AMULETO
Roberto Bolaño
La polvere sui libri
"....lascia in pace quelle carte, ragazza mia, che la polvere è sempre andata a braccetto con la letteratura. Io restavo lì a guardarli e pensavo quanto avevano ragione, sempre la polvere, e sempre la letteratura, e visto che io allora andavo a caccia di sfumature, immaginavo situazioni portentose e tristi, immaginavo i libri tranquilli sugli scaffali e mi immaginavo la polvere del mondo che cominciava a entrare nelle biblioteche, lentamente, con perseveranza, inarrestabile, e allora comprendevo che i libri erano facile preda della polvere (lo comprendevo ma mi rifiutavo di accettarlo), vedevo mulinelli di polvere che si materializzavano in una pampa che esisteva in fondo alla mia memoria, e le nuvole avanzavano fino a giungere al DF , le nuvole della mia pampa personale che era la pampa di tutti anche se molti si rifiutavano di vederla, e allora il polverone ricopriva tutto, i libri che avevo letto e i libri che pensavo di leggere, e allora non c'era proprio nulla da fare, per quanto ci dessi dentro con gli stracci e la scopa, la polvere non sarebbe mai andata via, perché la polvere era parte della sostanza stessa dei libri che lì, a modo loro, vivevano o scimmiottavano qualcosa di molto simile alla vita."
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Da quando Conan Doyle ha dimostrato che del corpo, in un'indagine ben
condotta, si può tranquillamente fare a meno, molti autori di storie
poliziesche si sono divertiti a mettere i propri protagonisti in condizione di
non potersi muovere. Ultimo, ma solo in ordine di tempo, è arrivato Roberto
Bolaño, che in questo romanzo ha inventato Auxilio Lacouture. Se per via della
stazza il detective di Rex Stout abbandona a fatica e malvolentieri la sua
serra, Auxilio, che invece sembra la «versione femminile di don Chisciotte»,
non può semplicemente uscire dai bagni della facoltà di Lettere e Filosofia di
Città del Messico, dove l'esercito e i reparti antisommossa hanno appena fatto
irruzione. Siamo nel settembre del 1968, cioè nel cuore di una stagione
rivoluzionaria rispetto alla quale i moti europei sono un pranzo di gala appena
un po' rumoroso. Quella che Auxilio arriva pian piano a ricostruire è la
«storia di un crimine atroce» che ha lasciato il segno su tutta una generazione
di giovani latinoamericani. Un'immagine dopo l'altra, lo spazio fisico si
dissolve, mentre la voce di Auxilio diventa quella di Bolaño, e attraverso una
galleria di personaggi indimenticabili ridisegna la geografia, immaginaria e
persino troppo reale, di un intero continente.
Roberto Bolaño
Amuleto
Per Mario Santiago Papasquiaro (Mexico DF, 1953-1998) Volevamo, poveri
noi, chiedere ausilio; ma non c'era
nessuno che venisse in nostro aiuto.
PETRONIO
1.
Questa sarà una storia di terrore. Sarà una storia poliziesca, un noir,
un racconto da serie del terrore. Eppure non sembrerà. Non sembrerà, perché
sono io a raccontarla. Sono io a parlare, ed è per questo che non sembrerà. Ma
in fondo è la storia di un crimine atroce. Io sono l'amica di tutti i
messicani. Potrei dire che sono la madre della poesia messicana, ma forse è
meglio non dirlo. Io conosco tutti i poeti e tutti i poeti conoscono me. Dunque
potrei anche dirlo. Potrei dire che sono la madre, e sono secoli che qui tira
una bruttissima aria, ma anche questo è meglio non dirlo. Potrei dire, per
esempio, di aver conosciuto Arturito Belano quando aveva diciassette anni ed
era un bambinone timido che scriveva opere di teatro e poesia e non sapeva
bere, ma in qualche modo sarebbe una ridondanza, e a me hanno insegnato (me
l'hanno insegnato con la frusta, con una bacchetta di ferro) che le ridondanze
sono di troppo e che deve bastare il semplice argomento. Quello che di sicuro
posso dire è il mio nome.
Mi chiamo Auxilio Lacouture e vengo dall'Uruguay, da Montevideo, anche
se quando mi vanno i fumi alla testa, quando mi prende lo sghiribizzo di dire
stranezze, dico che sono charrúa, che in realtà sarebbe lo stesso, ma poi lo
stesso non è, visto che finisce per confondere i messicani e di conseguenza gli
altri latinoamericani. Ciò che realmente importa è che un giorno arrivai in
Messico senza sapere bene perché, né a fare cosa, né come, né quando. Arrivai
in Messico, nel DF, il Distrito Federal, nell'anno 1967 o forse nell'anno 1965
o 1962. Non mi ricordo più le date né le molte peregrinazioni, l'unica cosa che
so è che sono arrivata in Messico e non sono più andata via. Vediamo un po',
facciamo lavorare la memoria. Stiriamo il tempo come la pelle di una donna priva
di sensi nella sala operatoria di un chirurgo plastico. Vediamo. Sono arrivata
in Messico quando era ancora vivo León Felipe, un colosso, una forza della
natura, e León Felipe è morto nel 1968. Sono arrivata in Messico quando ancora
viveva Pedro Garfias, che era un grand'uomo, un uomo malinconico, e don Pedro è
morto nel 1967, questo vuol dire che io devo essere arrivata prima del 1967.
Insomma, mettiamo che io sia arrivata in Messico nel 1965.
