Lucia Berlin
[...]Immaginate il racconto di Čechov «Angoscia» narrato in prima persona. Un vecchio ci dice che gli è da poco morto un figlio. Ci sentiremmo in imbarazzo, a disagio, persino annoiati, reagiremmo proprio come i clienti del cocchiere nel racconto. Ma la voce imparziale di Čechov infonde dignità nell’uomo. Noi siamo pervasi dalla compassione dell’autore nei confronti del personaggio e siamo profondamente commossi, se non dalla morte del figlio, dal vecchio che parla col suo cavallo. Credo che questo dipenda dal fatto che siamo tutti alquanto insicuri. Per esempio, immaginiamo che io ora vi presenti la protagonista del racconto che sto scrivendo... «Sono una donna nubile di oltre sessantacinque anni. Lavoro in uno studio medico. Vado a casa in autobus. Ogni domenica faccio il bucato, poi la spesa da Lucky, dopodiché compro l’edizione domenicale del “Chronicle” e torno a casa». Voi mi direste: basta, per carità.[...]
La lavanderia a gettoni di Angel
Un vecchio indiano, alto, con un paio di Levi’s sbiaditi e una bella cintura zuni. I lunghi capelli bianchi legati all’altezza del collo con un filo di tessuto rosso lampone. La cosa strana era che da più o meno di un anno ci capitava di trovarci da Angel sempre alla stessa ora. Ma gli orari non erano mai gli stessi. Cioè, io magari ci andavo il lunedì alle sette o il venerdì alle sei e mezza di sera, e lui era già lì.
Con la signora Armitage era stato diverso, per quanto anche lei fosse vecchia. Succedeva a New York, nella San Juan Laundry, sulla Quindicesima. Portoricani. Il pavimento allagato di acqua saponata. All’epoca io ero una giovane madre che andava a lavare i pannolini il giovedì mattina. La signora abitava al piano di sopra, al 4 C. Una di quelle mattine mi diede una chiave e io la presi. Mi disse che se un giovedì non l’avessi vista significava che era morta e che allora per favore andassi a cercare il suo cadavere. Che cosa terribile da chiedere a una persona. Inoltre in questo modo ero costretta ad andare a fare il bucato sempre di giovedì.
Lei morì un lunedì e da allora non tornai più alla San Juan. A trovarla fu il custode del condominio. Come non so.
Per mesi, da Angel, io e l’indiano non ci rivolgemmo la parola. Ce ne stavamo seduti l’uno accanto all’altra su due sedie di plastica gialla, attaccate, come quelle degli aeroporti. Le sedie scivolavano sul linoleum pieno di crepe con un rumore che faceva stridere i denti.
Lui stava seduto e ogni tanto beveva un sorso di Jim Beam, e mi guardava le mani. Non direttamente, ma nello specchio di fronte a noi, sopra le lavatrici Speed Queen. All’inizio la cosa non mi dava fastidio. Un vecchio indiano che mi fissava le mani attraverso lo specchio sporco, tra il cartello ingiallito Stiratura 12 capi $1,50 e le preghiere della serenità in arancione fosforescente: Dio concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare. Ma a un certo punto cominciai a chiedermi se per caso non avesse un’ossessione per le mani. Mi innervosiva il fatto che mi guardasse mentre fumavo, mi soffiavo il naso o sfogliavo riviste vecchie di anni. Lady Bird Johnson che scendeva le rapide di un fiume.
Alla fine non potei fare a meno di fissare anch’io le mie mani. Gli vidi affiorare un mezzo sorrisino sulle labbra perché mi aveva sorpresa a farlo. Per la prima volta i nostri sguardi si incrociarono nello specchio, sotto Non sovraccaricare le macchine.
Nel mio sguardo, il panico. Mi fissai nello specchio, poi abbassai gli occhi sulle mani. Orrende macchie di vecchiaia, due cicatrici. Mani per nulla indiane, nervose, sole. Ci vedevo bambini, uomini e giardini, nelle mie mani.
Le sue mani, il giorno che avevo fissato le mie, erano appoggiate sulle cosce blu e rigide. Di solito erano scosse da un forte tremito, e lui le teneva in grembo e le lasciava tremare liberamente, ma quel giorno cercava di fermarle. Le nocche color adobe gli erano diventate bianche per lo sforzo di frenare il tremore.
L’unica volta che mi capitò di parlare con la signora Armitage fuori dalla lavanderia fu quando le si allagò il bagno e l’acqua, passando dal lampadario, filtrò fin sul mio piano. Acqua che spruzzava arcobaleni tra le luci ancora accese. Con la mano fredda e moribonda la signora mi afferrò un braccio e mi disse: «È un miracolo, vero?»
Lui si chiamava Tony. Era un apache jicarilla, veniva del nord. Un giorno che non l’avevo visto sentii una mano delicata sulla mia spalla e seppi all’istante che era lui. Mi diede tre monete da dieci centesimi. Io non capii, fui quasi sul punto di dirgli grazie, ma poi vidi che era in preda al tremore e non riusciva ad azionare le asciugatrici. Da sobri è difficile. Bisogna girare la freccia con una mano, inserire i dieci centesimi con l’altra, spingere giù lo stantuffo e poi riportare la freccia in posizione per inserire un’altra monetina.
Tornò più tardi, ubriaco, proprio mentre i suoi vestiti cominciavano ad asciugarsi e ad afflosciarsi. Non riuscì ad aprire lo sportello, perse i sensi sulla sedia gialla. I miei vestiti erano asciutti, li stavo piegando.
Io e Angel mettemmo Tony in piedi sul pavimento della sala stiro. Caldo. Angel è il responsabile di tutte le preghiere e i motti degli alcolisti anonimi. Non pensare e non bere. Angel mise un calzino spaiato umido e freddo sulla testa di Tony e gli si inginocchiò accanto.
«Fratello, credimi... Ci sono passato anch’io... anch’io ero infognato come te. So benissimo come ti senti».
Tony non aprì gli occhi. Chiunque dica di sapere benissimo come si sente un’altra persona è un cretino.
La lavanderia a gettoni di Angel è ad Albuquerque, New Mexico. Sulla Fourth Street. Botteghe scalcagnate e depositi di rottami, negozi di seconda mano con brandine dell’esercito, scatole di calzini spaiati, copie di «Good Hygiene» risalenti al 1940. Rivendite di granaglie, motel per amanti e ubriaconi e signore anziane con i capelli tinti con l’henné che vanno a fare il bucato da Angel. Da Angel ci vanno le sposine chicane adolescenti. Asciugamani, baby doll rosa, slip con la scritta Giovedì. I mariti indossano tute blu con il nome in corsivo sul taschino. Mi piace aspettare di vedere i nomi comparire nell’immagine speculare delle asciugatrici. Tina, Corky, Junior.
Da Angel ci va la gente che si sposta. Materassi sporchi, seggioloni arrugginiti fissati sul tetto di vecchie Buick ammaccate. Coppe dell’olio che perdono, contenitori di tela per l’acqua che perdono. Lavatrici che perdono. Gli uomini stanno seduti in macchina, a torso nudo, e schiacciano le lattine di Hamm’s appena svuotate.
Ma da Angel ci vanno soprattutto gli indiani. Indiani pueblo che vengono da San Felipe, da Laguna, da Sandia. Tony era l’unico apache che io avessi mai visto, in lavanderia e in generale. Mi piace storcere un po’ gli occhi mentre fisso le asciugatrici piene di vestiti indiani che girano in un miscuglio indistinto di viola, arancioni, rossi e rosa.
Da Angel ci vado io. Perché non lo so; non è solo per via degli indiani. Si trova dall’altra parte della città. A un isolato di distanza c’è il Campus, con tanto di aria condizionata, musica soft rock di sottofondo. «New Yorker», «Ms» e «Cosmopolitan». Lì ci vanno le mogli degli assistenti universitari, che comprano ai figli le barrette Zero al cioccolato e la Coca-Cola. Nella lavanderia Campus c’è un cartello, come in quasi tutte le lavanderie: Qui non si tingono tessuti. Io all’epoca mi feci il giro di tutta la città con un copriletto verde in macchina finché non passai davanti alla lavanderia di Angel con il suo cartello giallo: Colora qui i tuoi cappi.
Mi accorsi che il copriletto non era diventato viola scuro, ma di un verde più cupo e smorto di prima, però decisi di tornarci lo stesso. Mi piacciono gli indiani e i loro bucati. Il distributore rotto di Coca-Cola e il pavimento allagato mi ricordavano New York. Portoricani che passavano stracci su stracci. Il loro telefono a monete era sempre rotto, come quello di Angel. Sarei mai andata, un giovedì, a cercare il corpo della signora Armitage?
«Io sono un capotribù» disse l’indiano. Fino a quel momento se n’era stato seduto a bere qualche goccio di porto e a guardarmi le mani.
Mi disse che sua moglie faceva la donna delle pulizie. Avevano avuto quattro figli maschi. Il più piccolo si era suicidato, il primogenito era morto in Vietnam. Gli altri due erano autisti di scuolabus.
«Lo sai perché mi piaci?» mi chiese.
«No, perché?»
«Perché sei una pellerossa». Indicò la mia faccia nello specchio. È vero che ho la pelle rossa, e no, non mi era mai capitato di vedere un indiano con la pelle rossa.
Gli piaceva il mio nome, lo pronunciava all’italiana. Lucia. In Italia lui c’era stato durante la seconda guerra mondiale. E difatti, in mezzo alle sue belle collane d’argento e di turchese, c’era una piastrina identificativa di metallo con una profonda ammaccatura. «Una pallottola?» No, la mordeva quando aveva paura o quando era arrapato.
Un giorno mi propose di andare nel suo camper e stendermi per riposare un po’ insieme a lui.
«Gli eschimesi lo chiamano ridere insieme». Io gli indicai il cartello scritto in verde acido fosforescente: Mai lasciare le macchine incustodite. Cominciammo a ridere insieme, ghignavamo sulle nostre sedie di plastica attaccate. Poi restammo fermi lì, in silenzio. Si sentiva solo lo sciabordio dell’acqua, ritmico come le onde dell’oceano. La sua mano da Buddha che stringeva la mia.
Passò un treno. Mi diede di gomito: «Grande cavallo di ferro!» e giù di nuovo a sghignazzare.
Io faccio un sacco di generalizzazioni infondate sulle persone, tipo che a tutti i neri deve piacere per forza Charlie Parker. Che i tedeschi sono orribili, che gli indiani hanno un bislacco senso dell’umorismo, come quello di mia madre. Una delle sue freddure preferite è quella del tizio che si piega per allacciarsi una scarpa e dell’altro tizio che arriva, gliele dà di santa ragione e poi gli dice: «Sempre lì ad allacciarti le scarpe!» L’altra è quella del cameriere che versa del latte addosso a un cliente e dice: «Non ha senso piangere sul latte versato». Tony mi ripeteva queste barzellette nelle giornate particolarmente noiose in lavanderia.
Una volta che era sbronzissimo, di una sbronza aggressiva, si mise a fare a botte con degli Okie, i vagabondi dell’Oklahoma, nel parcheggio. Questi a un certo punto gli fracassarono la bottiglia di Jim Beam. Angel lo invitò a seguirlo nella sala stiro per fargli uno dei suoi discorsetti e gli promise che in cambio gli avrebbe comprato un quartino. Intanto che spostavo i miei vestiti dalla lavatrice all’asciugatrice, Angel spiegava a Tony il principio di «un giorno alla volta».
Quando uscì dalla sala, Tony mi schiaffò in mano le monetine. Infilai i suoi vestiti in una delle asciugatrici mentre lui armeggiava a fatica con il tappo di una bottiglia di Jim Beam. Prima che arrivassi a sedermi mi gridò: «Io sono un capo! Io sono un capotribù apache! E che cazzo!»
«Che cazzo a te, grande capo». Era seduto, beveva, guardava le mie mani nello specchio.
«E com’è che sei finito a fare il bucato degli apache?»
Non so perché glielo dissi. Fu una cosa molto cattiva. Forse pensavo che avrebbe riso. In ogni modo lui rise davvero.
«Qual è la tua tribù, pellerossa?» mi chiese guardando le mie mani che prendevano una sigaretta dal pacchetto. «Sai che la prima sigaretta che ho fumato me l’ha accesa un principe? Ci credi?»
«Certo che ci credo. Vuoi accendere?» Mi accese la sigaretta e ci scambiammo un sorriso. Eravamo vicinissimi, e poi a un certo punto lui perse i sensi e io rimasi da sola nello specchio.
C’era una ragazza molto giovane, non nello specchio, ma seduta vicino alla vetrina. Aveva i capelli arricciati dal vapore, ciocche botticelliane. Leggevo tutte le scritte. Dio dammi il coraggio. Culla nuova mai usata, neonato morto.
La ragazza mise i suoi vestiti in un cestino turchese e uscì. Io spostai i miei sul tavolo, controllai quelli di Tony e infilai un’altra moneta da dieci centesimi. Ero sola da Angel, con Tony. Mi guardai le mani e gli occhi allo specchio. Begli occhi azzurri.
Una volta mi trovavo su uno yacht al largo della costa di Viña del Mar. Mi feci dare la mia prima sigaretta e chiesi al principe Aly Khan se avesse da accendere. «Enchanté» mi disse lui. In realtà non aveva fiammiferi.
Ripiegai i panni e quando Angel tornò me ne andai a casa.
Non ricordo quand’è che mi resi conto di non aver mai più visto quel vecchio indiano.
Il dottor H.A. Moynihan
Io odiavo la St. Joseph. Terrorizzata com’ero dalle suore, un caldo giorno texano colpii suor Cecilia e venni espulsa. Per punizione, dovetti lavorare ogni giorno delle vacanze estive nello studio dentistico di mio nonno. Conoscevo il vero motivo per cui non volevano che giocassi con i bambini del quartiere. Messicani e siriani. Niente negri, ma era solo una questione di tempo, così diceva mia madre.
Sono certa che volevano anche risparmiarmi l’agonia della nonna, i suoi lamenti, le sue amiche che pregavano, la puzza e le mosche. Di notte si addormentava, con l’aiuto della morfina, e mia madre e il nonno bevevano da soli, ognuno nella sua stanza. Sentivo i gorgoglii di ognuno dalla veranda dove dormivo.
Per tutta l’estate il nonno quasi non mi parlò. Io sterilizzavo e riordinavo i suoi strumenti, annodavo gli asciugamani attorno al collo dei pazienti, porgevo loro il bicchierino con il collutorio Stom Aseptine e dicevo di sputare. Quando non c’erano pazienti, lui andava nel suo laboratorio a fare i denti o nel suo ufficio a incollare. Io non avevo il permesso di entrare in nessuna delle due stanze. Incollava Ernie Pyle e Franklin Delano Roosevelt. Aveva diversi album di ritagli di giornale per la guerra giapponese e quella tedesca. Aveva un album di ritagli per i crimini nel Texas e uno per gli incidenti bizzarri: uomo impazzisce e lancia un melone dalla finestra del secondo piano. Il melone colpisce in testa la moglie uccidendola, rimbalza, colpisce il bambino in carrozzina, uccide anche lui e tutto questo senza rompersi.
Tutti odiavano il nonno, tranne – immagino – la nonna e io. Ogni sera si ubriacava e diventava cattivo. Era crudele, fanatico e orgoglioso. Nel corso di un litigio aveva sparato allo zio John cavandogli un occhio e aveva sempre offeso e umiliato mia madre. Lei non gli rivolgeva più la parola, non gli si avvicinava nemmeno perché era sporco, sciatto con il cibo, sputava, lasciava in giro sigarette umidicce. Era sempre coperto di macchioline bianche di pasta per i calchi dentali, come un pittore, o una statua.
