuttavia, quando poco dopo il mio interesse cambiò e, in seguito a certi avvenimenti, si fissò completamente su Christine Brahe, stranamente non mi sforzai di conoscere qualcosa della vita di lei. Mi preoccupava invece di sapere se nella galleria ci fosse il suo ritratto. E il desiderio di accertarmene crebbe così esclusivo e tormentoso che per più notti non dormii, finché, completamente inaspettata, giunse quella in cui io, Dio sa perché, mi alzai e salii con il mio lume, che sembrava avere paura.
Quanto a me, non pensavo alla paura. Non pensavo a nulla; andavo. Le alte porte cedevano con la massima facilità davanti e sopra di me, le stanze che attraversavo stavano quiete. E infine, dalla profondità che mi alitò contro, capii d'essere entrato nella galleria. Sentivo a destra le finestre con la notte, e a sinistra dovevano essere i ritratti. Sollevai il lume più alto che potei. Sì: c'erano ritratti.
Dapprima mi proposi di guardare soltanto le donne, ma poi ne riconobbi uno e un altro che pendevano uguali a Ulsgaard, e quando li illuminavo dal basso si agitavano e volevano giungere alla luce, e mi parve senza cuore non aspettare almeno che ci riuscissero. Ritornava di continuo Cristiano IV con la bella cadenette intrecciata a lato della guancia larga, pigramente arcuata. C'erano probabilmente le sue mogli, delle quali conoscevo solo Kirstine Munk; e d'un tratto mi guardò Ellen Marsvin, sospettosa nell'abito vedovile e con il solito filo di perle sulla tesa dell'alto cappello. C'erano i figli di re Cristiano: sempre freschi da nuove donne, la «incomparabile» Eleonore su una chinea bianca, al tempo del suo splendore, prima della sventura. I Gyldenlöve: Hans Ulrik, di cui in Spagna le donne dicevano che si dipingeva il volto, tanto era pieno di sangue, e Ulrik Christian, che non si dimenticava più. E quasi tutti gli Ulfeld. E quello, con un occhio coperto di nero, poteva ben essere Henrik Holck, che fu a trentatré anni conte dell'impero e feldmaresciallo, e andò così: mentre era in viaggio verso la damigella Hilleborg Krafse, sognò che invece della fidanzata gli avrebbero dato una spada nuda: prese a cuore il sogno e voltò il cammino e cominciò la sua vita breve e temeraria che finì con la peste. Li conoscevo tutti. A Ulsgaard avevamo anche i delegati del congresso di Nimega, che un poco si assomigliavano tutti perché erano stati dipinti in una volta sola, ognuno con i baffi sottili e spuntati, quasi sopracciglia sulla bocca sensuale che vi guardava. Riconoscevo quindi il duca Ulrich e Otte Brahe e Claus Daa e Sten Rosensparre, l'ultimo della sua stirpe; poiché di tutti loro avevo visto ritratti nella sala di Ulsgaard, o in antiche cartelle avevo trovato incisioni che li raffiguravano.
Ma ce n'erano anche molti che non avevo mai visto; poche donne, ma c'erano bambini. Il mio braccio da tempo era stanco e tremava, ma tornavo sempre a sollevare il lume per vedere i bambini. Io le capivo, quelle bimbe che tenevano sulla mano un uccello e lo dimenticavano. A volte un cagnolino sedeva ai loro piedi, c'era una palla per terra, e sul tavolino lì presso frutti e fiori; e dietro pendeva dalla colonna, piccolo e provvisorio, il blasone dei Grubbe o dei Bille o dei Rosenkrantz. Tante cose avevano raccolto intorno a loro, come se si dovesse riparare una quantità di torti. Ma loro stavano semplicemente ritte là nei loro abiti e aspettavano; si vedeva che aspettavano. E dovetti ripensare alle donne e a Christine Brahe, e se l'avrei riconosciuta.
Volevo correre in fretta fino al fondo e di là tornare indietro e cercare, ma allora urtai in qualcosa. Mi voltai cosi bruscamente che il piccolo Erik balzò indietro e sussurrò: «Attento al lume!»
«Tu qui?» chiesi senza fiato, e non mi era chiaro se fosse un bene o molto male. Rise soltanto, e non seppi che altro dire. Il mio lume vacillava, e non potevo vedere bene l'espressione del suo volto. Era male che fosse là. Accostandosi di più disse: «Il suo ritratto non è qui, lo stiamo cercando di sopra.» A mezza voce e con il suo unico occhio vivo pareva accennare in alto. E capii che alludeva al solaio. Ma d'un tratto mi venne un pensiero strano.
«Noi?» chiesi, «allora lei è di sopra?»
«Sì,» annuì e stette aderente a me.
«Anche lei cerca?»
«Sì, cerchiamo.»
«L'hanno dunque portato via, il ritratto?»
«Sì, pensa,» disse indignato. Ma io non capivo bene che cosa lei volesse farne.
«Vuole vedersi,» sussurrò vicinissimo.
«Ah!» feci come se avessi capito. Allora egli soffiò sul lume. Lo vidi sporgersi in avanti, dentro il chiarore, con le sopracciglia molto alzate. Poi fu buio. Senza volere indietreggiai.
«Ma cosa fai?» esclamai soffocato e avevo la gola secca. Con un salto mi fu addosso e si appese al mio braccio e ridacchiò.
«Allora?» lo incalzai, e volli scuoterlo da me, ma lui rimase attaccato. Non potei impedire che mi passasse un braccio intorno al collo.
«Devo dirlo?» sibilò, e un po' di saliva mi spruzzò sull'orecchio.
«Sì, sì, presto.»
Non sapevo cosa dicessi. Ora mi abbracciava e si tendeva tutto.
«Le ho portato uno specchio,» disse e di nuovo ridacchiò.
«Uno specchio?»
«Sì, perché il ritratto non è qui.»
«No, no,» feci.
D' improvviso mi trasse un po' più in là verso la finestra e mi pizzicò l'avambraccio così forte che gridai.
«Lei non è dentro,» mi soffiò nell'orecchio.
Involontariamente lo spinsi via da me, in lui qualcosa scricchiolò, mi sembrò come se l'avessi rotto.
«Va, va,» e adesso ero io a ridere, «non è dentro? come, non è dentro?»
«Sei stupido,» replicò irritato e smise di sussurrare.
La sua voce era mutata di colpo, come se ora egli cominciasse un pezzo nuovo, mai usato ancora. «O si è dentro,» dettò sentenzioso e severo, «e allora non si è qui; o, se si è qui, non si può essere dentro.»
«Certo,» risposi subito, senza riflettere. Avevo paura che altrimenti potesse andarsene e lasciarmi solo. Stesi perfino la mano verso di lui.
«Vogliamo essere amici?» proposi. Si lasciò pregare. «Per me...» disse arrogante.
Tentavo di cominciare la nostra amicizia, ma non osai abbracciarlo. «Caro Erik,» mi uscì di bocca soltanto e lo sfiorai appena, non so dove. Ero d'improvviso stanchissimo. Mi guardai intorno; non capivo più come fossi arrivato fin là e non avessi avuto paura. Non sapevo bene dove fossero le finestre e dove i ritratti. E quando ci avviammo dovette guidarmi. «Non ti fanno niente», mi assicurò magnanimo e ridacchiò di nuovo.
Caro, caro Erik; eppure tu sei stato forse il mio unico amico. Perché non ne ho mai avuto uno. Peccato che tu non dessi importanza alcuna all'amicizia. Avrei voluto raccontarti tante cose. Forse saremmo andati d'accordo. Non si può sapere. Mi ricordo che a quel tempo ti dipingevano il ritratto. Il nonno aveva fatto venire qualcuno a dipingerti. Ogni mattino un'ora. Non riesco a farmi venire in mente l'aspetto del pittore, mi è sfuggito il suo nome, sebbene Mathilde Brahe lo ripetesse ogni momento.
Ti ha visto come io ti vedo? Tu portavi un abito di velluto color eliotropio. Mathilde Brahe andava in estasi per quell'abito. Ma questo è ora indifferente. Vorrei sapere solo se egli ti ha visto. Supponiamo che fosse un vero pittore. Supponiamo che non pensasse che tu potevi morire prima che avesse finito; che non guardasse la cosa dal lato sentimentale; che semplicemente lavorasse. Che la dissimiglianza dei tuoi occhi bruni lo seducesse; che neppure per un momento si vergognasse del tuo occhio immobile; che avesse il tatto di non mettere nulla sul tavolino vicino alla tua mano, che forse vi si appoggiava un poco. Supponiamo quant'altro è ancora necessario e diamolo per buono: ecco allora un ritratto, il tuo ritratto, nella galleria di Urnekloster l'ultimo.
(E quando uno se ne va, e li ha visti tutti, ecco ancora un ragazzo. Un momento: chi è? Un Brahe. Vedi il palo d'argento in campo nero e le penne di pavone? C'è anche il nome: Erik Brahe. Non era un Erik Brahe, che fu giustiziato? Certo, è risaputo. Ma non può trattarsi di lui. Questo ragazzo è morto da ragazzo, non importa quando. Non lo vedi?)
Quando c'erano visite ed Erik veniva chiamato, ogni volta la signorina Mathilde Brahe assicurava che era quasi incredibile quanto egli assomigliasse alla vecchia contessa Brahe, mia nonna. Deve essere stata una gran dama. Io non l'ho conosciuta. Mi ricordo benissimo, invece, la madre di mio padre, la vera signora di Ulsgaard. Lo era sempre rimasta, sebbene anche non perdonasse a Maman d'essere entrata in casa come sposa del capocaccia. Da allora si era sempre comportata come se si fosse ritirata, e per ogni piccolezza mandava la servitù a chiedere a Maman, mentre negli affari importanti decideva tranquillamente lei e disponeva, senza rendere conto ad alcuno. Maman, credo, non desiderava altro. Era pochissimo fatta per sorvegliare una grande casa, le mancava completamente la capacità di suddividere le cose fra secondarie e importanti. Ogni cosa di cui le si parlava le sembrava sempre essere tutto, e così dimenticava il resto, che pure anche c'era. Non si lamentò mai della suocera. E con chi si sarebbe potuta lamentare, del resto? Mio padre era un figlio estremamente rispettoso, e il nonno aveva poco da dire.
La signora Margharete Brahe era sempre stata, per quanto posso ricordare, una vecchia alta e inaccessibile. Non posso far a meno di immaginare che fosse molto più vecchia del ciambellano. Viveva in mezzo a noi la sua vita, senza tener conto di alcuno. Non abbisognava di nessuno di noi e aveva sempre intorno una specie di dama di compagnia, una certa contessa Oxe, non più giovane, che le era infinitamente obbligata per non so qual beneficio. Doveva essere stata un'eccezione unica, poiché beneficare non rientrava nella sua indole. Non amava i bambini, e gli animali non le si potevano avvicinare. Non so se amasse qualcos'altro. Si raccontava che, giovanissima, fosse stata fidanzata al bel Felix Lichnowski, il quale poi morì atrocemente a Francoforte. E di fatti, dopo la morte di lei, ci fu un ritratto del principe che, se non sbaglio, venne restituito alla famiglia. Forse, io penso adesso, nella vita ritirata di campagna, come di anno in anno era sempre più divenuta la vita a Ulsgaard, ella aveva lasciato sfuggire un'esistenza diversa, brillante: a lei naturale. È difficile dire se la rimpiangesse. Forse la disprezzava perché non era venuta, perché aveva mancato l'occasione d'essere vissuta con abilità e talento. Aveva spinto tutto ciò profondamente dentro di sé e vi aveva posto sopra dei gusci, molti gusci, duri e non lavorabili, dallo splendore un po' metallico, il primo dei quali appariva ogni volta intatto e fresco. Talvolta però si tradiva con l'ingenua impazienza per non essere abbastanza considerata; ai miei tempi poteva a tavola farsi andare di traverso un boccone in modo palese e complicato, che le assicurava la partecipazione di tutti e, almeno per un momento, la faceva apparire sensazionale ed emozionante come avrebbe voluto essere in grande. Credo però che mio padre fosse l'unico a prendere sul serio quei casi un po' troppo frequenti. Egli la guardava, cortesemente chinato in avanti, si poteva vedere che in pensiero le offriva per così dire la propria trachea in ordine, e gliela metteva a completa disposizione. Il ciambellano naturalmente aveva anche lui smesso di mangiare; prendeva un piccolo sorso di vino e si asteneva da ogni commento. Una sola volta, a tavola, egli aveva sostenuto la sua opinione contro quella della moglie. Era accaduto molto tempo addietro; ma la storia continuava ad essere ripetuta maliziosamente, in segreto; c'era sempre qualcuno che non l'aveva ancora udita. Si diceva che la ciambellana, in un certo periodo, si sdegnasse molto delle macchie di vino che potevano capitare sulla tovaglia per un gesto maldestro; che una di quelle macchie, quale ne fosse la causa, non le sfuggiva mai e veniva denunciata con il più violento biasimo. Ciò era accaduto anche una volta in cui si avevano ospiti numerosi e di riguardo. Un paio di macchie innocenti, di cui lei esagerò l'importanza, divennero oggetto delle sue accuse sarcastiche, e per quanto il nonno si adoperasse ad ammonirla con piccoli cenni e richiami scherzosi, ella persisteva ostinata nei rimproveri, che però dovette poi interrompere a metà di una frase. Accadde infatti qualcosa di inusitato e assolutamente incomprensibile. Il ciambellano s'era fatto dare il vino rosso che appunto era stato servito in giro, e ora si stava riempiendo il bicchiere con la massima attenzione. Solo che, stranamente, non cessò di mescere quando il bicchiere era già pieno da un po', bensì nel silenzio crescente continuò a versare, lento, con cura, finché Maman che non riusciva mai a trattenersi scoppiò in una risata, risolvendo l'incidente in scherzo. Tutti infatti, sollevati, le fecero eco, e il ciambellano alzò gli occhi e rese la bottiglia al servitore.
Più tardi un'altra singolarità si impadronì della nonna. Non poteva sopportare che qualcuno in casa fosse malato. Una volta che la cuoca si era ferita ed ella per caso la vide con la mano fasciata, sostenne che tutta la casa puzzava di iodoformio, e fu difficile persuaderla che per questo non si poteva licenziare la donna. Non voleva che nulla le ricordasse l'esser malati. Se qualcuno commetteva l'imprudenza di accennare dinanzi a lei a qualche piccolo malessere, la prendeva come un'offesa personale, di cui serbava a lungo rancore.
L'autunno in cui Maman morì, la ciambellana si chiuse nelle sue stanze con Sophie Oxe e troncò ogni rapporto con noi. Neppure suo figlio veniva ricevuto. È vero che quella morte era giunta del tutto inopportuna. Le stanze erano fredde, le stufe fumavano, e i topi erano penetrati in casa; non c'era luogo dove si fosse al sicuro da loro. Ma non era solo questo, la signora Margharete Brigge era indignata perché Maman moriva; perché all'ordine del giorno stava una cosa di cui lei si rifiutava di parlare; perché la giovane s'era arrogata la precedenza su di lei, che pensava sì di morire, ma solo a una data ancora da stabilire. Poiché ella pensava spesso che sarebbe dovuta morire. Ma non voleva che le si facesse fretta. Sarebbe morta, certo, quando le fosse parso opportuno, e poi che morissero pure tutti, dopo, se ne avevano tanta fretta.
Non ci perdonò mai del tutto la morte di Maman. D'altronde invecchiò rapidamente durante l'inverno successivo. Nell'incedere era ancor sempre alta, ma, sprofondando nella poltrona, rimpiccioliva, e diveniva dura d'orecchio. Si poteva sedere e fissarla con gli occhi spalancati, per ore, lei non se ne accorgeva. Era dentro, non so dove; solo di rado e solo per istanti rientrava nei suoi sensi che erano vuoti, che non abitava più. Diceva qualcosa alla contessa, che le aggiustava la mantiglia, e con le grandi mani appena lavate si stringeva addosso la veste, come se ci fosse dell'acqua versata o come se noi non fossimo abbastanza puliti.
Morì verso la primavera, in città, di notte. Sophie Oxe, che teneva la porta aperta, non aveva udito nulla. Quando al mattino la trovarono era fredda come vetro.
Subito dopo cominciò la grande e terribile malattia del ciambellano. Era come se avesse aspettato la fine di lei per poter morire senza riguardi, come doveva.
Fu l'anno dopo la morte di Maman che mi accorsi per la prima volta di Abelone. Abelone c'era sempre. Questo era il suo grande svantaggio. E poi Abelone era antipatica, questo l'avevo stabilito una volta, molto tempo prima, non so in quale occasione, e non avevo mai riveduto seriamente quell'opinione. Chiedermi quale fosse la ragione della presenza di Abelone, fino allora mi sarebbe sembrato quasi ridicolo. Abelone era lì e la si adoperava per quanto era possibile. Ma d'un tratto mi chiesi: Perché Abelone e qui? Da noi ciascuno aveva una precisa ragione di esserci, anche se non sempre così evidente come, per esempio, l'uso che si faceva della signorina Oxe. Ma perché Abelone era lì? S'era detto per un certo tempo che doveva distrarsi. Ma questo cadde in oblio. Nessuno contribuiva in qualche modo a distrarre Abelone. Non sembrava affatto che ella si distraesse.
Del resto Abelone aveva un pregio: cantava. Cioè, c'erano periodi in cui cantava. In lei c'era una musica forte, irremovibile. Se è vero che gli angeli sono maschi, si può dire che nella sua voce ci fosse qualcosa di maschile: una raggiante, celeste virilità. Io, che già da bambino ero così diffidente verso la musica (non perché, più forte di tutto, mi levava via da me, bensì perché mi ero accorto che poi non tornava a depormi dove mi aveva trovato, ma più nel profondo, in qualche luogo dentro il non ancora maturo), sopportavo quella musica, sulla quale si poteva salire diritti, più in alto e più in alto, finché si capiva che, da qualche istante, quello poteva forse già essere il cielo. Non sospettavo che Abelone mi avrebbe anche aperto altri cieli.
Dapprima il nostro rapporto consistette in questo: che lei mi raccontava della fanciullezza di Maman. Teneva molto a convincermi di quanto Maman fosse stata coraggiosa e giovane. A quel tempo, mi assicurava, non c'era nessuno che potesse competere con lei nel danzare o nel cavalcare. «Era la più ardita e infaticabile, e poi d'improvviso si sposò,» diceva Abelone, ancor sempre stupita dopo tanti anni. «Fu così inaspettato, nessuno riuscì bene a capire.»
Volevo sapere perché Abelone non si fosse sposata. A me, in un certo senso, sembrava vecchia, e non pensavo che potesse ancora sposarsi.
«Non c'era nessuno,» rispose semplicemente, e in questo divenne bellissima. È bella Abelone? mi chiesi sorpreso. Poi lasciai la casa per l'Accademia dei Nobili, e cominciò un periodo odioso e maligno. Ma quando io, là a Sorö, appartato dagli altri, stavo alla finestra, e mi lasciavano un po' in pace, guardavo fuori gli alberi e in tali istanti e di notte crebbe in me la certezza che Abelone era bella. E cominciai a scriverle tutte quelle lettere, lunghe e brevi, molte lettere segrete, in cui pensavo di parlare di Ulsgaard e del fatto che ero infelice. Ma, lo so oggi, saranno state lettere d'amore. Perché finalmente giunsero le vacanze; che sembravano non voler giungere mai, e allora fu come per un'intesa che non ci rivedemmo dinanzi agli altri.
Proprio nulla era convenuto fra noi, ma quando la carrozza svoltò nel parco non potei far a meno di scendere, forse soltanto perché non volevo arrivare in carrozza come un estraneo qualsiasi. Era già piena estate. Mi addentrai correndo per uno dei sentieri, fino a un citiso. E Abelone era là. Bella, bella Abelone.
Non dimenticherò mai come fu quando mi guardasti. Come portavi il tuo sguardo, trattenendolo come qualcosa di instabile sul volto piegato indietro.
Oh, il clima non è forse cambiato? Non è divenuto più mite intorno a Ulsgaard per tutto il nostro ardore? Rose non fioriscono più a lungo, ora, nel parco, fino a dicembre inoltrato?
Non voglio raccontare nulla di te, Abelone. Non perché ci ingannammo l'un l'altra: perché tu amavi uno, anche allora, che non hai mai dimenticato, tu amante, e io: tutte le donne; ma perché con le parole si sbaglia soltanto.
Qui ci sono arazzi, Abelone. Mi figuro che tu sia qui, sono sei arazzi, vieni, passiamoci davanti lentamente. Ma prima fa qualche passo indietro e guardali tutti insieme. Come sono quieti, vero? Dentro, c'è poco mutamento. Sempre questa ovale isola azzurra, librata sul fondo di un rosso discreto che è fiorito e popolato di piccoli animali, occupati ciascuno per proprio conto. Solo là, nell'ultimo arazzo, l'isola si solleva un poco, come se fosse divenuta più leggera. Reca sempre una figura, una donna in vesti diverse, ma sempre la stessa. A volte di fianco a lei c'è una figura più piccola, un'ancella, e ci sono sempre gli animali portatori di stemmi, grandi, sull'isola, partecipi dell'azione. A sinistra un leone, e a destra, chiaro, l'unicorno; reggono gli uguali vessilli che, in alto sopra di loro, mostrano: tre lune d'argento, ascendenti, in banda azzurra su campo rosso. Hai visto, vuoi cominciare dal primo?
Ella dà l'imbeccata al falco. Che splendido abito! L'uccello è sulla mano guantata e si muove. Lei lo guarda, attingendo nella coppa che l'ancella le porge, per offrirgli qualcosa. In basso a destra sullo strascico sta un cagnolino dal pelo di seta, che guarda su e spera che ci si ricorderà di lui. E, hai visto?, un basso graticcio di rose chiude sul fondo l'isola. Gli animali si drizzano con araldico orgoglio. Il blasone li cinge anche come gualdrappa. Un bel fermaglio la chiude. Svolazza.
Non ci si avvicina più leggeri, senza volere, all'arazzo seguente, appena si avverte quanto ella sia assorta? intreccia una ghirlanda, una piccola, rotonda corona di fiori. Pensierosa sceglie il colore di un altro garofano nel bacile piatto che regge l'ancella, mentre già ne infila uno. Dietro, su una panca, sta non usato un cesto pieno di rose, che una scimmia ha scoperto. Questa volta dovevano essere garofani. Il leone non partecipa più; ma a destra l'unicorno comprende.
Non doveva giungere la musica in questo silenzio? non vi era già contenuta? Pesantemente e tacitamente adorna, ella (con quanta lentezza, vero?) è andata all'organo portatile e suona, in piedi; le canne la separano dall'ancella, che dall'altra parte aziona i mantici. Così bella non era mai stata. Bizzarramente, i capelli sono raccolti davanti in due trecce e annodati al sommo del capo, così che con le estremità scappano fuori dal nodo come un corto pennacchio. Scordato, il leone sopporta malvolentieri le note, reprimendo il ruggito. Ma l'unicorno è bello, come mosso da onde.
L'isola si amplia. Vi è eretta una tenda. Di damasco azzurro e fiammato d'oro. Gli animali la schiudono di colpo, e semplice quasi, nella sua veste principesca, ella si avanza. Perché cosa sono le sue perle al confronto di lei? L'ancella ha aperto un cofanetto, e ora trae fuori una catena, un pesante meraviglioso monile che fu sempre chiuso. Il cagnolino le siede accanto, un po' in alto, nel posto preparato per lui, e la guarda. E hai scoperto il motto lungo l'orlo della tenda, in alto? La è scritto: «A mon seul désir.»
Cos'è accaduto ? perché il coniglietto salta là sotto ? perché subito si vede che salta? Tutto è così confuso. Il leone non ha nulla da fare. Ella stessa regge il vessillo. O vi si aggrappa? Con l'altra mano ha afferrato il corno dell'unicorno. È il lutto? può il lutto reggersi in piedi così e una veste di lutto essere discreta come questo velluto nero verdastro, appassito qua e là?
Ma viene ancora una festa, nessuno vi è invitato. L'attesa vi manca. C'è tutto. Tutto per sempre. Il leone si guarda intorno quasi minaccioso: nessuno deve venire. Ancora non l'abbiamo mai vista stanca; è stanca? o si è seduta soltanto perché regge qualcosa di pesante? Un ostensorio, si potrebbe credere. Ma ella piega l'altro braccio verso l'unicorno, e l'animale si impenna lusingato e sale e s'appoggia sul suo grembo. È uno specchio che ella regge. Vedi: mostra all'unicorno la sua immagine.
Abelone, mi figuro che tu sia qui. Capisci, Abelone? Credo che tu capisca.
PARTE SECONDA
Ora, anche gli arazzi della Dame à la Licorne non sono più nell'antico castello di Boussac. È venuto il tempo in cui tutto se ne va dalle case, non possono conservare più nulla. Il pericolo è diventato più sicuro della sicurezza. Nessuno della stirpe dei Delle Viste vi cammina a fianco e ha quella stirpe nel sangue. Sono tutti scomparsi. Nessuno pronuncia il tuo nome, Pierre d'Aubusson, grande Gran Maestro dal casato antichissimo, per volontà del quale furono forse tessute queste immagini che tutto pregiano e nulla danno in prezzo. (Oh, perché i poeti hanno scritto sulle donne ciascuno in modo diverso, ciascuno - credeva - più alla lettera? È certo che non avremmo dovuto conoscere altro che queste immagini.) Ora vi si arriva davanti per caso fra gente casuale e quasi si ha paura di non essere invitati. Ma ci sono anche altri e passano oltre, sebbene non siano mai molti. I giovani si soffermano appena, a meno che per i loro studi non debbano aver già visto una volta queste cose, questo o quel particolare.