Sì, deve essere proprio così, credo di essere arrivata nel 1965 (ma può
darsi che mi sbagli, capita quasi sempre di sbagliarsi) e ho frequentato quegli
spagnoli universali, giorno dopo giorno, ora dopo ora, con la passione di una
poetessa e la devozione illimitata di un'infermiera inglese e di una sorella
minore che veglia sui suoi fratelli più grandi, errabondi come me, anche se la
natura del loro esodo era ben diversa. A me nessuno mi aveva cacciato via da
Montevideo, semplicemente un giorno avevo deciso di partire e me n'ero andata a
Buenos Aires e da Buenos Aires, dopo qualche mese, forse un anno, avevo deciso
di continuare a viaggiare perché sapevo già allora che il mio destino sarebbe
stato il Messico, e sapevo che Leon Felipe viveva in Messico, e non ero molto
sicura che qui stesse vivendo anche don Pedro Garfias, però credo in fondo di
averlo immaginato. Forse è stata la follia che mi ha spinto a viaggiare. Può
darsi che sia stata la follia. A me piaceva dire che era stata la cultura.
Certo, a volte la follia è essa stessa cultura, o comprende la cultura. O magari
è stato il disamore a spingermi a viaggiare. Magari è stato un amore eccessivo
e debordante. O forse è stata proprio la follia.
L'unica cosa certa è che arrivai in Messico nel 1965 e mi piazzai in
casa di Leon Felipe e in casa di Pedro Garfias e a entrambi dissi che ero lì a
loro disposizione, potevano disporre di me a piacimento. A quei due dovetti
risultare simpatica, perché antipatica non sono, a volte sono forse un po'
pesante, ma antipatica no, mai. E la prima cosa che feci fu prendere una scopa
e mettermi a spazzare il pavimento delle loro case e ogni volta che potevo
chiedevo loro dei soldi e andavo a fare la spesa. E loro mi dicevano con quel
tono spagnolo così peculiare, quel cantilenare burbero che non li ha mai
abbandonati, come se arrotassero le "zeta" e le "ci" e
lasciassero le "esse" più orfane e libidinose che mai, Auxilio, mi
dicevano, smettila di far casino con quel pavimento, Auxilio, lascia in pace
quelle carte, ragazza mia, che la polvere è sempre andata a braccetto con la
letteratura. Io restavo lì a guardarli e pensavo quanto avevano ragione, sempre
la polvere, e sempre la letteratura, e visto che io allora andavo a caccia di
sfumature, immaginavo situazioni portentose e tristi, immaginavo i libri
tranquilli sugli scaffali e mi immaginavo la polvere del mondo che cominciava a
entrare nelle biblioteche, lentamente, con perseveranza, inarrestabile, e
allora comprendevo che i libri erano facile preda della polvere (lo comprendevo
ma mi rifiutavo di accettarlo), vedevo mulinelli di polvere che si
materializzavano in una pampa che esisteva in fondo alla mia memoria, e le
nuvole avanzavano fino a giungere al DF, le nuvole della mia pampa personale
che era la pampa di tutti anche se molti si rifiutavano di vederla, e allora il
polverone ricopriva tutto, i libri che avevo letto e i libri che pensavo di
leggere, e allora non c'era proprio nulla da fare, per quanto ci dessi dentro
con gli stracci e la scopa, la polvere non sarebbe mai andata via, perché la
polvere era parte della sostanza stessa dei libri che lì, a modo loro, vivevano
o scimmiottavano qualcosa di molto simile alla vita.
Era questo che io vedevo. Era questo che mi accadeva mentre ero
attraversata da un brivido che soltanto io sentivo. Poi aprivo gli occhi e
appariva il cielo del Messico. Sono in Messico, pensavo, quando la coda del
brivido non se n'era ancora andata. Sono qui, pensavo. E allora dimenticavo
ipso facto la polvere. Vedevo il cielo attraverso una finestra. Vedevo le
pareti attraverso le quali s'intrufolava la luce del DF. Vedevo i poeti
spagnoli e i loro libri rilucenti. E a loro io dicevo: don Pedro, Leon (guarda
un po' che cosa strana, al più vecchio e venerabile davo del tu; il più
giovane, al contrario, era come se m'intimidisse e non potevo fare a meno di
dargli del lei!), lasciate che sia io a occuparmi di queste faccende, voi
pensate alle vostre cose, continuate a scrivere tranquilli e fate conto che io
sia la donna invisibile. E loro ridevano. O per meglio dire, Leon Felipe
rideva, anche se a voler essere sincera, non sapevo bene se stava ridendo o se
tentava di schiarirsi la voce o magari stava solo bestemmiando, quell'uomo era
una specie di vulcano, mentre don Pedro Garfias, al contrario, ti guardava e
poi sviava lo sguardo (uno sguardo carico di tristezza) e lo posava, non so,
diciamo su un portafiori o su uno scaffale pieno di libri (uno sguardo carico
di malinconia), e allora io pensavo: che diavolo avrà quel portafiori, cosa
avrà mai il dorso di quei libri sui quali si posa il suo sguardo, per scatenare
tanta tristezza? E a volte mi mettevo a riflettere, quando lui non era nella
stanza o quando non mi guardava, mi mettevo a riflettere e mi mettevo perfino a
guardare il portafiori in questione o i libri dei quali vi stavo parlando e
arrivavo alla conclusione (conclusione che d'altra parte non tardavo a
scartare) che lì dentro, dentro quegli oggetti dall'apparenza così inoffensiva,
si nascondeva l'inferno o almeno una delle sue porte segrete.