Era il miglior dentista del Texas occidentale, se non di tutto il Texas. Erano in molti a dirlo, e io ci credevo. Non era vero che i suoi pazienti erano tutti alcolizzati, o amiche della nonna; a dirlo era mia madre. C’erano signori distinti che arrivavano persino da Dallas o Houston, perché il nonno faceva delle dentiere fantastiche. Le sue dentiere non scivolavano né fischiavano, e sembravano vere in tutto e per tutto. Aveva inventato una formula segreta per conferire ai denti il giusto colore, a volte li faceva anche scheggiati o ingialliti, con tanto di capsule e otturazioni.
Non permetteva a nessuno di entrare nel laboratorio; soltanto ai pompieri, quella volta. Non veniva pulito da quarant’anni. Io ci entravo quando lui andava in bagno. Le finestre erano incrostate di nero per lo sporco, il gesso e la cera. L’unica luce veniva dal guizzo delle fiamme di due becchi di Bunsen. Enormi sacchi di gesso accatastati contro le pareti pieni di bozzi per i frammenti rotti di calchi dentali, che si riversavano sul pavimento, cera attaccata alle pareti, ragnatele svolazzanti. Gli scaffali erano carichi di strumenti arrugginiti e file di denti che sorridevano, o sottosopra, imbronciati, come tante maschere teatrali. Lavorando cantilenava tra sé, e le sue sigarette fumate a metà spesso davano fuoco a pezzetti di cera o a involucri di barrette di cioccolato. Faceva cadere il caffè sui fornelli, lasciando macchie di un marrone da spelonca sul pavimento coperto di morbidi strati di gesso.
Il laboratorio era collegato a un piccolo ufficio con uno scrittoio con alzata a scomparsa dove lui incollava i ritagli negli album e scriveva assegni. Dopo aver firmato, agitava sempre la penna, chiazzando di nero il nome e a volte cancellando l’importo, costringendo la banca a chiamarlo per verificare.
Non c’era una porta a separare la stanza dove lavorava e la sala d’attesa. Mentre era alle prese con un paziente, si girava a parlare con le persone che aspettavano, gesticolando col trapano in mano. I pazienti che avevano subito un’estrazione si adagiavano per riprendersi su una chaise longue. Gli altri si sedevano sui davanzali delle finestre o sui termosifoni. A volte qualcuno si sedeva nella cabina del telefono, un grosso abitacolo di legno con un telefono a pagamento, un ventilatore e la scritta Non ho mai incontrato un uomo che non mi sia piaciuto.
Non c’erano riviste. Se qualcuno ne comprava una e la lasciava lì, il nonno la buttava via. Mia madre diceva che lo faceva per fare l’antipatico. Lui diceva che lo faceva perché le persone che se ne stavano sedute lì a girare le pagine gli davano sui nervi.
Quando i pazienti non se ne stavano seduti, giravano per la stanza e armeggiavano con gli oggetti posati sulle due casseforti. Buddha, teschi con dentiere fatte in modo che si aprissero e si chiudessero, serpenti che ti mordevano se gli tiravi la coda, palle che se le capovolgevi si riempivano di neve. Sul soffitto c’era un cartello, Cosa diavolo guardi quassù? Nelle casseforti c’era oro e argento per le otturazioni, mazzette di soldi e bottiglie di Jack Daniel’s.
Su tutte le finestre, che affacciavano sulla via principale di El Paso, campeggiavano grosse lettere dorate che componevano la scritta Dottor H.A. Moynihan. Non lavoro per i negri. Le scritte si riflettevano negli specchi appesi alle restanti tre pareti. Lo slogan era sulla porta che dava sul corridoio. Io non mi sedevo mai con la faccia rivolta verso la porta perché avevo paura che venisse qualche negro a leggere quel cartello, ma nel Caples Building non ne ho mai visto uno, a parte Jim, l’uomo dell’ascensore.
Quando la gente telefonava per prendere appuntamento, il nonno mi faceva dire che non prendeva più pazienti, così, con il passare dell’estate, cominciò a esserci sempre meno da fare. Alla fine, poco prima che morisse la nonna, di pazienti non ce n’erano proprio più e il nonno se ne stava chiuso nel suo laboratorio o nell’ufficio. A volte io salivo sul tetto. Da lì si vedeva Juarez e tutto il centro di El Paso. Sceglievo una persona nella folla e la seguivo con lo sguardo finché non scompariva. Ma perlopiù stavo seduta dentro, sul termosifone, a guardare Yandell Drive. Trascorrevo ore a decodificare le lettere degli amici di penna di Captain Marvel, per quanto fosse noiosissimo: il codice consisteva semplicemente in A al posto di Z, B al posto di Y, e così via.
Le sere erano lunghe e calde. Le amiche della nonna rimanevano anche dopo che lei si era addormentata, leggevano brani della Bibbia, a volte cantavano. Il nonno usciva, andava alla loggia degli Elks, o a Juarez. Il tassista della compagnia 8-5 lo aiutava a salire le scale. Mia madre andava a giocare a bridge, o così diceva, ma anche lei tornava a casa ubriaca. I bambini messicani giocavano fuori fino a tardi. Io guardavo le ragazze dalla veranda. Giocavano a jacks, accovacciate sul cemento sotto il lampione. Morivo dalla voglia di giocare con loro. Il rumore dei pezzetti di metallo aveva qualcosa di magico per me, il lancio somigliava al suono delle spazzole su un tamburo o alla pioggia che batte contro il vetro di una finestra, spinta dalle folate di vento.
Una mattina il nonno mi svegliò che era ancora buio. Era domenica. Mi vestii mentre lui chiamava il taxi. Chiese all’operatore di passargli la 8-5 e quando la compagnia rispose, il nonno disse: «Mi servirebbe un trasporto, si può fare?» Quando il tassista gli chiese perché stessimo andando al suo ufficio di domenica, lui non rispose. L’ingresso era buio e spaventoso. Gli scarafaggi zampettavano rumorosamente sulle mattonelle e le riviste ci sorridevano da dietro le sbarre delle inferriate. Il nonno schiacciò i tasti dell’ascensore, facendolo schizzare in alto, e poi giù, e poi di nuovo su, finché non ci fermammo poco sopra il quinto piano e scendemmo con un salto. Una volta fermi non sentimmo alcun rumore. Soltanto le campane della chiesa e il tram di Juarez.
All’inizio ero troppo spaventata per seguirlo nel laboratorio, ma lui mi tirò dentro. Era buio, come in un cinema. Accese gli asmatici becchi di Bunsen. Continuavo a non vedere niente, non vedevo quello che voleva farmi vedere. Prese una dentiera da uno scaffale e la avvicinò alla fiamma sul blocco di marmo. Io scossi la testa.
«Continua a guardare» il nonno spalancò la bocca e io guardai i suoi denti, e poi quelli finti.
«Sono i tuoi!» dissi.
La dentiera era una replica perfetta dei denti nella bocca del nonno, le gengive erano persino di un brutto rosa pallido e malaticcio. I denti avevano otturazioni e scalfitture, alcuni erano rotti o consumati. Ne aveva cambiato solo uno, quello davanti, che aveva coperto con una capsula d’oro. Era questo a renderla un’opera d’arte, disse.
«Come hai fatto a farla di così tanti colori?»
«È proprio bella, eh? Be’... è o no il mio capolavoro?»
«Sì». Gli strinsi la mano per congratularmi. Ero molto felice di essere lì.
«Come farai a mettertela?» gli chiesi. «Ti starà bene?»
Di solito lui prima tirava via tutti i denti, lasciava che le gengive guarissero, e poi faceva un calco delle gengive nude.
«Alcuni dentisti giovani oggi fanno così. Prendono il calco prima di togliere i denti, poi fanno la dentiera e la mettono prima che le gengive abbiano il tempo di ritirarsi».
«Quando ti farai togliere i denti?»
«In questo preciso istante. Lo facciamo ora. Vai a preparare le cose».
Azionai lo sterilizzatore arrugginito. Il filo elettrico era tutto sfilacciato, faceva scintille. Lui fece per afferrarlo. «Lascia stare il...» ma io lo bloccai. «No. Devono essere sterili» e allora scoppiò a ridere. Posò la bottiglia di whisky e le sigarette sul vassoio, si accese una sigaretta e si versò un bicchierino raso di Jack Daniel’s. Si sedette in poltrona. Io sistemai la luce, gli legai il bavaglino attorno al collo e con il pedale alzai e reclinai la poltrona.
«Mamma mia, scommetto che molti pazienti vorrebbero essere al mio posto adesso».
«Sta bollendo, quel coso?»
«No». Riempii diversi bicchierini di carta di Stom Aseptine e tirai fuori un barattolo di sali da fiuto.
«E se svieni?» gli chiesi.
«Meglio, così puoi toglierli tu. Li stringi il più possibile, e li torci e li tiri contemporaneamente. Dammi qualcosa da bere». Gli diedi un bicchierino di Stom Aseptine. «Spiritosa». Gli versai del whisky.
«I tuoi pazienti non hanno diritto a un bicchierino».
«Sono i miei pazienti, non i tuoi».
«Ok, sta bollendo». Scolai lo sterilizzatore nella vaschetta dove si sputa e sistemai un asciugamano. Ne presi un altro, e posai gli strumenti a semicerchio sul vassoio sopra il petto del nonno.
«Reggimi lo specchio» disse, e prese le pinze.
Io stavo sul poggiapiedi, in mezzo alle sue ginocchia, per tenergli lo specchio. I primi tre denti vennero via senza sforzo. Lui me li passò e io li buttai nel barile accanto alla parete. Gli incisivi furono più duri, uno in particolare. Il nonno ebbe un conato di vomito e si fermò, con la radice che ancora gli spuntava dalla gengiva. Fece uno strano verso e mi mise le pinze in mano. «Toglila!» Io tirai. «Con le forbici, cretina!» Io mi misi a sedere sulla pedana di metallo in mezzo ai suoi piedi. «Un attimo, nonno».
Allungò una mano sopra la mia testa per prendere la bottiglia, bevve, poi prese un altro strumento dal vassoio. Cominciò a cavarsi il resto dei denti inferiori senza l’aiuto dello specchio. Il rumore era quello di radici strappate dal suolo, alberi divelti dal terreno invernale. Il sangue colava sul vassoio, plop, plop, e cadeva sul metallo dov’ero seduta.
Il nonno cominciò a ridere così forte che pensai fosse impazzito. Mi cadde riverso addosso. Spaventata, feci un salto così brusco da spingerlo contro lo schienale inclinato della poltrona. «Tirali via!» disse senza fiato. Io avevo paura, e subito mi chiesi se avrei commesso un omicidio, nel caso fosse morto mentre gli cavavo i denti.
«Tirali!» E sputò un rivolo rosso lungo il mento.
Con il pedale reclinai ulteriormente lo schienale della poltrona. Il nonno era privo di forze, pareva non rendersi conto che gli stavo torcendo un dente superiore in fondo alla bocca. A un certo punto svenne e le labbra gli si chiusero come due valve grigie. Gli aprii la bocca e gli infilai un pezzo di carta assorbente da un lato per riuscire a togliere gli ultimi tre denti posteriori.
Non era rimasto più nemmeno un dente. Provai a riabbassare la poltrona con il pedale, ma toccai la leva sbagliata e lo feci girare su se stesso, spargendo attorno cerchi di sangue su tutto il pavimento. Lo lasciai lì, con la sedia che si andava fermando lentamente tra i cigolii. Volevo delle bustine di tè: lui le dava da mordere ai pazienti per bloccare le emorragie. Rovistai nel cassetto della nonna: talco, santini, bigliettini di ringraziamento per i fiori; le bustine di tè erano in una scatola di metallo dietro la piastra.
Ormai il pezzo di carta che aveva in bocca era tutto inzuppato di rosso. Lo buttai a terra, gli infilai in bocca una manciata di bustine di tè e gli tenni chiuse le mascelle. Lanciai un urlo. Senza i denti, la sua faccia somigliava a un teschio, ossa bianche sopra la gola coperta di sangue rosso vivo. Un mostro spaventoso, una teiera che prendeva vita con le etichette gialle e nere della Lipton penzolanti come decorazioni di parata. Corsi a telefonare a mia madre. Non avevo monete da cinque centesimi. Non potevo muoverlo per frugargli in tasca. Si era bagnato i pantaloni, l’urina gocciolava sul pavimento. Dalla narice una bolla di sangue appariva e scoppiava, in continuazione. Squillò il telefono. Era mia madre. Piangeva. L’arrosto, un bel pranzetto domenicale. Aveva preparato persino i cetrioli e le cipolle, proprio come la nonna. «Aiuto! Il nonno!» dissi e riagganciai.
Aveva vomitato. Ah, bene, pensai, e poi risi da sola perché era stupido pensare ah bene davanti a una cosa del genere. Buttai le bustine di tè per terra insieme al resto del macello, bagnai qualche asciugamano e gli lavai la faccia. Gli aprii i sali da fiuto sotto il naso, li annusai anch’io, ebbi un brivido. «I miei denti!» urlò.
«Non ci sono più!» gridai io come a un bambino. «Spariti tutti!»
«Quelli nuovi, cretina!»
Andai a prenderli. Li conoscevo, erano proprio come quelli che aveva in bocca.
Allungò una mano per prenderli, come un mendicante di Juarez, ma gli tremavano troppo le mani.
«Te li infilo io. Prima sciacquati».
Gli diedi il collutorio. Lui si sciacquò e sputò senza alzare la testa. Versai dell’acqua ossigenata sulla dentiera e gliela infilai in bocca. «Ehi, guarda!» Sollevai lo specchio d’avorio della nonna.
«Bene, accidenti!» E rise.
«Un capolavoro, nonno!» Risi anch’io, gli baciai la fronte sudata.
«Oh mio Dio». Mia madre urlò, mi venne incontro con le braccia spalancate. Scivolò sul sangue urtando i barili dei denti. Si aggrappò per ritrovare l’equilibrio.
«Guarda i denti del nonno, mamma».
Non se n’era accorta. Non riusciva a vedere la differenza. Lui le versò del Jack Daniel’s. Lei lo prese, brindò distrattamente, e bevve.
«Tu sei pazzo, papà. È pazzo. Da dove saltano fuori tutte queste bustine di tè?»
Staccandosi dalla pelle, la camicia del nonno fece il rumore di qualcosa che si strappava. Lo aiutai a lavarsi il petto e la pancia rugosa. Mi lavai anch’io, poi mi misi un maglione color corallo della nonna. Tutti e due bevevano, in silenzio, mentre aspettavamo il taxi. Manovrai l’ascensore verso il basso e lo feci arrestare non troppo lontano dal fondo. Arrivati a casa, il tassista aiutò il nonno a salire le scale. Lui si fermò davanti la porta della stanza della nonna, ma lei dormiva.
Il nonno si mise a letto e dormì anche lui, con i denti scoperti in un sorriso alla Bela Lugosi. Dovevano fargli male.
«Ha fatto un buon lavoro» disse mia madre.
«Non lo odii più, vero mamma?»
«Oh, sì» disse lei. «Sì che lo odio».
Stelle e santi
Un attimo solo. Lasciate che vi spieghi...