A volte, bensì, vi si trovano davanti delle fanciulle. Poiché ci sono nei musei moltissime fanciulle, le quali hanno lasciato in qualche luogo le loro case che non conservano più nulla. Si trovano e si dimenticano un poco, dinanzi a questi arazzi. Hanno sempre sentito che questo dev'esserci stato, una vita lieve, di gesti lenti, mai del tutto chiariti, e ricordano oscuramente che per un certo tempo credettero perfino che sarebbe stata la loro vita. Ma poi tirano fuori in fretta un quaderno e cominciano a disegnare, una cosa qualsiasi, uno dei fiori o un piccolo animale soddisfatto. Non importa, è stato detto loro, che cosa sia in particolare. E in realtà non importa. Solo disegnare è l'essenziale; poiché per questo, un giorno, lasciarono la loro casa, quasi di violenza. Sono di buona famiglia. Ma se ora nel disegnare sollevano le braccia, si vede che il loro vestito non è abbottonato dietro, o almeno non lo è del tutto. Resta qualche bottone che non si può raggiungere. Perché quando fu fatto questo vestito non s'era ancora parlato del loro andarsene improvviso, da sole. In famiglia c'è sempre qualcuno per quei bottoni. Ma qui, buon Dio, chi potrebbe occuparsene in una città così grande? Si dovrebbe almeno avere un'amica; ma le amiche sono nella stessa situazione, e allora si finirebbe per abbottonarsi a vicenda i vestiti. Questo è ridicolo e ricorda la famiglia, che non si vuole ricordare.
È bensì inevitabile che a volte, mentre disegnano, riflettano se non sarebbe stato possibile rimanere. Se non sarebbero potute essere devote, coraggiosamente devote, al ritmo con gli altri. Ma sembrava così assurdo tentare ciò tutti insieme. La strada, chissà come, è divenuta più stretta: le famiglie non possono più raggiungere Dio. Restavano dunque soltanto varie altre cose che, all'occorrenza, si potevano spartire. Ma, se si spartiva onestamente, al singolo veniva così poco che era una vergogna. E se si frodava sulle parti, nascevano dispute. No, realmente è meglio disegnare, non importa cosa. Con il tempo, la somiglianza verrà da sé. E l'arte, se la si acquista così a poco a poco, è pur sempre qualcosa di molto invidiabile.
E nell'occupazione forzata con ciò che si sono prefisse, queste fanciulle non pensano neppure più ad alzare gli occhi. Non si accorgono che con tutto il loro disegnare non fanno altro che soffocare dentro di sé la vita immutabile che da quelle immagini tessute si spalanca raggiante dinanzi a loro nella sua infinita indicibilità. Non vogliono crederci. Ora che tante altre cose cambiano, vogliono anche loro cambiare. Sono vicinissime a concedersi e a pensare di sé così come gli uomini parlano di loro quando loro non ci sono. Questo sembra loro un progresso. Sono già quasi convinte che si cerchi un godimento e poi un altro più forte e un altro ancora: che in ciò consista la vita, se non la si vuole perdere da sciocchi. Hanno già cominciato a guardarsi intorno, a cercare; esse, la cui forza consistette sempre nel venire trovate.
Questo accade, io credo, perché sono stanche. Per secoli hanno eseguito loro tutto l'amore, hanno sempre recitato l'intero dialogo, le due parti insieme. L'uomo ha solo ripetuto e male. E ha reso loro difficile imparare la parte con la sua distrazione, con la sua negligenza, con la sua gelosia che era essa pure una forma di negligenza. E ciò nonostante esse hanno perseverato giorno e notte e sono cresciute in amore e miseria. E da loro, sotto la pressione di infinite pene, sono uscite le amanti colme di forza che, mentre invocavano l'uomo, lo superavano; che crescevano oltre lui quando non tornava, come Gaspara Stampa o come la Portoghese, che non desistevano fino a quando il loro tormento si convertiva in uno splendore duro e gelido, non più sopportabile. Sappiamo di questa e di quella poiché ci sono lettere, conservate quasi per miracolo, o libri di poesie che accusano o lamentano, o ritratti che in una galleria ci guardano attraverso un pianto, riuscito al pittore poiché non sapeva che cosa fosse. Ma ce ne sono state infinitamente di più; quelle che hanno bruciato le loro lettere, e altre che non avevano più la forza di scriverle. Vecchie, che erano indurite con un nocciolo di squisitezza di sé, che nascosero. Donne divenute informi e grasse, che ingrossate per esaurimento, si lasciavano diventar simili ai loro mariti e tuttavia erano tanto diverse all'interno, là dove aveva operato il loro amore, nel buio. Partorienti che non volevano mai partorire, e quando morivano all'ottavo parto avevano i gesti e la leggerezza di fanciulle felici di accostarsi all'amore. E quelle che rimasero accanto a violenti e ubriaconi, poiché avevano trovato il modo di essere dentro di sé tanto lontane da essi quanto in nessun altro luogo; e quando andavano fra la gente non potevano nasconderlo e rilucevano come se avessero sempre a che fare coi santi. Chi può dire quante e quali furono. È come se avessero annientato in anticipo le parole con cui potremmo capirle.
Ma adesso che tante cose mutano, non tocca anche a noi mutarci? Non potremmo provare a evolverci un poco, e gradualmente ad assumerci la nostra parte di lavoro nell'amore? Ci sono state risparmiate tutte le sue fatiche, e ci è scivolato fra le distrazioni, come talvolta cade in un cassetto dei giocattoli un pezzo di autentica trina e piace e non piace più e infine giace fra quel che è rotto e quel che è smembrato, peggiore di tutto. Siamo guastati dal piacere facile come tutti i dilettanti e ci reputano in odore di maestria. Ma che accadrebbe se disprezzassimo i nostri successi, se cominciassimo dal principio a imparare il lavoro dell'amore, che è sempre stato fatto per noi? Se ci presentassimo per divenire apprendisti, ora che tante cose mutano?
Adesso so anche cosa accadeva quando Maman srotolava le piccole strisce di trine. Si era riservata per il suo uso uno soltanto dei cassetti del secrétaire di Ingeborg.
«Le guardiamo, Malte?» diceva e si rallegrava come se le avessero appena regalato tutto quanto si trovava nel cassettino laccato di giallo. E poi non riusciva quasi, per l'impazienza, a svilupparle dalla carta velina. Ogni volta dovevo farlo io. Ma anch'io divenivo eccitatissimo quando le trine apparivano. Erano avvolte intorno a un rocchetto di legno che sotto le trine non si riusciva a vedere. E adesso le svolgevamo lentamente e guardavamo i disegni che si succedevano, e trasalivamo un poco ogni volta che una finiva. Cessavano così d'improvviso.
Venivano dapprima bordure di lavoro italiano, pezzi tenaci a fili tirati, in cui tutto tornava sempre a ripetersi, come in un giardino di contadini. Poi, d'un tratto, una lunga fila di nostri sguardi era graticciata di trine veneziane ad ago, come se noi fossimo chiostri o prigioni. Ma tornavamo liberi, e si guardava lontano, in giardini sempre più artificiali, finché tutto era fitto e tiepido negli occhi come in una serra: piante sontuose che non conoscevamo spalancavano enormi foglie, viticci si sorreggevano l'un l'altro come colti dalla vertigine, e i grandi fiori aperti dei points d'Alençon annuvolavano tutto con il loro polline. Subito, stanchissimi e confusi, si usciva sulla lunga via dei Valenciennes, ed era inverno e mattina presto e brina. E ci si spingeva attraverso i cespugli innevati dei Binche e si giungeva in luoghi ove ancora nessuno era stato; i rami si piegavano all'ingiù in modo così strano, sotto ci poteva ben essere una tomba, ma noi ce lo nascondevamo a vicenda. Il freddo ci stringeva sempre più dappresso, e alla fine, quando giungevano le piccole, finissime trine al tombolo, Maman diceva: «Oh, adesso ci verranno i fiori di ghiaccio agli occhi,» ed era proprio così, perché faceva molto caldo in noi.
Al momento di riarrotolare sospiravamo ambedue, era un lavoro lungo, ma non volevamo lasciarlo a nessuno.
«Pensa solo, se avessimo dovuto farle noi,» diceva Maman e sembrava addirittura atterrita. Era una cosa che non riuscivo neppure a immaginare. Mi accorgevo d'aver pensato ad animaletti che filano sempre trine e che per questo si lasciano in pace. No, naturalmente erano donne.
«Certo sono andate in cielo quelle che le hanno fatte,» dissi pieno d'ammirazione. Ricordo che mi colpì di non aver chiesto del cielo da lungo tempo. Maman sospirò, le trine erano di nuovo arrotolate.
Dopo un momento, quando già avevo dimenticato le mie parole, disse molto lentamente: «In cielo? Io credo che siano tutte qui dentro. A guardare le trine così: potrebbe essere una beatitudine eterna. Ma ne sappiamo così poco.»
Spesso, quando c'erano visite, si diceva che gli Schulin si restringevano. Il grande, antico castello s'era incendiato un paio d'anni prima, e ora abitavano nelle due piccole ali laterali e si restringevano. Ma l'ospitalità gli restava sempre nel sangue. Non potevano rinunciarvi. Se qualcuno arrivava inaspettato da noi, veniva probabilmente dagli Schulin; e se qualcuno guardava d'improvviso l'orologio e si accomiatava spaventato, era certo atteso a Lystager.
Maman ormai non andava più in nessuno posto, ma questo gli Schulin non riuscivano a capirlo; non c'era niente da fare, almeno una volta bisognava recarsi da loro. Fu in dicembre dopo alcune nevicate precoci; la slitta era ordinata per le tre, dovevo andare anch'io. Ma da noi non si partiva mai puntuali. Maman, a cui non piaceva che la vettura le fosse annunciata, scendeva per lo più troppo in anticipo, e non trovando nessuno le veniva sempre in mente qualcosa che avrebbe già dovuto fare da tempo, e cominciava a cercare in quella stanza di sopra o a mettere in ordine, e non la si trovava più. Alla fine eravamo tutti là in piedi e aspettavamo. E quando finalmente s'era seduta e coperta, si scopriva che s'era dimenticato qualcosa, e bisognava andare a chiamare Sieversen; perché solo Sieversen sapeva dov'era. Ma poi si partiva d'improvviso, prima che Sieversen fosse tornata.
Quel giorno non s'era mai fatto del tutto chiaro. Gli alberi se ne stavano là, ritti, come se non sapessero avanzare nella nebbia, e avventurarsi là dentro era un po' voler avere ragione a tutti i costi. Intanto era ricominciato a nevicare quietamente, e fu come se le ultime tracce venissero erase e si procedesse in un foglio bianco. Non c'era altro che lo scampanellio, e non si sarebbe potuto dire donde venisse. Ci fu un momento in cui esso cessò, come se l'ultimo sonaglio fosse speso; ma poi si raccolse di nuovo e fu insieme e di nuovo si sparse senza economia. Il campanile a sinistra potevamo essercelo immaginato. Ma d'improvviso il contorno del parco fu là, alto, quasi sopra di noi, e ci trovammo nel lungo viale. Lo scampanellio ora non cadeva giù del tutto; era come se rimanesse appeso in grappoli agli alberi, a destra e a sinistra. Poi voltammo e girammo intorno a qualcosa e a destra dinanzi a qualcosa e ci fermammo nel mezzo.
Georg aveva completamente dimenticato che la casa non c'era più, e per noi tutti in quel momento essa fu là. Salimmo la scalinata esterna, che portava alla vecchia terrazza, e solo ci meravigliammo che fosse tutto buio. D'improvviso si aprì una porta, a sinistra sotto di noi, e qualcuno gridò: «Di qui!» e sollevò e agitò un lume fumoso. Mio padre rise: «Saliamo per di qui come fantasmi,» e ci aiutò a ridiscendere i gradini.
«Eppure un momento fa qui c'era una casa,» disse Maman e non riusciva ad abituarsi così in fretta a Wjera Schulin, che era corsa fuori calda e ridente. Ora naturalmente bisognava entrare subito, e alla casa non c'era più da pensare. Ci aiutarono a spogliarci in una stretta anticamera, e poi fummo subito dentro, fra le lampade e dinanzi al fuoco.
Questi Schulin erano una stirpe possente di donne autonome. Non so se ci fossero figli maschi. Ricordo solo tre sorelle; la maggiore, che aveva sposato un marchese di Napoli, dal quale ora lentamente divorziava fra una quantità di processi. Poi veniva Zoë, di cui si diceva che non ci fosse nulla che non sapesse. E soprattutto c'era Wjera, la calda Wjera; Dio sa che cosa è accaduto di lei. La contessa, una Narischkin, era propriamente la quarta sorella e in un certo senso la più giovane. Non sapeva nulla di nulla e doveva essere continuamente istruita dalle figlie. E il buon conte Schulin si sentiva quasi sposato con tutte quelle donne, e vi si aggirava in mezzo e le baciava come capitava.
Per intanto rise forte e ci salutò uno per uno. Io fui passato da una donna all'altra e palpato e interrogato. Ma avevo fermamente deciso di svignarmela in qualche modo, appena possibile, e di andare in cerca della casa. Sgattaiolare via non fu difficile; fra tutte quelle vesti ci si poteva infilare, bassi bassi, come un cane, e la porta sull'anticamera era ancora socchiusa. Ma fuori, quella esterna non voleva cedere. C'erano tanti congegni, catene e chiavistelli che nella fretta non riuscivo a manovrare nel modo giusto. D'improvviso la porta si aprì, ma con un gran rumore, e prima che fossi fuori venni trattenuto e tirato indietro.
«Alt, qui non si taglia la corda!» disse divertita Wjera Schulin. Si chinò su di me, e io ero deciso di non tradire nulla a quella calda persona. Ma lei, poiché non dicevo nulla, immaginò senz'altro che fossi stato spinto verso la porta dall'urgenza di un bisogno; mi prese per mano e già si avviava e mi voleva portare con sé in qualche posto, tra confidenziale e rigida. Questo malinteso intimo mi mortificò oltre misura. Mi liberai e la guardai arrabbiato. «Voglio vedere la casa,» dissi fiero. Non capì.
«La grande casa fuori, vicino alla scalinata.»
«Asino,» fece lei e cercò di riacchiapparmi, «là non c'è più nessuna casa.» Io mi ostinai.
«Ci andremo una volta, di giorno,» propose allora senza più negare, «adesso non ci si può cacciare là intorno. Ci sono delle buche e, proprio dietro, le peschiere di papà che non gelano. Ci cadi dentro e diventi un pesce.»
Intanto mi spinse dinanzi a sé, di nuovo nelle stanze illuminate. Sedevano là tutti e parlavano, e li guardai uno dopo l'altro: loro naturalmente ci vanno solo quando la casa non c'è, pensai con disprezzo; se Maman e io abitassimo qui, ci sarebbe sempre. Maman sembrava distratta, mentre gli altri parlavano tutti insieme. Pensava certo alla casa.
Zoë si sedette vicino a me e mi fece delle domande. Aveva un viso bene ordinato, in cui la visione si rinnovava di tanto in tanto, come se lei rivedesse di continuo qualcosa. Mio padre sedeva un po' piegato a destra e ascoltava la marchesa, che rideva. Il conte Schulin stava tra Maman e sua moglie e raccontava qualcosa. Ma vidi la contessa interromperlo a metà di una frase.
«No, piccola, è una tua fantasia,» disse il conte bonario, ma d'un tratto ebbe anch'egli la stessa preoccupazione sul volto che sporgeva sopra le due signore. La contessa non poteva essere distolta dalla sua cosiddetta fantasia. Sembrava concentrata come uno che non voglia essere distratto. Fece qualche piccolo cenno di no con le morbide mani inanellate, qualcuno disse «sst», e d'improvviso fu silenzio.
Dietro alle persone si premevano, troppo vicini, i grandi arredi della vecchia casa. La pesante argenteria di famiglia brillava e si inarcava convessa come se la si guardasse attraverso una lente d'ingrandimento. Mio padre si volse intorno sorpreso.
«La mamma sente un odore,» disse dietro di lui Wjera Schulin, «e dobbiamo stare tutti zitti, perché sente gli odori con le orecchie,» ma intanto stava lei stessa con le sopracciglia alzate, attenta e tutta naso.
In queste cose gli Schulin erano divenuti un po' strani, dopo l'incendio. Nelle piccole stanze surriscaldate giungeva ogni momento un odore, e allora lo si studiava e ciascuno dava la sua interpretazione. Zoë, pratica e scrupolosa, si diede da fare con la stufa, il conte andava in giro e si fermava un istante in tutti gli angoli e stava all'erta; «qui non è», diceva poi. La contessa si era alzata e non sapeva dove cercare. Mio padre si voltò lentamente, come se avesse l'odore dietro di sé. La marchesa, che aveva subito supposto che fosse un cattivo odore, si teneva il fazzoletto davanti e spiava dall'uno all'altro se fosse passato. «Qui, qui,» gridava Wjera di tanto in tanto, come se lo tenesse. E intorno a ogni parola era stranamente silenzio. Quanto a me, avevo anch'io diligentemente annusato con gli altri. Ma d'un tratto (fosse il gran caldo delle stanze o la molta luce vicina) mi afferrò, per la prima volta nella mia vita, qualcosa di simile alla paura degli spettri. Mi divenne chiaro che tutte quelle persone grandi, nette, che fino a un attimo prima avevano parlato e riso, si aggiravano curve e si occupavano di qualcosa di invisibile; ammettevano che ci fosse qualcosa che non vedevano. Ed era terrificante che quel qualcosa fosse più forte di tutti loro.
La mia paura crebbe. Mi sembrava che quel che cercavano potesse d'improvviso scoppiare fuori da me come un'eruzione della pelle; e allora l'avrebbero visto e mi avrebbero indicato. Disperato, rivolsi gli occhi a Maman. Sedeva stranamente eretta, ebbi l'impressione che mi aspettasse. Appena le fui vicino e, sentii che internamente tremava, seppi che solo ora la casa svaniva di nuovo.
«Malte, pauroso,» rise qualcuno. Era la voce di Wjera. Ma noi non ci staccavamo e lo sopportavamo insieme; e restammo così, Maman e io, finché la casa di nuovo fu interamente svanita.
I più ricchi di esperienze quasi inafferrabili erano però i giorni di compleanno. Si sapeva già che alla vita non piace far distinzioni; ma quel giorno ci si alzava con un diritto alla gioia di cui non c'era da dubitare. Probabilmente il senso di tale diritto si era formato molto presto, al tempo in cui ci si protende per afferrare tutto e si prende tutto e con irremovibile forza d'immaginazione si accrescono le cose, tenute strette, fino all'intensità del colore di fondo del desiderio che ci domina.
Ma poi giungono d'un tratto gli strani giorni di compleanno in cui, ben saldi nella coscienza di quel diritto, vediamo gli altri divenire malsicuri. Vorremmo essere vestiti come sempre e poi ricevere tutto il resto. Ma, appena siamo svegli, di fuori qualcuno grida che la torta non c'è ancora; oppure sentiamo che nella stanza accanto qualcosa si rompe, mentre preparano la tavola dei regali; oppure uno entra e lascia la porta aperta, e vediamo tutto prima dell'istante in cui avremmo dovuto vederlo. È l'attimo in cui subiamo una sorta di intervento chirurgico. Un'operazione rapida, con un dolore delirante. Ma la mano che la compie è esperta e ferma. È subito fatto. È appena passato, non pensiamo più a noi; bisogna salvare il compleanno, osservare gli altri, prevedere i loro errori, rafforzarli nella loro illusione di riuscire a far tutto benissimo. Non lo rendono facile. Si dimostrano di un'incredibile goffaggine, quasi stupidi. Sono capaci di entrare con pacchi destinati ad altri; gli corriamo incontro e poi dobbiamo fingere d'esserci messi a correre per la stanza tanto per muoverci, senz'altra intenzione. Vogliono farvi una sorpresa e con aspettazione finta aprono la scatola dei giocattoli dal fondo anziché dal coperchio, col risultato che si vedono solo trucioli; e allora bisogna alleviare il loro imbarazzo. Oppure, se era un giocattolo meccanico, vi rompono il regalo la prima volta che lo caricano. Per questo è bene esercitarsi in anticipo ad allontanare col piede, senza farsi vedere, un topo meccanico con la molla rotta o qualcosa di simile: in questo modo loro possono essere spesso ingannati e aiutati a superare la vergogna.
In fondo facevamo tutto questo così com'era richiesto, anche senza possedere doti particolari. Il vero talento era necessario solo quando qualcuno s'era dato gran pena e ci portava, grave e benevolo, una gioia, e si vedeva già di lontano che quella era una gioia per un altro, una gioia completamente estranea; non si conosceva nessuno a cui sarebbe potuta andar bene: tanto era estranea.
Che qualcuno raccontasse, raccontasse veramente, dev'essere stato prima del mio tempo. Io non ho mai sentito nessuno raccontare. Allora, quando Abelone mi parlava della giovinezza di Maman, si vedeva che non sapeva raccontare. Il vecchio conte Brahe doveva ancora esserne capace. Voglio scrivere quello che lei ne sapeva.
Fanciulla, Abelone dovette aver attraversato un periodo di ampia, speciale emotività. I Brahe abitavano allora in città, nella Bredgade, e facevano una certa vita di mondo. Quando lei a sera tardi saliva in camera, credeva di essere stanca come gli altri. Ma poi, d'un tratto, sentiva la finestra e, se ho ben capito, poteva restare dinanzi alla notte per ore e pensare: questa è casa mia. «Come un prigioniero stavo là,» diceva, «e le stelle erano la libertà.» Poteva allora addormentarsi senza divenire pesante. L'espressione «cadere-nel-sonno» non si addice a quell'anno di fanciulla. Il sonno era qualcosa che saliva con lei, e di tanto in tanto lei aveva gli occhi aperti e giaceva su una nuova superficie, che non era ancora la più alta. E poi si alzava prima di giorno; anche d'inverno, quando gli altri giungevano assonnati e in ritardo alla colazione, essa pure ritardava. La sera, quando si faceva buio, c'erano sempre soltanto lumi per tutti, lumi di tutti. Ma le due candele al mattino presto, nell'oscurità nuova con cui tutto ricominciava, quelle erano solo per lei. Stavano nel suo basso doppiere e rilucevano quiete attraverso i piccoli paralumi ovali, a rose dipinte, che di tanto in tanto bisognava abbassare. Farlo non disturbava; non c'era fretta, e poi si doveva pure talvolta sollevare lo sguardo e riflettere, quando si scriveva una lettera o il diario, che era stato iniziato molto tempo prima con una calligrafia affatto diversa, accurata e bella.
Il conte Brahe viveva del tutto appartato dalle figlie. Giudicava illusione che si sostenesse di dividere la vita con altri. («Sì, dividere,» diceva.) Ma non gli spiaceva che la gente gli raccontasse delle figlie; ascoltava con attenzione, come se abitassero in un'altra città.
Fu quindi una cosa del tutto fuori dall'ordinario che una volta, dopo la colazione, chiamasse a sé con un cenno Abelone: «Abbiamo le stesse abitudini, sembra; anch'io scrivo la mattina presto. Mi puoi aiutare.» Abelone se lo ricordava come fosse stato ieri.
Già l'indomani mattina fu introdotta nello studio del padre, stanza che era in fama di inaccessibilità. Non ebbe il tempo di farne il giro con gli occhi, poiché fu messa subito a sedere di fronte al conte, dinanzi alla scrivania che le sembrò una pianura con libri e pile di carte come villaggi.
Il conte dettava. Chi sosteneva che il conte Brahe scrivesse le sue memorie non aveva del tutto torto. Solo che non si trattava di ricordi politici o militari, come ci si aspettava con ansia. «Queste cose le dimentico,» tagliava corto il vecchio signore quando qualcuno gli domandava di quei fatti. Ma ciò che non voleva dimenticare era la sua infanzia. Ad essa, egli teneva. Ed era perfettamente giusto, secondo il suo parere, che quell'epoca molto remota predominasse ora in lui; che, quando volgeva lo sguardo verso l'interno, essa giacesse là come in una chiara notte d'estate nordica, accresciuta e insonne.
A volte balzava in piedi e parlava dentro le candele, che vacillavano. O interi periodi dovevano essere cancellati, e intanto egli andava con veemenza in su e in giù e faceva svolazzare i lembi della vestaglia di seta verde Nilo. Era sempre presente anche un'altra persona, Sten, il vecchio cameriere jutlandese del conte, il quale aveva l'incombenza, quando il nonno balzava in piedi, di posare subito le mani sui fogli sciolti che erano sparsi sulla tavola, coperti di appunti. Sua Signoria aveva l'idea che la carta di oggi non valesse nulla, che fosse troppo leggera e volasse via alla minima occasione. E Sten, di cui si vedeva soltanto la metà superiore del corpo, condivideva questo sospetto e sembrava appollaiato sulle mani, cieco al giorno e grave come un uccello notturno.
Questo Sten trascorreva i pomeriggi domenicali leggendo Swedenborg, e nessuno della servitù aveva mai voluto entrare nella sua stanza, poiché si diceva che chiamasse gli spiriti. La famiglia di Sten aveva avuto da sempre rapporto con gli spiriti, e Sten era particolarmente predestinato a questi legami. A sua madre era apparso qualcosa nella notte, quando lui nacque. Aveva grandi occhi rotondi, e l'altra estremità del suo guardo andava a posarsi dietro la persona che egli osservava. Il padre di Abelone gli chiedeva spesso degli spiriti, al modo in cui si chiedono notizie a qualcuno dei suoi parenti: «Vengono, Sten?» domandava benevolo. «È bene, se vengono.»