E a volte don Pedro mi sorprendeva mentre guardavo il suo portafiori o
il dorso dei suoi libri e mi chiedeva, cosa guardi Auxilio, e io allora dicevo,
eh... cosa?, e a volte facevo la finta tonta o assumevo un'aria sognante, e
altre volte invece gli domandavo cose in apparenza marginali, ma cose che a
pensarci bene risultavano rilevanti. Gli dicevo: don Pedro, questo portafiori
da quanto tempo ce l'ha? Gliel'ha regalato qualcuno? Ha un valore speciale per
lei? E lui rimaneva a guardarmi senza sapere cosa rispondere. Oppure mi diceva:
guarda che è soltanto un portafiori. O magari: no, non ha nessun significato
speciale. E allora per quale ragione lo guarda come se lì dentro si nascondesse
una delle porte dell'inferno? Così avrei dovuto replicargli. Ma io non
replicavo. Io mi limitavo a dire: ah ah, un'espressione che non so chi mi aveva
appiccicato addosso in quei mesi, i primi che passai in Messico. La mia testa
però era sempre in movimento, per quanti "ah ah" le labbra potessero
articolare. E una volta, questo lo ricordo e mi fa ancora sorridere, mentre mi
trovavo da sola nello studio di Pedrito Garfias, mi misi a guardare il
portafiori che lui fissava con tanta tristezza, e pensai: magari lo guarda così
perché dentro non c'è neanche un fiore, non c'è quasi mai un fiore, e mi
avvicinai al portafiori osservandolo da diverse angolazioni, e allora (mi
avvicinavo sempre di più, anche se il mio modo di avvicinarmi, il mio modo di
muovermi verso l'oggetto osservato disegnava una sorta di spirale) pensai: devo
infilare la mano nel buco nero del portafiori. Sì, pensai proprio così. E vidi
la mano staccarsi dal mio corpo, alzarsi, planare sopra il buco nero del
portafiori, avvicinarsi ai bordi smaltati, e proprio in quel momento una vocina
dentro di me mi disse: ehi, Auxilio, cosa stai facendo, sei matta? Fu proprio
questo a salvarmi, credo, perché in quello stesso momento il mio braccio si
fermò e la mia mano rimase sospesa in aria, in una posizione quasi da ballerina
morta, a pochi centimetri dalla bocca dell'inferno, e a partire da quel momento
non so esattamente cosa mi accadde ma so benissimo quello che non mi accadde e
che invece sarebbe potuto accadere.
Una corre un sacco di pericoli. E la sacrosanta verità. Una corre un
sacco di pericoli e finisce per diventare un giocattolo nelle mani del destino
perfino nei posti più inverosimili.
Quella volta del portafiori io mi misi a piangere. O per meglio dire:
mi spuntarono le lacrime senza che me ne rendessi conto e dovetti sedermi su
una poltrona, l'unica poltrona che don Pedro teneva in quella stanza, perché se
non mi fossi seduta sarei sicuramente svenuta. O almeno, posso assicurare che a
un certo momento mi si annebbiò la vista e mi tremarono le gambe. E una volta
seduta mi prese un tremolio talmente forte che sembrava stesse per venirmi un
colpo. E la cosa peggiore fu che in quel momento la mia unica preoccupazione
era che Pedrito Garfias non entrasse e mi vedesse in quello stato deplorevole.
Allo stesso tempo, però, non riuscivo a smettere di pensare al portafiori, che
evitavo di guardare pur sapendo (completamente matta in fin dei conti non sono)
che era ancora lì, nella stanza, in piedi sopra una mensola sulla quale c'era
pure un rospo d'argento, un rospo la cui pelle sembrava avere assorbito tutta
la follia della luna messicana. E poi, ancora tremando, mi alzai in piedi e mi
avvicinai di nuovo, credo con il sano proposito di prendere il portafiori e
sbatterlo per terra, contro le mattonelle verdi del pavimento, e questa volta
non mi avvicinai all'oggetto che provocava il mio terrore avanzando a spirale,
ma in linea retta, una linea retta vacillante, questo sì, ma pur sempre linea
retta. E quando mi trovai a mezzo metro dal portafiori mi fermai di nuovo e
dissi tra me e me: se non c'è l'inferno, lì ci saranno gli incubi, lì dentro
c'è tutto quello che la gente ha perduto, tutto quello che causa dolore, quello
che vale la pena dimenticare.
E fu allora che pensai: ma Pedrito Garfias sa cosa si nasconde
all'interno del suo portafiori? Lo sanno i poeti che cosa si rannicchia nella
bocca senza fondo del loro portafiori? E se lo sanno, perché diavolo non lo
distruggono, perché non si prendono loro stessi questa responsabilità?
Quel giorno non riuscii a pensare ad altro. Me ne andai più presto del
solito e mi dedicai a passeggiare per il bosco di Chapultepec. Un posto bello e
rilassante. Ma per quanto camminassi e ammirassi ciò che vedevo intorno, non
riuscivo a smettere di pensare al portafiori e allo studio di Pedrito Garfias,
ai suoi libri e al suo sguardo triste che a volte si posava sulle cose più
inoffensive e altre volte sulle cose più pericolose. E così, mentre davanti ai
miei occhi vedevo i muri del Palazzo di Massimiliano e Carlotta, o vedevo gli
alberi del bosco moltiplicati sulla superficie del lago di Chapultepec, in
realtà nella mia immaginazione vedevo soltanto un poeta spagnolo che guardava
un portafiori con una tristezza che sembrava abbracciare tutto. Tutto questo mi
faceva rabbia. O per meglio dire: al principio mi faceva rabbia. Domandavo a me
stessa perché lui non facesse niente al riguardo. Perché mai il poeta restasse
a guardare il portafiori invece di fare due passi (due o tre passi in avanti
che sarebbero risultati anche eleganti nei suoi pantaloni di lino crudo),
prendere il portafiori con tutte e due le mani e sbatterlo per terra. Poi però
la rabbia sbolliva e allora mi mettevo a riflettere mentre la brezza del bosco
di Chapultepec (del pittoresco Chapultepec, come scrisse Manuel Gutiérrez
Nàjera) mi accarezzava la punta del naso fino a farmi rendere conto che
probabilmente Pedrito Garfias aveva già rotto molti portafiori, molti oggetti
misteriosi nel corso della sua vita, un gran numero di portafiori! E in due
continenti! Chi ero io, dunque, per rimproverargli, anche solo mentalmente, la
passività che mostrava davanti a quello che teneva nel suo studio?