È una vita che mi capita di trovarmi in queste situazioni, come quella mattina con lo psichiatra. Lui alloggiava nel cottage dietro casa mia, mentre la sua nuova casa veniva ristrutturata. Aveva un aspetto davvero gradevole, diciamo pure che era un bell’uomo, e naturalmente io volevo fare una buona impressione, avevo pensato di portargli i miei brownies, ma non volevo sembrare aggressiva. Una mattina, poco dopo l’alba, stavo come al solito sorseggiando il caffè e guardando fuori dalla finestra verso il mio giardino, che in quel momento era meraviglioso: piselli odorosi, delfinium, cosmee. Mi sentivo, be’, mi sentivo piena di gioia... Ma perché esito nel raccontarvi questa cosa? Non vorrei apparire sentimentale, ci tengo a fare buona impressione. A ogni modo, ero felice, e gettai una manciata di mangime sul pavimento della veranda poi mi sedetti lì a sorridere da sola mentre decine di tortore luttuose e di fringuelli si fiondavano sul becchime. Poi di colpo ecco due grossi gatti sulla veranda che si avventavano contro gli uccelli, piume che volavano dappertutto, e proprio in quel preciso istante lo psichiatra comparve sulla soglia. Mi guardò inorridito, disse: «Che cosa terribile!», e fuggì. Dopo quella mattina cominciò a evitarmi, e non era solo una mia impressione. Non ebbi mai modo di spiegare che era tutto successo troppo in fretta e che non stavo sorridendo ai gatti che mangiavano gli uccelli. Il fatto era che la mia felicità per i piselli odorosi e i fringuelli non aveva ancora fatto in tempo a dileguarsi.
Per quello che posso ricordare, nella vita ho sempre fatto una pessima prima impressione. Quella volta, nel Montana, stavo semplicemente cercando di sfilare i calzini a Kent Shreve, per potercene andare in giro scalzi, ma lui ce li aveva fissati ai mutandoni. Ma la cosa di cui veramente voglio parlare è la St. Joseph’s School. Ora, gli psichiatri (vi prego di non farvi un’idea sbagliata, non è che io abbia un’ossessione per gli psichiatri) mi sembra si concentrino un po’ troppo sulla scena primaria e sulla privazione preedipica mentre ignorano il trauma delle scuole elementari e degli altri bambini, che sono cattivi e spietati.
Non ho intenzione di entrare nei dettagli di quanto successe alla Vilas, la prima scuola di El Paso che frequentai. Tutto un grosso equivoco. E così, a due mesi dall’inizio della scuola, in terza elementare, eccomi nel cortile della St. Joseph. La mia nuova scuola. Completamente terrorizzata. Avevo pensato che indossare una divisa sarebbe stato d’aiuto. Ma indossavo questo pesante busto di metallo, per quella che chiamavamo scoliosi, ma diciamoci le cose come stanno: era una gobba; e per via del busto fui costretta a prendere la camicetta bianca e la gonna scozzese di misura molto più larga perché potessero contenerlo, e naturalmente mia madre non pensò a rifarmi almeno l’orlo alla gonna.
Un altro grosso equivoco. Mesi dopo, suor Mercedes era l’addetta al controllo dei corridoi. Era quella giovane e carina che doveva aver avuto una storia d’amore tragica. Probabilmente lui era morto in guerra, cannoniere. Mentre le passavamo davanti, in fila per due, suor Mercedes mi toccò la gobba e sussurrò: «Cara bambina, tu hai una croce da portare». Come poteva sapere che in quel periodo ero diventata una fanatica religiosa, che quelle sue parole innocenti mi avrebbero solo convinta dell’esistenza di una predestinazione che mi legava al Nostro Salvatore?
(Ah, e le mamme. Proprio l’altro giorno, sull’autobus, è salita una madre col figlioletto. Era chiaramente una madre lavoratrice, era andata a prenderlo all’asilo, era stanca ma felice di vederlo, gli ha chiesto com’era andata la giornata. Lui le ha raccontato tutte le cose che aveva fatto. «Sei davvero speciale!» gli ha detto lei, abbracciandolo. «Speciale significa che sono ritardato!» ha detto il bambino. Aveva i lacrimoni agli occhi e se ne stava lì seduto morto di paura mentre la mamma continuava a sorridere proprio come me con gli uccelli).
Quel giorno in cortile sapevo che non sarei mai e poi mai entrata. Non solo non mi sarei mai inserita, non sarei proprio mai entrata. In un angolo, due bambine facevano roteare una corda pesante e, una per volta, le belle bimbe dalle gote rosee partivano di slancio dalla fila e saltavano sotto la corda, saltavano, saltavano, e poi tornavano in fila. Flap, flap, senza mai perdere il ritmo. In mezzo al cortile c’era un’altalena tonda, con un sedile circolare che girava vorticosamente e gioiosamente e non si fermava mai, e i bambini, ridendo, ci saltavano sopra e scendevano senza un... senza nemmeno cadere, senza mai cambiare andatura. Tutto attorno a me, nel cortile, c’era simmetria, sincronia. Due suore con i grani del rosario che ticchettavano all’unisono, i volti puliti che annuivano ai bambini nello stesso istante. I jacks. La pallina che saltava sul cemento con uno schiocco secco, le decine di pezzetti di metallo che volavano in aria e si univano alla rotazione di un minuscolo polso. Ciaf ciaf ciaf. Altre bambine facevano giochi complicati battendo a ritmo le mani. There was a tiny little Dutchman. Ciaf ciaf. Io gironzolavo per il cortile, non solo incapace di entrare, ma apparentemente invisibile, il che era un vantaggio e uno svantaggio insieme. Di corsa girai l’angolo dell’edificio dove sentivo rumori e risate provenire dalla cucina della scuola. Lì ero nascosta dal cortile; quei rumori amichevoli che venivano dall’interno erano per me rassicuranti. Ma nemmeno in cucina potevo entrare. Poi, però, sentii urli e strilli e una suora che diceva: «Oh non ce la faccio, proprio non ce la faccio», e a quel punto capii che potevo entrare perché quello che la suora non se la sentiva di fare era prendere i topi morti dalle trappole. «Lo faccio io» dissi. E le suore furono così contente che non mi dissero nulla per essere entrata in cucina, tranne una che sussurrò «Protestante» a un’altra.
E fu così che cominciò. Mi diedero anche un biscotto, caldo e buonissimo, col burro. Naturalmente io avevo già fatto colazione, ma era così buono che lo divorai e loro me ne diedero un altro. Ogni giorno, come ricompensa per liberare e risistemare due o tre trappole, ricevevo non solo biscotti, ma anche una medaglietta di san Cristoforo che usavo poi come gettone per il pranzo. Questo mi risparmiò l’imbarazzo, prima dell’inizio delle lezioni, di mettermi in fila per scambiare monetine di dieci cent con le medagliette che usavamo per il pranzo.
Per via della schiena, avevo il permesso di rimanere in classe durante l’ora di ginnastica o la ricreazione. La parte difficile era la mattina, perché l’autobus arrivava quando la scuola era ancora chiusa. Io mi sforzavo di fare amicizia, di parlare con le ragazze della mia classe, ma senza esito. Erano tutte cattoliche e si conoscevano dai tempi dell’asilo. A dire la verità, erano bambine normali, simpatiche. Io avevo saltato un anno, ero molto più piccola delle altre, e avevo vissuto soltanto in remoti insediamenti minerari prima della guerra. Non sapevo dire cose tipo: «Ti piace studiare il Congo belga?» o «Quali sono i tuoi hobby?» Ma arrivavo da loro barcollando e sbottavo: «Mio zio ha un occhio di vetro». Oppure «Ho trovato un orso dell’Alaska morto con la faccia piena di larve». Loro mi ignoravano, oppure ridacchiavano o dicevano «Chi dice le bugie non è figlio di Maria!»
E così per un po’ ebbi un posto dove andare prima delle lezioni. Mi sentivo utile e apprezzata. Ma poi sentii le bambine dire a bassa voce «Beneficenza», insieme a «Protestante». E cominciarono a chiamarmi «Trappola per topi» e «Minnie». Io facevo finta di niente e poi la cucina mi piaceva tanto, le risate sommesse e i mormorii delle suore cuoche, che in cucina indossavano tonache simili a camicie da notte tessute a mano.
Naturalmente all’epoca avevo deciso di farmi suora, perché le suore non sembravano mai nervose, ma soprattutto per vie delle tonache nere e delle cuffie bianche, quei copricapi che assomigliavano a giganteschi gigli bianchi inamidati. Scommetto che la chiesa si è persa per strada un sacco di aspiranti suore, da quando hanno cominciato a vestirsi come vigilesse dei parchimetri. Poi un giorno mia madre venne a scuola per vedere come andavo. Le dissero che in classe lavoravo con profitto e che la mia condotta era encomiabile. Suor Cecilia le disse che apprezzavano il mio aiuto in cucina e che si preoccupavano di farmi fare una buona colazione. Mia madre, snob com’era, con il suo vecchio cappotto logoro con il logoro collo di volpe senza più gli occhi, era mortificata, disgustata all’idea dei topi e furibonda per la medaglietta di san Cristoforo, perché ogni giorno avevo continuato a prendere i miei dieci centesimi che spendevo in caramelle quando uscivo da scuola. Piccola ladra imbrogliona. Ciaf. Ciaf. Mortificata!
E così questa cosa finì, e fu tutto un grandissimo equivoco. A quanto pare le suore pensavano che io bazzicassi la cucina perché ero una bambina povera e affamata e mi avevano assegnato il lavoro delle trappole per i topi come gesto di carità, non perché avessero davvero bisogno di me. Il problema, di nuovo, è che non vedo come sarebbe stato possibile non dare l’impressione sbagliata. Magari se avessi rifiutato il biscotto?
Fu così che mi ritrovai a passare in chiesa il tempo prima dell’inizio delle lezioni e decisi davvero di diventare suora, o santa. Il primo mistero era che la fiamma delle candele disposte in file sotto ognuna delle varie statue di Gesù, Maria e san Giuseppe guizzavano e si agitavano come mosse da raffiche di vento quando in realtà la vasta chiesa era ermeticamente chiusa, nessuna delle pesanti porte aperta. Io credevo che lo spirito divino di quelle statue fosse così forte da far ondeggiare e sibilare le fiamme, che tremavano di dolore. Ogni piccola esplosione di luce illuminava il sangue rappreso sui piedi bianchi e ossuti di Gesù, e sembrava davvero fresco.
All’inizio mi tenevo sul fondo, stordita, ubriaca per l’odore dell’incenso. Mi inginocchiavo e pregavo. Inginocchiarmi era doloroso, per via della schiena, e il busto premeva contro la spina dorsale. Ero sicura che quella prova facesse di me una santa, e che fosse una punizione per i miei peccati. Ma faceva così male che alla fine smisi di farlo; me ne stavo semplicemente seduta nella chiesa buia finché non sentivo la campanella dell’inizio delle lezioni. Di solito in chiesa non c’era nessun altro a parte me, tranne il giovedì quando don Anselmo andava a chiudersi nel confessionale. Allora sfilavano alcune donne anziane, ragazze delle superiori, ogni tanto qualche alunna delle medie: si fermavano per inginocchiarsi davanti all’altare, si facevano il segno della croce, e si inginocchiavano e si segnavano di nuovo prima di entrare dall’altra parte del confessionale. La cosa che mi lasciava perplessa era la disparità di tempo che impiegavano a pregare alla fine della confessione. Io avrei dato qualsiasi cosa al mondo per sapere quello che succedeva là dentro. Non so bene dopo quanto tempo mi ritrovai anch’io là dentro, con il cuore che batteva all’impazzata. Era un posto ancora più raffinato di come me l’immaginavo. Fumi di mirra, un cuscino di velluto su cui inginocchiarsi, una Madonna che mi guardava dall’alto con infinita pietà e compassione. Dall’altra parte dello schermo intagliato c’era don Anselmo, un ometto di solito tutto assorto nei suoi pensieri. Ma ora mi appariva una figura nera in controluce, come l’uomo col cilindro che mia nonna teneva appeso alla parete. Avrebbe potuto essere chiunque... Tyrone Power, mio padre, Dio. La sua voce non sembrava affatto quella di don Anselmo, era profonda, con un leggero riverbero. Mi chiese di recitare una preghiera che non conoscevo, e così cominciò a dirla lui, verso per verso, e io ripetevo, mi pento e mi dolgo con tutto il cuore. Poi mi chiese dei miei peccati. Non era una bugia. Davvero io non avevo peccati da confessare. Nemmeno uno. Mi vergognavo, doveva pur venirmi in mente qualcosa. Scruta nel profondo del tuo cuore, bambina mia... Niente. Disperata, presa dall’ansia di non deluderlo, me ne inventai uno. Avevo picchiato mia sorella sulla testa con una spazzola per capelli. Invidi tua sorella? Oh, sì, padre. L’invidia è un peccato, bambina mia, prega affinché scompaia. Tre Ave Maria. Mentre pregavo, inginocchiata, mi resi conto che quella era una penitenza breve, la volta dopo avrei fatto di meglio. Ma non ci fu una volta dopo. Quel giorno suor Cecilia mi trattenne dopo la lezione. La sua gentilezza non fece che peggiorare le cose. Lei capiva il mio desiderio di vivere in prima persona i sacramenti e i misteri della chiesa. Misteri, sì! Ma io ero protestante, non ero battezzata né cresimata. Avevo il permesso di andare nella loro scuola, e lei ne era felice, perché io ero una brava alunna obbediente, ma non potevo prendere parte alle cose della chiesa. Dovevo stare in cortile con le altre bambine.
Mi venne un pensiero terribile, tirai fuori dalla tasca i miei quattro santini. Ogni volta che prendevamo il massimo dei voti in lettura o in aritmetica ti davano una stella. Il venerdì, l’alunna che aveva ricevuto più stelle otteneva un santino, che somigliava un po’ alle figurine del baseball, aureole e brillantini a parte. Posso tenermi i santini? le chiesi, con la morte nel cuore.
«Certo che puoi, anzi spero che tu ne vinca ancora». Mi sorrise e mi fece un altro favore. «Puoi ancora pregare, cara, per chiedere aiuto. Diciamo insieme un’Ave Maria». Chiusi gli occhi e pregai con fervore la Madonna, che per me avrà sempre il volto di suor Cecilia.
Ogni volta che per strada si sentiva una sirena, vicina o lontana, suor Cecilia ci faceva smettere di fare quello che stavamo facendo; appoggiavamo la testa sul banco e recitavamo un’Ave Maria. Io lo faccio ancora. Dire un’Ave Maria, intendo. Be’, appoggio anche la testa sulle scrivanie di legno, per ascoltarle, perché fanno dei rumori, come rami al vento, come se fossero ancora alberi. All’epoca c’erano un sacco di cose che mi turbavano, tipo cosa fosse a dar vita alle candele e da dove venisse il rumore dei banchi. Se nel mondo di Dio ogni cosa ha un’anima, persino i banchi, che hanno una voce, allora deve esserci un paradiso. In paradiso io non potevo andarci perché ero protestante. Sarei andata nel limbo. Avrei preferito andare all’inferno piuttosto che nel limbo: che brutta parola, sembrava dumbo, o bimbo, un posto senza un briciolo di dignità.