La dettatura andò avanti per un paio di giorni. Ma poi Abelone non seppe scrivere «Eckernförde». Era un nome proprio, e lei non l'aveva mai sentito. Il conte, che in fondo cercava già da un po' un pretesto per interrompere la scrittura, troppo lenta rispetto al ritmo dei suoi ricordi, si mostrò contrariato.
«Non lo sa scrivere,» disse tagliente, «e altri non sapranno leggerlo. E soprattutto vedrannoquello che dico?» proseguì incollerito, e non lasciava con gli occhi Abelone.
«Lo vedranno, questo Saint-Germain?» le gridò. «Abbiamo detto Saint-Germain? cancella. Scrivi: il marchese di Belmare.»
Abelone cancellò e scrisse. Ma il conte seguitò a parlare così rapido che non si riusciva a tenergli dietro.
«Non poteva soffrire i bambini, quell'eccellente Belmare, pure mi prese sulle ginocchia, sebbene fossi piccolo, e a me venne l'idea di mordere i suoi bottoni di diamanti. Gli piacque. Rise e mi alzò la testa fin tanto che ci guardammo negli occhi: "Hai degli ottimi denti," disse, "denti intraprendenti..." Ma io mi imprimevo nella mente i suoi occhi. Dopo, ho girato il mondo. Ho visto occhi d'ogni specie, puoi credermi: ma così, mai più. Per quegli occhi non c'era bisogno che esistesse nulla, avevano tutto in sé. Hai sentito parlare di Venezia? Bene. Io ti dico che avrebbero potuto far entrare Venezia qui, in questa camera, e sarebbe stata qui, come c'è questa tavola. Sedevo nell'angolo, una volta, e lo sentii raccontare della Persia a mio padre, qualche volta ho l'impressione d'averne ancora profumate le mani. Mio padre lo aveva in pregio, e Sua Altezza il Langravio era un poco suo allievo. Ma naturalmente c'era parecchia gente che gli rimproverava di credere al passato solo quando era in lui. Non riuscivano a capire che la faccenda ha un senso soltanto quando ci si c nati insieme.»
«I libri sono vuoti,» gridava il conte con un gesto furioso contro le pareti, «il sangue, è questo che conta, ecco quello in cui bisogna saper leggere. Lui aveva dentro storie strane e immagini singolari, quel Belmare; poteva aprire dove voleva, c'era sempre scritto; nessuna pagina nel suo sangue era stata saltata. E quando di tanto in tanto si richiudeva e sfogliava dentro da solo, arrivava ai passi sul fare l'oro e sulle pietre e sui colori. Perché non ci sarebbero dovuti essere, là dentro? in qualche posto ci sono di certo.»
«Sarebbe potuto benissimo vivere con una verità, quell'uomo, se fosse stato solo. Ma non era affatto cosa semplice star soli con una compagna del genere. Ed egli non era tanto privo di gusto da invitare gente e farsi trovare insieme con la sua verità; questa non doveva entrare nel discorso: egli era troppo orientale per tollerarlo. "Adieu, Madame," le diceva veritiero, "a un'altra volta. Forse fra mille anni si sarà più forti e indisturbati. La Sua bellezza è solo in sboccio, Madame," diceva, e non era affatto pura cortesia. Poi usciva e fuori preparava per la gente il suo parco riservato, una sorta di Jardin d'acclimatation per le specie più grandi di menzogne che fra noi non s'erano ancora mai viste, e una serra per palme di esagerazioni e una piccola, curata figuerie di falsi segreti. Gli ospiti vi giungevano da ogni parte, ed egli andava in giro con fibbie di diamanti sulle scarpe, tutto dedito agli invitati.»
«Un'esistenza superficiale, no? Ma in fondo era una forma di cavalleria verso la sua dama, e in questo modo egli riuscì a conservarsi piuttosto bene.»
Già da qualche tempo il vecchio non parlava più ad Abelone, che aveva dimenticato. Andava avanti e indietro come un pazzo e gettava sguardi provocatori a Sten, quasi che Sten a un certo momento dovesse trasformarsi nella persona cui egli pensava. Ma Sten ancora non si trasformava.
«Si dovrebbe vederlo,» proseguì dimentico il conte Brahe. «Ci fu un tempo in cui era perfettamente visibile, sebbene in alcune città le lettere che lui riceveva non fossero indirizzate a nessuno: sopra, c'era soltanto il nome della località, e null'altro. Ma io l'ho visto.»
«Non era bello.» Il conte ebbe un riso strano, rapido. «E neppure quel che la gente dice ragguardevole o distinto: c'era sempre qualcuno più distinto, vicino a lui. Era ricco: ma questo in lui appariva come un capriccio casuale, non contava. Era ben fatto, ma altri lo superava. Allora non potevo naturalmente giudicare se fosse pieno di spirito e avesse questo o quel talento: ma egli era.»
Il conte, tremando, si fermò e fece un gesto come se posasse nello spazio qualcosa che vi rimase.
In quel momento si accorse di Abelone.
«Lo vedi?» le chiese imperioso. E d'improvviso afferrò uno dei candelieri d'argento e la illuminò in viso abbagliandola.
Abelone ricordava d'averlo veduto.
I giorni successivi Abelone fu regolarmente chiamata, e la dettatura dopo questo incidente proseguì molto più tranquilla. Da ogni sorta di documenti, il conte raccoglieva i suoi più remoti ricordi della cerchia di Bernstorff, in cui suo padre aveva avuto una certa parte. Abelone si era ormai adattata così bene alle particolarità del lavoro, che chi li avesse visti là insieme avrebbe facilmente potuto prendere la loro collaborazione pratica per una vera intimità.
Una volta, quando Abelone già stava per ritirarsi, il vecchio signore andò verso di lei, ed era come se tenesse le mani dietro la schiena con una sorpresa: «Domani scriveremo di Julie Reventlow,» disse e assaporò le parole: «era una santa.»
Probabilmente Abelone lo guardò incredula.
«Sì, sì, c'è ancora tutto,» egli insistette in tono imperioso, «c'è tutto, contessa Abel.»
Prese le mani di Abelone e le aprì come un libro.
«Aveva le stigmate,» disse, «qui e qui.» E con le dita fredde toccò duro e rapido sulle due palme.
Abelone non conosceva la parola stigmate. Vedremo, pensò; era molto impaziente di sentir parlare della santa che suo padre aveva ancora potuto vedere. Ma non venne più chiamata, né il mattino successivo né poi.
«Della contessa Reventlow si è già parlato spesso da voi,» tagliava corto Abelone quando la pregavo di raccontarne di più. Sembrava stanca; sosteneva anche d'aver dimenticato quasi tutto. «Ma qualche volta sento ancora in quei due punti,» sorrideva e non poteva trattenersi e guardava quasi curiosa nelle sue mani vuote.
Ancor prima della morte di mio padre tutto era cambiato. Ulsgaard non era più in nostro possesso. Mio padre morì in città, in un appartamento d'affitto che mi sembrò ostile ed estraneo. Ero già all'estero e arrivai troppo tardi.
Era composto nella bara in una stanza che dava sul cortile, fra due file di alti ceri. L'odore dei fiori era incomprensibile come molte voci che parlino insieme. Il suo bel viso, in cui gli occhi, erano stati chiusi, aveva l'espressione di chi ricorda qualcosa per cortesia. Era vestito dell'uniforme di Capocaccia, ma non so perché gli avevano messo il nastro bianco anziché quello azzurro. Le mani non erano giunte, posavano oblique l'una sull'altra e sembravano artificiali e senza senso. Mi avevano raccontato in fretta che egli aveva sofferto molto: non se ne vedeva nulla. I lineamenti erano messi in ordine come i mobili di una stanza degli ospiti da cui sia partito qualcuno. Mi pareva d'averlo visto morto già altre volte: tanto bene conoscevo tutto.
Nuovo era solo l'ambiente intorno, in modo spiacevole. Nuova era quella stanza opprimente, che aveva di fronte delle finestre, probabilmente finestre di altri. Nuovo era che di tanto in tanto Sieversen entrasse e non facesse nulla. Sieversen era invecchiata. Dovevo poi far colazione. Più volte mi annunciarono la colazione. Non mi sentivo affatto di far colazione quel giorno. Non notai che volevano farmi uscire; alla fine, poiché non me ne andavo, Sieversen finì col dire che ci sarebbero stati i medici. Non capivo perché. Ci sarebbe ancora qualcosa da fare, disse Sieversen e mi guardò fisso con gli occhi rossi. Poi entrarono, un po' a precipizio, due signori: erano i medici. Il primo abbassò di scatto la testa, come se avesse le corna e volesse caricare, per guardarci al di sopra delle lenti: prima Sieversen, poi me.
Si inchinò con compitezza da studente. «Il signor Capocaccia aveva ancora un desiderio,» disse allo stesso modo in cui era entrato; si ebbe di nuovo l'impressione che si precipitasse in avanti. In qualche modo lo costrinsi a far passare lo sguardo attraverso le lenti. Il suo collega era corpulento, biondo, con la pelle delicata; mi venne in mente che sarebbe stato facile farlo arrossire. Seguì una pausa. Era strano che adesso il Capocaccia avesse ancora desideri.
Involontariamente guardai di nuovo il bel viso regolare. E allora seppi che voleva certezza. L'aveva, in fondo, sempre desiderata. Ora l'avrebbe ottenuta.
«Loro sono venuti per la perforazione del cuore: prego.»
Mi inchinai e mi feci indietro. I due medici si inchinarono insieme e cominciarono subito a concentrarsi sul loro lavoro. Qualcuno già scostava i ceri. Ma il più vecchio fece ancora qualche passo verso di me. A una certa distanza si fermò e si protese in avanti, per risparmiare l'ultimo tratto, e mi guardò seccato.
«Non è necessario,» disse, «cioè, io credo che sia forse meglio, se lei...»
Mi parve trasandato e logoro, così risparmiatore e frettoloso com'era. Mi inchinai un'altra volta; le circostanze volevano che di nuovo mi inchinassi.
«Grazie,» dissi asciutto. «Non disturberò.»
Sapevo che avrei sopportato questo e che non c'era alcuna ragione di sottrarsi alla cosa. Doveva andare così. Questo era forse il senso di tutto. Inoltre non avevo mai visto cosa succede quando a qualcuno viene perforato il petto. Mi parve regolare non sottrarmi a un'esperienza così singolare, ora che si presentava spontanea, libera da costrizioni. Già allora non credevo più alle delusioni; dunque non c'era nulla da temere.
No, no, non ci si può immaginare prima nulla al mondo, neppure la minima cosa. Tutto è composto di singoli particolari, tanti che è impossibile prevederli. Nell'immaginazione vi si passa sopra e non si nota che mancano, tanto si va di fretta. Ma le realtà sono lente e indescrivibilmente particolareggiate.
Per esempio, chi avrebbe pensato a quella resistenza? Appena il petto ampio e alto fu messo a nudo, l'ometto frettoloso trovò il punto di cui si trattava. Ma lo strumento rapidamente applicato non penetrò. Ebbi la sensazione che d'improvviso il tempo fosse tutto uscito dalla stanza. Ci trovammo come in un quadro. Ma poi il tempo si precipitò dentro con un piccolo rumore scivoloso, e ce ne fu più di quanto abbisognasse. D'un tratto fu bussato da qualche parte. Non avevo mai sentito bussare così: un bussare caldo, chiuso, duplice. Il mio udito lo trasmise, e nello stesso momento vidi che il medico aveva toccato il fondo. Ma trascorse qualche istante prima che le due sensazioni si riunissero in me. Ecco, ecco, pensai, ora è fatto. Il bussare, il suo ritmo, era quasi gioiosamente maligno.
Guardai l'uomo che ora conoscevo già da così lungo tempo. No, era perfettamente padrone di sé: un signore che lavorava rapido e pratico e doveva andarsene subito. Non c'era traccia di piacere o di soddisfazione. Solo, sulla tempia sinistra, un paio di capelli gli si erano drizzati per un qualche antico istinto. Ritirò con cura lo strumento, e vi fu là una cosa che sembrava una bocca, dalla quale per due volte di seguito uscì sangue, come se dicesse una parola di due sillabe. Il medico giovane, biondo, lo raccolse svelto nella sua ovatta con un gesto elegante. E ora la ferita rimase quieta, come un occhio chiuso.
Bisogna ammettere che mi inchinai ancora una volta, e questa volta senza rendermi ben conto di nulla. Almeno, fui stupito di ritrovarmi solo. Qualcuno aveva rimesso in ordine l'uniforme, e il nastro bianco vi posava come prima. Ma ora il Capocaccia era morto, e non lui soltanto. Ora il cuore era perforato, il nostro cuore, il cuore della nostra stirpe. Era finita. Era dunque il colpo che spezza l'elmo: «Oggi Brigge e mai più,» disse qualcosa in me.
Non pensavo al mio cuore. E quando più tardi mi venne in mente, seppi per la prima volta con assoluta certezza che là non si trattava di esso. Era un singolo cuore. Era già sul punto di ricominciare dal principio.
So che mi immaginai di non poter ripartire subito. Prima dev'essere tutto in ordine, mi ripetevo. Che cosa dovesse essere in ordine, non mi era chiaro. Non c'era proprio nulla da fare. Girai per la città e constatai che era mutata. Mi piaceva uscire dall'albergo in cui ero sceso e vedere che adesso era una città per adulti, che badava a contenersi come dinanzi a uno straniero. Un po' piccola era divenuta ogni cosa, e io passeggiavo per la Langelinie fino al faro e tornavo indietro. Quando giungevo nei paraggi dell'Amaliengade poteva succedere che qualcosa emanasse fuori, da non so dove, qualcosa che si era ammesso per anni e che provava ancora una volta il suo potere. C'erano certe finestre d'angolo, o arcate di portali, o lampioni, che sapevano molte cose di uno e con esse lo minacciavano. Io le guardavo in faccia e facevo loro intendere che abitavo all'hotel «Phönix» e potevo ripartire ad ogni momento. Ma la mia coscienza non era tranquilla. Sorgeva in me il sospetto che non mi fossi ancora realmente liberato da quelle influenze e connessioni. Le si aveva abbandonate un giorno di nascosto, incompiute com'erano. Anche l'infanzia sarebbe stata, per così dire, ancora da fare se non la si voleva considerare per sempre perduta. E mentre capivo che la perdevo, sentii al tempo stesso che non avrei mai avuto altro cui ritornare.
Ogni giorno passavo qualche ora nella Dronningens Tværgade, nelle stanze anguste, che sembravano offese come tutte le stanze d'affitto in cui qualcuno è morto. Andavo avanti e indietro dalla scrivania alla grande stufa di maiolica bianca e bruciavo le carte del Capocaccia. Avevo cominciato a gettare nel fuoco la corrispondenza, così legata com'era, ma i pacchetti erano troppo compatti e bruciavano solo agli orli. Mi costò uno sforzo scioglierli. Per la maggior parte avevano un profumo forte, persuasivo, che mi investiva come se volesse destare in me ricordi. Non ne avevo alcuno. Poi poteva succedere che scivolassero fuori fotografie, più pesanti degli altri fogli; queste fotografie bruciavano incredibilmente lente. Non so come avvenne, d'improvviso mi figurai che la figura di Ingeborg potesse trovarsi lì in mezzo. Ma ogni volta che guardavo erano donne mature, magnifiche, di chiara bellezza, che mi portavano ad altri pensieri. Si dimostrò, cioè, che non ero del tutto privo di ricordi. Proprio quegli occhi erano la cosa in cui talvolta mi ritrovavo quando, nel tempo in cui stavo crescendo, andavo per la strada con mio padre. Dall'interno di una carrozza potevano avvolgermi con uno sguardo, dal quale era difficile uscir fuori. Adesso sapevo che allora mi confrontavano con lui e che il confronto non cadeva a mio favore. Il Capocaccia non aveva da temere confronti.
Può darsi che ora io sappia qualcosa, che egli ha temuto. Voglio dire in quale modo giunsi a questa supposizione. Proprio in fondo al suo portafoglio si trovava una carta, piegata da lungo tempo, consunta, rotta lungo le pieghe. L'ho letta prima di bruciarla. Era di suo pugno, scritta nella sua calligrafia migliore, sicura e uniforme, ma notai subito che si trattava solo di una copia.
«Tre ore prima della sua morte,» così cominciava e si riferiva a Cristiano IV. Naturalmente non sono capace di ripeterne il contenuto alla lettera. Tre ore prima della sua morte egli desiderò alzarsi. Il medico e il cameriere particolare, Wormius, lo aiutarono a mettersi in piedi. Si reggeva un po' malcerto, ma si reggeva, e gli fecero indossare la veste da camera trapunta. Poi d'improvviso sedette sulla sponda del letto, all'estremità, e disse qualcosa. Non fu comprensibile. Il medico gli teneva sempre la mano sinistra, affinché il re non ricadesse sul letto. Così sedevano, e il re diceva di tanto in tanto, a fatica e confusamente, l'incomprensibile. Infine il medico cominciò a parlargli amabilmente; sperava di indovinare a poco a poco ciò che il re intendeva dire. Dopo qualche momento il re lo interruppe e d'un tratto disse perfettamente chiaro: «O Dottore, Dottore, come si chiama ella?» Il medico fece fatica a ricordarsene.
«Sperling, graziosissimo sire.»
Ma non era questo che allora importava. Il re, non appena udì che capivano le sue parole, spalancò l'occhio destro, il solo che gli era rimasto, e disse con tutto il viso quell'unica parola che la sua lingua formava da ore, l'unica che ancora ci fosse: «Döden,» disse, «Döden.»
Sul foglio non v'era di più. Lo lessi più volte, prima di bruciarlo. E mi venne in mente che mio padre aveva sofferto molto, alla fine. Così mi avevano raccontato.
Da allora ho riflettuto molto sulla paura della morte, non senza tener conto di certe mie esperienze. Credo di poter dire d'averla provata. Mi sorprendeva in piena città, in mezzo alla gente, spesso senza alcun motivo. Spesso però le cause s'accumulavano; per esempio, quando qualcuno veniva meno su una panchina e tutti gli stavano intorno e lo guardavano, ed egli era già fuori del suo aver paura: allora avevo io la sua paura. O una volta a Napoli: la giovane sedeva di fronte a me nel tram e moriva. Dapprima sembrò uno svenimento, e proseguimmo perfino per un certo tratto. Ma poi non ci fu dubbio che dovevamo fermarci. E dietro a noi le carrozze si fermarono e si ammassarono, come se in quella direzione non si proseguisse mai più. La ragazza pallida, grassa, sarebbe potuta così morire tranquilla, appoggiata alla vicina. Ma la madre non lo permise. Le creò tutte le difficoltà possibili. Le cacciò in disordine gli abiti e le versò qualcosa nella bocca, che non teneva più nulla. Le strofinò la fronte con un liquido che qualcuno aveva portato, e quando gli occhi si rovesciarono un poco, incominciò a scuoterla perché lo sguardo tornasse in avanti. Gridava dentro quegli occhi che non udivano, scrollava e tirava tutto quel corpo a destra e a sinistra come una bambola, e alla fine stese il braccio e la colpì con tutta la sua forza sul viso grasso, perché non morisse. Allora ebbi paura.
Ma ebbi paura anche prima. Per esempio, quando morì il mio cane. Quello che mi accusò una volta per tutte. Era molto malato. Per tutto il giorno ero rimasto inginocchiato di fianco a lui, quando d'improvviso abbaiò verso l'alto, breve e a scatti, come soleva fare se un estraneo entrava nella stanza. Simile modo di abbaiare, in questi casi, era per così dire convenuto tra noi, e io guardai involontariamente verso la porta. Ma ciò era già in lui. Inquieto cercai il suo sguardo, e anch'egli cercò il mio; non per prendere congedo. Mi guardò duro e sorpreso. Mi rimproverava d'aver lasciato entrare ciò. Era convinto che avrei potuto impedirlo. Adesso era chiaro che mi aveva sempre sopravvalutato. E ora non c'era più il tempo di spiegargli. Mi guardò sorpreso e solo, finché fu la fine.
Oppure io ebbi paura quando nell'autunno dopo i primi geli notturni le mosche entravano nelle camere e ancora una volta si rianimavano nel calore. Erano stranamente disseccate e si impaurivano del loro stesso ronzio; si vedeva che non sapevano più bene quel che facevano. Restavano ferme per delle ore, ignorandosi, finché veniva loro in mente che vivevano ancora; allora si lanciavano alla cieca non importa dove e non capivano cosa dovessero fare là, e le si udiva ricadere più lontano e dall'altra parte e da un'altra ancora. E alla fine strisciavano dappertutto e lentamente portavano la morte per l'intera stanza.
Ma perfino quando ero solo potevo avere paura. Perché dovrei fingere che non ci fossero state quelle notti in cui restavo a sedere sul letto per l'angoscia della morte, e mi aggrappavo al fatto che restare a sedere fosse almeno ancora la prerogativa di un vivente: poiché i morti non stanno seduti. Accadeva sempre in una delle camere occasionali che subito mi piantavano in asso quando mi andava male, come se avessero paura d'essere interrogate e coinvolte nelle mie brutte faccende. Allora sedevo, e probabilmente sembravo così terrificante che nulla aveva il coraggio di stare dalla mia. Neppure la luce, cui pure avevo reso il servizio di accenderla, voleva saperne. Ardeva sola dinanzi a se stessa, come in una camera vuota. La mia ultima speranza, allora, era sempre la finestra. Mi figuravo che là fuori potesse ancora esserci qualcosa che mi apparteneva, anche in quell'improvvisa povertà del morire. Ma appena avevo guardato da quella parte, avrei voluto che la finestra fosse stata sbarrata, cieca come la parete. Poiché ora io sapevo che là fuori tutto seguitava a trascorrere con la stessa indifferenza, che anche fuori non c'era altro che la mia solitudine. La solitudine che avevo preso su di me e che con la sua grandezza era assolutamente sproporzionata al mio cuore. Mi venivano in mente persone da cui una volta ero andato via, e non concepivo che si potesse abbandonare qualcuno.
Mio Dio, mio Dio, se ancora mi stanno dinanzi simili notti, lasciami almeno ancora uno di quei pensieri che talvolta potevo pensare. Ciò che ora imploro non è così irragionevole; poiché so che sono venuti proprio dalla paura, siccome la mia paura era così grande. Quando ero ragazzo mi colpivano in viso e mi dicevano che ero vile. Era perché non sapevo ancora avere paura. Ma da allora ho imparato ad avere paura con la vera paura, che cresce soltanto se cresce la forza che la genera. Non abbiamo alcuna idea di quella forza, tranne che nella nostra paura. Perché essa è così inconcepibile così pienamente contro di noi, che il nostro cervello si decompone nel punto in cui ci costringiamo a pensarvi. E tuttavia, da qualche tempo, credo che sia la nostraforza, tutta la nostra forza, che è ancora troppa per noi. È vero, non la conosciamo, ma non è proprio ciò che è più nostro quel che conosciamo di meno? A volte rifletto, come è sorto il cielo e la morte; così: abbiamo allontanato da noi ciò che di più prezioso era nostro, poiché prima avevamo ancora tante altre cose da fare e poiché presso di noi, occupati, non era al sicuro. Epoche sono trascorse, e ora ci siamo abituati a ciò che è più piccolo. Non riconosciamo più la nostra proprietà e inorridiamo dinanzi alla sua grandezza immensa. Non può essere così?
Del resto oggi capisco bene che uno si porti con sé tutta la vita, in fondo al portafoglio, la descrizione di un'agonia. Non ci sarebbe neppur bisogno che fosse un'agonia scelta in modo particolare; tutte hanno qualcosa di raro. Non ci si può immaginare, per esempio, qualcuno che copii per sé il modo in cui Félix Arvers è morto? Fu nell'ospedale. Egli moriva in modo leggero e pacato, e la suora credette forse che già fosse più avanti nella morte di quanto era in realtà. Ella gridò forte un'istruzione: dove trovare tale e tal'altra cosa. Era una suora non molto istruita; non aveva mai visto scritta la parola «corridoio», che in quel momento non poteva evitare; accadde quindi che pronunciasse «collidoio», convinta che si dicesse così. Allora Arvers differì la sua morte. Gli sembrò necessario, prima, chiarire. Divenne perfettamente lucido e le spiegò che si dice «corridoio». Poi morì. Era un poeta e odiava il press'a poco; o forse gli importava soltanto la verità; o gli dava fastidio portarsi dietro come ultima impressione il fatto che il mondo proseguisse con tanta trascuratezza. Non lo si può più stabilire, ormai. Solo non bisogna credere che fosse pedanteria. Altrimenti il medesimo rimprovero andrebbe al santo Jean de Dieu, che quando stava per morire balzò su e arrivò giusto in tempo nel giardino per recidere la corda di un uomo che s'era appena impiccato, del quale gli era giunta notizia in modo miracoloso attraverso la chiusa tensione dell'agonia. Anche a lui importava soltanto la verità. |[continua]|
|[PARTE SECONDA, 2]|
C'è un essere che è perfettamente innocuo quando ti capita nello sguardo, lo noti appena e l'hai subito dimenticato. Ma quando invece, invisibile, ti penetra in qualche modo nell'udito, là subito si sviluppa, per così dire sboccia, e si son visti casi in cui si spinse fin nel cervello e vi prosperò devastatore, simile ai pneumococchi del cane, che entrano dalle narici.