E una volta entrata in quest'ordine di idee, finivo per cercare più di
una ragione che giustificasse la permanenza del portafiori, e in effetti me ne
veniva in mente più di una, ma perché mai avrei dovuto enumerarle, sarebbe
stato di un'inutilità assoluta. L'unica cosa certa era che il portafiori era
lì, anche se avrebbe potuto ugualmente stare su una finestra aperta a
Montevideo o sulla scrivania di mio padre, che è morto da talmente tanto tempo
che l'ho quasi dimenticato, nell'antica casa di mio padre, il dottor Lacouture,
una casa e una scrivania sui quali stanno già crollando le colonne dell'oblio.
Insomma, l'unica cosa certa è che io frequentavo la casa di Leon Felipe
e la casa di Pedro Garfias e che li aiutavo per quello che potevo, togliendo la
polvere dai libri o spazzando il pavimento, per esempio, e che quando loro
protestavano io dicevo di lasciarmi tranquilla, voi pensate a scrivere e
lasciate che sia io a occuparmi delle faccende domestiche, e che allora Leon
Felipe si metteva a ridere e don Pedro invece no, lui non rideva. Pedrito
Garfias, che tipo malinconico, lui non rideva, lui mi guardava con quegli occhi
come laghi al tramonto, quei laghi che stanno in mezzo alle montagne e che
nessuno visita, quei laghi tristissimi e mansueti, così mansueti che non sembrano
di questo mondo, e diceva non ti disturbare, Auxilio, oppure grazie, Auxilio, e
poi non diceva più niente. Che uomo divino! Che uomo integro! Restava in piedi,
immobile, e mi ringraziava. Tutto lì, e a me quello bastava. Perché io mi
accontento di poco. Questo salta agli occhi. Leon Felipe mi chiamava bellezza,
mi diceva sei una ragazza impagabile, Auxilio, e cercava di aiutarmi con un po'
di pesos, ma generalmente quando mi offriva dei soldi io levavo un urlo al
cielo (letteralmente), io questo lo faccio perché mi piace farlo, dicevo, lo
faccio in quanto folgorata dall'ammirazione. Leon Felipe restava un momento a
pensare al mio aggettivo, e allora io rimettevo sul tavolo il denaro che mi
aveva dato e andavo avanti col mio lavoro. Cantavo. Quando lavoravo io cantavo,
e non m'importava che il lavoro fosse gratis o pagato. Di fatto, credo,
preferivo che il lavoro fosse gratis (ma non sarò tanto ipocrita da dire che
non ero felice quando mi pagavano). Ma con loro preferivo che fosse gratis.
Avrei pagato di tasca mia per muovermi tra i loro libri e tra le loro carte con
assoluta libertà. E quello che di solito ricevevo (e accettavo) erano regali.
Leon Felipe mi regalava statuette messicane di creta e non so da dove diavolo
le tirasse fuori perché in casa sua non è che ce ne fossero molte. Credo che le
comprasse apposta per me. Che tristezza quelle statuette! Erano così belle!
Piccole e carine. Lì dentro non si nascondeva la porta dell'inferno e neppure
quella del cielo. Erano solo statuine fatte dagli indios che poi le vendevano
agli intermediari che andavano a comprarle a Oaxaca e che poi questi stessi
rivendevano, a prezzo molto più alto, nei mercati o nelle bancarelle per le
strade del DF. Don Pedro Garfias, invece, mi regalava libri, libri di
filosofia. Proprio adesso ne ricordo uno di José Gaos, che provai a leggere ma
non mi piacque affatto. Anche José Gaos era spagnolo e anche lui morì in
Messico. Povero José Gaos, avrei dovuto sforzarmi di più. Quando è morto Gaos?
Nel 1968 credo, come Leon Felipe, o forse no, nel 1969, e allora è possibile
perfino che sia morto di tristezza. Pedrito Garfias morì nel 1967 a Monterrey,
Leon Felipe invece è morto nel 1968. Le statuette che Leon Felipe mi aveva
regalato le ho perse col tempo, una a una. Ora saranno andate a finire sugli
scaffali di qualche casa solida o in qualche sottotetto della colonia Napoles,
della Colonia Roma o della Colonia Hipodromo-Condesa. Quelle che non sono
venute giù. Quelle che sono venute giù saranno ormai parte della polvere del
DF. Ho perso anche i libri di Pedro Garfias. Quelli di filosofia, i primi, e
quelli di poesia, anch'essi, fatalmente.
A volte mi viene da pensare che sia i miei libri sia le mie statuette
in qualche modo mi fanno compagnia. Ma in che maniera possono farmi compagnia?
mi domando.
Galleggiano intorno a me? Galleggiano sopra la mia testa? I libri e le
statuine che ho perduto col tempo sono diventati la polvere del DF? Si sono
trasformati nella cenere che attraversa questa città da nord a sud e da est a
ovest? Può essere. L'oscura notte dell'anima avanza per le strade del DF
spazzando via tutto. Le canzoni si sentono appena, qui, dove prima tutto era
una canzone. La nuvola di polvere polverizza tutto. Prima i poeti, poi gli
amori, e poi, quando sembra ormai sazia e sul punto di disperdersi, la nuvola
torna e si installa nel punto più alto della tua città o della tua mente e ti
dice con gesti misteriosi che non ha nessuna intenzione di muoversi.
2.
Come vi stavo dicendo, io frequentavo Leon Felipe e Pedro Garfias senza
soste né slealtà, senza opprimerli mostrando loro le mie poesie né raccontando
le mie pene, semmai tentando di rendermi utile, però naturalmente facevo anche
altre cose.
Avevo la mia vita privata. Avevo un'altra vita, e non mi limitavo a
cercare il calore di quei notabili della letteratura in castigliano. Avevo
altre necessità. Facevo qualche lavoro. Tentavo di fare qualche lavoro.