Dissi a mia madre che volevo diventare cattolica. A lei e al nonno venne un colpo. Lui voleva farmi tornare alla Vilas, ma lei disse che no, era piena di messicani e di piccoli delinquenti. Io le dissi che anche la St. Joseph era piena di messicani, ma lei rispose che venivano da famiglie perbene. Noi eravamo una famiglia perbene? Io non lo sapevo. Una cosa che faccio ancora è guardare attraverso le finestre panoramiche, dentro case dove siedono le famiglie, e mi chiedo cosa fanno, come si parlano.
Un pomeriggio, suor Cecilia e un’altra monaca vennero a casa nostra. Non so perché fossero venute, non ebbero modo di spiegarlo. Successe il finimondo. Mia madre piangeva, mia nonna piangeva, il nonno era ubriaco e gli si avventò contro chiamandole cornacchie. Il giorno dopo temevo che suor Cecilia fosse furibonda e non mi salutasse dicendo «Arrivederci, tesoro» quando a ricreazione mi lasciò sola nell’aula. Ma prima di andarsene mi diede un libro, Understood Betsy, e disse che pensava che mi sarebbe piaciuto. Fu il primo libro che lessi, il primo di cui mi innamorai.
Lodò il mio lavoro in classe, e faceva commenti rivolti alle altre alunne ogni volta che mi guadagnavo una stellina, o il venerdì, quando mi davano un santino. Facevo di tutto per farmi voler bene da lei. In cima al foglio scrivevo Ad maiorem Dei gloriam con una grafia attenta, tutta arabeschi e ghirigori, correvo a cancellare la lavagna. Le mie preghiere erano quelle che si sentivano di più, la mia mano era la prima a sollevarsi quando suor Cecilia faceva una domanda. Continuava a darmi libri da leggere e una volta mi regalò un segnalibro di carta con su scritto Prega per noi peccatori adesso e nell’ora della nostra morte. A mensa lo feci vedere a Melissa Barnes. Scioccamente, credevo che siccome piacevo a suor Cecilia anche le altre ragazze avrebbero cominciato a volermi bene. Solo che ora invece di prendermi in giro, mi odiavano. Quando in classe mi alzavo per rispondere, loro bisbigliavano cocca cocca, cocca. Suor Cecilia scelse me per raccogliere i dieci centesimi e distribuire le medagliette per il pranzo, e ogni volta che una ragazza riceveva la medaglia, sussurrava cocca.
Poi un giorno, di punto in bianco, mia madre si arrabbiò con me perché mio padre scriveva a me più di quanto scrivesse a lei. È perché io gli scrivo di più. No, tu sei la sua cocca. Un giorno tornai a casa tardi. Avevo perso l’autobus. Lei stava in cima alle scale, con in mano una lettera azzurra di posta aerea inviata da mio padre. Si accese un fiammifero da cucina con il pollice, e mentre correvo su per le scale bruciò la lettera. Quella cosa mi ha sempre spaventato. Quando ero piccola non vedevo il fiammifero, pensavo che si accendesse le sigarette con il pollice in fiamme.
Smisi di parlare. Non dissi qualcosa tipo, va bene, da ora in poi non parlo più, ma piano piano smisi di farlo, e quando passava una sirena appoggiavo la testa sul banco e sussurravo tra me e me la preghiera. Quando suor Cecilia mi chiamava, scuotevo la testa e tornavo a sedermi. Non guadagnavo più santini e stelline. Ora mi chiamavano la Muta. Lei rimase in classe dopo che le altre erano andate in palestra. «Cos’è successo, tesoro? Posso aiutarti? Ti prego, dimmi qualcosa». Io serrai le mascelle e mi rifiutai di guardarla. Se ne andò e io rimasi seduta lì nella calda semioscurità dell’aula. Dopo poco tornò con una copia di Black Beauty e me la mise davanti. «Questo è un bel libro, anche se è molto triste. Dimmi, sei triste per qualche motivo?»
Scappai via da lei e dal libro e mi chiusi nel guardaroba. Naturalmente lì dentro non c’erano cappotti, visto il caldo che faceva in Texas, ma polverose scatole di libri di testo. Decorazioni pasquali. Decorazioni natalizie. Suor Cecilia mi seguì nello stanzino. Mi fece girare e mettere in ginocchio. «Preghiamo» disse.
Ave Maria, piena di grazia, il Signore è con te. Benedetto è il frutto del seno tuo, Gesù... Aveva gli occhi pieni di lacrime. Non riuscivo a sopportare la loro tenerezza. Mi districai dalla sua presa facendola involontariamente cadere. Il suo copricapo rimase agganciato a un appendiabiti e le si staccò dalla testa. Non aveva la testa rasata come dicevano le ragazze. Gridò e corse nell’altra stanza.
Venni mandata a casa lo stesso giorno, espulsa dalla St. Joseph per aver colpito una suora. Non so come abbia potuto pensare che volessi colpirla. Non fu affatto così.
Manuale per donne delle pulizie
42 PIEDMONT. Autobus lento per Jack London Square. Domestiche e vecchie signore. Io mi sono seduta accanto a un’anziana cieca che leggeva in braille facendo scivolare il dito sulla pagina, lentamente, in silenzio, riga dopo riga. Guardarla leggere da sopra la sua spalla aveva un effetto tranquillizzante. La signora è scesa alla Ventinovesima, dove dall’insegna Prodotti nazionali a opera di non vedenti, sono cadute tutte le lettere tranne quelle di non vedenti.
La Ventinovesima è anche la mia fermata, solo che ora mi tocca andare più giù per incassare l’assegno della signora Jessel. Se mi paga un’altra volta con un assegno me ne vado. E poi non ha mai gli spiccioli per il biglietto dell’autobus. La settimana scorsa sono arrivata in banca con i miei 25 cent e lei si era anche dimenticata di firmarmi l’assegno.
Dimentica tutto, persino i suoi acciacchi. Quando spolvero li raccolgo e glieli metto sulla scrivania. Ore 10.00 nausia su un pezzo di carta sulla mensola del caminetto. Diarea sullo scolapiatti. Problemi di memoria e stordimento sui fornelli della cucina. Perlopiù dimentica cose tipo se ha preso il fenobarbital, o che mi ha già chiamato a casa due volte per chiedermi se l’ha preso, che fine ha fatto il suo anello col rubino eccetera.
Mi segue di stanza in stanza ripetendomi sempre le stesse cose. Io mi sto rincoglionendo insieme a lei. Continuo a dire che me ne vado, ma mi fa pena. Sono l’unica persona con cui possa parlare. Suo marito è un avvocato, gioca a golf e ha un’amante. Non credo che la signora Jessel lo sappia, o che se lo ricordi. Le donne delle pulizie sanno tutto.
Le donne delle pulizie rubano, eccome. Non le cose di cui si preoccupano le persone per le quali lavoriamo. È il superfluo che alla fine ti conquista. Gli spiccioli nei posaceneri, quelli, non li vogliamo.
Una volta una signora, a un incontro di bridge, ha messo in giro questa voce: per provare l’onestà di una donna delle pulizie bisogna lasciare per casa qualche piccolo posacenere con dentro un po’ di spiccioli. La mia soluzione invece è aggiungere sempre qualche centesimo, o addirittura una monetina da dieci.
Appena arrivo al lavoro controllo dove sono gli orologi, gli anelli, le borsette da sera in lamé oro. Così, quando loro arrivano di corsa, tutte affannate e rosse in viso, io dico impassibile: «Sotto il cuscino, dietro la toilette color avocado». Mi limito a rubare i sonniferi, li metto da parte per quando potranno tornarmi utili.
Oggi ho rubato una boccetta di semi di sesamo Spice Islands. La signora Jessel cucina di rado. Quando lo fa prepara il pollo con il sesamo. La ricetta è incollata all’interno della dispensa delle spezie. Un’altra copia è nel cassetto dei francobolli e degli spaghi e un’altra nella rubrica degli indirizzi. Ogni volta che ordina il pollo, la salsa di soia e lo sherry, ordina anche un’altra boccetta di semi di sesamo. Possiede quindici boccette di semi di sesamo. Adesso quattordici.
Alla fermata dell’autobus mi sono seduta sul bordo del marciapiede. In piedi accanto a me altre tre domestiche nere in uniforme bianca. Sono vecchie amiche, lavorano in Country Club Road da anni. All’inizio eravamo furiose: l’autobus era passato con due minuti d’anticipo e noi l’avevamo perso. L’autista sa che ci sono sempre le domestiche, che il 42 PIEDMONT passa solo una volta all’ora.
Io fumavo mentre loro confrontavano il rispettivo bottino. Le cose che avevano preso: smalto per unghie, profumo, carta igienica. Cose che avevano ricevuto: orecchini spaiati, venti grucce appendiabiti, reggiseni strappati.
(Consiglio per le donne delle pulizie: prendete tutto quello che la vostra padrona vi offre e ringraziatela. Potete sempre lasciarlo sull’autobus).
Per inserirmi nella conversazione ho mostrato loro la mia boccetta di semi di sesamo. Sono scoppiate a ridere. «Oh, tesoro! Semi di sesamo?» Mi hanno chiesto come mai lavoro da così tanto tempo per la signora Jessel. Gran parte delle donne delle pulizie non la reggono più di tre volte. Mi hanno chiesto se è vero che ha centoquaranta paia di scarpe. È vero, sì, ma la cosa peggiore è che sono praticamente tutte identiche.
L’ora d’attesa è passata piacevolmente. Abbiamo parlato delle signore per cui lavoriamo. Abbiamo riso, non senza amarezza.
Molte donne delle pulizie di lungo corso non mi accettano facilmente. E mi risulta difficile trovare lavoro, perché sono «istruita». Senza ombra di dubbio ora come ora non riesco a trovare nessun altro lavoro. Ho imparato a dire subito alle signore che mio marito, alcolista, è morto da poco, lasciandomi con quattro figli. Prima non avevo mai lavorato, dovendomi occupare dei figli eccetera.
43 SHATTUCK-BERKELEY. Le panchine con la scritta campagna a tappeto sono fradice ogni mattina. Ho chiesto a un tipo se aveva un fiammifero e lui mi ha dato l’intera confezione. Prevenire il suicidio. Era una di quelle scatole stupide, con la parte per sfregare sul retro. La prudenza non è mai troppa.
Di fronte, la donna della lavanderia La Pulitissima stava spazzando il suo pezzo di marciapiede. Sui marciapiedi alla sua destra e alla sua sinistra c’erano cartacce e foglie svolazzanti. È autunno, adesso, a Oakland.
Più tardi, quel pomeriggio, dopo il lavoro a casa degli Horwitz, ho trovato di nuovo il marciapiede della Pulitissima coperto di foglie e immondizia. Ho buttato sul mucchio il mio biglietto cumulativo. Io faccio sempre biglietti cumulativi. A volte li regalo, ma di solito li tengo.
Ter mi prendeva in giro per questa abitudine di conservare tutto.
«Ehi, Maggie May, non c’è niente a questo mondo che puoi tenerti per sempre. Tranne me, forse».
Una notte in Telegraph Avenue mi sono svegliata con lui che mi chiudeva nella mano il tappo meccanico di una Coors. Era in piedi, sorrideva. Terry era un giovane cowboy del Nebraska. Al cinema non voleva vedere i film stranieri. Ho capito solo adesso che era perché i sottotitoli erano troppo veloci per lui.
Ogni volta che Ter leggeva un libro, cioè di rado, man mano che finiva le pagine, le strappava e le buttava via. Io tornavo a casa, dove le finestre erano sempre o aperte o rotte, e la stanza era tutta un turbinio di pagine, come i piccioni nel parcheggio del Safeway.
33 BERKELEY-EXPRESS. Il 33 si è perso! L’autista ha superato la svolta all’altezza del Sears dove c’è l’imbocco della superstrada. Tutti che suonavano il campanello mentre lui, rosso in viso, svoltava a sinistra nella Ventisettesima. Ci siamo ritrovati in un vicolo cieco. La gente si è affacciata alle finestre per vedere l’autobus. Quattro uomini sono usciti di casa per aiutarlo a fare marcia indietro tra le macchine parcheggiate nella stretta viuzza. Imboccata la superstrada, si è messo a guidare a 130 all’ora. È stato spaventoso. Parlavamo tutti insieme, compiaciuti dell’accaduto.
Oggi da Linda.
(Donne delle pulizie: di norma, mai lavorare per gli amici. Prima o poi cominciano ad avercela con te perché sai troppo su di loro. Oppure sei tu a non sopportarli più, sempre per lo stesso motivo).
Ma Linda e Bob sono due cari amici di vecchia data. Sento il loro calore anche quando non ci sono. Sulle lenzuola sperma e confettura di mirtillo. Nel bagno programmi delle corse dei cavalli e cicche. Bigliettini di Bob per Linda: Compra le siga, prendi pure la macchina... trallalì trallallà. Disegnini di Andrea con tanto amore per mamma. Croste di pizza. Pulisco col Windex lo specchietto che usano per la cocaina.
È l’unico posto dove lavoro che non sia già pulitissimo in partenza. A dirla tutta è un vero porcile. Ogni mercoledì, come Sisifo, salgo le scale che portano al soggiorno dove si ha sempre l’impressione di trovarsi nel bel mezzo di un trasloco.
Con loro non guadagno molto perché non mi faccio pagare a ore, niente soldi per l’autobus. Di sicuro niente pranzo. E lavoro davvero sodo. Ma passo anche un sacco di tempo seduta senza fare niente, mi trattengo fino a tardi. Fumo e leggo il «New York Times», libri porno, Come costruire il tetto di un patio. Perlopiù guardo fuori dalla finestra e vedo la casa dove un tempo vivevamo noi. 2129-1/2 Russell Street. Guardo l’albero che fa quelle pere durissime che Ter usava come bersagli. La staccionata di legno è luccicante di bossoli. L’insegna della Bekins che illuminava il nostro letto la notte. Mi manca Ter e fumo. Di giorno i treni non si sentono.
40 TELEGRAPH-CONVALESCENZIARIO DI MILLHAVEN. Quattro signore anziane sulla sedia a rotelle fissano la strada con occhi velati. Alle loro spalle, nella postazione delle infermiere, c’è una bella ragazza nera che balla sulle note di I Shot the Sheriff. Il volume della musica è alto persino per me, ma le signore anziane non sentono niente. Più in basso, sul marciapiede, c’è un cartello a caratteri grossolani: Istituto Tumori 13:30.
L’autobus è in ritardo. Passano le auto. In macchina la gente ricca non guarda mai le persone per strada. I poveri invece lo fanno sempre... anzi, a volte ti danno l’idea di essere usciti con la macchina solo per guardare la gente. Io qualche volta l’ho fatto. I poveri sono abituati ad aspettare. File per il sussidio, all’ufficio di collocamento, nelle lavanderie a gettoni, davanti alle cabine telefoniche, al pronto soccorso, in prigione, e via dicendo.
Mentre aspettavamo il 40, guardavamo nella vetrina della lavanderia Mill & Addie. Mill è nato in un mulino della Georgia. Era disteso lungo lungo, occupava lo spazio di cinque lavatrici, per installare un enorme televisore sopra le macchine. Addie faceva dei gesti buffi, mimava per noi la TV che non avrebbe mai retto. I passanti si fermavano per guardare Mill insieme a noi. Eravamo tutti riflessi nel televisore, come una di quelle trasmissioni dove intervistano le persone in strada.
Più giù, sempre su quella via, c’è un lungo corteo funebre nero davanti a Fouché. Un tempo sull’insegna al neon leggevo Touché e mi immaginavo sempre la morte con una maschera che mi toccava il cuore con un affondo di spada.