Questo essere è il vicino.
Da quando giro per il mondo così, solo, ho avuto innumerevoli vicini; di sopra e di sotto, di destra e di sinistra, e talvolta delle quattro specie insieme. Potrei semplicemente scrivere la storia dei miei vicini; sarebbe l'opera di una vita. Certo, sarebbe piuttosto la storia dei fenomeni morbosi che essi hanno prodotto in me; ma hanno in comune con tutti gli altri esseri della loro specie la particolarità di rivelarsi solo nei disturbi che provocano in certi tessuti.
Ho avuto dei vicini imprevedibili e di quelli regolarissimi. Restavo seduto e cercavo di scoprire la legge dei primi; poiché era chiaro che anch'essi ne avevano una. E quando i puntuali una sera rimanevano fuori, mi dipingevo ciò che poteva esser loro accaduto, e lasciavo ardere la mia lampada ed ero ansioso come una giovane sposa. Ho avuto vicini che odiavano, e vicini che erano presi in un amore violento; oppure io stesso vivevo l'istante in cui, a metà della notte, trapassavano da una passione all'altra, e allora naturalmente non c'era più da pensare a dormire. In genere si poteva notare che il sonno non è affatto così frequente come si pensa. I miei due vicini di Pietroburgo, per esempio, non davano molta importanza al sonno. Uno restava alzato e suonava il violino, e sono certo che intanto guardava dinanzi a sé le case troppo deste, che non cessavano d'essere chiare nelle inverosimili notti d'agosto. Dell'altro, di destra, so invece che era coricato; alla mia epoca ormai non si alzava più. Aveva perfino chiuso gli occhi; ma non si poteva dire che dormisse. Restava coricato e declamava lunghe poesie, poesie di Puskin e di Nekrassov, nella cantilena con cui i bambini recitano le poesie quando si pretende che lo facciano. E nonostante la musica del vicino di sinistra, era questo con le sue poesie che faceva il bozzolo nella mia testa, e Dio sa che cosa ne sarebbe uscito, se lo studente che ogni tanto andava a trovarlo non avesse un giorno sbagliato porta. Mi raccontò la storia di quel suo conoscente, e risultò che essa era in un certo senso rassicurante. Quanto meno, era una storia testuale, univoca, che pose fine ai grilli delle mie supposizioni.
Quel piccolo impiegato lì accanto, una domenica aveva avuto l'idea di risolvere un problema singolare. Suppose che sarebbe vissuto molto a lungo, diciamo cinquant'anni ancora. La generosità che dimostrò in tal modo verso se stesso, lo mise di ottimo umore. Ma allora volle addirittura superarsi. Ponderò che sarebbe stato possibile cambiare quegli anni in giorni, in ore, in minuti e perfino, se uno ce la faceva, in secondi, e calcolò e calcolò, e risultò una somma come lui non ne aveva mai viste. Gli vennero le vertigini. Dovette riposarsi un poco. Il tempo è prezioso, aveva sempre sentito dire, e si meravigliò che non sorvegliassero un uomo il quale possedeva una simile quantità di tempo. Sarebbe stato facilissimo derubarlo. Ma poi gli tornò il buonumore, quasi euforico, indossò la pelliccia per sembrare un po' più ampio e imponente, e si fece dono dell'intero capitale favoloso, dicendosi con una certa condiscendenza:
«Nikolaj Kusmic,» disse benevolo e s'immaginò d'essere ancora seduto, senza pelliccia, esile e povero, sul divano di crine, «io spero, Nikolaj Kusmic,» disse, «che lei ora non si monterà affatto la testa per la sua ricchezza. Pensi sempre che questo non è l'essenziale, ci sono dei poveri rispettabilissimi; ci sono perfino dei nobili decaduti e delle figlie di generali che vanno a vendere per le strade.» E il benefattore portò ancora ogni genere di esempi, noti in tutta la città.
L'altro Nikolaj Kusmic, quello sul divano di crine, il beneficato, non sembrava per nulla presuntuoso, c'era da prevedere che sarebbe stato ragionevole. Infatti non mutò nulla nel suo modesto, regolare modo di vivere, e ora trascorreva le domeniche a tenere in ordine i suoi conti. Ma già dopo un paio di settimane si accorse che stava spendendo in modo incredibile. Mi restringerò, pensò. Si alzò prima, si lavò meno accuratamente, bevve il tè in piedi, corse all'ufficio e arrivò troppo presto. Dappertutto risparmiava un po' di tempo. Ma alla domenica non c'era nulla del risparmiato. Allora capì d'essere stato ingannato. Non avrei dovuto cambiare, si disse. Quanto dura un anno tutto intero! Ma ora questi infami spiccioli se ne vanno non si sa come. E giunse un brutto pomeriggio in cui egli sedette nell'angolo del divano e aspettò il signore in pelliccia, dal quale voleva farsi restituire il suo tempo. Voleva chiudere col chiavistello la porta e non lasciarlo uscire prima che avesse tirato fuori il dovuto. «In banconote,» voleva dirgli, «possibilmente da dieci anni.» Quattro banconote da dieci e una da cinque, e il resto poteva tenerselo, in nome del diavolo! Sì, era disposto a regalargli il resto, solo che non sorgessero complicazioni. Sedeva eccitato sul divano di crine e aspettava, ma il signore non veniva. E lui, Nikolaj Kusmic, che un paio di settimane prima s'era visto con tanta facilità seduto lì, ora che veramente sedeva lì non riusciva a rappresentarsi l'altro Nikolaj Kusmic, quello in pelliccia, il generoso. Sa il cielo che cosa era stato di lui, probabilmente erano andati in traccia delle sue truffe e ora si trovava già in prigione da qualche parte. Di sicuro non aveva rovinato lui solo. Avventurieri del genere lavorano sempre in grande.
Gli venne in mente che dovesse esserci un ufficio statale, una specie di Banca del Tempo, dove avrebbe potuto cambiare almeno una parte dei suoi miserabili secondi. In fin dei conti non erano falsi. Non aveva mai sentito parlare di un istituto del genere, ma nella rubrica degli indirizzi si doveva sicuramente trovare qualcosa di simile, sotto la T o sotto la B. Eventualmente bisognava anche andare a guardare sotto la I, poiché c'era da supporre che fosse un istituto imperiale; si confaceva alla sua importanza.
Più tardi Nikolaj Kusmic assicurò sempre che quel pomeriggio di domenica non aveva bevuto, sebbene si trovasse comprensibilmente in uno stato d'animo molto depresso. Era dunque perfettamente sobrio quando si verificò ciò che segue, posto che si possa dire ciò che accadde.
Forse si era assopito un poco nel suo angolo, si può benissimo immaginarlo. Questo sonnellino sulle prime gli portò sollievo. Sono andato a immischiarmi nei numeri, si disse. Ora, io non capisco niente di numeri. È però chiaro che non gli si deve attribuire troppa importanza; sono, per così dire, soltanto un'istituzione dello stato per ragioni d'ordine. Nessuno ne ha mai visto uno, se non sulla carta. È escluso che si possa incontrare in società, per esempio, un Sette o un Venticinque. Semplicemente, non esistono. E poi era avvenuto quel piccolo scambio, per pura distrazione: tempo e denaro, come se non si potessero separare. A Nikolaj Kusmic venne quasi da ridere. Era pur piacevole scoprire così gli imbrogli, e in tempo, questo era l'importante, in tempo. Ora sarebbe andata diversamente. Il tempo, sì, era una cosa molesta. Ma colpiva forse lui solo? non correva forse via anche per gli altri in secondi, come lui aveva scoperto, sebbene non lo sapessero?
Nikolaj Kusmic, non senza un po' di soddisfazione maligna, stava proprio per pensare: Vada pur così; ma accadde qualcosa di strano. Gli spirò d'improvviso sul volto, gli passò sulle orecchie, lo sentì sulle mani. Egli spalancò gli occhi. La finestra era ben chiusa. E mentre sedeva con gli occhi larghi nella stanza scura, cominciò a capire che quello che ora sentiva era il vero tempo, che passava. Li riconosceva formalmente, tutti quei piccoli secondi, ugualmente tiepidi, l'uno uguale all'altro, ma veloci, ma veloci. Sa il cielo che intenzioni avessero ancora. Proprio a lui doveva succedere, che sentiva come un'offesa ogni sorta di corrente d'aria! Ora si sarebbe rimasti seduti là, e questo avrebbe continuato sempre a soffiare, per tutta la vita. Previde tutte le nevralgie che ci si sarebbe presi, era fuori di sé dalla rabbia. Balzò su, ma le sorprese non erano finite. Anche sotto i suoi piedi c'era qualcosa come un movimento, non uno solo, parecchi movimenti stranamente oscillanti l'un dentro l'altro. Fu paralizzato dall'orrore: poteva essere la terra? Certo, era la terra. E infatti la terra si muove. A scuola ne avevano parlato, c'erano passati sopra un po' frettolosamente, e dopo lo si era volentieri taciuto; non stava bene parlarne. Ma ora, ora che egli era divenuto sensibile, cominciava a percepire anche questo. Che lo percepissero anche gli altri? Forse; ma non ne davano segno. Probabilmente non gli recava alcun fastidio, a quei marinai. Ma Nikolaj Kusmic proprio su questo punto era un po' delicato, evitava perfino i tram. Barcollò per la stanza come sulla coperta di una nave e dovette tenersi a destra e sinistra. Per disgrazia gli venne anche in mente la posizione obliqua dell'asse terrestre. No, non riusciva a sopportare tutti quei movimenti. Si sentì male. Coricarsi e stare tranquillo, aveva letto una volta da qualche parte. E da allora Nikolaj Kusmic stette coricato.
Stava coricato e aveva gli occhi chiusi. E c'erano periodi, giorni un po' meno mossi per così dire, in cui la cosa era sopportabile. E poi aveva escogitato il sistema delle poesie. Non si crederebbe quanto gli fosse d'aiuto. Quando si recitava così una poesia, lentamente, accentuando regolarmente la rima, finiva per esserci qualcosa di stabile a cui si poteva guardare, interiormente, s'intende. Era una fortuna che egli sapesse tutte quelle poesie. Ma aveva sempre avuto un interesse specialissimo per la letteratura. Non si lamentava della sua situazione, mi assicurò lo studente che lo conosceva da molto. Solo, col tempo, si era formata in lui un'esagerata ammirazione per quelli che, come lo studente, andavano in giro e sopportavano i movimenti della terra.
Mi ricordo con tanta precisione questa storia, perché mi tranquillizzò in modo straordinario. Posso dire di non aver mai più avuto un vicino così piacevole come Nikolaj Kusmic, che sicuramente avrebbe ammirato anche me.
Dopo questa esperienza mi proposi, in simili casi, di andar sempre subito ai fatti. Notai quanto fossero semplici e allevianti rispetto alle supposizioni. Come se non avessi saputo che le nostre opinioni sono posteriori, conclusioni e non altro. Subito dopo incomincia una pagina nuova con qualcosa di completamente diverso, senza riporto. A che mi giovavano nel caso presente quei due o tre fatti che si potevano stabilire senza difficoltà? Li enumererò non appena avrò detto ciò che in questo momento mi preoccupa: poiché hanno contribuito, piuttosto, a rendere più gravosa la mia situazione, la quale (ora non lo nascondo) era già molto difficile.
Sia detto a mio onore che in quei giorni avevo scritto molto; avevo scritto convulsamente. Per la verità, quand'ero fuori, non pensavo volentieri a rincasare. Facevo perfino qualche giro più lungo, e in questo modo perdevo una mezz'ora durante la quale avrei potuto scrivere. Ammetto che fosse una debolezza. Ma una volta che ero nella mia camera, non avevo più nulla da rimproverarmi. Scrivevo, avevo la mia vita, e quella di fianco era una vita completamente diversa, con cui non spartivo nulla: la vita di uno studente in medicina che studiava per il suo esame. Nulla di simile mi proponevo io, già questo era una differenza decisiva. E anche sotto altri aspetti le nostre due situazioni erano quanto più possibile diverse. Tutto questo mi saltava agli occhi. Fino al momento in cui io sapevo che sarebbe accaduto; allora dimenticavo che fra noi non c'era alcuna comunanza. Ascoltavo tanto che il mio cuore si faceva sentire, sonoro. Tralasciavo tutto e ascoltavo. E allora accadeva: non mi sono mai sbagliato.
Quasi tutti conoscono il rumore che produce un oggetto rotondo di latta, per esempio il coperchio di un barattolo, quando scivola di mano. Di solito non fa subito molto strepito, dà un breve colpo, rotola via sull'orlo e diviene veramente sgradevole solo quando, esaurito lo slancio, barcolla e picchia da tutte le parti prima di restar giù. Ebbene: questo è tutto; nella camera accanto cadeva un oggetto di latta, rotolava, restava giù, e intanto, a intervalli, si udiva un trapestio. Come tutti i rumori che, ripetendosi, riescono a imporsi, anch'esso si era organizzato interiormente; mutava, non era mai esattamente lo stesso. Ma proprio questo confermava la sua regolarità. Poteva essere violento o dolce o melanconico; poteva, per così dire, passare a precipizio o scivolare con infinita lentezza prima di trovare riposo. E l'ultima oscillazione giungeva sempre di sorpresa. Invece lo scalpiccio che vi si aggiungeva aveva qualcosa di meccanico. Ma suddivideva il rumore sempre in modo diverso: sembrava che questo fosse il suo compito. Ora posso rendermi conto molto meglio di questi particolari; la camera accanto alla mia è vuota. Lui è tornato a casa, in provincia. Doveva riposarsi. Io abito all'ultimo piano. A destra c'è un'altra casa, sotto di me non è ancora entrato nessuno: sono senza vicino.
In questo stato d'animo, quasi mi meraviglio di non aver preso le cose più alla leggera. Sebbene la mia sensibilità ogni volta me ne avvertisse in anticipo. Avrei dovuto approfittarne. Non spaventarti, mi sarei dovuto dire, adesso accade; sapevo che non mi sbagliavo mai. Ma questo dipendeva forse proprio dalle vicende che mi ero fatto raccontare; da quando le conoscevo ero divenuto ancora più pauroso. Mi colpiva quasi spettrale il pensiero che la causa di quel rumore fosse il piccolo, lento, silenzioso movimento con cui la palpebra calava e si chiudeva sul suo occhio destro, mentre egli leggeva. Era questo l'essenziale della sua storia, una piccolezza. Un paio di volte non si era presentato agli esami, il suo amor proprio era divenuto suscettibile, e probabilmente quelli di casa lo incalzavano ad ogni lettera. Cos'altro gli restava da fare, se non raccogliere tutte le sue forze? Ma allora, pochi mesi prima della conclusione, era sopravvenuta quella debolezza; quel piccolo, inverosimile affaticamento, ridicolo come quando una tendina non vuol restare fissata in alto. Sono certo che per settimane egli credette di poterlo dominare. Altrimenti non mi sarebbe venuta l'idea di offrirgli la mia volontà. Un giorno infatti capii che la sua era alla fine. E da allora, quando sentivo giungere il momento, restavo in piedi contro la parete, dalla mia parte, e lo pregavo di servirsi. E col tempo mi divenne chiaro che egli accettava. Forse non avrebbe dovuto farlo, specialmente se si pensa che in realtà non serviva a nulla. Anche ammesso che per un poco tenessimo a bada la cosa, resta dubbio se egli fosse davvero in condizioni di approfittare dei momenti che guadagnavamo così. E, quanto alla mia parte, io cominciai a risentirne. So che mi chiedevo se avremmo potuto continuare, proprio il pomeriggio in cui qualcuno arrivò al nostro piano. Data la strettezza delle scale, questo provocava sempre molto trambusto nel piccolo albergo. Un attimo dopo mi parve che entrassero dal mio vicino. Le nostre porte erano le ultime del corridoio, la sua faceva angolo, vicinissima, con la mia. Sapevo comunque che talvolta egli riceveva degli amici, e, come ho detto, non mi interessavo per nulla dei fatti suoi. Può darsi che la sua porta venisse ancora aperta più volte, che si andasse avanti e indietro. Io non ne ero affatto responsabile.
Ora, proprio quella sera fu peggio che mai. Non era ancora molto tardi, ma per la stanchezza ero già andato a letto; credevo probabile che mi sarei addormentato. Ma poi trasalii come se mi avessero toccato. Subito dopo scoppiò. Cadde e rotolò e corse chissà dove e barcollò e andò giù. Il trapestio era terribile. Frattanto, dal piano di sotto, battevano colpi chiari e irritati contro il soffitto. Anche il nuovo ospite era naturalmente disturbato. Ora: doveva essere la sua porta. Ero così desto che credetti di sentire la sua porta, sebbene la muovesse con straordinaria cautela. Mi parve che si avvicinasse. Sicuramente voleva sapere in quale camera fosse il rumore. Ciò che mi stupiva era il suo riguardo, davvero esagerato. Aveva pur potuto notare, proprio allora, che in quella casa non si faceva gran conto della quiete. Perché mai soffocava il suo passo? Per un attimo lo credetti alla mia porta; poi percepii, non c'era dubbio, che entrava nella camera di fianco. Vi entrò senz'altro.
E ora (sì, come descriverlo?), ora fu silenzio. Silenzio, come quando cessa un dolore. Un silenzio stranamente sensibile, che prude come una ferita mentre guarisce. Avrei subito potuto dormire; avrei potuto riprender fiato e addormentarmi. Solo lo stupore mi tenne desto. Qualcuno parlava, lì di fianco, ma anche questo faceva parte del silenzio. Bisognava aver vissuto com'era quel silenzio, non lo si può rendere. Anche fuori, tutto sembrava appianato. Sedetti sul letto, ascoltai, era come in campagna. Mio Dio, pensai, c'è sua madre. Sedeva vicino alla lampada, gli parlava, forse egli le aveva appoggiato la testa sulla spalla. Tra poco lo avrebbe messo a letto. Ora capivo i passi leggeri là fuori, nel corridoio. Ah, ci fosse! Un essere così, dinanzi al quale le porte cedono ben altrimenti che dinanzi a noi. Sì, ora potevamo dormire.
Ho già quasi dimenticato il mio vicino. Vedo bene che non era affatto una vera partecipazione quella che avevo per lui. Da basso talvolta, nell'uscire, chiedo se ci sono notizie di lui e quali. E mi rallegro quando sono buone. Ma esagero. In realtà non mi è necessario saperlo. Non ha rapporto con lui il fatto che talvolta io senta un improvviso stimolo a entrare nella camera di fianco. C'è solo un passo dalla mia porta all'altra, e la camera non è chiusa. Mi interesserebbe sapere come è fatta quella camera. Ci si può immaginare con facilità qualunque camera, e spesso coincide quasi esattamente. Solo la camera che si ha di fianco è sempre diversa da come la si pensa.
Questo, mi dico, è ciò che mi stimola. Ma so benissimo che è un certo oggetto di latta ciò che mi attende. Ho supposto che si tratti davvero del coperchio di un barattolo, sebbene naturalmente io possa sbagliare. Non mi importa. Corrisponde ora al mio stato d'animo imputare la cosa a un coperchio di barattolo. Si può pensare che egli non l'abbia portato via con sé. Probabilmente hanno rimesso in ordine e hanno ricollocato il coperchio sul suo barattolo, come è giusto. E ora ambedue formano insieme il concetto di barattolo, di barattolo rotondo per esser precisi, un concetto semplice e molto noto. È come se ricordassi che le due parti che compongono il barattolo stanno sul camino. Sì, sono proprio dinanzi allo specchio, in modo che, dietro, si crea un altro barattolo, ingannevolmente identico, immaginario. Un barattolo al quale noi non attribuiamo alcun valore, ma che per esempio una scimmia vorrebbe prendere. Anzi, per l'esattezza, due scimmie vorrebbero prenderlo, poiché anche la scimmia sarebbe raddoppiata non appena giungesse sulla mensola del camino. Ora, dunque, è il coperchio di questo barattolo che se l'è presa con me.
Mettiamoci d'accordo su questo: il coperchio di un barattolo, di un barattolo sano, il cui orlo sia ricurvo nello stesso modo del coperchio, un coperchio del genere non dovrebbe conoscere altro desiderio che quello di trovarsi sul suo barattolo; questo dovrebbe essere il massimo che esso possa concepire; una soddisfazione non superabile, l'appagamento di tutti i desideri. È infatti qualcosa di addirittura ideale posare regolarmente sulla piccola ghiera, avvitato con pazienza e dolcezza, e sentire dentro di sé, connesso bene e a fondo, l'orlo elastico e tagliente, tagliente come lo è anche il proprio bordo quando si resta separati. Oh, ma ci sono ben pochi coperchi che sappiano ancora apprezzarlo! Qui appare ben chiaro come abbia agito perturbante sulle cose il loro rapporto con gli uomini. Gli uomini infatti, se è lecito paragonarli per un momento a quei coperchi, poggiano molto malvolentieri e malamente sulle loro occupazioni. Sia perché nella fretta non sono giunti a quelle adatte, sia perché sono stati disposti di sghimbescio e con rabbia, sia anche perché gli orli degli uni e delle altre sono incurvati ciascuno in modo diverso. Diciamolo molto francamente: in fondo pensano soltanto di saltar giù appena possibile, rotolare e far rumore di latta. Donde verrebbero, altrimenti, tutte queste cosiddette distrazioni e il rumore che provocano?
Ora le cose vedono questo già da secoli. Non c'è da stupire se sono guastate, se perdono gusto al loro scopo naturale, silenzioso, e vorrebbero sfruttare l'esistenza così come la vedono sfruttata intorno a sé. Fanno tentativi di sottrarsi al loro uso, divengono svogliate e trascurate, e la gente non si meraviglia affatto se le coglie in una sregolatezza. Sa già benissimo, per propria esperienza, come va a finire. Gli uomini si adirano perché loro sono i più forti, poiché credono di avere maggior diritto al diversivo, poiché si sentono scimmiottati; però lasciano andare le cose come lasciano andare se stessi. Ma là dove c'è uno che raccoglie se stesso, un solitario, che vuole posare su di sé in cerchio perfetto giorno e notte, ecco che quegli provoca la contraddizione, lo scherno, l'odio delle suppellettili degenerate, le quali nella loro cattiva coscienza non possono più sopportare che qualcosa si tenga raccolto e tenda verso il proprio senso. Allora si riuniscono fra loro per turbarlo, spaventarlo, confonderlo, e sanno di riuscire a farlo. Allora cominciano, ammiccando l'una all'altra, la tentazione, che cresce poi nello smisurato e trascina tutti gli esseri e Dio stesso contro quell'uno che forse resiste: il santo.
Come capisco ora gli strani dipinti in cui cose di uso limitato e regolare si concedono una vacanza e oscene e curiose si tentano l'un l'altra, sussultando nella casuale lussuria della distrazione. Quei paioli che vanno in giro ribollendo, quei matracci che riescono a pensare, e gli imbuti oziosi che si infilano in un buco per loro gusto. E anche ci sono già, drizzati dal Nulla geloso, membra e sessi fra loro e volti che gli vomitano dentro, caldi, e culi ventosi che fanno il loro piacere.
E il santo si torce e si contrae su di sé; ma nei suoi occhi c'era ancora uno sguardo che giudicava possibile tutto questo: egli ha guardato. E già i suoi sensi divengono un precipitato nella soluzione chiara della sua anima. Già la sua preghiera si disfoglia e gli sorge dalla bocca come un arbusto avvizzito. Il suo cuore è caduto e scolato nel torbido. La sua sferza lo colpisce debole come una coda che scacci le mosche. Il suo sesso è di nuovo concentrato in un solo punto, e quando una donna avanza dritta attraverso il disordine, il petto scoperto colmo di poppe, esso la indica come un dito.
Ci furono tempi in cui considerai questi dipinti invecchiati. Non che dubitassi di loro. Potevo pensare che questo accadesse ai santi, una volta, a quegli impazienti zelanti che ad ogni prezzo volevano subito cominciare con Dio. Di noi non presumiamo più altrettanto. Sospettiamo che egli sia troppo difficile per noi, che noi si debba differirlo per fare lentamente il lungo lavoro che ci separa da lui.
Ma ora so che tale lavoro è contrastato esattamente come l'essere santi; che tutto ciò sorge intorno a chiunque sia solitario per amore di tale lavoro, così come si formava intorno ai solitari di Dio nelle loro grotte e nei loro vuoti asili, una volta.
Quando si parla dei solitari, si presume sempre troppo. Si pensa che la gente sappia di cosa si tratta. No, non lo sanno. Non hanno mai visto un solitario, l'hanno solo odiato senza conoscerlo. Essi sono stati i suoi vicini, che lo logorarono, e le voci nella camera accanto, che lo tentarono. Hanno aizzato le cose contro di lui, affinché facessero rumore e coprissero la sua voce. I bambini si unirono contro di lui, poiché egli era delicato e bambino, e ad ogni crescita cresceva contro gli adulti. Giungevano sulle sue tracce fin nel suo nascondiglio, in caccia di lui come di una bestia, e la sua lunga giovinezza non ebbe periodi di tregua. E se non si lasciava esaurire e scampava, gridavano contro ciò che veniva da lui e lo dicevano brutto e lo rendevano sospetto. E se egli non ascoltava, divenivano più chiari e gli toglievano il cibo di bocca e gli respiravano la sua aria e sputavano sulla sua povertà perché gli divenisse ripugnante. Lo facevano credere un appestato e gli gettavano dietro le pietre perché s'allontanasse più in fretta. E avevano ragione nel loro antico istinto: poiché realmente era loro nemico.