Mi muovevo e mi disperavo. Perché vivere nel DF è facile, come tutti
sanno o credono di sapere, ma è facile solo se hai un bel po' di soldi o una
borsa di studio o una famiglia o quantomeno un rachitico lavoro occasionale, e
io non avevo niente, il lungo viaggio che mi aveva condotto alla regione più
trasparente mi aveva svuotata di molte cose, e tra esse dell'energia necessaria
per fare di volta in volta il lavoro che fosse capitato. E allora tutto ciò che
facevo era andare in giro per l'università, più concretamente per la facoltà di
Lettere e Filosofia, impegnandomi in lavori volontari, diciamo così: un giorno
aiutavo a battere a macchina le lezioni del professor Garcia Liscano, un altro
giorno traducevo testi dal francese nel dipartimento di Francese, dove c'era
pochissima gente che dominasse davvero la lingua di Molière, e io non è che
voglia star qui a dire che il mio francese è ottimo, ma di sicuro era
buonissimo al confronto di quello che parlava la gente del dipartimento, un
altro giorno ancora mi appiccicavo come una zecca a un gruppo che faceva teatro
e passavo otto ore, senza esagerare, a guardare le prove che si ripetevano fino
all'eternità, andavo a cercare qualcosa da mangiare, armeggiavo in via
sperimentale con i riflettori, recitavo le battute di tutti gli attori con una
voce quasi impercettibile che soltanto io sentivo e che soltanto me faceva
felice. A volte, non molte, riuscivo a ottenere un lavoro remunerato, un
professore mi girava un po' del suo stipendio per fargli, diciamo così, da
aiutante, oppure i capi del dipartimento riuscivano a ottenere che loro stessi
oppure la facoltà mi facessero un contrattino per quindici giorni, un mese, a
volte un mese e mezzo con incarichi aleatori e ambigui, nella maggior parte dei
casi inesistenti. Oppure ci pensavano le segretarie, che erano tutte ragazze
simpatiche, tutte amiche mie, e tutte mi raccontavano le loro pene d'amore e le
loro speranze, talvolta erano loro ad arrangiarsi per fare in modo che i loro
capi mi passassero qualche lavoretto che mi permettesse di guadagnare un po' di
pesos. Questo durante il giorno. La notte conducevo una vita decisamente più da
bohémien, con i poeti del Messico, e la cosa mi risultava altamente
gratificante e perfino conveniente visto che a quei tempi i soldi
scarseggiavano e io non avevo neppure di che pagarmi una pensione. Però in
generale di soldi ne avevo, certo. Non voglio esagerare. Avevo i soldi
sufficienti per vivere e i poeti del Messico mi prestavano libri di letteratura
messicana, all'inizio erano le loro raccolte di poesie, i poeti sono così, poi
passarono agli imprescindibili e ai classici, e in questo modo le mie spese si
riducevano al minimo.
A volte riuscivo a passare anche una settimana intera senza spendere un
soldo. Ero felice. I poeti messicani erano generosi e io ero felice. A quei
tempi cominciai a conoscerli tutti e tutti loro conobbero me. Eravamo
inseparabili. Io di giorno vivevo in facoltà, come una formichina o per meglio
dire come una cicala, da una parte all'altra, da un cubicolo all'altro, sempre
informatissima su tutti i pettegolezzi, tutte le infedeltà e tutti i divorzi,
sempre al corrente di tutte le tragedie. Come quella del professor Miguel López
Azcárate, che fu lasciato dalla moglie, e Miguelito López non riuscì a
sopportare il dolore, io ne ero al corrente, me lo raccontavano le segretarie,
una volta mi fermai lungo un corridoio della facoltà e mi unii a un gruppo che
discuteva non so quali aspetti della poesia di Ovidio, può darsi che ci fosse
il poeta Boni-faz Ñuño, può darsi che ci fosse lo stesso Monterroso e due o tre
poeti giovani. Quel che è certo è che c'era il professor Lopez Azcárate, che
non aprì bocca fino alla fine (trattandosi di poeti latini l'unica autorità
riconosciuta era quella di Bonifaz Ñuño). Di cosa parlammo? Madonna santa, di
cosa parlammo? Non me lo ricordo esattamente. Ricordo soltanto che il tema era
Ovidio e che Bonifaz Ñuño pontificava, pontificava e pontificava. Probabilmente
stava stroncando un novello traduttore delle Metamorfosi di Ovidio. Monterroso
sorrideva e annuiva in silenzio. E i poeti giovani (o forse erano soltanto
studenti, poverini) facevano suppergiù la stessa cosa. E anch'io. Io allungavo
il collo e li guardavo fissi. E ogni tanto lanciavo un'esclamazione aldisopra
delle spalle degli studenti, che era come aggiungere altro silenzio al silenzio.
E allora (in un determinato momento di quell'istante che è davvero esistito,
non posso certo averlo sognato) il professor López Azcárate aprì la bocca. Aprì
la bocca come se gli mancasse l'aria, come se quel corridoio della facoltà di
colpo fosse entrato in una dimensione sconosciuta, e disse qualcosa riguardo
all'Arte di amare, di Ovidio, qualcosa che colse di sorpresa Bonifaz Ñuño, che
sembrò interessare oltremodo Monterroso e che i giovani poeti o studenti non
capirono, e neppure io. Poi diventò rosso, come se il senso di soffocamento
risultasse francamente insopportabile, e qualche lacrima, non molte, cinque o
sei, gli scivolò lungo le guance fino a restare impigliata nei baffi, un paio
di baffi neri che cominciavano a imbiancare alle punte e al centro e gli
conferivano un'aria che mi era sempre sembrata molto strana, come una zebra o
qualcosa del genere, un paio di baffi neri che, comunque, non avrebbero dovuto
essere lì, che chiedevano a gran voce un rasoio, un paio di forbici, e facevano
sì che se uno avesse guardato in viso López Azcarate per troppo tempo, avrebbe
compreso senza il minimo dubbio che si trattava di un'anomalia e che con
quell'anomalia sul viso (con quell'anomalia volontaria sul viso) le cose
inevitabilmente sarebbero andate a finire male.