Adesso ho trenta pillole, prese dai Jessel, dai Burns, dai Mcintyre, dagli Horwitz e dai Blum. Ognuna di queste persone per cui lavoro ha abbastanza stimolanti e tranquillanti da mettere fuori combattimento un Hell’s Angel per una ventina d’anni.
18 PARK-MONTCLAIR. Oakland centro. Un indiano ubriaco, che ormai mi conosce, mi dice sempre: «Prendila come viene, bellezza».
Su Park Avenue un autobus blu dello sceriffo di contea con i finestrini sbarrati. All’interno ci sono una ventina di detenuti diretti al tribunale. Gli uomini, con la loro tuta arancione, incatenati gli uni agli altri, si muovono un po’ come una squadra di canottaggio. Con lo stesso cameratismo, in effetti. All’interno l’autobus è buio. Sul finestrino c’è il riflesso del semaforo. Giallo aspettare aspettare. Rosso alt alt.
Un’ora lunga e sonnacchiosa su per le opulente colline di Montclair avvolte dalla nebbia. Sull’autobus solo domestiche. Sotto la Chiesa Sion Luterana c’è un grande cartello bianco e nero che dice Attenzione: caduta pietre. Ogni volta che lo vedo scoppio in una fragorosa risata. Le altre donne delle pulizie e l’autista si girano a guardarmi. Ormai è diventato un rituale. Un tempo, quando passavo davanti a una chiesa cattolica mi facevo istintivamente il segno della croce. Forse ho smesso perché la gente sugli autobus si girava a guardarmi. Dico ancora istintivamente un’Ave Maria, in silenzio, ogni volta che sento una sirena. Ed è una seccatura, perché io abito su Pill Hill, a Oakland, vicino a tre ospedali.
Ai piedi delle colline, le signore aspettano nelle loro Toyota che le cameriere scendano dall’autobus. Trovo sempre un passaggio fino alla sommità di Snake Road con Mamie e la sua signora che dice: «Santo cielo, ma come siamo carine con questa parrucca satinata, Mamie, e invece guarda me, in tenuta da imbianchina». Io e Mamie fumiamo.
La voce delle signore si alza sempre di due ottave quando parlano con le donne delle pulizie o con i gatti.
(Donne delle pulizie: a proposito di gatti... mai farci amicizia, non lasciateli giocare con le scope e gli stracci. Le signore si ingelosiscono. Mai, comunque, buttar giù i gatti dalle sedie. Fate sempre amicizia con i cani, invece: appena arrivate, passate cinque o anche dieci minuti a fare i grattini a Cherokee o a Smiley. Ricordate di abbassare il coperchio del water. Sbavano e spelano dappertutto).
I Blum. Di tutti i posti dove lavoro questo è il più strano, l’unica casa davvero bella. Sono entrambi psichiatri. Fanno i consulenti matrimoniali e hanno due figli adottivi in età «prescolare».
(Non lavorate mai in case con «bambini in età prescolare». I neonati sono fantastici. Potreste passare ore a guardarli, a tenerli in braccio. Quelli più grandi invece... vi beccate le urla, i Cheerios incrostati, schifezze solidificate e calpestate con il piede del pigiamino Snoopy).
(Non lavorate mai nemmeno per gli psichiatri. Finirete per impazzire. Avrei da dirgliele io, un paio di cosine... Scarpe con rialzo interno?)
Il dottor Blum, il maschio, intendo, è di nuovo malato. Ha l’asma, santiddio. Ciondola per casa in accappatoio e si gratta una gamba bianchiccia e pelosa con la pantofola.
Oh oh oh oh Mrs Robinson. Ha uno stereo che gli sarà costato più di duemila dollari e solo cinque dischi. Simon e Garfunkel, Joni Mitchell e tre dei Beatles.
È fermo sulla soglia della cucina, ora si gratta l’altra gamba. A colpi di straccio disegno passionali volute con Mr. Clean che vanno da lui all’angolo della colazione, mentre mi chiede perché ho scelto questa particolare occupazione.
«Senso di colpa o rabbia, immagino» biascico.
«Non appena il pavimento è asciutto posso andare a farmi una tazza di tè?»
«Ah, senta, si vada a sedere. Il tè glielo porto io. Zucchero o miele?»
«Miele. Se non è troppo disturbo. E anche un po’ di limone...»
«Si vada a sedere». Gli porto il tè.
Una volta ho comprato a Natasha, che ha quattro anni, una camicetta nera con i lustrini. Per le occasioni eleganti. La dottoressa Blum si è infuriata e ha gridato che era sessista. Per un attimo ho pensato che mi stesse accusando di voler sedurre Natasha. Ha buttato la camicetta nella spazzatura. Più tardi l’ho recuperata e a volte me la metto, per le occasioni eleganti.
(Donne delle pulizie: vi capiteranno un sacco di donne emancipate. Il primo stadio sono i gruppi di autocoscienza, il secondo la donna delle pulizie, il terzo il divorzio).
I Blum hanno un sacco di pillole, una pletora di pillole. Lei prende stimolanti, lui tranquillanti. Il dottor Blum ha pillole di belladonna. Non so cosa facciano, ma vorrei tanto chiamarmi io così.
Una mattina, mentre erano seduti nell’angolo colazione, ho sentito che diceva a sua moglie: «Facciamo qualcosa di spontaneo oggi, portiamo i bambini a giocare con gli aquiloni!»
Ho avuto un moto di compassione. Una parte di me avrebbe voluto precipitarsi in soccorso come la cameriera sull’ultima pagina del «Saturday Evening Post». Io sono bravissima a costruire aquiloni, conosco i posti ideali per il vento, a Tilden. A Montclair non c’è vento. L’altra parte di me ha acceso l’aspirapolvere per non sentire la risposta. Fuori pioveva a catinelle.
La stanza dei giochi era un campo di battaglia. Ho chiesto a Natasha se lei e Todd ci giocassero davvero, con tutti quei giocattoli. La bambina mi ha risposto che il lunedì lei e Todd buttano in giro tutti i giocattoli perché vengo io. «Vai un po’ a chiamare tuo fratello» le ho detto.
Li ho messi sotto a lavorare, ma a un certo punto è arrivata la dottoressa Blum. Che mi ha fatto una paternale sul concetto di ingerenza e sul fatto che lei si rifiuta di far sentire i suoi figli «in colpa o in dovere». Io l’ascoltavo, risentita. Poi, come se le fosse venuto in mente in quell’istante, mi ha chiesto di sbrinare il frigorifero e di pulirlo con ammoniaca e vaniglia.
Ammoniaca e vaniglia? Questa richiesta mi ha fatto smettere di odiarla. Una cosa tanto semplice. Ho capito che desiderava davvero una casa accogliente, non voleva che i suoi figli si sentissero in colpa o in dovere. Più tardi mi sono versata un bicchiere di latte che sapeva di ammoniaca e vaniglia.
40 TELEGRAPH-BERKELEY. Lavanderia Mill & Addie. Addie è da sola in lavanderia, sta pulendo la gigantesca vetrina. Dietro di lei, sopra una lavatrice, c’è un sacchetto di plastica con dentro un’enorme testa di pesce. Pigri occhi ciechi. Un amico, il signor Walker le porta teste di pesce per il brodo. Addie fa sul vetro larghissimi cerchi bianchi. Sul marciapiede di fronte, nell’asilo di Saint Luke, un bambino crede che lo stia salutando. La saluta anche lui, facendo gli stessi ampi gesti circolari. Addie si ferma, sorride, lo saluta sul serio con la mano. Arriva l’autobus. Per Telegraph, direzione Berkeley. Nella vetrina del Salone di bellezza Bacchetta magica c’è una stella di carta stagnola collegata a uno schiacciamosche. Accanto, un negozio di articoli ortopedici con due mani supplicanti e una gamba.
Ter si rifiutava di prendere l’autobus. La gente seduta lo deprimeva. Però gli piacevano le stazioni dei Greyhound. Andavamo in quelle di San Francisco e di Oakland. Soprattutto Oakland, in San Pablo Avenue. Una volta mi ha detto che mi amava perché somigliavo a San Pablo Avenue.
Lui somigliava alla discarica di Berkeley. È un peccato che non ci siano autobus per la discarica. Noi ci andavamo quando ci prendeva la nostalgia del New Mexico. È un posto desolato e ventoso, e i gabbiani volteggiano in aria come falchi notturni nel deserto. Da lì, sopra e attorno, vedi solo cielo. I camion della spazzatura passano rombando per le strade avvolti in nuvole di polvere. Dinosauri grigi.
Non riesco a sopportare che tu sia morto, Ter. Ma questo lo sai.
È come quella volta in aeroporto, quando stavi per salire sulla scaletta dell’aereo per Albuquerque.
«Oh, cazzo. Non posso andare. Non troverai mai la macchina».
«Cosa farai senza di me, Maggie?» continuavi a chiedermi quell’altra volta, quando stavi per partire per Londra.
«Mi darò al macramè, stupidone».
«Cosa farai senza di me, Maggie?»
«Sei davvero convinto che io abbia tanto bisogno di te?»
«Sì» mi hai detto. Una semplice affermazione da uomo del Nebraska.
I miei amici dicono che mi sto crogiolando nell’autocommiserazione e nel rimorso. Hanno detto che non vedo più nessuno. Quando sorrido, la mia mano va involontariamente a coprire la bocca.
Colleziono sonniferi. Una volta abbiamo fatto un patto... se le cose non si fossero sistemate entro il 1976 ci saremmo sparati in fondo al porticciolo. Tu non ti fidavi di me, dicevi che ti avrei sparato per prima e poi sarei scappata, o che mi sarei sparata io per prima, o qualcosa del genere. Sono stanca di questo accordo, Ter.
58 COLLEGE-ALAMEDA. Le vecchie signore di Oakland vanno tutte ai grandi magazzini Hink di Berkeley. Le vecchie signore di Berkeley vanno ai grandi magazzini Capwell di Oakland. Tutti su questo autobus, compresi i vari autisti, sono o giovani e neri o vecchi e bianchi. I vecchi autisti bianchi sono antipatici e nervosi, soprattutto quando arrivano all’altezza della Oakland Tech High School. Inchiodano di colpo e si mettono a sbraitare contro chi fuma e chi ha la radio accesa. Sbandano e si fermano rumorosamente, sballottolando le vecchie signore bianche contro i pali. Sulle braccia delle vecchie signore compaiono lividi, all’istante.
I giovani autisti neri corrono, superano agilmente i semafori gialli di Pleasant Valley Road. I loro autobus sono rumorosi e pieni di fumo, ma non sbandano.
Oggi casa della signora Burke. Mi toccherà mollare anche lei. Non c’è mai una novità. Non c’è mai niente di sporco. Non riesco a capire cosa ci vado a fare. Oggi mi sono sentita meglio. Almeno ho capito il senso delle trenta bottiglie di Lancers Rosé. Ce n’erano trentuno. A quanto pare ieri era il loro anniversario. C’erano due mozziconi nel posacenere (non solo quello di lui), un bicchiere di vino (lei è astemia) e la mia nuova bottiglia di rosé. I trofei del bowling erano stati spostati, di poco. La nostra vita assieme.
Lei mi ha insegnato tante cose sulla gestione della casa. Infilare la carta igienica in modo che esca da sotto. Aprire la protezione sul barattolo di Comet fino a scoprire tre e non sei buchi. Chi risparmia guadagna. Una volta, in un attacco di ribellione, ho scoperto tutti e sei i buchi e senza volere ho versato uno sproposito di Comet tra i fornelli. Un disastro.
(Donne delle pulizie: Fate capire che siete coscienziose. Il primo giorno rimettete a posto i mobili nel modo sbagliato... spostati di quindici-venti centimetri, o girati dalla parte sbagliata. Quando spolverate, invertite i gatti siamesi, mettete il bricco del latte a sinistra dello zucchero. Cambiate l’ordine degli spazzolini da denti).
Il mio capolavoro da questo punto di vista è stato quando ho pulito in cima al frigorifero della signora Burke. Lei vede tutto, ma se non avessi lasciato la torcia accesa non avrebbe notato che avevo lucidato e oliato lo stampo per le cialde, riparato la geisha e lavato anche la torcia.
Fare le cose nel modo sbagliato non solo le rassicura sul fatto che siete coscienziose, ma fornisce loro l’opportunità di farsi valere e di comandare. Molte donne americane non si sentono a loro agio all’idea di avere una domestica. Non sanno cosa fare mentre tu sei in casa. La signora Burke fa cose tipo ricontrollare la lista degli auguri di Natale e stirare la carta da regalo dell’anno prima. Ad agosto.
Cercate di lavorare per ebrei o neri. A pranzo vi danno da mangiare. Ma la cosa principale è che le donne ebree e quelle nere hanno rispetto per il lavoro, il tuo lavoro, e poi non si vergognano neanche un po’ di passare l’intera giornata a non fare assolutamente niente. Sono loro a pagare, giusto?
Le affiliate all’Ordine della stella d’Oriente sono un altro paio di maniche. Per evitare che si sentano in colpa cercate sempre di fare qualcosa che loro non farebbero mai. Salite sul ripiano dei fornelli per pulire le macchie della Coca-Cola esplosa sul soffitto. Chiudetevi nella cabina doccia. Addossate tutti i mobili, compreso il pianoforte, contro la porta. Loro non lo farebbero mai, e poi così non possono entrare.
Ringraziate Dio se c’è sempre almeno un programma televisivo che devono per forza guardare. Accendo l’aspirapolvere per mezz’ora (un rumore tranquillizzante), mi distendo sotto il pianoforte con uno straccio per la polvere stretto in mano, perché non si sa mai. Me ne sto stesa lì a canticchiare e a pensare. Mi sono rifiutata di identificare il tuo corpo, Ter, e questo ha creato un sacco di problemi. Avevo paura di picchiarti per quello che avevi fatto. Eri morto.
Il pianoforte dei Burke è l’ultima cosa che pulisco prima di andarmene. Peccato che l’unico spartito sia L’inno dei Marines. Arrivo sempre alla fermata dell’autobus marciando al ritmo di From the Halls of Monte-zu-u-ma...
58 COLLEGE-BERKELEY. Un vecchio autista bianco e antipatico. Piove, è tardi, c’è tanta gente, fa freddo. Natale è un brutto periodo per gli autobus. Una ragazza hippy un po’ fumata a un certo punto ha gridato: «Fammi scendere da questo cazzo di autobus!» «Aspetta la fermata!» le ha gridato l’autista. Una donna grassa, una donna delle pulizie, ha vomitato sul sedile davanti, sulle galosce della gente e sui miei stivali. La puzza era nauseante e diverse persone sono scese alla fermata successiva, dove è scesa anche lei. L’autista si è fermato a una stazione di servizio Arco, ad Alcatraz, e ha preso un tubo di gomma per pulire tutto, ma naturalmente ha solo fatto scorrere lo sporco verso il retro e ha allagato l’autobus. Era paonazzo, furioso, ed è passato col rosso, mettendo a repentaglio la vita di tutti, come ha detto l’uomo seduto accanto a me.
A Oakland Tech c’erano una ventina di studenti con la radio che aspettavano dietro un uomo con un grave handicap fisico. L’ufficio previdenziale è accanto alla scuola. Quando l’uomo è salito sull’autobus, con molta difficoltà, l’autista ha detto «Oh Cristo» e l’uomo è parso sorpreso.