Ma poi, siccome non sollevava gli occhi, rifletterono. Sospettarono d'aver fatto, in questo modo, proprio quello che lui voleva; d'averlo rafforzato nel suo essere solo e d'averlo aiutato a separarsi da loro per sempre. E allora capovolsero la loro tattica e ricorsero al mezzo ultimo, estremo, all'altra resistenza: la gloria. E a questo rumore quasi tutti sollevarono gli occhi e furono distratti.
Questa notte mi è di nuovo venuto in mente il piccolo libro verde che devo aver posseduto una volta, da ragazzo; e, non so perché, mi figuro che provenisse da Mathilde Brahe. Non mi interessò quando lo ricevetti, e lo lessi solo molti anni dopo, credo durante le vacanze a Ulsgaard. Ma fu importante per me dalla prima occhiata. Era da capo a fondo pieno di rispondenze, anche a guardarlo esteriormente. Il verde della legatura significava qualcosa, e si vedeva subito che dentro doveva essere così com'era. Come per un accordo convenuto, veniva dapprima quel liscio foglio di sguardia, marezzato bianco su bianco, e poi il frontespizio, che appariva pieno di mistero. Dentro ci sarebbero potute essere delle figure, così sembrava; ma non ce n'era alcuna, e bisognava ammettere quasi contro voglia che anche questo era giusto. Si era in qualche modo risarciti trovando in un dato punto l'esile nastrino che, consunto e un po' di traverso, commovente nella sua fiducia d'essere ancora rosa, stava Dio sa da quando sempre fra le stesse pagine. Forse non era mai stato usato, e il legatore rapido e diligente l'aveva piegato dentro, senza badare dove. Ma può darsi che non fosse un caso. Qualcuno, forse, aveva smesso di leggere in quel punto e non aveva mai ricominciato; forse in quel momento il destino batté alla sua porta per dargli lavoro e portarlo via da tutti i libri, che in fin dei conti non sono la vita. Non si poteva capire se il libro fosse stato letto oltre. Ci si poteva anche immaginare che, semplicemente, venisse sempre aperto in quel punto, più e più volte, e che talvolta ciò accadesse anche a notte tarda. In ogni modo io avevo timore dinanzi a quelle due pagine, come dinanzi a uno specchio di fronte al quale uno stia. Non le ho mai lette. Non so neppure se ho letto tutto il libro. Non era molto spesso, ma c'era dentro una moltitudine di storie, specialmente al pomeriggio; allora ce n'era sempre una che non si conosceva ancora.
Ne ricordo ancora solo due. Dirò quali: La fine di Grisa Otrep'ev e la morte di Carlo il Temerario.
Dio sa se mi fecero impressione, allora! Anche adesso, dopo tanti anni, mi ricordo la descrizione di come il cadavere del falso zar fu gettato tra la folla e rimase là per tre giorni, lacerato e crivellato e con una maschera sul volto. Naturalmente non c'è alcuna probabilità che quel piccolo libro mi torni mai più fra le mani. Ma quel passo dev'essere stato singolare. Mi piacerebbe anche rileggere come si svolse l'incontro con la madre. Doveva essersi sentito molto sicuro, per farla venire a Mosca; sono perfino convinto che a quel tempo egli credesse talmente in sé da pensare che mandava a chiamare davvero sua madre.
E quella Marija Nagoi, che a rapide tappe venne dal suo povero monastero, aveva in fondo solo da guadagnare quando disse di sì. Ma l'insicurezza di lui non cominciò proprio dall'istante in cui ella lo riconobbe? Non sono alieno dal credere che la forza della sua metamorfosi consistesse nel non essere più figlio di nessuno.
(Questa è in fondo la forza di tutti i giovani che hanno abbandonato la casa.)
Il popolo che lo desiderava senza raffigurarselo con un dato volto, rese ancora più libere e illimitate le sue possibilità. Ma la dichiarazione della madre, anche quale consapevole impostura, ebbe ancora il potere di sminuirlo; lo levò dalla pienezza della sua invenzione; lo limitò a una stanca contraffazione; lo trasse giù, a quel singolo che egli non era: fece di lui un impostore. E allora s'aggiunse, più lievemente dissolvente, quella Marina Mnisek che a modo suo lo negò, in quanto ella, come si vide più tardi, credeva non in lui ma in chiunque. Naturalmente non posso garantire fino a che punto quella storia considerasse tutto ciò. Questo, mi sembra, sarebbe stato da raccontare.
Ma anche prescindendo da questo, l'episodio non è affatto invecchiato. Si potrebbe immaginare che un narratore di oggi affrontasse con grande attenzione gli ultimi momenti; non avrebbe torto. In essi accadde una quantità di cose: come egli, dal sonno più profondo, balza alla finestra e dalla finestra nel cortile in mezzo alle guardie. Non può rialzarsi da solo; devono aiutarlo. Probabilmente il piede è rotto. Sorretto da due uomini, egli sente che credono in lui. Si guarda intorno: anche gli altri credono in lui. Gli fanno quasi pietà, quei giganteschi strelizzi, le cose devono essere andate molto avanti: essi hanno conosciuto Ivan Groznyj in tutta la sua realtà, e credono in lui. Avrebbe voglia di illuminarli, ma aprire la bocca significherebbe semplicemente gridare. Il dolore al piede è rabbioso, ed egli in questo momento fa così poco conto di sé che conosce solo il dolore. E poi non c'è più tempo. Quelli premono contro di lui, egli vede Sujskij e dietro a lui tutti. Sarà subito finita. Ma allora le sue guardie si richiudono. Non lo abbandonano. E accade un miracolo.
La fede di quei vecchi si propaga, d'un tratto nessuno avanza più. Sujskij, che gli sta addosso, chiama disperatamente verso una finestra in alto. Egli non gira gli occhi. Egli sa chi è lassù; capisce perché scende il silenzio, d'improvviso. Ora verrà la voce che da quella volta egli conosce; la voce acuta, falsa, sforzata. E allora egli sente la zarina madre che lo rinnega.
Fin qui la cosa va da sé, ma ora, prego, un narratore! un narratore: perché dalle poche righe che restano deve sprigionarsi una forza contro ogni contraddizione. Sia stato detto o non, bisogna giurare che tra la voce e il colpo di pistola, furono ancora in lui, infinitamente compresse, la volontà e il potere di essere tutto. Altrimenti non si capirebbe quanto fosse splendidamente coerente che sforacchiassero la sua veste da camera e lo trafiggessero ovunque, come se volessero raggiungere il duro di una persona. E che egli anche nella morte, per tre giorni, portasse la maschera, alla quale aveva già quasi rinunciato.
Se ora ci penso, mi pare strano che nel medesimo libro fosse raccontata la fine di uno che per l'intera sua vita fu uno solo, sempre lo stesso, duro e inalterabile come un granito e sempre più pesante su tutti coloro che lo sopportavano. C'è un suo ritratto a Digione. Ma anche senza il ritratto si sa che egli era basso, bizzarro, caparbio e disperato. Solo le mani, forse, uno non si sarebbe immaginato. Sono mani troppo calde, che vorrebbero sempre rinfrescarsi e istintivamente si posano sul freddo, aperte, con l'aria fra le dita. In quelle mani il sangue poteva affluire come ad un altro monta alla testa, e quando si stringevano a pugno erano davvero come teste di matti, furiose di idee improvvise.
Occorrevano incredibili precauzioni per vivere con quel sangue. Il duca era chiuso con esso dentro di sé e a volte temeva quando se lo sentiva circolare intorno, acquattato e buio. Poteva sembrare a lui stesso orribilmente estraneo, quel sangue veloce, per metà portoghese, che egli conosceva appena. Spesso ebbe paura che potesse aggredirlo nel sonno e straziarlo. Faceva finta d'averlo domato. ma ne ebbe sempre spavento. Non osò mai amare una donna, affinché il suo sangue non divenisse geloso, e il sangue era così impetuoso che egli non portò mai vino alle labbra; invece di bere, lo placava con marmellata di rose. Pure, una volta egli bevve, nel campo dinanzi a Losanna, quando Granson fu perduta; era allora malato e segregato e bevve molto vino puro. Ma a quel tempo il suo sangue dormiva. Nei suoi anni ultimi, insensati, esso cadeva talvolta in un sonno pesante, animale. Si vedeva allora quanto egli fosse in suo potere; poiché quando il sangue dormiva, egli non era nulla. Allora nessuno della corte poteva entrare; egli non capiva cosa dicevano. Agli inviati stranieri non poteva mostrarsi, disabitato com'era. Allora sedeva e aspettava che il sangue si destasse. E il più delle volte quello si drizzava d'un balzo e irrompeva dal cuore e ruggiva.
Per quel sangue egli si trascinava dietro tutte le cose che non teneva in conto di nulla. I tre grossi diamanti e tutte le gemme; i pizzi di Fiandra e gli arazzi di Arras, a mucchi. Il suo padiglione di seta con i cordoni d'oro intrecciato e le quattrocento tende del seguito. E dipinti su legno, e i dodici apostoli d'argento massiccio. E il principe di Taranto e il duca di Clève e Filippo di Baden e il signore di Château-Guyon. Poiché egli voleva dar ad intendere al suo sangue che era imperatore e nulla stava sopra di lui: affinché lo temesse. Ma il suo sangue non gli credeva, nonostante quelle prove, era un sangue diffidente. Forse egli lo mantenne nel dubbio ancora per qualche tempo. Ma i corni di Uri lo tradirono. Da allora il suo sangue seppe che era in un uomo perduto: e volle uscire.
Così vedo oggi, ma allora mi fece soprattutto impressione leggere del giorno dell'Epifania, quando lo cercarono.
Il giovane principe lorenese, entrato il giorno prima nella sua povera città di Nancy, subito dopo la battaglia singolarmente rapida, aveva svegliato prestissimo il seguito e chiesto del duca. Furono inviati messi su messi, e quegli stesso compariva ogni tanto alla finestra, impaziente e preoccupato. Non sempre riconosceva chi portavano su carri e barelle, vedeva soltanto che non era il duca. Ed anche tra i feriti non c'era, e nessuno dei prigionieri che di continuo venivano condotti là l'aveva veduto. Ma i fuggiaschi portavano da ogni parte notizie diverse ed erano confusi e spaventati, come se temessero di correre verso di lui. Già imbruniva e di lui non s'era saputo nulla. La notizia che egli era sparito ebbe il tempo di andare in giro per la lunga notte invernale. E ovunque giungeva, suscitava in tutti una repentina, eccessiva certezza che egli vivesse. Forse mai come quella notte il duca fu così reale nell'immaginazione di ognuno. Non ci fu casa in cui non si vegliasse e lo si attendesse e ci si figurasse di sentire i suoi colpi alla porta. E se non giungeva, voleva dire che era già passato.
Gelò quella notte, e fu come se gelasse anche l'idea che egli ci fosse, tanto divenne dura. E trascorsero anni e anni prima che si sciogliesse. Tutti quegli uomini, senza ben saperlo, si reggevano ora su di lui. Il destino che egli aveva portato su di loro era sopportabile soltanto attraverso la sua figura. Faticosamente avevano imparato che egli c'era; ma ora che lo sapevano trovavano che era bene tenerlo a mente e non dimenticarlo.
Tuttavia il mattino successivo, sette gennaio, un martedì, la cerca riprese. E questa volta c'era una guida. Era un paggio del duca, e si diceva che di lontano avesse visto cadere il suo signore; ora avrebbe indicato il punto. Con la propria bocca egli non aveva raccontato nulla, il conte di Campobasso lo aveva portato e aveva parlato per lui. Ora andava innanzi, e gli altri lo seguivano dappresso. Chi lo avesse visto così, imbacuccato e stranamente incerto, avrebbe faticato a credere che egli fosse davvero Gianbattista Colonna, bello come una fanciulla, dalle snelle caviglie. Tremava di freddo; l'aria era rigida per la gelata notturna, sotto i passi risuonava come uno stridore di denti. Del resto, tutti erano diacci. Solo il buffone del duca, soprannominato Luigi XI, faceva del moto. Fingeva d'essere un cane, correva avanti, tornava e trotterellava un poco a quattro zampe di fianco al ragazzo; ma quando di lontano vedeva un cadavere gli saltava vicino e si chinava e lo esortava a concentrarsi e ad essere colui che cercavano. Gli lasciava un po' per riflettere, ma poi tornava indietro dagli altri, brontolando, e minacciava e imprecava e si lamentava della cocciutaggine e della pigrizia dei morti. E sempre si andava, e non c'era fine. La città non si vedeva quasi più; poiché l'atmosfera, intanto, si era chiusa, nonostante il freddo, ed era divenuta grigia e opaca. La campagna giaceva piatta e indifferente, e il piccolo gruppo serrato sembrava smarrirsi sempre più quanto più avanzava. Nessuno parlava, solo una vecchia che s'era accodata biascicava qualcosa e intanto scuoteva la testa; forse pregava.
D'un tratto il primo si fermò e si guardò intorno. Poi si volse rapido a Lupi, il medico portoghese del duca, e indicò innanzi a sé. Qualche passo più in là c'era una superficie ghiacciata, una sorta di pozza o stagno, e là giacevano affondati a metà dieci o dodici cadaveri. Erano quasi del tutto denudati e depredati. Lupi andava curvo e attento dall'uno all'altro. E ora si riconoscevano Olivier de la Marche e il cappellano, mentre s'aggiravano così alla spicciolata. Ma la vecchia era già inginocchiata nella neve e piagnucolava e si chinava su una grande mano le cui dita allargate le si ergevano contro. Accorsero tutti. Lupi con qualche servitore cercò di voltare il cadavere che giaceva bocconi. Ma il volto era preso nel ghiaccio, e quando lo strapparono via una guancia si sbucciò, sottile e fragile, e si vide che l'altra era rosicchiata da cani o lupi; e il tutto era spaccato da una grande ferita che cominciava presso l'orecchio, così che non si poteva affatto parlare di un volto.
Uno dopo l'altro girarono gli occhi; ciascuno credeva di trovarsi alle spalle il romano. Ma videro soltanto il buffone che correva incontro a loro cattivo e insanguinato. Teneva lontano da sé un mantello e lo scuoteva, come se dovesse caderne qualcosa; ma il mantello era vuoto. Allora si misero in cerca di segni di riconoscimento, e ne trovarono alcuni. Avevano acceso un fuoco e il corpo fu lavato con acqua calda e con vino. Divenne visibile la cicatrice sul collo e i segni dei due grandi ascessi. Il medico non ebbe più dubbi. Ma si fecero ancora altri riscontri. Luigi XI aveva trovato pochi passi più in là la carogna del grande cavallo nero, Moreau, che il duca montava nella giornata di Nancy. Vi sedette sopra e lasciò penzolare le gambe corte. Il sangue gli scorreva ancor sempre dal naso nella bocca, e si vedeva che lo gustava. Uno dei servitori, dall'altra parte, ricordò che il duca aveva un'unghia incarnita nel piede sinistro; e tutti si misero a cercare l'unghia. Ma il buffone si dimenò come se gli facessero il solletico, e gridò: «Ah, Monseigneur, perdona loro di scoprire i tuoi difetti grossolani, gli idioti!, e di non riconoscerti nel mio lungo viso, ove stanno le tue virtù.»
(Il buffone del duca fu anche il primo che entrò, quando il cadavere fu composto sul letto. Fu nella casa di un certo Giorgio Marquis, nessuno avrebbe saputo dire perché. La coltre funebre non era ancora distesa, e così egli poté avere l'impressione dell'insieme. Il bianco del giubbetto e il cremisi del mantello contrastavano stridenti e sgarbati fra loro in mezzo ai due neri del baldacchino e del giaciglio. In primo piano gli venivano contro gli stivali scarlatti con grandi speroni dorati. E che quella in cima fosse una testa risultava inconfutabile non appena si fosse vista la corona. Era una grande corona ducale, con non so quali gemme. Luigi XI andò in giro e guardò tutto con attenzione. Palpò perfino il raso, sebbene ne capisse poco. Doveva essere buon raso, forse un po' a buon mercato per la casa di Borgogna. Tornò ancora una volta indietro, per osservare l'insieme. I colori erano stranamente staccati nella luce di neve. Se li impresse in mente uno per uno. «Ben vestito,» riconobbe alla fine, «forse un po' troppo vistoso.» La morte gli appariva un burattinaio che avesse bisogno subito di un duca.) |[continua]|
|[PARTE SECONDA, 3]|
È bene limitarsi semplicemente a prendere atto di certe cose che non cambieranno più, senza deplorare i fatti o anche solo giudicare. Così mi sono reso conto che non fui mai un vero lettore. Nell'infanzia, leggere mi sembrava una professione che si sarebbe assunta un giorno, più tardi, quando tutte le professioni si sarebbero presentate, l'una dopo l'altra. Per la verità, non avevo alcuna idea precisa del momento in cui questo potesse accadere. Confidavo che uno se ne sarebbe accorto quando la vita si fosse per così dire rovesciata e avesse cominciato a giungere solo dall'esterno, come giungeva solo dall'interno prima. Mi figuravo che allora sarebbe stata chiara e univoca e impossibile da fraintendere. Per nulla facile, anzi piena di pretese, intricata e difficile per me, ma pur sempre visibile. Il senza limiti, proprio dell'infanzia, lo sproporzionato, il mai ben visibile, tutto questo sarebbe stato allora superato. Certo, non si riusciva a prevedere come. In fondo, tutto continuava sempre a crescere e si chiudeva da ogni parte, e quanto più si guardava fuori, tanto più interno si faceva insorgere dentro di sé: Dio sa da dove giungesse. Ma probabilmente cresceva fino a un culmine estremo e poi si schiantava di colpo. Era facile osservare che gli adulti se ne preoccupavano molto poco; andavano in giro e giudicavano e mandavano, e se si trovavano in difficoltà dipendeva da circostanze esterne.
Al principio di questi mutamenti ponevo anche il leggere. Allora si sarebbero frequentati i libri come conoscenti, ce ne sarebbe stato il tempo, un tempo destinato a scorrere per loro uniforme e compiacente, nella quantità desiderata. Naturalmente alcuni libri sarebbero stati più vicini, e non è detto che si fosse sicuri di non lasciarsi sfuggire per loro ogni tanto una mezz'ora: una passeggiata, un appuntamento, l'ora d'inizio del teatro, o una lettera urgente. Ma che uno si arruffasse i capelli e vi lasciasse l'impronta come se vi avesse dormito sopra, che si sentisse le orecchie infuocate e le mani fredde come metallo, che una lunga candela gli bruciasse di fianco fino in fondo e fin dentro il candeliere, questo grazie a Dio sarebbe stato del tutto escluso, allora.
Cito codesti segni poiché sono quelli che riconobbi evidentissimi in me la volta in cui, durante le vacanze a Ulsgaard, d'improvviso caddi nel leggere. Si vide subito che non sapevo farlo. È vero che avevo cominciato prima del tempo stabilito, secondo i miei conti. Ma quell'anno a Sorö, in mezzo ad altri ragazzi che solo per caso avevano la mia età, mi aveva reso diffidente verso tali calcoli. Là erano sopravvenute esperienze improvvise, inaspettate, e si vedeva bene che esse mi trattavano come un adulto. Erano esperienze in grandezza naturale, che gravavano con tutto il loro peso. Ma nella stessa misura in cui capivo la loro consistenza effettiva, mi si aprivano gli occhi sull'infinita realtà del mio essere bambino. Sapevo che questa non sarebbe finita e che il resto non era davvero incominciato. Mi dicevo che naturalmente ognuno era libero di far delle partizioni, ma erano inventate. E si dimostrò che io ero troppo maldestro per escogitarne per me. Ogni volta che lo tentavo, la vita mi faceva capire che lei non ne sapeva nulla. E se insistevo sul fatto che la mia infanzia fosse finita, nel medesimo istante cessava anche tutto il di là da venire, e mi restava non più di quanto ha sotto i piedi un soldatino di stagno per tenersi ritto.
Si capisce che questa scoperta mi isolò ancora di più. Mi diede da fare dentro di me e mi riempì di una sorta di allegrezza definitiva, che io presi per afflizione poiché oltrepassava di molto la mia età. Mi preoccupava anche, ricordo, che ci si lasciasse sfuggire qualcosa, ora che nulla era previsto per una scadenza determinata. E quando dunque tornai a Ulsgaard e vidi tutti i libri, mi gettai su di essi; di furia, quasi con cattiva coscienza. Ciò che poi ho provato così spesso, allora in qualche modo lo presentii: che non si ha il diritto di aprire un libro se non ci si impegna a leggerli tutti. Ad ogni riga si intaccava il mondo. Prima dei libri era sano e forse, dopo, lo sarebbe stato di nuovo. Ma come potevo, io che non sapevo leggere, tener testa a tutti? Erano là, anche in quella modesta stanza dei libri, in numero tale da togliere ogni speranza e facevano causa comune. Mi gettai caparbio e disperato di libro in libro e mi aprii la via attraverso le pagine come uno che deve compiere un lavoro sproporzionato alle sue forze. Lessi allora Schiller e Baggesen, Öhlenschläger e Schack-Staffeldt, quello che c'era di Walter Scott e di Calderón Mi capitarono fra le mani libri che per così dire avrebbero già dovuto essere stati letti, per altri era troppo presto; non c'era quasi nulla che avesse scadenza nel mio presente d'allora. E ciò nonostante leggevo.
Negli anni successivi mi accadde talvolta, di notte, di svegliarmi, e le stelle erano là così reali e si muovevano così significative, e io non riuscivo a capire come ci si potesse rassegnare a lasciarsi sfuggire tanto mondo. Lo stesso dovevo provare, credo, ogni volta che levavo gli occhi dai libri e guardavo fuori, dov'era l'estate, dove Abelone chiamava. Giungeva ad ambedue del tutto inaspettato che lei dovesse chiamare e che io non rispondessi neppure. Accadeva nel nostro tempo più felice. Ma una volta che mi ebbe afferrato, mi tenni spasmodicamente al leggere e mi nascosi, importante e caparbio, dinanzi alle nostre quotidiane giornate di festa. Maldestro com'ero ad approfittare delle molte, spesso poco appariscenti occasioni di felicità naturale, non malvolentieri mi lasciavo ripromettere da quella discordia crescente future riconciliazioni, tanto più seducenti quanto più venivano differite. Del resto, il mio sonno nel leggere finì un giorno d'improvviso com'era cominciato; e allora andammo sul serio in collera l'uno con l'altra. Poiché Abelone non mi risparmiò né le sue beffe né la sua superiorità, e quando la incontravo sotto la pergola sosteneva che stava leggendo. Una domenica mattina il libro le stava di fianco chiuso, ma lei sembrava occupata più del necessario con i chicchi di ribes, che staccava accuratamente con una forchetta dai grappolini.
Doveva essere una di quelle ore mattutine che ci sono in luglio, nuove, riposate, in cui accade ovunque qualcosa di non calcolato e di lieto. Da milioni di piccoli, non reprimibili gesti si compone il mosaico dell'esistenza più persuasa; le cose vibrano trapassando le une nelle altre e fuori nell'aria, e la loro freschezza fa chiare le ombre e dà al sole una luce leggera, spirituale. Allora nel giardino non vi è più cosa che sia di per sé l'essenziale; tutto è dovunque, e si dovrebbe essere in tutto e non lasciarsi sfuggire nulla.
Nel piccolo gesto di Abelone ancora una volta era il tutto. Era così ben trovato far proprio quello, ed esattamente come lei lo faceva. Chiare nell'ombrosità, le sue mani lavoravano l'una e l'altra così leggere e concordi, e davanti alla forchetta i chicchi rotondi saltavano capricciosi dentro la coppa, sulla foglia di vite opaca di rugiada ove già altri si ammucchiavano, rossi e biondi, luccicanti, con i semi intatti nell'interno asprigno. In quel momento non avrei voluto altro che restare a guardare, ma poiché era probabile che mi sarebbe stato rinfacciato, e anche per darmi un'aria disinvolta, presi il libro, sedetti dall'altra parte della tavola e, senza tanto sfogliarlo, mi immersi in una pagina qualsiasi.
«Se tu almeno leggessi forte, topo di biblioteca!» disse dopo un po' Abelone. Non sembrava affatto che volesse litigare, e siccome a mio parere era davvero ormai tempo di riconciliarci, lessi subito forte, senza interrompermi fino al primo capoverso e, più oltre, anche il titolo seguente: A Bettina.
«No, non le risposte,» mi interruppe Abelone e depose d'un tratto, come se fosse esausta, la forchettina. Subito dopo rise al vedere la faccia con cui la guardavo.
«Dio mio, come hai letto male, Malte.»
Dovevo ammettere che non avevo prestato attenzione neppure per un momento. «Leggevo solo perché tu mi interrompessi,» confessai e divenni rosso e sfogliai il libro all'indietro alla ricerca del titolo. Solo allora seppi cos'era. «Perché non le risposte?» chiesi curioso.
Fu come se Abelone non mi avesse udito. Sedeva là nel suo abito chiaro, quasi che dentro fosse tutto buio ovunque, come divennero i suoi occhi.
«Da' qui,» disse brusca, come in collera, e mi prese il libro di mano e lo aprì nel punto che voleva. E poi lesse una delle lettere di Bettina.
Non so cosa ne capii, ma fu come se mi venisse solennemente promesso che un giorno avrei scoperto tutto ciò. E mentre la sua voce cresceva e infine diveniva quasi uguale a quella che le conoscevo nel canto, mi vergognai d'essermi figurato in modo così meschino la nostra conciliazione. Poiché capivo che era questo. Ma ora accadeva in modo grande, chissà dove, lontano da me, ove io non arrivavo.