Una settimana dopo López Azcarate si impiccò a un albero e la notizia
corse per la facoltà veloce come un animale terrorizzato. Una notizia che mi
fece diventare piccola piccola quando la ricevetti, battevo i denti e allo
stesso tempo ero meravigliata perché la notizia, non c'è dubbio, era brutta,
pessima, ma allo stesso tempo era anche fantastica, era come se la realtà ti
dicesse all'orecchio: guarda che sono ancora capace di fare grandi cose, sono
ancora capace di sorprenderti, stupida, e di sorprendere anche tutti gli altri,
guarda che sono ancora capace di muovere cielo e terra per amore.
La notte, naturalmente, mi espandevo, tornavo a crescere, mi
trasformavo in un pipistrello, mi lasciavo alle spalle la facoltà e vagavo per
il DF come un folletto (mi piacerebbe dire come una fata, ma farei torto alla
verità), e bevevo, discutevo, partecipavo a conversazioni letterarie (le ho
conosciute tutte), davo consigli ai giovani poeti che già allora venivano da
me, magari non tanto come accadde in seguito, e io per tutti avevo una parola,
ma cosa dico una parola, per tutti avevo cento parole, mille, sembravano tutti
nipotini di Lopez Velarde, pronipoti di Salvador Diaz Mirón, i giovani
maschietti tribolati, i giovani e mesti maschietti delle notti del DF, i
giovani maschietti che arrivavano con i loro fogli piegati in quattro, i loro
libri consumati e i loro quaderni sudici e si sedevano nei bar che non chiudono
mai o nei bar più deprimenti del mondo nei quali io ero l'unica donna, io e a
volte il fantasma di Lilian Serpas (ma di Lilian parlerò più avanti), e me li
davano da leggere, insieme alle loro poesie, i loro versi, le loro traduzioni a
singhiozzo, mentre io prendevo quei fogli e li leggevo in silenzio, di spalle
al tavolo dove tutti brindavano e cercavano con ansia di essere ingegnosi,
ironici o cinici, poveri i miei angioletti, e mi immergevo fino al midollo in
quelle parole (mi piacerebbe definirle un flusso verbale, ma farei torto alla
verità, perché lì non c'erano flussi verbali ma semplici balbettii), per un
istante rimanevo sola con quelle parole rese goffe dallo sfolgorio e dalla
tristezza della gioventù, per un istante rimanevo sola con quei pezzi di
specchio in frantumi, e mi guardavo o per meglio dire mi cercavo in quel
mercato di paccottiglia.
E il bello è che mi trovavo! Ero proprio io, Auxilio Lacouture, gli
occhi azzurri, i capelli biondi con qualche filo bianco, un taglio a caschetto,
la faccia magra e oblunga, le rughe sulla fronte, e la mia stessa essenza mi
dava i brividi, mi faceva sprofondare in un mare di dubbi, mi faceva guardare
con sospetto il domani, i giorni che si avvicinavano con una velocità da
crociera, anche se d'altra parte mi confermava che vivevo il mio tempo, il
tempo che io avevo scelto, il tempo che mi circondava, tremante, mutevole,
pletorico, felice.
Fu così che arrivai all'anno 1968. O che l'anno 1968 arrivò a me.
Adesso potrei dire che io l'avevo previsto. Adesso potrei dire che fu un
presentimento terribile e che non mi colse alla sprovvista. L'avevo auspicato,
l'avevo intuito, l'avevo sospettato, subodorato fin dal primo minuto di
gennaio; fu un presagio, un indizio che nacque fin da quando saltò il primo
tappo (e l'ultimo) di quell'innocente gennaio di festa. E se neppure questo
bastasse potrei anche dire che ne sentii l'odore nei bar e nei parchi, nel
febbraio o nel marzo del '68, ne sentii la quiete preternaturale nelle librerie
e nelle bancarelle degli ambulanti che preparavano da mangiare per strada,
mentre assaggiavo tacos di carne, in piedi, nella calle San Ildefonso,
contemplando la chiesa di santa Caterina da Siena e il crepuscolo messicano che
veniva giù come un delirio, prima che l'anno '68 diventasse veramente il '68.
Ah, mi viene da ridere quando lo ricordo. Mi viene voglia di piangere! Sto mica
piangendo? No, perché io ho visto tutto e allo stesso tempo non ho visto
niente. È chiaro quello che sto cercando di dire? Io sono la madre di tutti i
poeti e non ho consentito (o forse è stato il destino a non consentirlo) che
l'incubo mi demolisse. Le lacrime ora corrono sulle mie guance devastate. Io
ero in facoltà quel 18 settembre quando l'esercito violò l'autonomia ed entrò
nel campus per arrestare o uccidere mezzo mondo. No. All'interno
dell'università non ci furono molti morti. Accadde a Tlatelolco. E quello il
nome che deve restare scolpito per sempre nella nostra memoria! Ma io ero in
facoltà quando l'esercito e i granatieri entrarono e pestarono tutti quelli che
vi si trovavano. Ma non è questa la cosa più incredibile. Io ero nel bagno, sì,
nei gabinetti di uno dei piani della facoltà, il quarto credo, non potrei dirlo
con precisione. Ero seduta sul water, con la gonna rimboccata, come dice la
poesia o la canzone, e stavo leggendo le poesie delicate di Pedro Garfias, che
era morto ormai da un anno, povero don Pedro così malinconico, una tristezza
che gli veniva dalla Spagna e dal mondo in generale, e chi poteva immaginare
che sarei stata lì a leggerlo proprio nel momento in cui quei bastardi dei
granatieri entravano nell'università. Io credo, e permettetemi questo inciso,
che la vita sia carica di cose enigmatiche, piccoli avvenimenti che stanno solo
aspettando il contatto epidermico, il nostro sguardo, per scatenarsi in una
serie di fatti casuali che poi, visti attraverso il prisma del tempo, non
possono non produrci spavento o sorpresa. Di fatto, grazie a Pedro Garfias,
grazie alle poesie di Pedro Garfias e al mio inveterato vizio di leggere nel
bagno, io fui l'ultima ad accorgermi che i granatieri erano entrati, che
l'esercito aveva violato l'autonomia universitaria, e che mentre le mie pupille
correvano sui versi di quello spagnolo morto in esilio, i soldati e i
granatieri erano lì che arrestavano, perquisivano, malmenavano tutti quelli che
si trovavano davanti senza curarsi del sesso o dell'età, della condizione
civile o dello status acquisito (o regalato) nell'intricato mondo delle
gerarchie universitarie. Diciamo che io sentii un rumore. Un rumore in fondo
all'anima!