Di nuovo dai Burke. Nessun cambiamento. Possiedono dieci orologi digitali che segnano tutti la stessa ora, esatta. Il giorno in cui lascerò il lavoro staccherò tutte le spine dalle prese.
Alla fine la signora Jessel l’ho mollata. Continuava a pagarmi con gli assegni e una sera mi ha telefonato quattro volte. Io ho chiamato il marito e gli ho detto che avevo la mononucleosi. Lei aveva dimenticato che me n’ero andata, e ieri sera mi ha chiamato per chiedermi se la vedo un po’ più pallida del solito. Mi manca.
Oggi una signora nuova. Una vera signora.
(Io non mi considero mai una signora delle pulizie, anche se è così che ti chiamano, la loro signora o la loro ragazza).
La signora Johansen. È svedese e usa un sacco di espressioni colloquiali, come i filippini.
La prima cosa che mi ha detto, quando mi ha aperto la porta, è stata «Porca paletta!»
«Ah. Sono in anticipo?»
«Niente affatto, mia cara».
E si è presa la scena. Una Glenda Jackson ottuagenaria. Sono rimasta con un palmo di naso. (Visto? Comincio già a parlare come lei). Con un palmo di naso nell’ingresso.
Lì nell’ingresso, prima ancora che mi togliessi il cappotto, il cappotto di Ter, la signora mi ha raccontato l’evento della sua vita. Suo marito John è morto sei mesi fa. La cosa più difficile di tutte per lei è stata dormire. E allora si è messa fare i puzzle. (Mi ha indicato il tavolino da gioco in soggiorno, con il puzzle di Monticello, la casa di Jefferson, quasi finito; solo un buco protozoico in alto a destra).
Una sera si è talmente impuntata con il puzzle che non è andata a dormire. Si è proprio dimenticata, si è dimenticata di dormire! E di mangiare, anche, a dirla tutta. Ha cenato alle otto del mattino. Dopodiché ha fatto un pisolino, si è svegliata alle due, alle due ha fatto colazione e poi è uscita a comprarsi un altro puzzle.
Quando John era vivo la Colazione era alle sei, il Pranzo alle dodici, la Cena alle diciotto. Porca paletta se sono cambiate le cose.
«No, tesoro, non sei in anticipo» mi ha detto. «Tra poco io potrei svignarmela a ronfare».
Sono rimasta ferma lì, accaldata, a guardare gli occhi radiosi e assonnati della mia nuova signora, in attesa che mi desse istruzioni.
Non dovevo fare altro che pulire le finestre e passare l’aspirapolvere sulla moquette. Ma prima di passare l’aspirapolvere, dovevo trovare un pezzo del puzzle. Cielo con un pezzetto di acero. So che si è perso.
È stato piacevole stare sul balcone a lavare i vetri. Freddo, ma con il sole alle spalle. Dentro, lei era seduta a completare il suo puzzle. Rapita, ma comunque in posa. Dev’essere stata molto graziosa un tempo.
Dopo le finestre mi è toccato cercare il pezzo del puzzle. Centimetro per centimetro della moquette verde e pelosa, briciole di cracker, elastici del «Chronicle». Ero felicissima, era il miglior lavoro che mi fosse mai capitato. A lei «non importava un tubo» se fumavo e così mi sono messa carponi a fumare, strisciando per terra e spingendo avanti man mano il posacenere.
Alla fine ho trovato il pezzo, dall’altra parte della stanza rispetto al tavolo col puzzle. C’era il cielo, con un pezzetto di acero.
«L’ho trovato!» ha gridato lei. «Sapevo che non l’avevo perso!»
«L’ho trovato!» ho gridato io.
Così ho potuto passare l’aspirapolvere: l’ho fatto mentre lei finiva il puzzle con un sospiro. Andandomene le ho chiesto quando pensava di poter avere di nuovo bisogno di me.
«Chissà» mi ha risposto.
«Be’... chi vivrà vedrà» ho detto io, e ci siamo messe a ridere.
Ter, io non voglio affatto morire, in realtà.
40 telegraph. Fermata dell’autobus davanti alla lavanderia. Mill & Addie è piena di persone in attesa che si liberino le lavatrici, ma il clima è festoso, come se aspettassero un tavolo. Stanno in piedi, chiacchierano vicino alla vetrina, bevono lattine verdi di Sprite. Mill e Addie chiacchierano un po’ con tutti come ospiti gioviali, cambiano i soldi. In TV la banda dello Stato dell’Ohio suona l’inno nazionale. Raffiche di neve nel Michigan.
È una giornata fredda e tersa di gennaio. All’angolo della Ventinovesima compaiono quattro ciclisti con le basette, come un filo di aquilone. Una Harley in folle alla fermata dell’autobus; dal pianale di un pick-up Dodge del ’50 i ragazzini salutano con la mano il motociclista. E finalmente piango.
Il mio fantino
Mi piace lavorare al pronto soccorso: almeno incontro qualche uomo. Uomini veri, eroi. Pompieri e fantini. Finiscono in continuazione al pronto soccorso. Le lastre dei fantini sono fenomenali. I fantini non fanno che rompersi le ossa, ma come niente, due bende e via, tornano a gareggiare. Hanno scheletri che sembrano alberi, ricostruzioni di brontosauri. Le lastre di san Sebastiano.
A me toccano i fantini perché parlo spagnolo e loro sono per la maggior parte messicani. Il primo che ho conosciuto è stato Muñoz. Dio. Mi capita spessissimo di spogliare le persone e la cosa non mi fa né caldo né freddo, è un’operazione di pochi secondi. Muñoz se ne stava disteso, privo di sensi, un dio azteco in miniatura. Per via del suo abbigliamento complicato, spogliandolo avevo l’impressione di celebrare un elaboratissimo rituale. Angosciante, perché richiedeva un tempo infinito, come Mishima che ci mette tre pagine per far togliere il kimono a un personaggio femminile. La sua camicia di raso fucsia aveva un sacco di bottoni lungo la spalla e ai due minuscoli polsi; i pantaloni erano assicurati da un intrico di lacci, nodi precolombiani. Gli stivali puzzavano di concime e sudore, ma erano morbidi e delicati come le scarpe di Cenerentola. Lui intanto dormiva, come un principe colpito da un incantesimo.
Ancora prima di svegliarsi si è messo a invocare sua madre. Non si limitava a tenermi la mano, come fanno alcuni pazienti, mi si è attaccato al collo e ha cominciato a singhiozzare Mamacita! Mamacita! Si è lasciato visitare dal dottor Johnson solo a patto che io lo tenessi tra le braccia come un neonato. Era minuto come un bambino, ma forte, muscoloso. Reggevo un uomo in braccio. Un uomo dei sogni. Un bambino dei sogni.
Mentre facevo da interprete, il dottor Johnson mi passava una spugna sulla fronte. Di sicuro si era rotto una clavicola e almeno tre costole, probabilmente aveva una commozione cerebrale. Ma Muñoz diceva no, il giorno dopo doveva correre. Portalo a fare i raggi, mi ha detto il dottor Johnson. Siccome si rifiutava di stendersi sulla barella l’ho portato in braccio per tutto il corridoio, come King Kong. Piangeva, era terrorizzato, mi ha inzuppato il petto di lacrime.
Abbiamo aspettato nella sala buia che arrivasse il radiologo. Io lo tranquillizzavo come avrei fatto con un cavallo. Cálmate, lindo, cálmate. Despacio... despacio. Piano... piano. Tra le mie braccia si è calmato, soffiava e sbuffava sommessamente. Gli accarezzavo la bella schiena. Fremeva e scintillava come quella di uno splendido giovane puledro. Era meravigliosa.
El Tim
Sulla soglia di ogni aula c’era una suora, con la tonaca nera che fluttuava al vento nel corridoio. Le voci dei bambini di prima che pregavano, Ave Maria, piena di grazia, il Signore è con te. Dall’aula di fronte attaccavano quelli di seconda, cristallini, Ave Maria, piena di grazia. Io stavo ferma al centro dell’edificio e aspettavo le voci trionfanti dei bambini di terza, alle quali si univano poi quelle dei bambini di prima, Padre nostro, che sei nei Cieli, e infine quelle, profonde, dei bambini di quarta, Ave Maria, piena di grazia.
Man mano che i bambini crescevano, le preghiere si facevano più veloci, e gradualmente le voci si fondevano, si univano in un’improvvisa salmodia gioiosa... Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Amen.
Io insegnavo spagnolo nella nuova scuola media all’altro capo del cortile, un edificio che sembrava un giocattolo colorato. Ogni mattina, prima dell’inizio delle lezioni, passavo dalle elementari per sentire le preghiere, ma anche solo per entrarci, come si fa in chiesa. La scuola era stata una Missione, costruita nel 1700 dagli spagnoli per durare a lungo nel deserto. Era diversa dalle altre vecchie scuole, così solide e silenziose da rappresentare un guscio protettivo per i bambini. Questa aveva conservato la pace di una missione, di un rifugio.
Nella scuola elementare le suore ridevano, e ridevano anche i bambini. Le suore erano tutte anziane, ma non somigliavano alle vecchie stanche che si stringono la borsa al petto alla fermata dell’autobus: erano fiere, amate dal loro Dio e dai loro bambini. Rispondevano all’amore con la tenerezza, con risate sommesse, contenute, misurate, dietro le pesanti porte di legno.
Varie suore delle medie passavano nel cortile per controllare che nessuno fumasse. Queste suore erano giovani e nervose. Avevano classi con «bambini svantaggiati», «delinquenti borderline», e la faccia magra, stanca di sguardi vuoti. Non potevano fare ricorso alla soggezione o all’amore come le suore delle elementari. La loro arma era l’invulnerabilità, l’indifferenza nei confronti degli studenti che rappresentavano il loro dovere e la loro vita.
Le file di finestre nella classe del nono anno riflettevano lampi di luce man mano che suor Lourdes le apriva, come sempre sette minuti prima del suono della campanella. Io mi fermavo davanti alle porte arancioni siglate dal numero e guardavo i miei alunni del nono anno fare avanti e indietro davanti al reticolato, i corpi sciolti e agili, il collo che ballonzolava mentre camminavano, le braccia e le gambe che oscillavano ritmicamente al suono di una tromba che solo loro sentivano.
Si appoggiavano alla rete, parlavano in un dialetto inglese-spagnolo-hipster, ridevano senza emettere suoni. Le ragazze portavano la divisa blu della scuola. Come uccelli muti, flirtavano con i ragazzi che drizzavano la testa piumata, sgargianti con i pantaloni a vita alta arancio, gialli o turchese. Portavano camicie nere sbottonate o maglioni con il collo a V senza niente sotto, e i crocifissi scintillavano sul loro petto scuro e liscio... il crocifisso pachuco che avevano anche tatuato sul dorso della mano.
«Buongiorno, cara».
«Buongiorno, sorella». Suor Lourdes era uscita per vedere se gli alunni del settimo anno si erano messi in fila.
Suor Lourdes era la preside. Mi aveva assunto, non felicissima all’idea di dover pagare qualcuno per insegnare, dato che nessuna delle suore parlava spagnolo.
«Dunque, in quanto insegnante laica» mi aveva detto, «la prima alla San Marco, lei potrà trovare qualche difficoltà nel tenere sotto controllo gli studenti, soprattutto perché tanti sono poco più giovani di lei. Non deve commettere l’errore che fanno molte delle mie suore più giovani. Non cerchi di diventare loro amica. Questi studenti pensano in termini di potere e debolezza. Lei non deve perdere il suo potere... che conserverà tramite il riserbo, la disciplina, le punizioni, il controllo. Lo spagnolo è una materia facoltativa, metta pure tutte le insufficienze che vuole. Nel corso delle prime tre settimane può trasferire qualsiasi alunno alle mie lezioni di latino. Io non ho volontari» sorrise, «e lei troverà questa cosa di grande aiuto».
Il primo mese era filato liscio. La minaccia della lezione di latino era stata vantaggiosa: alla fine della seconda settimana avevo eliminato sette studenti. Era un lusso poter insegnare a una classe relativamente piccola, una classe senza un quarto degli alunni, quelli peggiori. Essere madrelingua spagnola mi aiutò molto. Per loro fu una sorpresa che una «gringa» fosse in grado di parlare bene come i loro genitori, ancora meglio di loro. Rimasero colpiti dal fatto che riconoscessi le parolacce che usavano, i termini gergali per marijuana e polizia. Si impegnavano molto. Per loro lo spagnolo era qualcosa di vicino, di importante. Si comportavano bene, ma la loro obbedienza risentita, le loro reazioni meccaniche erano un affronto.
Deridevano parole o espressioni che usavo io e cominciavano a usarle anche loro con la stessa frequenza. «La Piña», questo il nomignolo che mi avevano affibbiato per via dei miei capelli; ben presto le ragazze si tagliarono i capelli come me. «Questa cretina non sa scrivere» dicevano a bassa voce commentando le mie lettere in stampatello sulla lavagna, ma poi cominciarono a scrivere anche loro tutti i compiti in stampatello.
Non erano ancora i pachucos, i teppisti che si sforzavano di essere: cercavano di infilzare in un banco il coltello a serramanico con un colpo secco del polso, solo che poi arrossivano se il coltello scivolava di mano e cadeva a terra. Non dicevano ancora: «Non hai niente da insegnarmi». Aspettavano di imparare, facendo gli indifferenti. E allora, cosa avevo io da insegnare? Il mondo che conoscevo non era migliore di quello che loro avevano il coraggio di sfidare.
Osservavo suor Lourdes la cui forza non era, come la mia, una copertura per avere il loro rispetto. Gli alunni vedevano la sua fede nel Dio e nella vita che lei aveva scelto, erano cose che rispettavano, e non lasciavano mai trapelare la loro tolleranza per la severità con cui manteneva la disciplina.
Suor Lourdes non poteva nemmeno ridere con loro. Se questi ragazzi ridevano era solo per prendere in giro, ridevano solo quando qualcuno si metteva a nudo con una domanda, un sorriso, un errore, una scoreggia. Ogni volta che zittivo le loro risate cupe pensavo alle risatine, ai gridolini, al contrappunto gioioso delle scuole elementari.
Una volta a settimana ridevo insieme agli alunni del nono anno. Il lunedì, quando tutt’a un tratto si sentiva bussare forte sulla sottile porta di metallo, un imperioso bum bum bum che faceva tremare le finestre e riecheggiava per tutto l’edificio. A quel terribile rumore facevo immancabilmente un salto e la classe rideva di me.
«Avanti!» dicevo ad alta voce, e i colpi sulla porta si fermavano, e quando vedevamo che si trattava solo di un minuscolo alunno di prima ridevamo tutti insieme. Con le scarpe da ginnastica ai piedi, il bambino si avvicinava quatto quatto alla cattedra. «Buongiorno» diceva con un filo di voce, «mi può dare la lista della mensa?» Dopodiché se ne andava in punta di piedi e uscendo sbatteva la porta, fonte, anche questo, di ilarità.
«Professoressa Lawrence, le dispiace entrare un secondo?» Seguii suor Lourdes nella sua stanza e aspettai che suonasse la campanella.
«Timothy Sanchez tornerà a scuola». Fece una pausa, come se si aspettasse una mia reazione. «È stato in riformatorio, per l’ennesima volta: furto di sostanze stupefacenti. Ritengono che debba finire la scuola il più in fretta possibile. È molto più grande dei suoi compagni, e dai test risulta che è un ragazzo molto brillante. Qui c’è scritto che andrebbe incoraggiato e stimolato».