La promessa ancor sempre si adempie, quel libro, non so quando, è capitato fra i miei libri, fra quei pochi libri da cui non mi separo. Ora si apre anche per me nei punti esatti che voglio, e quando li leggo resta indeciso se io pensi a Bettina o ad Abelone. No, Bettina è divenuta più reale in me; Abelone, quella che ho conosciuto, fu come una preparazione di lei, e ora mi si è dischiusa in Bettina come nella propria involontaria essenza. Poiché quella strana Bettina con tutte le sue lettere ha dato spazio, figura colma di spazio. Fin da principio si è così diffusa nel tutto, come se fosse dopo la sua morte. Ovunque, è penetrata lontanissimo nell'essere, appartenendo ad esso, e ciò che accadeva a lei era eterno nella natura; là ella si riconosceva e se ne distaccava quasi dolorosamente; faticosamente reindovinava se stessa come se prendesse da tradizioni antiche, si evocava come uno spirito e si faceva durare.
Non più di un attimo fa tu eri ancora, Bettina; io ti vedo. Non è ancora la terra calda di te? non lasciano ancora gli uccelli spazio alla tua voce? La rugiada è un'altra, ma le stelle sono ancora le stelle della tua notte. Il mondo non è veramente tuo? quante volte gli hai appiccato fuoco con il tuo amore e l'hai visto divampare e bruciare fino in fondo e in segreto, mentre tutti dormivano, l'hai sostituito con un altro! Ti sentivi in accordo perfetto con Dio quando ogni mattina esigevi da lui una nuova terra, affinché di volta in volta toccasse a tutte quelle che egli aveva creato. Ti sembrava gretto risparmiarle e raccomodarle, le consumavi e tendevi le mani per avere ancor sempre mondo. Perché il tuo amore era cresciuto pari a ogni terra.
Com'è possibile che tutti non parlino ancora del tuo amore? Che cosa è accaduto di più mirabile da allora? Di che cosa si occupano? Tu stessa sapesti il valore del tuo amore, tu lo dicesti forte al tuo altissimo poeta, affinché egli lo rendesse umano; poiché il tuo amore era ancora un elemento della natura. Ma ne ha dissuaso la gente, scrivendoti. Tutti hanno letto quelle risposte e credono più ad esse, poiché per loro il poeta è più chiaro della natura. Ma forse un giorno si vedrà che fu qui il limite della sua grandezza. Quell'amante fu gravata su di lui ed egli non l'ha retta. Cosa significa che egli non ha potuto ricambiare? Un amore simile non ha bisogno di alcun contraccambio, ha in sé il grido di richiamo e la risposta; già si esaudisce da sé. Ma egli avrebbe dovuto umiliarvisi dinanzi con tutta la sua grandezza e scrivere ciò che quell'amore dettava, con ambedue le mani, in ginocchio, come Giovanni a Patmo. Non c'era scelta di fronte a quella voce che «adempiva l'ufficio degli angeli»; che era venuta per avvolgerlo e portarlo via, dentro l'eterno. Era il carro della sua infuocata ascensione. Era il mito oscuro preparato per la sua morte, che egli lasciò vuoto.
Il destino ama inventare modelli e figure. La sua difficoltà consiste nella sua complessità. La vita invece è difficile per semplicità. Ha solo poche cose di grandezza non conforme a noi. Sono quelle che il santo, rifiutando il destino, sceglie al cospetto di Dio. Ma che la donna per sua natura debba fare la stessa scelta nei confronti dell'uomo, questo evoca la fatalità di ogni rapporto d'amore: risoluta e senza destino, come un'eterna, la donna sta di fianco all'uomo che si trasforma. La amante supera sempre l'amato, poiché la vita è più grande del destino. La sua dedizione vuol essere incommensurabile: è questa la sua felicità. La pena senza nome del suo amore è stata però sempre questa: che si esige da lei di limitare la sua dedizione.
Nessun altro lamento è mai stato pronunciato da donne: le due prime lettere di Eloisa contengono solo questo lamento, e cinquecento anni dopo esso si leva dalle lettere della Portoghese; lo si riconosce di nuovo come un grido d'uccello. E d'improvviso, attraverso lo spazio chiaro di questa percezione, passa la lontanissima figura di Saffo, che i secoli non trovarono poiché la cercarono nel destino.
Non ho mai osato comperare un giornale da lui. Non sono sicuro che davvero ne abbia sempre con sé qualche copia, quando si sposta lentamente avanti e indietro, fuori del giardino del Lussemburgo, per tutta la sera. Volta le spalle alla cancellata e la sua mano va rasentando l'orlo di pietra da cui sorgono le sbarre. Si appiattisce talmente che molti gli passano dinanzi quotidianamente senza averlo mai visto. È vero che ha ancora in sé un resto di voce e con quella sollecita la gente; ma non è diverso dal ronzio di una lampada o dal borbottio di una stufa o dal rumore di ciò che goccia in una grotta ad intervalli suoi propri. E il mondo è così fatto che ci sono uomini i quali per tutta la loro vita gli passano dinanzi durante la pausa, quando egli, più silenzioso di tutto ciò che si muove, avanza come la sfera di un orologio, come l'ombra di una sfera, come il tempo.
Quanto avevo torto a guardarlo malvolentieri! Mi vergogno di dover scrivere che, avvicinandomi a lui, assumevo l'andatura degli altri, come se lo ignorassi. Allora sentivo dire dentro di lui «La Presse», e poi di nuovo, subito e una terza volta, a rapidi intervalli. E la gente vicino a me si guardava intorno e cercava la voce. Solo io mi affrettavo più di tutti, come se nulla mi avesse colpito, come se fossi assolutamente occupato dentro di me.
E lo ero, in realtà. Ero occupato a raffigurarmelo, facevo la fatica di immaginarlo, e grondavo sudore per lo sforzo. Poiché dovevo crearlo come si crea un morto di cui non ci sono più testimonianze, più elementi; un morto che bisogna produrre tutto intero, nell'interno. Ora so che mi fu un poco d'aiuto pensare ai Cristi deposti, di avorio striato, sparsi presso ogni mercante di antichità. Il pensiero di una qualche Pietà venne e scomparve: tutto questo probabilmente soltanto per il richiamo di una certa inclinazione del suo viso lungo, della sconsolata barba che gli ricresceva nell'ombra delle guance, della cecità definitiva, piena di dolore, della sua espressione chiusa, rivolta di sbieco verso l'alto. Ma oltre a ciò vi erano molte cose che gli appartenevano; poiché già allora capii che in lui nulla era senza significato: non il modo in cui la giacca o il cappotto, che dietro erano discosti dal collo, lasciavano vedere dappertutto il colletto, quel colletto basso che stava in grande arco intorno al collo stecchito e misero senza toccarlo; non la cravatta nero-verdastra, annodata larga intorno al tutto; e tanto meno il cappello, un vecchio cappello duro a cupola alta, che egli portava come tutti i ciechi portano il cappello: senza rapporto con le linee del volto, senza la possibilità di formare tra questa aggiunta e se stessi una nuova unità esteriore; non altro che un oggetto convenzionale ed estraneo. Nella mia viltà di non volerlo guardare andavo tanto oltre che infine, spesso, l'immagine di quell'uomo si componeva in me anche senza motivo, forte e dolorosa, in una miseria così dura che decisi, assillato da essa, di intimidire e paralizzare l'abilità crescente della mia immaginazione con la vera realtà esterna. Era verso sera. Mi proposi di passargli subito dinanzi guardandolo con attenzione.
Ora, bisogna sapere: si andava verso la primavera. Il vento del giorno s'era posato, le strade erano lunghe e soddisfatte; ai loro sbocchi rilucevano case, nuove come fratture fresche in un metallo bianco. Ma era un metallo che sorprendeva per la sua leggerezza. Nelle vie ampie, ininterrotte, molta gente andava disordinatamente, quasi senza temere le vetture che erano rare. Doveva essere una domenica. Le sommità delle torri di Saint-Sulpice apparivano serene e inaspettatamente alte nell'aria quieta, e per le strade strette, quasi romane, ci si affacciava senza volerlo sulla nuova stagione. Dentro e fuori i giardini c'era tanto movimento di persone, che subito non lo vidi. O a tutta prima non lo riconobbi tra la folla?
Seppi immediatamente che l'immagine che mi ero fatta era senza valore. La sua dedizione alla miseria, non limitata da alcun riguardo, da alcuna finzione, superava i miei mezzi. Non avevo colto né l'angolo d'inclinazione del suo portamento né l'orrore con cui il lato interno delle sue palpebre sembrava riempirlo di continuo. Non avevo mai pensato alla sua bocca, tirata in dentro come l'apertura di una gronda. Forse aveva ricordi; ma ora nulla si aggiungeva più alla sua anima, tranne che la sensazione amorfa dell'orlo di pietra lungo il quale si consumava la sua mano. Mi ero fermato, e mentre vedevo tutto ciò quasi in un solo istante, sentivo che egli aveva un altro cappello e senza dubbio la cravatta della domenica; era tessuta in sbieco a quadrati gialli e violetti, e il cappello era un cappello di paglia nuovo, a buon mercato, con un nastro verde. Non hanno alcuna importanza, naturalmente, questi colori, ed è un eccesso di minuzia che io li abbia serbati nella memoria. Dirò soltanto che gli stavano indosso come la piumaggine più morbida sul ventre di un uccello. Lui stesso non ne traeva alcun piacere, e chi fra tutti (mi guardai intorno) avrebbe potuto credere che quella gala fosse rivolta a lui?
Dio mio, pensai d'impeto, dunque tu sei, così! Ci sono testimonianze della tua esistenza. Le ho dimenticate tutte e non ne ho preteso mai nessuna, perché quale impegno mostruoso sarebbe implicito nella certezza che tu sei! Pure, adesso mi è additata. Questo è il tuo gusto, così tu trai soddisfazione. Se imparassimo a reggere dinanzi a tutto e non giudicare! Quali sono le cose nefaste? Quali, le benigne? Tu solo lo sai.
Quando sarà di nuovo inverno e dovrò avere un nuovo cappotto, concedimi di portarlo così, finché è nuovo.
Non è che io voglia distinguermi da loro se vado in giro con abiti migliori, miei fin dal principio, e ci tengo ad abitare da qualche parte. Non sono così avanti. Non ho cuore per fare la loro vita. Se perdessi l'uso di un braccio, credo che lo nasconderei. Ma lei (non so dire meglio chi fosse), lei appariva ogni giorno dinanzi alle terrazze dei caffè, e sebbene le riuscisse molto difficile togliersi il cappotto e sottrarsi all'impaccio della veste confusa e della sottoveste, non schivava la fatica e si affaccendava a liberarsi e a tirar fuori, così a lungo che non si poteva quasi più stare ad aspettare. E poi rimaneva dinanzi a noi, modesta, col suo pezzo secco e rattrappito, e si vedeva che era un pezzo raro.
No, non è che io voglia distinguermi da loro; ma sarei presuntuoso se volessi essere uguale a loro. Non lo sono. Non avrei né la loro forza né la loro misura. Mi nutro, e così sono, da un pasto all'altro, privo di ogni mistero; ma essi si conservano quasi come gli eterni. Stanno sul loro angolo quotidiano, anche in novembre, e non gridano per l'inverno che viene. Viene la nebbia e li fa confusi e incerti: ciò nonostante, ci sono. Partii, fui malato, mi accaddero molte cose: ma loro non sono morti.
(E non so neppure come sia possibile che gli scolari si alzino nelle camerette piene di freddo che odora di grigio; non so chi dia la forza agli scheletrini frettolosi di correre fuori nella città adulta, nel torbido fondiglio della notte, nell'eterno giorno di scuola, ancor sempre piccoli, sempre pieni di presentimenti, sempre in ritardo. Non ho nemmeno idea dell'enorme quantità di soccorsi che vengono consumati di continuo.)
Questa città è piena di persone che lentamente scivolano giù verso di loro. La maggior parte da principio oppone resistenza; ma ci sono poi quelle ragazze sbiadite, già vecchie, che di continuo si lasciano andare senza reagire, forti, intatte nel più intimo, che non sono mai state amate.
Forse tu pensi, mio Dio, che io debba lasciare tutto e amarle. Perché, se no, mi è così difficile non seguirle quando mi sorpassano? Perché invento d'un tratto le parole più dolci, più notturne, e la voce mi si ferma tenera fra la gola e il cuore? Perché m'immagino come con cautela indicibile le terrei vicino al mio respiro, queste bambole con cui ha giocato la vita, spalancando loro le braccia di primavera in primavera, per nulla e ancora per nulla, finché ciondolassero allentate dalle spalle? Non sono mai cadute molto dall'alto, da una speranza, e dunque non si sono spezzate; le hanno però buttate giù e ormai sono troppo sciupate per la vita. Solo gatti randagi vanno da loro di sera, nella piccola camera, e le graffiano in segreto e dormono su di loro. Qualche volta ne seguo una per un paio di strade. Vanno rasente le case, ad ogni momento uomini passano e le nascondono, ed esse svaniscono di nuovo dietro di loro, come un nulla.
E tuttavia so che se uno ora provasse ad amarle, peserebbero su di lui come creature spintesi troppo lontano che cessano di andare. Credo che solo Gesù le reggerebbe, lui che ha ancora il risorgere in tutte le membra; ma non gli importa di loro. Lo seducono solo le amanti, non queste che attendono con un piccolo talento per essere amate, come con una lampada fredda.
So che, se sono destinato all'estremo, non mi servirà a nulla travestirmi con i miei abiti migliori. Non scivolò egli dal centro della regalità fin tra gli ultimi? Egli, che invece di ascendere calò giù fino al fondo. È vero, talvolta ho creduto negli altri re, sebbene i parchi non testimonino più di nulla. Ma è notte, è inverno, ho freddo, credo in lui. Poiché la magnificenza è solo un istante, e noi non abbiamo mai visto nulla di più lungo della miseria. Ma il re deve durare.
Non è questi l'unico che si conservò sotto la propria follia come i fiori di cera sotto una campana di vetro? Per gli altri imploravano lunga vita nelle chiese, ma di lui il cancelliere Jean Charlier Gerson esigeva che fosse eterno, e questo quando già egli era il più bisognoso di tutti, guasto e in schietta povertà nonostante la sua corona.
Questo, quando di tanto in tanto estranei dal volto annerito lo assalivano nel letto, per strappargli la camicia marcita dentro le ulcere, che già da tempo egli credeva fosse se stesso. Era venuto buio nella stanza, e quelli strappavano sotto le sue braccia rigide i brandelli corrotti, così come venivano. Poi uno faceva lume, e solo allora scoprivano sul suo petto la ferita purulenta in cui era affondato l'amuleto di ferro, poiché egli ogni notte lo premeva a sé con tutta la forza del suo fervore; ora stava profondamente in lui, paurosamente prezioso, in un serto di perle di pus, come un avanzo facitore di miracoli nell'incavo di un reliquiario. Si erano scelti duri manovali, ma non resistevano allo schifo quando i vermi, disturbati, si levavano verso di loro dal fustagno fiammingo e, caduti dalle pieghe, salivano su per le loro maniche. Senza dubbio egli era peggiorato dai giorni della parva regina; poiché quella aveva pur ancora voluto giacergli a fianco, giovane e bianca com'era. Poi era morta. E nessuno aveva più osato mettere una concubina a letto con quella carogna. La regina non aveva lasciato dietro di sé le parole e le tenerezze con cui si poteva ammansire il re. Così, nessuno più penetrava attraverso la selvatichezza di quello spirito; nessuno lo aiutava a uscire dalle forre della sua anima; nessuno lo capiva quando, d'improvviso, ne emergeva fuori da solo con gli occhi rotondi di una bestia che va alla pastura. Quando poi egli riconosceva il viso occupato di Juvénal, allora gli tornava in mente il regno, come da ultimo era stato. E voleva recuperare ciò che si era lasciato sfuggire.
Ma era insito nelle vicende di quel torno di tempo, che non si svolgessero con riguardo e risparmio. Quando accadeva qualcosa, accadeva con tutto il suo peso, e quando la si riferiva era tutta d'un pezzo. Che cosa si poteva levare dal fatto che suo fratello era stato assassinato, che ieri Valentina Visconti, quella che egli chiamava sempre la sua cara sorella, gli si era inginocchiata davanti, sollevando il nero vedovile dal lamento e dall'accusa del volto sfigurato? E oggi, per ore e ore, un avvocato tenace e ciarliero stava là e dimostrava il diritto del principesco elargitore di assassinio, finché il delitto diveniva trasparente come se dovesse, limpido, salire al cielo. Ed essere giusto significava dar ragione a tutti; poiché Valentina d'Orléans morì dal dolore, sebbene le si promettesse vendetta. E a che servì perdonare e perdonare ancora al duca di Borgogna? su di lui era giunto il buio fervore della disperazione, così che già da settimane abitava in una tenda nel profondo della foresta di Argilly e sosteneva che aveva bisogno, per ottenere sollievo, di udire la notte il bramito dei cervi.
Quando poi si era ripensato a tutto ciò, dal principio alla fine, e non era cosa lunga, il popolo bramava vedere qualcuno, e vedeva qualcuno: perplesso. Ma il popolo si rallegrava a quella vista; capiva che quello era il re: quel silenzioso, quel paziente, che c'era solo per consentire che Dio agisse su di lui nella sua tardiva impazienza. In quei momenti di lucidità sul balcone del suo palazzo di Saint-Pol il re presentiva forse il suo segreto progresso; gli veniva in mente la giornata di Roosbecke, quando suo zio di Berry lo aveva preso per mano, per condurlo dinanzi alla sua prima vittoria matura; allora, nel giorno di novembre in cui la chiarità durava stranamente a lungo, egli abbracciò con lo sguardo le masse dei Gandesi che si erano soffocati con la loro stessa ressa quando la cavalleria aveva caricato contro di loro da ogni lato. Intrecciati gli uni negli altri come un enorme cervello, giacevano nei mucchi in cui essi stessi s'erano stretti, per essere fitti. Mancava il fiato, a vedere da ogni parte i loro visi asfissiati; non ci si poteva impedire di immaginare che l'esalare improvviso di tante anime disperate ricacciasse il fiato lontano da quei cadaveri, tenuti ancora in piedi dalla loro calca.
Glielo avevano impresso in mente come il principio della sua gloria. Ed egli l'aveva conservato. Ma se quello, allora, fu il Trionfo della Morte, ora il fatto che egli stesse là in piedi sulle deboli gambe, dritto in tutti quegli occhi, era il Mistero dell'Amore. Negli altri aveva visto che quel campo di battaglia si poteva capire, per quanto orrendo. Ma questo, ora, non poteva essere capito; era un miracolo come un giorno il cervo con il collare d'oro nella foresta di Senlis. Solo che adesso era lui stesso l'apparizione, e altri erano assorti nel contemplare. E non dubitava che essi fossero senza fiato e nella stessa ampia attesa che lo colse quel giorno di caccia della sua adolescenza, quando il muso silenzioso, occhieggiante, uscì dai rami. Il mistero della sua visibilità si spandeva sulla mite figura del re; egli non si muoveva per timore di svanire, il tenue sorriso sul volto largo, semplice, assumeva una durata naturale, come nei santi di pietra, e non gli chiedeva sforzo. Così porgeva se stesso, ed era uno degli istanti che sono l'eternità vista di scorcio. La folla non resse. Rafforzata, nutrita di conforto inesauribilmente moltiplicato, essa ruppe il silenzio con il grido di gioia. Ma lassù sul balcone c'era ormai solo più Juvénal des Ursins, ed egli gridò nel primo istante di calma che il re sarebbe andato in rue Saint-Denis dalla Confraternita della Passione a vedere i Misteri.
In quei giorni il re era pieno di dolce consapevolezza. Se un pittore del tempo avesse cercato qualcosa cui appoggiarsi per dipingere l'esistenza nel paradiso, non avrebbe potuto trovare un modello più perfetto della figura quietata del re, quale appariva con le spalle abbandonate ad una delle alte finestre del Louvre. Sfogliava il libretto di Christine de Pisan, che si intitolava «La via del lungo studio» ed era dedicato a lui. Non leggeva le dotte dispute di quel parlamento allegorico che si era proposto di scoprire il principe degno di regnare sul mondo. Il libro gli si apriva sempre ai passi più facili: ove si parla del cuore che per tredici anni, come un alambicco sul fuoco del dolore, era servito soltanto a distillare l'acqua di amarezza per gli occhi; egli capiva che la vera consolazione cominciava soltanto quando la felicità era sufficientemente trascorsa e finita per sempre. Nulla gli era più vicino di questo conforto. E mentre il suo guardo sembrava abbracciare il ponte, laggiù, egli amava vedere il mondo attraverso quel cuore della forte Cumana, commosso dalle grandi vie, il mondo d'allora: i mari rischiosi, città dalle torri straniere, serrate dalla pressione degli ampi spazi; la solitudine estatica delle montagne raccolte e i cieli scrutati in pauroso dubbio, che solo allora si chiudevano come il cranio di un neonato.
Ma quando entrava qualcuno, egli si spaventava, e lentamente il suo spirito si appannava. Permetteva che lo si allontanasse dalla finestra e lo si occupasse. Gli avevano fatto prendere l'abitudine di indugiare per ore sulle illustrazioni dei libri, e ne era soddisfatto, solo lo affliggeva che sfogliando non si riuscisse mai ad avere molte figure insieme dinanzi agli occhi, che quelle fossero immobili sugli in-folio, e non si potesse farle muovere le une con le altre. Allora qualcuno si era ricordato di un gioco di carte che era completamente caduto in oblio, e il re concesse il suo favore a chi glielo portò; tanto erano secondo il suo cuore quei cartoncini multicolori e mobili, ognuno, e pieni di figure. E mentre giocare alle carte diveniva di moda tra i cortigiani, il re sedeva nella biblioteca e giocava da solo. Proprio come egli, ora, scopriva due re uno di fianco all'altro, Dio aveva da poco appaiato lui stesso e l'imperatore Venceslao; talvolta moriva una regina, e allora egli le poneva sopra un asso di cuori, era come una pietra tombale. Non lo meravigliava che in quel gioco ci fosse più d'un papa; egli poneva Roma laggiù sull'orlo della tavola, e qui, sotto la sua destra, era Avignone. Roma gli era indifferente; la immaginava, chissà perché, rotonda, e non vi si soffermava oltre. Ma Avignone la conosceva. E appena vi pensava, la sua memoria ripeteva l'alto palazzo ermetico e si stancava troppo. Egli chiudeva gli occhi e doveva respirare a fondo. Temeva di far brutti sogni, la prossima notte.
Ma, nel complesso, era davvero un'occupazione acquietante, e avevano ragione di indurvelo sempre. Quelle ore lo confermavano nell'opinione di essere il re, re Carlo VI. Ciò non significa che esagerasse la sua importanza; era lungi da lui la convinzione d'essere qualcosa di più di una di quelle carte, ma gli si rafforzava la certezza d'essere anch'egli una carta determinata, forse una cattiva, una giocata con rabbia, che perdeva sempre: ma sempre la stessa carta: ma mai un'altra. E tuttavia, quando una settimana era così trascorsa in regolare conferma del suo io, egli cominciava a trovarsi allo stretto dentro di sé. La pelle gli si tendeva sulla fronte e sulla nuca, come se d'un tratto egli sentisse troppo netto il proprio contorno. Nessuno sapeva a quale tentazione egli cedeva, quando si informava allora dei misteri e non riusciva ad aspettare che cominciassero. E una volta iniziati, abitava più in rue Saint-Denis che nel suo palazzo di Saint-Pol.
Era fatalità di quei poemi rappresentati acquistare sempre nuovi brani e ampliarsi e crescere fino a decine di migliaia di versi, così che alla fine il tempo che era in loro diveniva quello reale; quasi come se si fabbricasse un globo della misura della terra. Il palco cavo, sotto il quale c'era l'inferno e sopra il quale, fissata a un pilastro, l'armatura senza parapetto di un terrazzino rappresentava il livello del paradiso, contribuiva soltanto a diminuire l'inganno. Poiché quel secolo aveva realmente fatto terrestri cielo e inferno: viveva delle forze di entrambi, per riuscire a reggersi.
Erano i giorni di quella cristianità avignonese che, una generazione prima, s'era raccolta intorno a Giovanni XXII con tanta involontaria ansia di rifugio che nel luogo del suo pontificato, subito dopo di lui, era sorta la massa di quel palazzo, chiuso e pesante come un estremo corpo di fortuna per l'anima di tutti, senza dimora. Lui però, il piccolo vecchio, lieve, spirituale, abitava ancora all'aperto. Mentre, appena giunto, cominciò senza indugi ad agire da ogni lato, rapido e conciso, sulla sua tavola c'erano i piatti conditi col veleno; la prima coppa doveva sempre essere versata al suolo, poiché il pezzo di unicorno era di colore sospetto quando il gentiluomo di bocca lo ritraeva da essa. Perplesso, non sapendo dove nasconderle, il settuagenario portava su di sé le statuette di cera che avevano fatto a sua immagine per procurare la sua fine; e si graffiava con i lunghi aghi da cui erano trafitte. Si potevano fondere. Ma egli si era già così spaventato per quei simulacri segreti, che, contro la sua stessa forte volontà, più volte compose il pensiero di poter essere mortalmente vulnerabile in quelle e svanire come la cera nel fuoco. Il suo corpo smagrito divenne soltanto ancor più secco dal terrore e più duraturo. Ma ora si attentava al corpo del suo regno; da Granada gli ebrei erano stati sobillati a sterminare l'intera cristianità, e questa volta avevano assoldato esecutori più terribili. Già alle prime voci, nessuno dubitò del complotto dei lebbrosi; già alcuni li avevano visti gettare nei pozzi i fagotti della loro orribile putredine. Non fu per credula leggerezza che subito lo si ritenne possibile; al contrario, la fede era divenuta così pesante che sfuggì ai tremanti e cadde fin nel fondo dei pozzi. E di nuovo l'assiduo vecchio dovette allontanare il veleno dal sangue. Al tempo dei suoi accessi di superstizione aveva prescritto per sé e per la sua corte l'Angelus contro i demoni del crepuscolo; e ora, in tutto il mondo agitato, si suonava ogni sera quella preghiera calmante. Ma tutte le bolle e le lettere che partivano da lui assomigliavano più a un vino drogato che a una tisana. L'impero non si era voluto sottoporre alla sua cura; egli però non si stancava di sovraccaricarlo di prove del suo male; e già dal più remoto oriente ci si volgeva a quel medico imperioso.