E diciamo che subito dopo il rumore andò crescendo e che già allora
cominciai a prestare attenzione a quel che accadeva, sentii che qualcuno tirava
la catena di un water vicino, sentii una porta che sbatteva, passi lungo il
corridoio, e il clamore che saliva dai giardini, da quel prato così ben curato
che delimita la facoltà come un mare verde delimita un'isola sempre disposta
alle confidenze e all'amore. E fu allora che le bollicine della poesia di Pedro
Garfias fecero plop e io chiusi il libro e mi alzai, tirai la catena, aprii la
porta, dissi qualcosa ad alta voce, dissi, cazzo, che sta succedendo di fuori,
ma nessuno mi rispose, tutte le abituali frequentatrici del bagno erano sparite.
Cazzo, dissi, non c'è nessuno? Ma sapevo già che non avrei avuto risposta. Non
so se conoscete quella sensazione, una sensazione tipo film del terrore, ma non
di quelli nei quali le donne sono stupide, no, uno di quelli nei quali le donne
sono intelligenti e coraggiose o dove almeno c'è una donna intelligente e
coraggiosa che all'improvviso resta da sola, che all'improvviso entra in un
palazzo solitario o in una casa abbandonata e domanda (lei non lo sa che il
posto dove si è andata a ficcare è abbandonato) se c'è qualcuno, alza la voce e
domanda, anche se in realtà nel tono con cui fa la domanda c'è già implicita la
risposta. Ma lei comunque domanda.
Perché? Perché lei fondamentalmente è una donna educata e noi donne
educate non possiamo evitare di essere tali, qualunque sia la circostanza nella
quale la vita ci metta. Lei se ne sta tranquilla o magari fa qualche passo, poi
domanda, e nessuno, evidentemente, le risponde.
Ecco, io mi sono sentita come quella donna, anche se non so se me ne
resi conto già all'istante o se lo so soltanto adesso, e anch'io feci qualche
passetto guardingo come se camminassi su un'enorme distesa di ghiaccio. Poi mi
lavai le mani, mi guardai allo specchio, vidi una figura alta e magra con
qualche piccola ruga sul viso (troppe), la versione femminile di Don
Chisciotte, come mi aveva detto in un'occasione Pedro Garfias, quindi uscii per
il corridoio, e lì mi resi conto davvero che qualcosa stava accadendo, perché
il corridoio era vuoto, sprofondato nel suo sbiadito color crema, e le urla che
salivano dalle scale erano di quelle che stordiscono ma fanno la storia.
Cosa feci allora? Ciò che avrebbero fatto tutti, mi affacciai a una
finestra e guardai giù e vidi i soldati, poi mi affacciai a un'altra finestra e
vidi i mezzi blindati e poi a un'altra, quella che sta in fondo al corridoio
(attraversai il corridoio spiccando salti da oltretomba), e vidi delle
camionette sulle quali i granatieri e alcuni poliziotti stavano caricando gli
studenti e i professori che avevano fatto prigionieri, come nella scena di un
film sulla seconda guerra mondiale mischiata con uno di Maria Félix e Pedro
Armendàriz sulla Rivoluzione Messicana, un film che si riduceva a un telone
oscuro con delle figurine fosforescenti. Così dicono che vedono alcuni matti o
quelle persone che improvvisamente vengono colte da un attacco di panico. E poi
vidi un gruppo di segretarie, tra le quali credetti di riconoscere più di
un'amica (in realtà credetti di riconoscerle tutte), che uscivano in fila
indiana, sistemandosi i vestiti, con le borsette in mano o appese alla spalla,
e poi vidi un gruppo di professori che uscivano anch'essi ordinatamente, almeno
con quel minimo di ordine che la situazione permetteva, vidi persone con i
libri in mano, persone con le loro cartelline, pagine dattiloscritte che si
sparpagliavano sul pavimento e loro che si chinavano e le raccoglievano, vidi
gente che veniva trascinata fuori o gente che usciva dalla facoltà coprendosi
il naso con un fazzoletto bianco rapidamente annerito dal sangue. E allora
dissi a me stessa: fermati qui, Auxilio. Non permettere che portino dentro
anche te, bambina. Fermati qui, Auxilio, non entrare volontariamente in questo
film, bambina, se vogliono sbatterti dentro che almeno si prendano la briga di
trovarti.