«C’è qualcosa in particolare che vorrebbe che io facessi?»
«No, in realtà, non posso darle nessun consiglio... lui rappresenta un problema del tutto differente. Ho pensato che fosse giusto parlargliene. Il funzionario di sorveglianza controllerà periodicamente i progressi del ragazzo».
La mattina dopo era Halloween e i bambini delle elementari erano mascherati. Io mi attardai a guardare le streghe, le centinaia di diavoli che recitavano trepidanti le preghiere del mattino. Quando arrivai davanti alla porta del nono anno suonò la campanella. Immacolato cuore di Maria, prega per noi dicevano. Rimasi sulla porta mentre suor Lourdes faceva l’appello. Quando entrai in classe si alzarono tutti in piedi: «Buongiorno». Le sedie raschiarono il pavimento mentre si risedevano.
Nella stanza piombò il silenzio. «El Tim!» disse qualcuno a bassa voce.
Era fermo sulla soglia, il contorno del corpo illuminato come quello di suor Lourdes dal lucernario nel corridoio. Era vestito di nero, la camicia aperta fino in vita, i pantaloni bassi e attillati sui fianchi magri. Un crocifisso dorato scintillava appeso a una catena pesante. Aveva un mezzo sorriso sulle labbra, guardava dall’alto suor Lourdes, con le ciglia che gli proiettavano ombre frastagliate sulle guance macilente. I capelli neri erano lunghi e lisci. Li ravviò all’indietro con le lunghe dita sottili, veloce, come un uccello.
Osservai la soggezione della classe. Osservai le ragazzine, le ragazzine graziose i cui sussurri in bagno riguardavano non amore e fidanzatini, ma matrimonio e aborti. Erano tese, lo fissavano, eccitate e vive.
Suor Lourdes entrò in aula. «Siediti qui, Tim» disse indicando una sedia davanti alla cattedra. Lui attraversò la stanza con la larga schiena curva, il collo in avanti, tsch tsch, tsch tsch, il ritmo pachuco. «E brava la suora pazza!» disse con un sorriso, guardando me. La classe scoppiò a ridere. «Silenzio!» intimò suor Lourdes. Eravamo l’una accanto all’altra. «Lei è la professoressa Lawrence. Questo è il tuo libro di spagnolo». Tim non sembrava darle ascolto. I grani del rosario di suor Lourdes sbattevano nervosamente.
«Abbottonati la camicia» gli disse. «Abbottonati la camicia!»
Lui si portò le mani al petto, con una cominciò ad armeggiare con un bottone, mentre con l’altra ispezionava l’asola. La suora gli scostò le mani e si mise a trafficare con la camicia finché non gliel’abbottonò tutta.
«Non so come farei senza di lei, sorella» disse lui con voce strascicata. La suora uscì dall’aula.
Era martedì: dettato. «Prendete un foglio e una matita». La classe obbedì meccanicamente. «Anche tu, Tim».
«Carta» ordinò senza alzare la voce. Fogli di carta gareggiarono per arrivare al suo banco.
«Llegó el hijo» dettai. Tim si alzò e si incamminò verso il fondo dell’aula. «La matita è senza punta...» disse. La sua voce era profonda e roca, la raucedine di chi è sul punto di piangere. Temperò la matita lentamente, girando il temperino con un rumore di spazzole su un tamburo.
«No tenían fé». Tim si fermò e posò una mano sui capelli di una ragazza.
«Siediti» gli dissi.
«Ma falla finita» borbottò. La classe scoppiò a ridere.
Mi consegnò un foglio in bianco, in alto aveva scritto El Tim.
Da quel giorno ogni cosa ruotò attorno a El Tim. Fu veloce a mettersi in pari col resto dei compagni. I suoi compiti in classe e gli esercizi scritti erano sempre da ottimo. Ma gli altri alunni erano influenzati solo dall’astiosa insolenza che dimostrava in classe, dal suo silenzioso, impunito rifiuto. La lettura ad alta voce, la coniugazione dei verbi alla lavagna, le discussioni, tutte le cose che un tempo erano state quasi piacevoli adesso erano quasi impossibili. I maschi erano diventati impertinenti, si vergognavano di far le cose per bene; le femmine erano imbarazzate, impacciate in presenza del Tim.
Cominciai a dare compiti scritti, lavori personali che potevo controllare di banco in banco. Assegnavo un sacco di temi e relazioni, anche se questo genere di esercizi non erano previsti per lo spagnolo del nono anno. Erano le uniche cose che piacevano a Tim, sulle quali si metteva a lavorare d’impegno cancellando e ricopiando, sfogliando le pagine di un dizionario spagnolo che teneva sul banco. I suoi temi erano fantasiosi, grammaticalmente perfetti, sempre privi di riferimenti personali... una strada, un albero. Io li chiosavo con commenti elogiativi. A volte leggevo i suoi compiti ai compagni, sperando che rimanessero colpiti, che il suo lavoro li incoraggiasse. Troppo tardi mi resi conto che il fatto che lo elogiassi finiva solo per confonderli, perché lui trionfava con un ghigno... «Pues, la tengo...», ce l’ho in pugno, io, questa qui.
Emiterio Perez ripeteva tutto quello che diceva Tim. Emiterio era ritardato, continuavano a fargli ripetere il nono anno in attesa che raggiungesse l’età per lasciare la scuola. Distribuiva i compiti, apriva le finestre. Gli facevo fare tutto quello che facevano i compagni. Ridacchiando, scriveva pagine su pagine di scarabocchi informi ma ordinati; io gli davo un voto e glieli restituivo. A volte scrivevo Buono e lui era tutto contento. Adesso persino lui si rifiutava di lavorare. «Para qué, hombre?» gli sussurrava Tim. Emiterio si confondeva, guardava Tim, poi guardava me. A volte scoppiava a piangere.
Incapace di intervenire, osservavo la crescente confusione della classe, una confusione che persino suor Lourdes non era più in grado di controllare. Adesso quando entrava in aula non c’era più silenzio, ma agitazione... chi si passava una mano sulla faccia, chi batteva sul banco con la gomma per cancellare, chi girava le pagine. La classe era in attesa. Immancabilmente, lenta e profonda, ecco la voce di Tim. «Fa freddo qua dentro, sorella, non le pare?», «Sorella, ho qualcosa all’occhio, viene a vedere cos’è?» Nessuno si muoveva quando ogni volta, ogni giorno, meccanicamente, la suora abbottonava la camicia di Tim. «Tutto a posto?» mi chiedeva prima di uscire dall’aula.
Un lunedì alzai lo sguardo e vidi un bambino piccolo venire verso di me. Guardai il bambino, e poi, sorridendo, guardai Tim.
«Ogni volta sono più piccoli... ci ha fatto caso?» disse a bassa voce per farsi sentire solo da me. Mi sorrise. Gli sorrisi anch’io, sentendomi venir meno per la gioia. Poi spinse indietro la sedia che raschiò stridula contro il pavimento e andò verso il fondo dell’aula. A metà strada si soffermò davanti a Dolores, una ragazzina minuta, brutta e timida. Lentamente le sfregò le mani sul seno. Lei emise un gemito e uscì dalla classe piangendo.
«Vieni subito qui!» gli urlai. I suoi denti mandarono un lampo.
«Devo ubbidire?» disse. Io mi appoggiai alla cattedra, con la testa che mi girava.
«Va’ via, vattene a casa. Non tornare mai più nella mia classe».
«D’accordo» disse lui con un sorriso. Mi sfilò davanti diretto alla porta, schioccando le dita a ogni passo... tsch tsch, tsch tsch. La classe era ammutolita.
Mentre stavo per uscire alla ricerca di Dolores, un sasso fracassò la finestra e atterrò sulla cattedra tra i frammenti di vetro.
«Cosa sta succedendo!» Suor Lourdes era sulla soglia. Non potevo aggirarla.
«Ho mandato Tim a casa».
Era pallida, la sua cuffia tremava. «Professoressa Lawrence, è suo dovere gestire l’alunno in classe».
«Mi dispiace, sorella, ma non ci riesco».
«Parlerò con la madre superiora» disse lei. «Domani mattina venga nel mio ufficio. Torna al tuo posto, tu!» urlò a Dolores che era rientrata dalla porta in fondo all’aula. La suora se ne andò.
«Aprite il libro a pagina 93» dissi. «Eddie, leggi e traduci il primo paragrafo».
La mattina dopo non passai per le elementari. Trovai suor Lourdes che aspettava seduta dietro la scrivania. Davanti alle porte di vetro della stanza c’era Tim, appoggiato alla parete, con le dita agganciate alla cintura.
Brevemente, raccontai alla suora quello che era successo il giorno prima. Mentre parlavo, lei teneva la testa china.
«Spero che riesca a trovare il modo di riguadagnarsi il rispetto di questo ragazzo» mi disse.
«Non ho intenzione di riprenderlo in classe» dissi. Mi alzai e mi piazzai davanti alla scrivania, con le mani che stringevano i bordi di legno.
«Professoressa Lawrence, ci è stato detto che questo ragazzo aveva bisogno di particolari attenzioni, che andava incoraggiato e stimolato».
«Non alle medie. È troppo grande e troppo intelligente per stare qui».
«Bene, lei dovrà imparare a gestire questo problema».
«Suor Lourdes, se lei mette Tim nella mia classe di spagnolo io mi rivolgerò alla Madre Superiora e al funzionario di sorveglianza. Dirò quello che è successo. Mostrerò loro i lavori che i miei alunni facevano prima che venisse lui e poi i lavori che hanno fatto dopo. Poi mostrerò i lavori di Tim, che non appartiene al livello in cui insegno io».
La suora parlò con voce piana, secca. «Professoressa Lawrence, questo ragazzo è sotto la nostra responsabilità. Il tribunale di sorveglianza l’ha affidato a noi. Rimarrà nella sua classe». Si protese verso di me, pallida. «È nostro dovere di docenti tenere sotto controllo certi problemi, continuare a insegnare nonostante tutto».
«Bene, io non ci riesco».
«Lei è debole!» mi disse a denti stretti.
«Sì, è vero. Ha vinto lui. Non tollero l’effetto che ha sulla classe e su di me. Se torna, io mi licenzio».
Suor Lourdes tornò ad accasciarsi sulla sedia. Stanca, disse: «Gli dia un’altra possibilità. Una settimana. Poi può fare come crede».
«Va bene».
Si alzò e aprì la porta per far entrare Tim. Tim si appoggiò al bordo della scrivania della suora.
«Tim» cominciò lei con voce suadente, «ti andrebbe di dimostrare il tuo pentimento a me, alla professoressa Lawrence e a tutta la classe?» Lui non rispose.
«Non voglio rimandarti al riformatorio».
«E perché no?»
«Perché sei un ragazzo in gamba. Voglio che impari qualcosa a scuola, che prendi un diploma qui alla San Marco. Voglio vederti andare alle superiori e...»
«Sorella, su» disse Tim con la sua voce strascicata. «Lei mi vuole solo abbottonare la camicia».
«Zitto!» Gli diedi uno schiaffo sulla bocca. La mia mano rimase bianca contro la sua pelle scura. Lui non si mosse. Mi veniva da vomitare. Suor Lourdes uscì dalla stanza. Io e Tim rimanemmo fermi, uno di fronte all’altra, e ascoltammo la suora che dava inizio alle preghiere del nono anno... Benedetta tra le donne, e benedetto è il frutto del tuo seno, Gesù...
«Perché mi ha dato uno schiaffo?» mi chiese Tim piano.
Cominciai a rispondergli, volevo dirgli: “Perché sei stato insolente e scostumato” ma vidi il suo sorriso di disprezzo mentre si aspettava che pronunciassi proprio quelle parole.
«Ti ho dato uno schiaffo perché ero arrabbiata. Per Dolores e per il sasso. Perché mi sono sentita ferita e stupida».
I suoi occhi scuri mi scrutarono. Per un istante il velo scomparve.
«Allora siamo pari» disse.
«Sì» dissi io, «andiamo in classe».
M’incamminai per il corridoio con Tim, evitando il ritmo della sua andatura.
Punto di vista
Immaginate il racconto di Čechov «Angoscia» narrato in prima persona. Un vecchio ci dice che gli è da poco morto un figlio. Ci sentiremmo in imbarazzo, a disagio, persino annoiati, reagiremmo proprio come i clienti del cocchiere nel racconto. Ma la voce imparziale di Čechov infonde dignità nell’uomo. Noi siamo pervasi dalla compassione dell’autore nei confronti del personaggio e siamo profondamente commossi, se non dalla morte del figlio, dal vecchio che parla col suo cavallo.
Credo che questo dipenda dal fatto che siamo tutti alquanto insicuri.
Per esempio, immaginiamo che io ora vi presenti la protagonista del racconto che sto scrivendo...
«Sono una donna nubile di oltre sessantacinque anni. Lavoro in uno studio medico. Vado a casa in autobus. Ogni domenica faccio il bucato, poi la spesa da Lucky, dopodiché compro l’edizione domenicale del “Chronicle” e torno a casa». Voi mi direste: basta, per carità.
Il mio racconto, però, si apre così: «Ogni domenica, dopo essere passata in lavanderia e al supermercato, comprava l’edizione domenicale del “Chronicle”». Voi ascoltereste tutti i più piccoli dettagli compulsivi, ossessivi e noiosi della vita di questa donna, Henrietta, solo perché la narrazione è in terza persona. Pensereste, diavolo, se la narratrice ritiene che ci sia qualcosa da scrivere a proposito di questa creatura scialba dev’essere così. Continuiamo a leggere, vediamo cosa succede.
In realtà non succede niente. Anzi, il racconto non è ancora stato scritto. Ciò che spero di fare, combinando fra di loro una serie di intricati dettagli, è rendere questa donna talmente credibile che voi non potrete fare a meno di provare compassione per lei.
Molti scrittori usano sfondi e oggetti di scena presi dalla propria vita. Per esempio, la mia Henrietta ogni sera consuma la sua misera cena su una tovaglietta azzurra all’americana servendosi di finissime posate italiane in massiccio acciaio inossidabile. Un dettaglio strano, che potrebbe apparire incongruo con questa donna che ritaglia i coupon per la carta da cucina Brawny, ma è un dettaglio che cattura la curiosità del lettore. O almeno è quello che spero.
Non credo che nel racconto fornirò spiegazioni di sorta. Io stessa mangio con quelle eleganti posate. L’hanno scorso ho ordinato un set da tavola per sei dal catalogo natalizio del Museo di Arte Moderna. Costosissimo, cento dollari, ma sembrava valerli tutti. Io ho sei piatti e sei sedie. Magari mi capiterà di dare una cena, pensavo. Alla fine ho scoperto che erano cento dollari per sei pezzi in tutto. Due forchette, due coltelli, due cucchiai. Un set per una persona sola. Mi sono vergognata di rispedire tutto indietro e ho pensato, vabbè magari l’anno prossimo ne ordino un altro.
Henrietta mangia con le sue graziose posate e beve Calistoga in un calice. Mangia l’insalata in un’insalatiera di legno e i surgelati Lean Cuisine su un piatto piano. E mentre mangia legge la rubrica Questo mondo dove tutti gli articoli sembrano scritti dalla stessa prima persona.
Henrietta aspetta con ansia il lunedì. È innamorata del dottor B., il nefrologo. Molte infermiere sono innamorate dei “loro” dottori. Una specie di sindrome di Della Street.