Ma allora accadde l'incredibile. Il giorno di Ognissanti egli aveva predicato, più a lungo, con più calore del solito; per un bisogno improvviso, come per rivedere se stesso, aveva mostrato la sua fede; con tutte le sue forze l'aveva tratta fuori lentamente dal tabernacolo dei suoi ottantacinque anni ed esposta sul pulpito: e allora gridarono contro di lui. Tutta l'Europa gridò: quella fede era cattiva.
Allora il papa scomparve. Per giorni, da lui non emanò alcun atto; giaceva sulle ginocchia nel suo oratorio e scrutava il mistero di coloro che agiscono e recano danno alla propria anima. Alla fine comparve, estenuato dal duro esame di coscienza, e ritrattò. Ritrattò una cosa dopo l'altra. Ritrattare divenne la passione senile del suo spirito. Poteva accadere che facesse svegliare di notte i cardinali per discutere con loro del suo pentimento. E forse fu questo che faceva durare la sua vita oltre misura, solo la speranza di umiliarsi anche dinanzi a Napoleone Orsini che lo odiava e non voleva venire.
Giacomo di Cahors s'era ritrattato. E si potrebbe credere che Dio stesso avesse voluto dimostrargli il suo errore, poiché subito dopo fece sorgere quel figlio del conte di Ligny che sembrava attendere la sua maggiore età sulla terra solo per accedere in età da nozze alle sensualità dell'anima in cielo. C'erano molti che ricordavano quel chiaro fanciullo durante il cardinalato, e come egli al principio dell'adolescenza fosse divenuto vescovo e appena raggiunti i diciotto anni fosse morto in un'estasi della sua perfezione. Si incontrarono dei morti resuscitati: poiché l'aria intorno al suo sepolcro, nella quale era vita pura, divenuta libera, agì ancora a lungo sui cadaveri. Ma non c'era qualcosa di disperato anche in quella santità maturata precoce? Non fu un torto per tutti che il puro tessuto di quell'anima fosse stato appena impregnato, come se si trattasse soltanto di tingerlo luminosamente nel pronto mastello di scarlatto dell'epoca? Non si avvertì come un contraccolpo, quando il giovane principe si spiccò dalla terra nella sua ascensione appassionata? Perché i luminosi non indugiavano tra i faticosi fabbricatori di candele? Non era quell'oscurità che aveva indotto Giovanni XXII a sostenere che prima del giudizio finale non vi fosse alcuna assoluta beatitudine, in alcun luogo, neppure fra i beati? E in realtà, quanto accanimento, quanta pretesa d'aver ragione comunque, erano necessari per immaginare che, mentre qui accadeva così folto disordine, in qualche luogo vi fossero volti già assorti nella vista di Dio, appoggiati comodi agli angeli e quietati dall'inesauribile veduta su di lui.
Siedo qui nella notte fredda e scrivo e so tutto questo. Lo so, forse, perché ho incontrato quell'uomo, quando ero piccolo. Era molto alto, credo perfino che la sua altezza fosse sorprendente.
Per inverosimile che sembri, ero riuscito in qualche modo ad uscire di casa solo, verso sera; corsi, voltai un angolo, e in quello stesso istante urtai contro di lui. Non capisco come ciò che allora accadde potesse svolgersi in cinque secondi. Per quanto concisamente lo si racconti, dura molto più a lungo. Mi ero fatto male nell'urto contro di lui; ero piccolo, già mi sembrava molto che non piangessi, e anche mi aspettavo istintivamente d'essere consolato. Poiché non lo fece, credetti che fosse imbarazzato; non gli veniva in mente, immaginai, lo scherzo giusto per risolvere la cosa. Già sarei stato abbastanza contento di poterlo aiutare, ma per farlo bisognava che lo guardassi in faccia. Ho detto che era alto. Ora, non si era chinato verso di me, come sarebbe stato naturale, e dunque si trovava a un'altezza cui non ero preparato. Dinanzi a me continuavano ad esserci solo l'odore e la singolare durezza del suo abito, che avevo sentito. D'improvviso giunse la sua faccia. Com'era? Non lo so, non voglio saperlo. Era la faccia di un nemico. E di fianco a quella faccia, stretto di fianco, all'altezza degli occhi terribili, c'era come una seconda testa il suo pugno. Prima ancora d'avere il tempo di chinare il volto, già correvo; lo scansai a sinistra e corsi giù per una strada vuota, paurosa, la strada di una città straniera, una città in cui non si transige su nulla.
Allora sperimentai ciò che adesso comprendo; quel tempo pesante, massiccio, disperato. Il tempo in cui il bacio di due che si riconciliavano era solo il segnale per gli assassini già pronti. Bevevano dalla stessa coppa, montavano dinanzi agli occhi di tutti lo stesso cavallo, e si diceva che di notte dormissero nello stesso letto; e per tutti questi contatti la loro reciproca avversione diveniva così acuta, che appena l'uno vedeva le vene pulsanti dell'altro una nausea morbosa lo faceva impennare come alla vista di un rospo. Il tempo in cui il fratello aggrediva e faceva prigioniero il fratello per brama della sua parte maggiore di eredità; il re interveniva in favore del maltrattato e gli faceva restituire la libertà e i beni; occupato in altri lontani destini, il primogenito gli accordava pace e si pentiva per lettera della sua ingiustizia. Ma con tutto questo il liberato non riacquistava più la calma. Il secolo lo mostra in abito da pellegrino errare di chiesa in chiesa, inventando voti sempre più strani. Carico di amuleti, bisbigliava ai monaci di Saint-Denis le sue apprensioni, e nei loro registri rimase a lungo annotato il cero di cento libbre, che egli giudicò bene consacrare a San Luigi. Alla sua propria vita non giunse mai; fino alla fine sentì l'invidia e la collera di suo fratello in stravolta costellazione sopra il suo cuore. E quel conte di Foix, Gaston Phébus, da tutti ammirato, non aveva ucciso pubblicamente suo cugino Ernault, capitano del re d'Inghilterra a Lourdes? E che cosa fu questo palese assassinio rispetto al caso orribile per cui egli non aveva deposto l'affilato coltellino da unghie, quando con la mano di famosa bellezza sfiorò in convulso rimprovero il collo nudo di suo figlio buttato sul letto? La stanza era buia, si dovette far lume per vedere il sangue che veniva da tanto lontano e ora abbandonava per sempre una stirpe magnifica, uscendo in segreto dalla minuscola ferita del ragazzo esausto.
Chi poteva essere forte e astenersi dall'omicidio? Chi non sapeva, a quel tempo, che l'estremo era inevitabile? Qua e là giungeva uno strano presentimento in chi con il proprio sguardo aveva incontrato durante il giorno lo sguardo pregustante del suo assassino. Si ritirava, si richiudeva, scriveva la fine delle sue volontà e ordinava per sé, in ultimo, la barella di giunchi, il saio dei Celestini e lo spargimento delle ceneri. Menestrelli stranieri comparivano dinanzi al suo castello, ed egli li compensava in modo principesco per la loro voce che era concorde con i suoi vaghi presentimenti. Nello sguardo dei cani era il dubbio, e divenivano meno sicuri nella loro obbedienza. Dalla divisa: che era stata valida per tutta la vita, scaturiva un secondo significato, nuovo, esplicito. Alcune lunghe abitudini si rivelavano invecchiate, ma era come se in cambio di quelle non se ne formasse più alcuna. Se si facevano dei piani, si prospettavano in grande, senza realmente credervi; e invece certi ricordi divenivano inaspettatamente definitivi. La sera, accanto al fuoco, si credeva di abbandonarsi a loro. Ma, fuori, la notte che non più si conosceva diveniva d'un tratto fortissima nell'udito. Esperto di tante notti libere o pericolose, l'orecchio distingueva ogni singolo pezzo del silenzio. E tuttavia questa volta era diverso. Non la notte fra ieri e oggi: una notte. Notte. Beau Sire Dieu, e poi la resurrezione. A mala pena in simili ore penetrava la celebrazione di un'amata: erano tutte contraffatte nelle aubese nei serventesi; divenute inafferrabili sotto i nomi di gala dai lunghi strascichi. Al più, nel buio, quasi lo sguardo carico e femmineo di un bastardo.
E poi, prima della tarda cena notturna quella sosta pensierosa sulle mani nel bacile d'argento. Le proprie mani. Era possibile stabilire un nesso fra ciò che era loro? una conseguenza, una continuità nel prendere e lasciare? No. Tutti tentavano la parte e la controparte. Tutti si pareggiavano, non c'era alcuna azione.
Non c'era alcuna azione, se non presso i Confratelli della Missione. Il re, non appena li ebbe visti recitare, procurò loro di persona la lettera di privilegio. Li chiamava suoi cari fratelli; nessuno lo aveva mai toccato così da vicino. Fu loro accordato a chiare lettere di andare fra i secolari secondo la loro intenzione; poiché il re non avrebbe desiderato altro che infiammassero molti e li attirassero nella loro forte azione, in cui era l'ordine. Quanto a lui, era ansioso di imparare. Non portava egli stesso su di sé, come loro, i simboli e le vesti di un senso? Guardandoli, poteva credere che avrebbe imparato ad andare e venire, ad asserire e a declinarsi in modo che non vi fosse alcun dubbio. Enormi speranze gli traversavano il cuore. In quella sala dell'Ospedale della Trinità dalle luci vacillanti, stranamente indistinta, sedeva ogni giorno al posto migliore e balzava in piedi dall'eccitazione e si concentrava come uno scolaretto. Altri piangevano; ma egli, dentro di sé, era pieno di lacrime splendenti e si limitava a stringere le mani fredde l'una contro l'altra per riuscire a sopportarlo. Talvolta, all'estremo, quando un attore dopo aver detto la sua parte si ritirava d'improvviso dal campo dei suoi occhi sbarrati, egli sollevava il volto e si spaventava: da quanto tempo Egli era già là: Monseigneur San Michele, lassù, fattosi innanzi sull'orlo dell'impalcatura nella sua specchiante armatura d'argento?
In simili momenti egli si alzava. Si guardava intorno come prima di una deliberazione. Era ormai sul punto di scorgere il rovescio di quell'azione: la grande, paurosa Passione profana in cui egli recitava. Ma d'un tratto era finita. Tutti si muovevano senza senso. Fiaccole scoperte avanzavano verso di lui e gettavano ombre informi sulla volta. Voleva recitare: ma dalla sua bocca non usciva nulla, i suoi movimenti non davano alcuna mimica. La folla gli si premeva contro così stranamente, gli veniva l'idea di doversi caricare della croce. E voleva aspettare che la portassero. Ma erano più forti, e lentamente lo spingevano fuori. |[continua]|
|[PARTE SECONDA, 4]|
All'esterno molte cose sono cambiate. Non so come. Ma nell'interno e dinanzi a Te, mio Dio, nell'interno dinanzi a Te, spettatore: non siamo noi senza azione? Scopriamo, sì, che non sappiamo la parte, cerchiamo uno specchio, vorremmo struccarci ed eliminare il falso ed essere veramente. Ma qua e là ci resta ancora attaccato un pezzo di travestimento, che dimentichiamo. Una traccia di esagerazione rimane nelle nostre sopracciglia, non notiamo che gli angoli della nostra bocca sono piegati. E andiamo in giro così, zimbelli e creature dimezzate: né uomini veri né attori.
Fu nel teatro di Orange. Quasi senza levare gli occhi, solo consapevole del muro rustico che ora forma la sua facciata, ero entrato dalla porticina a vetri del custode. Mi trovai in mezzo a tronchi di colonne giacenti e piccole altee, ma solo per un istante mi nascosero la conchiglia aperta delle gradinate che giaceva là, spartita dalle ombre del pomeriggio, come un'immensa meridiana concava. Mi affrettai subito verso di essa. Sentivo, salendo tra le fila di gradini, che io diminuivo in quello spazio che mi circondava. Su, un poco più in alto, mal distribuiti, se ne stavano in oziosa curiosità alcuni stranieri; le loro vesti erano spiacevolmente nitide, ma le loro proporzioni restavano insignificanti. Per un momento mi guardarono e si meravigliarono della mia piccolezza. Perciò mi voltai.
Oh, ero del tutto impreparato. Si stava recitando. Un immenso, un sovrumano dramma era in corso, il dramma di quel possente muro di scena, la cui struttura verticale si faceva innanzi tripla, tonante di grandezza, quasi annientante e d'improvviso piena di misura nella dismisura.
Cedetti di sgomenta felicità. Quel maestoso, altissimo, con le sue ombre ordinate come in una faccia, con il buio raccolto nella bocca del suo centro, limitato lassù dall'acconciatura a riccioli uguali del cornicione: quello era la forte, l'antica maschera che simula tutto, dietro la quale il mondo raccolse perché vi fosse un viso. Là, in quel grande emiciclo, regnava un'esistenza in attesa, vuota, succhiante: tutto l'accadere era fuori: dèi e destino. E da fuori giungeva (se si guardava ben in alto) leggero, sopra la cresta della muraglia: l'eterno ingresso solenne dei cieli.
Quell'ora, lo capisco adesso, mi escluse per sempre dai nostri teatri. Che fare in essi? Che fare, dinanzi a una scena in cui questa muraglia (l'iconostasi delle chiese russe) venne demolita, poiché non si ha più la forza di premere attraverso la sua durezza l'azione, la simile a un gas, che ne esca in piene e pesanti gocce d'olio. Oggi i drammi cadono a briciole attraverso il setaccio grossolano delle scene e si ammucchiano e vengono rimossi quando ce n'è abbastanza. È la stessa realtà non pronta che sta nelle vie e nelle case, solo che là, sulla scena, se ne raccoglie più di quanta ne entri in una sera altrove.
(Siamo dunque sinceri, noi non abbiamo alcun teatro, così come non abbiamo un Dio: per averli occorre essere comunità. Ciascuno ha le sue particolari idee e le sue paure e ne mostra agli altri quel tanto che gli è utile e gli si confà. Continuiamo ad assottigliare il nostro capire, affinché possa bastare, invece di chiedere urlando la muraglia di una miseria comune, dietro la quale l'incomprensibile abbia il tempo di raccogliersi e accrescersi.)
Se avessimo un teatro, o tragica, staresti tu ancora, sempre così scarna, così spoglia, senza alcuna maschera-pretesto sul volto, dinanzi a coloro che divertono la loro frettolosa curiosità con il tuo dolore esposto? Tu, che commuovi indicibile, prevedesti la realtà del tuo soffrire già a quel tempo, a Verona, quando ancor quasi una bimba recitasti tenendo davanti a te un mazzo di rose come una facciata mascherante, che doveva nascondere te, accresciuta.
È vero, eri figlia d'arte, e i tuoi quando recitavano volevano essere visti; ma tu fosti degenere. Quel mestiere doveva divenire per te ciò che per Marianna Alcoforado, senza che lo sospettasse, fu l'essere monaca: un travestimento fitto e lungo abbastanza per potervi stare dietro in miseria senza ritegno, con il fervore che fa beati i beati invisibili. In tutte le città dove fosti, descrissero i tuoi gesti; ma non capirono che tu, di giorno in giorno più priva di speranza, alzavi ancor sempre davanti a te una poesia, se mai ti tenesse al riparo. Tenevi i capelli, le mani, ogni cosa solida, davanti ai punti traslucidi. Appannavi col fiato le trasparenze; ti facevi piccola; ti andavi a nascondere come vanno a nascondersi i bambini, e avevi poi quel breve, gioioso grido: un angelo, al massimo, avrebbe potuto cercarti. Ma, alzavi poi gli occhi con cautela, e non c'era dubbio: per tutto il tempo ti avevano vista, tutti nel brutto spazio cavo, occhiuto: te, te, te, e null'altro.
E ti veniva voglia di mostrare loro il braccio piegato col gesto delle dita contro il malocchio. Ti veniva voglia di strappare loro il tuo viso, di cui si pascevano. Ti veniva voglia di essere te stessa. Ai tuoi compagni di scena veniva meno il coraggio; come se li avessero rinchiusi insieme con una pantera, strisciavano lungo le quinte e dicevano le battute che in quel momento scadevano, solo per non irritarti. Tu però li trascinavi avanti e li collocavi e trattavi con loro come con esseri reali. Le porte flosce, le tende illuse, gli oggetti con una sola faccia ti spingevano alla contraddizione. Sentivi il tuo cuore aumentare inarrestabile ad una realtà immensa e, atterrita, tentavi ancora una volta di staccare da te gli sguardi come i lunghi filamenti che sono nell'aria durante l'estate di San Martino... Ma già scoppiavano in applausi nella loro paura dell'estremo: come per allontanare da sé all'ultimo momento qualcosa che li avrebbe costretti a mutare la loro vita.
Vivono duramente gli amati, e in pericolo. Oh, se potessero superarsi e divenire amanti! Intorno alle amanti vi è solo sicurezza. Nessuno più le sospetta, ed esse stesse non sono più in grado di tradirsi. In loro il segreto è divenuto intero, lo gridano tutto, come usignoli, indivisibile. La loro lamentazione è su di uno solo; ma la natura intera vi si intona all'unisono: è la lamentazione su un eterno. Si precipitano dietro al perduto, ma già dopo i primi passi lo superano, e innanzi a loro è solo Dio. La loro leggenda è quella di Byblis, che insegue Kaunos fino in Licia. L'impeto del suo cuore la cacciò per terre e terre sulla traccia di lui, e infine fu esausta; ma la mobilità del suo essere era così forte che ella, caduta, riapparve di là dalla morte come sorgente, rapida, come rapida sorgente.
Che altro è accaduto alla Portoghese, se non che all'interno ella divenne sorgente? E a te, Eloisa? che altro a voi, amanti, le cui lamentazioni ci sono giunte: Gaspara Stampa; la contessa di Die e Clara d'Anduze; Louise Labbé, Marceline Desbordes, Elisa Mercoeur? Ma tu, povera Aïssé fuggitiva, tu già esitavi e cedesti. Stanca Julie Lespinasse. Sconsolata leggenda del parco felice: Marie-Anne de Clermont.
So ancora con esattezza che una volta, molto tempo fa, a casa, trovai un astuccio per gioielli; era largo due palmi, fatto a ventaglio, con un orlo di fiori impresso nel marocchino verde scuro. Lo aprii: era vuoto. Questo posso dirlo ora, dopo tanto tempo. Ma allora, quando lo ebbi aperto, vidi soltanto di cosa consisteva quel vuoto: di velluto, di un lieve rialzo di velluto chiaro, non più fresco; dell'incavo del gioiello che vi si perdeva con una traccia di malinconia più chiara, vuoto. Per un istante lo si poteva sopportare. Ma dinanzi a chi, amato, resta indietro, forse è sempre così.
Sfogliate all'indietro i vostri diari. Non c'era sempre, verso la primavera, un periodo in cui l'anno irrompente vi colpiva come un rimprovero? C'era in voi desiderio di essere liete, e tuttavia, quando uscivate nel grande aperto, nasceva per l'aria un disappunto e diventavate malsicure nel passo, come su una nave. Il giardino cominciava; ma voi (era così) trascinavate dentro l'inverno e l'anno prima; per voi era, al più, una continuazione. Mentre aspettavate che la vostra anima partecipasse, sentivate d'improvviso il peso delle membra, e qualcosa come la possibilità di ammalarsi penetrava nel vostro presentimento aperto. Ne davate colpa al vestito troppo leggero, vi tendevate lo scialle sulle spalle, correvate fino in fondo al viale: e poi vi fermavate, il cuore in gola, sul grande rondò, decise ad essere una cosa sola con il tutto, intorno. Ma risuonava un uccello ed era solo e vi smentiva. Oh, avreste dovuto essere morte?
Forse. Forse è nuovo che noi si superi questo: l'anno e l'amore. Fiori e frutti sono maturi quando cadono; gli animali si sentono e si trovano l'un l'altro e sono soddisfatti. Ma noi, noi che ci siamo prefissi Dio, non possiamo essere pronti. Spostiamo in avanti la nostra natura come le sfere dell'orologio, abbiamo ancora bisogno di tempo. Che cos'è un anno per noi? Che cosa tutti gli anni? Ancor prima d'aver cominciato Dio, già lo preghiamo: facci superare questa notte. E poi le malattie. E poi l'amore.
Che Clémence de Bourges sia dovuta morire al suo principio! Lei, che era senza pari; lei, fra gli strumenti che sapeva suonare come nessun'altra, il più bello, suonato in modo indimenticabile anche al minimo echeggiare della sua voce. Il suo esser fanciulla fu così risoluto che un'amante crescente come una marea poté dedicare a quel cuore che diveniva grande il libro di sonetti in cui ogni verso non aveva quiete. Louise Labbé non temette di spaventare la bimba con il lungo soffrire d'amore. Le mostrò la crescita notturna del desiderio; le promise il dolore come un universo più grande; e presagì di restare indietro con la sua pena provata, dietro alla pena oscuramente attesa di cui l'adolescente era bella.
Fanciulle della mia terra! Che la più bella di voi, un pomeriggio d'estate, trovi nella biblioteca oscurata il piccolo libro che Jan des Tournes ha stampato nel 1556. Che porti fuori con sé il volume fresco, liscio, nel frutteto ronzante o dall'altra parte, vicino al phlox che nel profumo troppo zuccherato ha un fondiglio di pura dolcezza. Che lo trovi presto. Nei giorni in cui i suoi occhi cominciano a fermarsi su di lei, mentre la bocca, più bambina, è ancora capace di mordere da una mela pezzi troppo grossi e riempirsene tutta.
E quando poi giunge il tempo delle amicizie più mosse, che il vostro segreto sia di chiamarvi l'un l'altra Dika e Anaktoria, Gyrinno e Atthis. Che un uomo, un vicino forse, più vecchio di voi, che ha viaggiato nella sua gioventù e da un pezzo passa per originale, vi riveli quei nomi. Che vi inviti qualche volta per le sue pesche famose o per le acqueforti di cavalli di Ridinger su nel corridoio bianco, di cui si parla tanto che bisogna averle vedute.
Forse lo convincerete a raccontare. Forse c'è fra di voi quella che può indurlo a tirare fuori i vecchi diari di viaggio, chissà? Quella stessa che un giorno sa strappargli che qualche frammento di Saffo è giunto fino a noi, e non ha pace finché apprende ciò che quasi è un segreto: che quell'uomo ritirato amò a volte impiegare il suo ozio nel tradurre quei pezzi di versi. Egli deve ammettere che da molto tempo non ci ha più pensato, e di ciò che e fatto, assicura, non vale la pena parlare. Eppure è contento, dinanzi a quelle amiche senza malizia, quando insistono perché dica una strofa. Riscopre perfino nella memoria il testo greco, lo pronuncia, poiché a suo parere la traduzione non rende nulla, e per mostrare alle fanciulle la frattura bella e pura della massiccia lingua gioiello, che fu piegata su fiamme così forti.
Tutto questo lo riaccende per il suo lavoro. Vengono per lui belle sere, quasi di gioventù, sere d'autunno per esempio, che hanno dinanzi a sé moltissima notte silenziosa. Allora nel suo studio c'è luce fino a tardi. Egli non resta sempre curvo sui fogli, spesso si appoggia all'indietro, chiude gli occhi su una riga letta e riletta, e il senso di quella gli si spande nel sangue. Mai fu così certo dell'antichità. Quasi vorrebbe sorridere delle generazioni che l'hanno pianta come uno spettacolo perduto, nel quale volentieri si sarebbero prodotte. Per un attimo ora egli afferra il significato dinamico di quella precoce unità del mondo, che fu quasi una nuova, simultanea presa di ogni lavoro umano. Non è fuorviato dal fatto che quella civiltà conseguente, con il numero per così dire compiuto delle sue visibilità, a molti occhi tardivi sembri formare un tutto, e trascorso nel tutto. Là, certo, la metà celeste della vita fu adattata realmente alla coppa rotonda dell'esistenza, come due pieni emisferi combaciano in colmo globo d'oro. Ma era appena accaduto, che gli spiriti chiusi dentro sentirono quell'attuazione senza residuo solo come un simbolo; l'astro massiccio perse di peso e salì nello spazio, e sulla sua rotondità aurea si specchiò, ritraendosi, la tristezza di ciò che ancora non era da compiere.
Mentre questo il solitario pensa nella sua notte, pensa e comprende, vede sulla panca della finestra un piatto di frutta. Senza volere prende una mela e la pone dinanzi a sé sulla tavola. Come si aggira intorno a questo frutto, la mia vita! egli pensa. Intorno a tutto ciò che è pronto sale l'incompiuto e si accresce.
E allora dall'incompiuto gli sorge, quasi troppo veloce, la piccola figura tesa fuori nell'infinito, quella (secondo la testimonianza di Galeno) cui tutti pensavano quando dicevano: la poetessa. Poiché, come la distruzione e la ricostruzione del mondo si levavano esigenti alle imprese di Eracle, così dalle riserve dell'essere le beatitudini e le disperazioni che devono bastare per tutti i tempi si premevano verso le fatiche del cuore di lei, per essere vissute.
Egli conosce d'un tratto quel cuore risoluto che fu pronto a eseguire tutto l'amore, fino alla fine. Non lo meraviglia che sia stato misconosciuto; che in quell'amante supremamente futura si sia visto solo la dismisura, non la nuova unità di misura di amore e dolore. Che l'epigrafe dell'esistenza di lei sia stata interpretata come risultava credibile allora, che infine le si sia attribuita la morte di quelle che il Dio incita, solitarie, a gettarsi fuori di sé amando, non corrisposte. Forse perfino tra le amiche formate da lei ce n'erano alcune che non lo capivano: che ella dall'alto del suo agire levasse la lamentazione non su quell'uno che lasciò aperto l'abbraccio di lei, ma sul non più possibile che era cresciuto fino al suo amore.
Qui il pensieroso si alza e va alla finestra, la sua alta stanza gli è troppo vicina, vorrebbe vedere stelle se fosse possibile. Non si inganna su di sé. Sa che questo moto lo colma poiché tra le fanciulle del vicinato c'è quella che gli fa domande. Egli ha desideri (non per sé, no, ma per lei); per lei comprende in un'ora notturna, che trascorre, l'esigenza dell'amore. Si promette di non dirgliene nulla. L'estremo, gli sembra, è essere solo e vegliare e per causa di lei pensare quanto avesse ragione quell'amante: quando sapeva che con l'unione non si può intendere null'altro che una crescita di solitudine; quando, con il suo scopo infinito, spezzava il fine temporale del sesso. Quando nel buio degli abbracci scendeva a dissotterrare non l'acquietamento, ma il desiderio. Quando disprezzava che di due uno fosse l'amante e uno l'amato, e le deboli amate che si portava nel letto le incendiava con se stessa in amanti, che la lasciavano. In tali alti addii il suo cuore diveniva natura. Sopra il destino cantava alle predilette degli anni trascorsi il loro canto nuziale; esaltava loro le nozze; esagerava loro il prossimo sposo, affinché si raccogliessero per lui come per un Dio e superassero anche il suo splendore.
Una volta ancora, Abelone, negli ultimi anni ti sentii e ti compresi, inaspettatamente, dopo che da lungo tempo non avevo pensato a te.
Fu a Venezia, d'autunno, in uno di quei salotti in cui stranieri si raccolgono di passaggio intorno alla padrona di casa, straniera come loro. Questa gente se ne sta in piedi, tutt'in giro, con la sua tazza di tè, e vanno in estasi ogni qual volta un vicino bene informato li fa voltare verso la porta, rapido e furtivo, per sussurrare loro un nome che suona veneziano. Sono preparati ai nomi più straordinari, nulla può sorprenderli; poiché, per quanto parsimoniosi possano essere altrove nell'avere esperienze, in questa città si concedono con nonchalance di sperare nelle possibilità più illusorie. Nella loro esistenza abituale scambiano costantemente lo straordinario con il proibito, così che l'attesa del portentoso che ora si permettono compare sui loro volti come un'espressione rozza e dissoluta. Ciò che in patria capita loro solo per un attimo al concerto o quando si trovano soli con un romanzo, ora, in quelle circostanze lusinganti, ne fanno sfoggio come del loro stato d'animo legittimo. Così come, affatto impreparati, senza capire il pericolo, si fanno eccitare dalle confessioni quasi mortali della musica come da indiscrezioni fisiologiche, così, senza minimamente venire a capo dell'esistenza di Venezia, si consegnano al remunerativo deliquio delle gondole. Sposi non più novelli, che per tutto il viaggio hanno l'uno per l'altro soltanto repliche astiose, affondano in taciturna, reciproca compatibilità; sul marito scende la piacevole stanchezza dei propri ideali, mentre lei si sente giovane e fa incoraggianti cenni del capo ai pigri indigeni, sorridendo come se avesse denti di zucchero che fondono di continuo. E se si tende l'orecchio si apprende che partiranno domani, o dopodomani, o alla fine della settimana.
Ero dunque in mezzo a loro e mi rallegravo di non partire. Tra poco avrebbe fatto freddo. Svanisce con quei sonnolenti stranieri la Venezia molle e oppiacea della loro immagine già fatta e dei loro bisogni, e un bel mattino ecco l'altra, la reale, desta, intrattabile fino a spezzarsi, per nulla fatta di sogni: la Venezia voluta nel mezzo del nulla sopra foreste sommerse, ottenuta di forza e infine, a poco a poco, fatta presente. Il corpo indurito, ridotto all'indispensabile, attraverso il quale l'Arsenale insonne spinge il sangue del suo lavoro, e di questo corpo lo spirito penetrante, sempre più ampliantesi, che era più forte del profumo di paesi aromatici. Lo stato suggestivo che barattava il sale e il vetro della sua povertà con i tesori dei popoli. Il bel contrappeso del mondo, che fin dentro i suoi ornamenti è colmo di energie latenti che si ramificavano in nervi sempre più fini: questa Venezia.
La consapevolezza di conoscere ciò mi sopravvenne, in mezzo a tutta quella gente che si ingannava, con tanta contraddizione che levai gli occhi per confidarmi in qualche modo. Era pensabile che in quelle sale non ci fosse uno, il quale senza saperlo attendeva d'essere illuminato sull'essenza del luogo che lo circondava? Un giovane, il quale subito capisse che qui non era dispiegato un godimento, ma un esempio di volontà più esigente e severo di quanto si potesse mai trovare altrove? Mi aggiravo intorno, la mia verità mi rendeva inquieto. Poiché mi aveva afferrato qui, fra tanta gente, portava con sé il desiderio d'essere espressa, difesa, provata. Sorse in me l'immagine grottesca di quando, tra un attimo, mi sarei messo a battere le mani per odio contro il malinteso sminuzzato sulle bocche di tutti.
In questo stato d'animo ridicolo mi accorsi di lei. Stava, da sola, presso una finestra raggiante di luce e mi osservava; non davvero con gli occhi, che erano seri e pensierosi, ma addirittura con la bocca, che ironica imitava l'espressione palesemente irritata del mio viso. Subito sentii la tensione impaziente dei miei lineamenti e assunsi un viso disteso, e allora la sua bocca divenne naturale e altera. Poi, dopo un attimo di esitazione, ci sorridemmo entrambi nello stesso istante.
Ella ricordava, se si vuole, un certo ritratto giovanile della bella Benedicte von Qualen, che ebbe una parte nella vita di Baggesen. Non si poteva guardare l'oscura quiete dei suoi occhi senza presagire la chiara oscurità della sua voce. Per altro, l'intreccio dei capelli e la scollatura del suo abito chiaro ricordavano tanto Copenaghen che decisi di rivolgerle la parola in danese.
Ma non le ero ancora abbastanza vicino, quando dalla parte opposta irruppe verso di lei una corrente; la nostra contessa felice di ospiti, nella sua calda, entusiastica distrazione, si precipitava essa stessa su di lei con una folla di assistenti, per trascinarla a cantare. Ero sicuro che la fanciulla si sarebbe schermita, dicendo che nessuno dei presenti poteva avere interesse a sentir cantare in danese. Fece appunto questo, appena poté parlare. La ressa intorno alla chiara figura divenne più insistente; qualcuno sapeva che ella cantava anche in tedesco. «E in italiano,» soggiunse una voce ridente, con maliziosa convinzione. Io non sapevo quale pretesto avrei potuto augurarle, ma non dubitai che avrebbe resistito. Già un'asciutta aria offesa si spandeva sui volti dei persuasori, stanchi del loro lungo sorridere, già la buona contessa per non essere mortificata dal no si allontanava di un passo, compassionevole e dignitosa, quando, ora che non era più affatto necessario, ella cedette. Sentii che impallidivo dalla delusione; lo sguardo mi si riempì di rimprovero, ma mi voltai, non valeva la pena lasciarglielo scorgere. Lei però si liberò dagli altri e mi fu d'un tratto vicina. Il suo abito mi rischiarò, l'odore di fiori del suo calore mi fu intorno.
«Canterò proprio,» ella disse in danese lungo la mia guancia, «non perché loro lo chiedono, non per la forma: perché ora devo cantare.»
Usciva dalle sue parole la stessa insofferenza irritata da cui lei un attimo prima mi aveva liberato.
Seguii lentamente il gruppo con cui si allontanò. Ma ad un'alta porta rimasi indietro, lasciai che la gente passasse oltre e si disponesse nella sala. Mi addossai contro il battente interno, nero di specchio, e aspettai. Qualcuno mi chiese che cosa si preannunciava, se qualcuno avrebbe cantato. Finsi di non saperlo. Mentre mentivo, lei già cantava.
Non potevo vederla. A poco a poco si fece spazio intorno a una di quelle romanze italiane che gli stranieri considerano molto genuine, poiché sono così chiaramente convenzionali. Ella, che la cantava, non ci credeva. La faceva salire con fatica, le dava troppo peso. Dagli applausi là avanti si capì che era finito. Ero triste e umiliato. Vi fu un po' di movimento e mi proposi di unirmi al primo che fosse uscito.
Ma d'un tratto si fece silenzio. Seguì un silenzio che, anche solo un attimo prima, nessuno avrebbe creduto possibile; durava, si tendeva, e ora si levò in esso la voce. (Abelone, pensai. Abelone.) Questa volta la voce era forte, piena e pure non pesante; d'un pezzo solo, senza fratture, senza saldature. Era uno sconosciuto Lied tedesco. Lo cantava con strana semplicità, come qualcosa di necessario. Cantava:
Tu, cui non dico che la notte
giaccio piangendo,
il cui essere mi fa stanco
come una culla.
Tu, che non mi dici se vegli
per causa mia:
e se questo splendore,
senza quietarlo,
sopportassimo in noi?
(una breve pausa e con esitazione):
Guarda gli amanti,
come mentono
non appena cominciano a confessarsi.
Di nuovo il silenzio. Dio sa chi lo faceva. Poi la gente si mosse, si urtarono, si scusarono, tossirono. Già volevano trascorrere in un rumore che avrebbe cancellato tutto, quando d'improvviso la voce irruppe, risoluta, ampia e serrata:
Tu mi fai solo. Soltanto te posso mutare.
Un istante sei tu, poi è di nuovo lo stormire,
è un profumo senza residuo.
Oh, fra le braccia le persi tutte,
tu sola, tu continuamente rinasci:
poiché mai ti trattenni, io ti tengo.
Nessuno s'era aspettato questo. Tutti rimasero curvi sotto quella voce. E alla fine c'era in essa una tal sicurezza, come se avesse saputo da anni che in quel momento sarebbe risuonata.
Prima mi chiedevo talvolta perché Abelone non impiegasse in Dio le calorie del suo meraviglioso sentimento. So che bramava di togliere al suo amore ogni transitorietà; ma poteva il suo cuore veritiero ingannarsi su questo - che Dio è soltanto una direzione dell'amore, non un oggetto d'amore? Non sapeva che da lui non doveva temere d'essere corrisposta? Non conosceva il ritrarsi di questo amato, superiore, che differisce quietamente il piacere, per lasciare che noi, lenti, abbiamo il tempo di eseguire tutto il nostro cuore? O voleva evitare Cristo? Temeva di essere trattenuta da lui a metà del cammino, di divenire per lui un'amata? Per questo pensava malvolentieri a Julie Reventlow?
Quasi lo credo, quando penso che poterono lasciarsi venir meno in questa agevolazione di Dio, arrendevoli e tuttavia amate, un'amante così ingenua come Mechthild, una così trascinante come Teresa d'Avila, una così piagata come la Beata Rosa da Lima. Oh, colui che fu un aiuto per i deboli, e per queste forti un'ingiustizia; quando già non s'aspettavano più che il cammino infinito, ecco venire ancora incontro a loro nella protesa anticamera del cielo uno che prese forma e che le vizia offrendo loro un ricovero e le turba con la sua virilità. La possente lente rifrangente del suo cuore concentra ancora una volta i raggi già paralleli dei loro cuori, ed esse, che gli angeli speravano già di conservare intatte per Dio, s'incendiano nell'aridità del loro desiderio.
(Essere amati significa ardere e consumarsi. Amare è: illuminare con olio inesauribile. Divenire amati è passare, amare è durare.)
Nondimeno è possibile che Abelone in anni più tardi abbia cercato di pensare con il cuore, per giungere senza dar nell'occhio e direttamente in rapporto con Dio. Potrei immaginare che ci siano lettere sue, le quali ricordino l'attenta contemplazione interiore della principessa Amalia Galitzin; ma se queste lettere furono indirizzate a qualcuno che per anni le era stato vicino, come deve aver sofferto quegli per il suo cambiamento! E lei stessa: suppongo che non temesse nulla più di quello spettrale divenire altra, che non si nota poiché continuamente ci si lascia cadere di mano le sue prove, come la cosa più estranea.
Sarà difficile convincermi che la storia del figliol prodigo non sia la leggenda di colui che non volle essere amato. Quando era un bambino, tutti in casa lo amavano. Cresceva, non conosceva altro e si abituò alla tenerezza dei loro cuori, poiché era un bambino.
Ma da ragazzo volle deporre le sue abitudini. Non avrebbe saputo dirlo, ma quando restava fuori a vagabondare per tutto il giorno e non voleva più avere con sé neppure i cani, era perché anch'essi lo amavano; perché nei loro sguardi c'erano osservazione e partecipazione, attesa e apprensione; perché anche dinanzi ad essi non si poteva fare nulla senza rallegrare o mortificare. E ciò che allora voleva era l'intera indifferenza del suo cuore, che talvolta, all'alba, nei campi, lo afferrava con tale purezza che egli cominciava a correre per non avere più tempo né fiato, per non essere più che un leggero istante nel quale il mattino prende coscienza.
Il segreto della sua vita non ancora mai stata gli si apriva dinanzi. Involontariamente abbandonava il sentiero e correva attraverso i campi, a braccia tese, come se in quell'ampiezza potesse riuscire a compiere più direzioni in una volta. E poi si gettava da qualche parte, dietro una siepe, e nessuno gli dava importanza. Si scortecciava un flauto, lanciava un sasso contro un piccolo animale da preda, si piegava in avanti e costringeva un coleottero a invertire la strada: tutto questo non diveniva destino, e i cieli passavano come sopra un oggetto della natura. Arrivava infine il pomeriggio con tutte le sue buone idee; egli era un bucaniere sull'isola di Tortuga, e non c'era nessun obbligo di esserlo; assediava Campêche, conquistava Veracruz; poteva essere l'intero esercito o un condottiero a cavallo o una nave in mare: tutto ciò cui si sentiva disposto. Ma se gli veniva in mente di inginocchiarsi era subito Déodat de Gozon e aveva abbattuto il drago e capiva, tutto ardente, che quell'eroismo era altero, senza ubbidienza. Poiché non si risparmiava nulla di ciò che entrava nell'avventura. Ma per quante fantasie sorgessero, c'era ancor sempre il tempo di non essere altro che un uccello, è incerto quale. Solo che poi c'era la via del ritorno.
Mio Dio, quanto si doveva deporre e dimenticare! poiché dimenticare veramente, era necessario; altrimenti egli si sarebbe tradito se avessero insistito. Per quanto indugiasse e si volgesse indietro, la sommità della casa finiva poi per spuntare. La prima finestra in alto lo afferrava nel proprio occhio, può darsi che là ci fosse qualcuno. I cani, in cui l'attesa era cresciuta per tutto il giorno, si precipitavano attraverso i cespugli e snidavano in lui quello che pensavano egli fosse. E la casa faceva il resto. Bastava entrare nel suo odore pieno, e il più era deciso. Potevano ancora cambiare delle piccolezze; nel complesso lui era già quello che là essi credevano; colui al quale da tempo avevano creato una vita con il suo breve passato e con i loro propri desideri; quell'essere che era di tutti, che giorno e notte stava sotto la suggestione del loro amore, fra la loro speranza e il loro sospetto, davanti al loro biasimo o consenso.
Così, non gli serve a nulla salire le scale con indicibile cautela. Saranno tutti in salotto, e basta che la porta si apra perché guardino da quella parte. Egli resta nell'oscurità, sta aspettando le loro domande. Ma poi viene il peggio. Lo prendono per mano, lo tirano verso la tavola, e tutti quanti sono si allungano curiosi dinanzi alla lampada. Hanno buon gioco, restano in ombra, e su di lui solo cade con la luce tutta la vergogna di avere un volto.
Rimarrà e continuerà a fingere la vita approssimativa che gli attribuiscono, e con tutto il suo volto diventerà simile a loro? Si dividerà fra il delicato vero della sua volontà e il massiccio inganno che gliela rovina? Rinuncerà a divenire ciò che potrebbe far male ai suoi familiari, i quali hanno ancora soltanto un debole cuore?
No, se ne andrà. Per esempio, mentre tutti loro sono occupati a preparargli la tavola del compleanno con gli oggetti male indovinati che dovrebbero ancora una volta appianare ogni cosa. Andarsene per sempre Solo molto più tardi gli diverrà chiaro con quanta decisione si fosse allora prefisso di non amare mai, per non porre nessuno nella situazione terribile d'essere amato. Anni dopo gli viene in mente, e come altri propositi anche questo è stato impossibile. Poiché egli ha amato e amato ancora nella sua solitudine; ogni volta con sperpero di tutta la sua natura e con indicibile angoscia per la libertà dell'altro. Lentamente ha imparato a trasparire con i raggi del suo sentimento attraverso l'oggetto amato, anziché consumarlo con essi. E si era affinato nel rapimento di riconoscere attraverso la figura sempre più trasparente delle amate gli spazi che essa apriva alla sua infinita volontà di possesso. Come poteva allora per notti intere piangere dal desiderio d'essere lui stesso attraversato da simili raggi! Ma un'amata che cede non è, ancora per lungo tempo, un'amante. O notti sconsolate, in cui riceveva indietro in pezzi i suoi doni crescenti come marea, pesanti di caducità! Come pensava allora ai troubadours che nulla temevano più dell'essere esauditi! Diede tutto il denaro guadagnato e accresciuto, per non sperimentare ancora questo. Le mortificò con il suo brutale pagamento, di giorno in giorno pauroso che potessero tentare di consentire al suo amore. Poiché non aveva più speranza di trovare l'amante che irrompesse attraverso di lui.
Perfino nel tempo in cui la povertà lo spaventava ogni giorno con nuove durezze, in cui la sua testa era l'oggetto preferito della miseria e tutto logorato, in cui dappertutto gli si aprivano ulcere nel corpo come occhi di pena verso la nerezza della tribolazione, in cui inorridiva delle immondizie su cui l'avevano abbandonato, poiché era pari ad esse: perfino allora, se rifletteva, il suo orrore più grande era d'essere riamato. Cos'erano tutte quelle tenebre rispetto alla stretta tristezza degli abbracci in cui tutto si perdeva? Non ci si destava con il senso d'essere senza futuro? Non era assurdo girare per il mondo senza diritto ad alcun pericolo? Non si era dovuto promettere cento volte di non morire? forse era la caparbietà di quel cattivo ricordo, che di ritorno in ritorno voleva conservarsi un posto, ciò che faceva durare la sua vita tra i rifiuti. Infine lo ritrovarono. E solo allora, solo negli anni in cui fu pastore, si quietò il suo molto passato.
Chi descrive ciò che gli accadde allora? Quale scrittore è convinto di conciliare la lunghezza di quei suoi giorni con la brevità della vita? Quale arte è ampia abbastanza per evocare insieme la sua esile figura ammantellata e l'intero oltrespazio delle sue notti immense?
Fu il tempo in cui egli cominciò a sentirsi universale e anonimo come un esitante convalescente. Non amava, soltanto amava essere. L'amore basso delle sue pecore non gli importava; come luce che cade attraverso le nuvole, gli si disperdeva intorno e luccicava lieve sui prati. Sulla traccia incolpevole della loro fame, egli andava silenzioso per i pascoli del mondo. Stranieri lo videro sull'acropoli, e forse fu a lungo uno dei pastori nella regione di Baux e vide il tempo pietrificato sopravvivere all'alta stirpe che con tutte le lotte vittoriose del Sette e del Tre non riuscì a superare i sedici raggi della sua stella. Oppure devo pensarlo a Orange, appoggiato al rustico arco di trionfo? Devo vederlo nell'ombra degli Allyscamps avvezza alle anime, mentre il suo sguardo segue una libellula tra i sepolcri che sono aperti come i sepolcri di resuscitati?
Non importa. Vedo oltre di lui, vedo la sua esistenza che allora iniziò il lungo amore verso Dio, il lavoro silenzioso, senza meta. Poiché su di lui, che per sempre si era voluto trattenere, giunse ancora una volta il crescente non poter essere altro del suo cuore. E questa volta sperò d'essere esaudito. La sua intera essenza, divenuta presaga e imperturbabile nella lunga solitudine, gli promise che quello a cui ora pensava sarebbe condisceso ad amare con amore penetrante, raggiante. Ma mentre egli mirava ad essere infine amato in modo così magistrale, il suo sentimento abituato alle distanze comprese l'estrema lontananza di Dio. Vennero notti in cui credette di gettarsi su di lui nello spazio; ore piene di scoperta, in cui si sentì forte abbastanza da tuffarsi verso la terra per trascinarla in alto sulla marea del suo cuore. Era come uno che senta una lingua magnifica e febbrilmente si proponga di scrivere in essa. Ancora lo attendeva lo sgomento di sperimentare quanto fosse difficile quella lingua; dapprima non volle credere di poter trascorrere una lunga vita formando soltanto le prime, brevi frasi da esercizio, che sono senza senso. Si buttò nell'apprendere come un corridore nella gara; ma il fitto di ciò che era da superare lo rallentava. Non si poteva immaginare nulla di più umiliante di quell'apprendistato. Aveva trovato la pietra filosofale, e ora lo si costringeva a trasmutare senza tregua l'oro rapidamente fatto della sua felicità nel piombo grumoso della pazienza. Egli, che si era adattato allo spazio, scavava come un verme tortuosi cunicoli senza uscita e direzione. Ora che così faticosamente e penosamente imparava ad amare, si accorgeva di quanto trascurato e meschino fosse stato fino a quel momento ogni amore che aveva presunto di fabbricare. E capiva che da nessuno di essi era mai potuto nascere qualcosa, poiché egli non aveva cominciato a lavorarvi e ad attuarlo.
In quegli anni avvenero in lui i grandi mutamenti. Quasi dimenticò Dio per il duro lavoro di avvicinarsi a lui, e tutto ciò che col tempo sperò forse di ottenere da lui, fu «sa patience de supporter une âme». I casi del destino, a cui gli uomini danno importanza, erano già da lungo tempo caduti da lui, ma ora anche i piaceri e i dolori necessari persero il sapore speziato e gli vennero puri e nutrienti. Dalle radici del suo essere si sviluppò la pianta salda, sempreverde, di una gioia feconda. Si consacrò tutto a compiere ciò che stabiliva la sua vita interiore, non voleva passar sopra a nulla, poiché non dubitava che il suo amore fosse e crescesse in tutto ciò. Sì, la sua padronanza interna si spinse così avanti che egli decise di recuperare il più importante di ciò che, prima, non aveva potuto eseguire, di ciò che semplicemente era passato mentre egli lo attendeva. Pensò prima di tutto all'infanzia; quanto più vi rifletteva con calma, tanto più gli appariva incompiuta; tutti i suoi ricordi erano vaghi come presentimenti, e l'esser considerati trascorsi li rendeva quasi futuri. Riprendere su di sé tutto ciò ancora una volta, e questa volta realmente, fu la ragione per cui il divenuto straniero tornò a casa. Non sappiamo se rimase; sappiamo soltanto che tornò.
Coloro che hanno raccontato la storia cercano, a questo punto, di ricordarci la casa, com'era; poiché là è trascorso solo poco tempo, un poco di tempo contato, tutti nella casa possono dire quanto. I cani sono diventati vecchi, ma vivono ancora. Si narra che uno abbaiò. Nel lavoro quotidiano sopravviene un'interruzione. Volti appaiono alle finestre, volti invecchiati e cresciuti, di commovente somiglianza. E d'improvviso in uno vecchissimo trapela pallido il riconoscere. Riconoscere? Realmente solo riconoscere? - Perdonare. Perdonare di che? - L'amore. Mio Dio: l'amore.
Egli, il riconosciuto, non aveva più pensato, occupato com'era: che l'amore poteva esserci ancora. È comprensibile che di tutto ciò che allora accadde, solo questo fosse tramandato: il suo gesto, il gesto inaudito che non si era mai visto prima; il gesto d'implorazione con cui si gettò ai loro piedi, scongiurandoli di non amarlo. Atterriti e vacillanti lo rialzarono. Interpretarono il suo impeto a modo loro, perdonandogli. Per lui dev'essere stato indescrivibilmente liberante che tutti lo fraintendessero, nonostante la disperata chiarezza del suo gesto. Forse poté restare. Poiché di giorno in giorno riconobbe che non riguardava lui l'amore di cui erano tanto orgogliosi, incitandovisi segretamente l'un l'altro. Doveva quasi sorridere mentre loro si affaticavano, ed era chiaro quanto poco potessero davvero pensare a lui.
Cosa sapevano di chi egli era? Era allora terribilmente difficile da amare, e sentiva che solo uno ne sarebbe stato capace. Ma quegli ancora non voleva.