Il personaggio del dottor B. è basato sul nefrologo per il quale lavoravo io un tempo. Di sicuro non ero innamorata di lui. Qualche volta, scherzando, dico che fra di noi c’era un rapporto d’amore e odio. Era talmente odioso che evidentemente mi ricordava la fine che a volte fanno le storie d’amore.
Però Shirley, quella che c’era prima di me, lei sì che era innamorata di lui. Ci teneva a far notare tutti i regali di compleanno che gli aveva fatto. La fioriera con l’edera e la piccola bicicletta in ottone. Lo specchio con il koala smerigliato. Il set di penne. Diceva che i regali gli erano piaciuti tutti tantissimo tranne il sedile da bicicletta peloso in pelle di montone. L’aveva dovuto cambiare con un paio di guanti da ciclista.
Nel mio racconto il dottor B. schernisce Henrietta per il sedile, è davvero sarcastico e insensibile, come certamente sapeva essere. Questo sarà senz’altro il climax del racconto, il momento in cui lei si rende conto di quanto il dottore la disprezzi, di quanto sia penoso l’amore che prova per lui.
Il giorno che ho cominciato a lavorare lì ho ordinato dei camici di carta. Shirley usava camici di cotone: «Azzurro a quadretti per i maschi, a roselline rosa per le femmine». (La maggior parte dei nostri pazienti erano talmente vecchi da doversi muovere con il deambulatore). Ogni fine settimana Shirley si trascinava i panni sporchi sull’autobus e se li portava a casa dove non solo li lavava, ma li inamidava e li stirava. Tutte queste cose, io le faccio fare anche alla mia Henrietta... stirare la domenica, dopo che ha pulito la casa.
Naturalmente gran parte del mio racconto è centrato sulle abitudini di Henrietta. Abitudini. Non è tanto il fatto che siano cattive di per sé, quanto che vadano avanti così a lungo. Ogni sabato, anno dopo anno.
Ogni domenica Henrietta legge le pagine rosa. Prima l’oroscopo, sempre a pagina 16, un’abitudine del giornale. Di solito gli astri hanno in serbo cose piccanti per Henrietta. Luna piena, sensuali scorpioncini, e voi sapete di cosa sto parlando! Preparatevi a incontri bollenti!
La domenica, dopo aver pulito e stirato, Henrietta si prepara una cenetta speciale. Pollo ruspante. Ripieno pronto e salsa di mirtilli rossi. Vellutata di piselli. Un Milky Way alla vaniglia come dessert.
Dopo aver lavato i piatti, guarda 60 Minutes. Non che il programma le interessi particolarmente. Ma le piacciono i presentatori. Diane Sawyer, tanto educata e carina, e gli uomini, tutti così solidi, affidabili e impegnati. Le piace quando fanno la faccia preoccupata e scuotono la testa, o quando sorridono e scuotono la testa per una storia divertente. Ma soprattutto le piacciono le inquadrature del grande orologio. La lancetta dei minuti e il tic tic tic del tempo che passa.
Poi guarda La signora in giallo, che non le piace, ma in TV non c’è altro.
Mi trovo in difficoltà a parlare delle domeniche. A descrivere quella lunga sensazione di vuoto delle domeniche. Niente posta, i tosaerba lontani, la disperazione.
O a descrivere l’entusiasmo di Henrietta per l’arrivo del lunedì mattina. Il tic tic dei pedali della bicicletta del dottore e il clic quando lui si chiude a chiave per cambiarsi.
«Passato un buon fine settimana?» gli chiede. Lui non risponde mai. Non dice mai né buongiorno né arrivederci.
La sera, quando lui esce con la bici, lei gli tiene la porta aperta. «Arrivederci! A presto» e sorride.
«Presto quando? Santo cielo, la smetta di salutarmi in quel modo».
Ma per quanto il dottore sia antipatico con lei, Henrietta continua a credere che ci sia un legame tra loro. Lui ha un piede equino, zoppica vistosamente, mentre lei ha la scoliosi, una curvatura della spina dorsale. La gobba, in pratica. È impacciata e timida, ma capisce le ragioni dietro i suoi commenti caustici. Una volta il dottore le ha detto che lei possiede i due requisiti fondamentali dell’infermiera, «la stupidità e il servilismo».
Dopo La signora in giallo, Henrietta si fa il bagno e si coccola con le palline da bagno al profumo di fiori.
Poi guarda il telegiornale massaggiandosi la lozione sulla faccia e sulle mani. Ha messo su l’acqua per il tè. Le piacciono le previsioni del tempo. Quei piccoli soli sopra il Nebraska e il Nord Dakota. Le nuvole di pioggia sopra la Florida e la Louisiana.
È a letto e beve una tazza di camomilla Sleepytime. Si rammarica di non avere più la vecchia coperta elettrica con l’interruttore regolabile su basso-medio-caldo. Secondo la pubblicità, la nuova coperta era la Coperta Elettrica Intelligente. Che capisce da sola che non fa freddo e quindi non si riscalda. E invece lei vorrebbe tanto che diventasse bella calduccia. Tutta questa intelligenza alla fine non serve a niente! Scoppia in una fragorosa risata. Il rumore ha qualcosa di allarmante in quella piccola stanza.
Spegne la TV e continua a sorseggiare la camomilla, sente le macchine che si fermano e ripartono dalla stazione di servizio Arco di fronte. Ogni tanto un’auto si ferma sgommando davanti alla cabina telefonica. Si sente una portiera sbattere e la macchina che riparte a razzo.
Sente qualcuno avvicinarsi lentamente ai telefoni. Dall’auto arriva musica jazz a tutto volume. Henrietta spegne la luce, alza le veneziane vicino al letto, solo di poco. Il vetro della finestra è appannato. Dall’autoradio arrivano le note di Lester Young. L’uomo nella cabina regge il telefono con il mento. Si asciuga la fronte con un fazzoletto. Mi appoggio contro il davanzale freddo e lo guardo. Ascolto la dolce musica del sassofono di Polka Dots and Moonbeams. Nel vapore del vetro scrivo una parola. Che cosa? Il mio nome? Il nome di un uomo? Henrietta? Amore? Qualsiasi essa sia, cancello di corsa la parola prima che qualcuno possa vederla.
La prima disintossicazione
Durante la quarta settimana di costante pioggia ottobrina, Carlotta si svegliò nel reparto di disintossicazione dell’ospedale di contea. Sono in un ospedale, pensò, e si incamminò con passo incerto nel corridoio. In un’ampia sala – che sarebbe stata inondata dal sole, se non fosse stato per la pioggia – c’erano due uomini. Erano brutti, indossavano una tuta di jeans bianca e nera. Erano coperti di lividi, fasciati da bende insanguinate. Arrivavano dal carcere, probabilmente; ma poi si rese conto di indossare lei stessa una tuta di jeans bianca e nera e di essere a sua volta coperta di lividi e insanguinata. Ricordò le manette, la camicia di forza. Era Halloween. La volontaria degli Alcolisti Anonimi insegnava a fare le zucche. Tu gonfi il palloncino, lei ci fa il nodo. Poi tutto intorno ci incolli delle strisce di carta appiccicose. La sera dopo, quando il pallone si è asciugato, lo dipingi di arancione. La volontaria ritaglia gli occhi, il naso e la bocca. Tu puoi scegliere se sul tuo ci vuoi una faccia sorridente o una faccia accigliata. Le forbici non te le danno. Risate su risate perché i palloni erano scivolosi, le mani tremavano. Fare le zucche era difficile. Anche se avessero avuto il permesso di ritagliare gli occhi, il naso e la bocca, avrebbero comunque avuto quelle stupide forbici stondate. Per scrivere, solo quei matitoni grossi da bambini di prima elementare..Nel reparto disintossicazione Carlotta non se la passava male. Gli uomini facevano i galanti, un po’ goffi. Era l’unica donna, era carina, non aveva «la faccia dell’ubriacona». I suoi occhi grigi erano limpidi, la sua risata spontanea. Aveva personalizzato il pigiama bianco e nero con un vivace foulard fucsia. Molti di quegli uomini erano alcolisti di strada. Li portava lì la polizia, o si presentavano da soli una volta finiti i soldi del sussidio, quando non c’era più nessun porto, nessun rifugio. L’ospedale di contea era il posto ideale per disintossicarsi dall’alcol, le dissero. Se ti vengono le crisi, qui ti danno il Valium, la Torazina, il Dilantin. Di notte i pasticconi gialli di Nembutal. Ma non sarebbe durato a lungo, presto ci sarebbero stati soltanto reparti di disintossicazione basati sul «modello sociale», senza medicinali. «E a quel punto uno che cazzo ci viene a fare?» disse Pepe. Il cibo è ottimo, ma freddo. Devi prendere il vassoio dal carrello e portartelo al tavolo. All’inizio un sacco di persone non sono in grado di farlo, oppure il vassoio gli cade di mano. Alcuni tremavano tanto da dover essere imboccati, oppure si curvavano sul piatto e leccavano il cibo, come gatti. Dopo il terzo giorno, ai pazienti viene somministrato l’Antabuse. Se in un arco di settantadue ore dopo aver assunto questo farmaco bevi dell’alcol stai male da morire. Convulsioni, dolori al petto, choc, spesso la morte. Ogni mattina alle nove e mezza, prima della terapia di gruppo, i pazienti vedevano il filmato sull’Antabuse. Dopo, nel solarium, gli uomini cominciavano a calcolare quando avrebbero potuto riprendere a bere. Facevano i conti sui tovaglioli, con quei grossi matitoni. Solo Carlotta diceva che non avrebbe mai più bevuto.
«E tu cosa bevi, ragazza?» le chiese Willie.
«Jim Beam».
«Jim Beam?» Gli uomini scoppiarono a ridere.
«Cazzo... ma allora non sei un’alcolizzata. Noi alcolizzati beviamo vino dolce».
«Oh oh, e com’è dolce!»
«Ma tu che cazzo ci fai qui?»
«Intendi dire una ragazza carina come me... ?» Cosa ci faceva lei lì, in effetti? Non ci aveva ancora pensato.
«Jim Beam. Non hai bisogno di disintossicarti...»
«Altroché se ne ha bisogno. Quando l’hanno portata qui era una forsennata, le stava dando di santa ragione a quel poliziotto cinese. Wong. Poi ha avuto una crisi, per tre minuti circa nessuno riusciva a fermarla, come un pollo che gli hanno tirato il collo». Carlotta non ricordava niente. L’infermiera le aveva raccontato che si era schiantata con la macchina contro un muro. La polizia l’aveva portata lì invece che in carcere quando avevano scoperto che era un’insegnante, aveva quattro figli e niente marito. Nessun precedente, di nessun tipo.
«Ce li hai gli attacchi di delirium tremens?» le chiese Pepe.
«Sì» mentì lei. Dio, ma senti come parlo... vi prego accettatemi, ditemi che vi sto simpatica, barboni con gli occhi cisposi. Io non so cosa sia il delirium tremens. Me l’ha chiesto anche il dottore se
ce l’avevo. Io gli ho detto di sì e lui ha preso nota. Se sono visioni demoniache, allora sì, l’ho sempre avuto. Tutti ridevano mentre attaccavano pezzi di carta appiccicosa ai loro palloncini. La storia di Joe, che era stato buttato fuori dall’Adam and Eve ed era convinto di poter trovare un bar migliore. Era salito su un taxi gridando: «Allo Shalimar!» solo che il taxi era una macchina della polizia che l’aveva portato qui. La differenza tra un intenditore e un avvinazzato? L’intenditore tira fuori la bottiglia dal sacchetto di carta. Mac, sulle virtù del vino Thunderbird: «Quei deficienti di latini neppure si tolgono i calzini». La sera, dopo i palloncini e l’ultimo Valium, venivano quelli degli Alcolisti Anonimi. Metà dei pazienti si addormentava durante l’incontro, mentre ascoltava i racconti di quando un tempo anche loro avevano toccato il fondo. Un’alcolista anonima raccontò che masticava aglio tutto il giorno per non far sentire che l’alito le puzzava di alcol. Carlotta masticava chiodi di garofano. Sua madre inalava ditate di Vicks. Lo zio John aveva sempre pezzetti di Sen-Sen tra i denti, e quando rideva assomigliava a una di quelle zucche. A Carlotta piaceva soprattutto la parte finale, quando si tenevano per mano e dicevano il Padre Nostro. Dovevano svegliare i loro compagni, sorreggerli come i soldati mortidi Beau Geste. Si sentiva vicina a quegli uomini quando pregavano per restare sobri, nei secoli dei secoli. Quando quelli degli Alcolisti Anonimi se ne andavano, i pazienti ricevevano latte, biscotti e Nembutal. Quasi tutti andavano a dormire, comprese le infermiere. Carlotta giocava a poker con Mac, Joe e Pepe fino alle tre del mattino. Ma senza esagerare. Chiamava casa ogni giorno. I suoi figli più grandi, Ben e Keith, si prendevano cura di Joel e Nathan. Dicevano che andava tutto bene. Non c’era molto che lei potesse dire. Rimase sette giorni in ospedale. La mattina che se ne andò, nella sala di ricreazione buia di pioggia c’era un cartello. In bocca al lupo, Lottie. La polizia aveva lasciato la sua macchina nel parcheggio. Una grossa ammaccatura, uno specchietto rotto. Carlotta guidò fino a Redwood Park. Alzò il volume della radio, si sedette sul cofano ammaccato, sotto la pioggia. Sotto di lei scintillava il tempio dorato dei mormoni. La baia era avvolta nella nebbia. Era bello stare all’aria aperta, ascoltare musica. Fumava, pensava a quello che avrebbe fatto a lezione la settimana successiva, preparava le unità didattiche, pensava ai libri da prendere in biblioteca. (Per la scuola aveva la scusa. Una cisti ovarica... Benigna, per fortuna). Lista della spesa. Stasera lasagne: il piatto preferito dai suoi figli. Concentrato di pomodoro, carne di vitello, manzo. Insalata e pane all’aglio. Sapone e carta igienica, probabilmente. Per dolce una torta di carote. Le liste la rassicuravano, erano un modo per riprendere le redini della situazione. I suoi figli e Myra, la preside della scuola dove insegnava, erano le uniche persone a sapere dove fosse stata. L’avevano sostenuta. Non ti preoccupare. Si sistemerà tutto. Alla fine in qualche modo si sistemava sempre tutto. Lei in realtà era una brava insegnante e una brava madre. La loro piccola casa pullulava di progetti, libri, discussioni, risate. Ognuno ottemperava ai propri impegni. La sera, dopo i piatti e il bucato, dopo aver corretto i compiti, c’era la TV o lo Scarabeo, problemi, le carte, o conversazioni sciocche. Buona notte, ragazzi! E poi un silenzio che lei festeggiava con dosi doppie, ora senza frenetici cubetti di ghiaccio. Se si fossero svegliati, i figli sarebbero incappati nella sua pazzia, che all’epoca solo di rado si riversava anche nel mattino. Ma per quanto riusciva a ricordare, a notte fonda aveva sempre sentito Keith controllare i posacenere, il camino. Spegnere le luci, chiudere le porte a chiave. Quella era stata la sua prima esperienza con la polizia, anche se non ne serbava memoria. Prima di quella volta non aveva mai guidato ubriaca, non era mai mancata più di un giorno al lavoro, mai... Non aveva idea di cosa sarebbe accaduto. Farina. Latte. Ajax. A casa lei aveva solo aceto di vino, che con l’Antabuse poteva farle venire le convulsioni. Sulla lista scrisse aceto di sidro.