Così tornai in bagno e guarda che cosa curiosa, non solo tornai in
bagno ma tornai proprio nel cesso, lo stesso dov'ero prima, e mi sedetti di
nuovo sulla tazza del cesso, di nuovo con la gonna rimboccata, pur senza alcuna
necessità fisiologica (dicono che proprio in casi del genere l'intestino si
liberi, ma non fu certamente il mio caso), e con il libro di Pedro Garfias
aperto, e anche se non ne avevo voglia iniziai a leggere, al principio
lentamente, parola per parola e verso per verso, anche se poco dopo la lettura
cominciò ad accelerare fino a raggiungere una velocità folle, i versi
scorrevano così rapidi che a malapena riuscivo a discernere qualcosa, le parole
si appiccicavano le une alle altre, non so, una specie di lettura in caduta
libera alla quale, d'altra parte, la poesia di Pedrito Garfias riuscì a
resistere a malapena (ci sono poesie e poeti che resistono a qualsiasi tipo di
lettura, mentre altri, la maggioranza, no), ed ero in queste faccende
affaccendata quando all'improvviso sentii un rumore nel corridoio, rumore di
stivali? Rumore di scarponi chiodati? Ma no, mi dissi, sarebbe una coincidenza
troppo grande, non ti pare? Rumori di scarponi chiodati! Ma no, mi dissi, ora
manca solo il freddo e che un berretto militare mi cada sulla testa, e fu
allora che sentii una voce che diceva qualcosa tipo è tutto in ordine,
sergente. Può essere che stesse dicendo un'altra cosa, fatto sta che cinque
secondi dopo qualcuno, probabilmente lo stesso stronzo che aveva parlato, aprì
la porta del bagno ed entrò.
3.
E io, povera me, sentii qualcosa di molto simile al rumore che produce
il vento quando scende correndo tra i fiori di carta, sentii un fiorire di aria
e acqua, e sollevai (silenziosamente) i piedi come una ballerina di Renoir,
come se stessi per partorire (e in qualche modo in effetti mi disponevo a dare
alla luce qualcosa e a essere a mia volta data alla luce), con le mutande che
ammanettavano le caviglie magre, agganciate a un paio di scarpe che avevo
all'epoca, dei mocassini gialli di una comodità incredibile, e mentre aspettavo
che quel soldato controllasse i cessi uno per uno e mi disponevo moralmente e
fisicamente, qualora si fosse presentato il caso, a non aprire, a difendere
l'ultimo baluardo di autonomia della UNAM, io, una povera poetessa uruguagia,
ma che amavo il Messico come nessun'altra, mentre aspettavo, dicevo, si
produsse un silenzio spettrale, un silenzio che né i dizionari musicali né i
dizionari filosofici registrano, come se si fosse verificata una frattura nel
tempo e questo corresse in varie direzioni contemporaneamente, un tempo puro,
né verbale né composto da gesti o azioni, e allora vidi me stessa e vidi il
soldato che si guardava incantato nello specchio, le nostre due figure
incastrate in un rombo nero o sprofondate in un lago, ed ebbi un brivido di
freddo, rimasi di ghiaccio, perché compresi che momentaneamente le leggi della
matematica mi proteggevano, perché compresi che le tiranniche leggi del cosmo,
che si oppongono alle leggi della poesia, mi proteggevano e che il soldato si sarebbe
guardato incantato nello specchio e che io l'avrei ascoltato e lo avrei
immaginato, incantata anch'io, nella singolarità del mio cesso, e che entrambe
le nostre singolarità a partire da quell'istante avrebbero costituito le due
facce di una moneta atroce come la morte.
Per farla breve: il soldato e io restammo immobili come statue nel
bagno delle donne del quarto piano della facoltà di Lettere e Filosofia, e
quello fu tutto, poi sentii i suoi passi che si allontanavano, lo sentii
chiudere la porta e le mie gambe sollevate, come se avessero deciso per proprio
conto, tornarono alla loro antica posizione. Il parto si era concluso.
Dovetti restare così circa tre ore, secondo i miei calcoli. So che
cominciava a far buio quando uscii dal cesso. Avevo le estremità addormentate.
Avevo una pietra nello stomaco e un dolore nel petto. Avevo come un velo o una
garza sugli occhi. Avevo api, vespe o calabroni che mi ronzavano nelle orecchie
o forse nella mente. Avevo allo stesso tempo solletico ma anche una gran voglia
di dormire. Ma la verità è che non ero mai stata così sveglia. La situazione
era nuova, lo ammetto, ma io sapevo già cosa fare. Sapevo già qual era il mio
dovere.
E così mi arrampicai sull'unica finestra del bagno e guardai fuori.
Vidi un soldato perduto in lontananza. Vidi il profilo di un mezzo blindato,
anche se poi, dopo averci riflettuto, può essere che in realtà ciò che avevo
visto fosse l'ombra di un albero. Come il portico della letteratura latina,
come il portico della letteratura greca. Ah, mi piace da morire la letteratura
greca, da Saffo fino a Ghiorgos Seferis. Vidi il vento che attraversava
l'università come se assaporasse gli ultimi chiarori del giorno. E capii che
cosa avrei dovuto fare. Lo capii. Capii che avrei dovuto resistere. E allora mi
sedetti sulle mattonelle del bagno delle donne e sfruttai gli ultimi raggi di
luce per leggere altre tre poesie di Pedro Garfias, poi chiusi il libro e
chiusi gli occhi e mi dissi: Auxilio Lacouture, cittadina dell'Uruguay,
latinoamericana, poetessa e viaggiatrice, tu devi resistere. Solo questo.
Mi misi a pensare al mio passato come adesso penso al mio passato. Poi
tornai indietro con le date, si spezzò il rombo nello spazio della disperazione
congetturale, tornarono alla superficie immagini dal fondo del lago, senza che
niente e nessuno potesse evitarlo riemersero le immagini di quel povero lago
che né il sole né la luna illuminano, il tempo si piegò e poi si dispiegò come
in un sogno. L'anno '68 si trasformò nel '64 e poi nel '60 e poi ancora nel '56.
E si trasformò anche nell'anno '70 e nel '73 e nel '75 e nel '76. Come se io
fossi morta e contemplassi gli anni da una prospettiva inedita. Voglio dire:
cominciai a pensare al mio passato come se stessi pensando al mio presente e al
mio futuro e poi di nuovo al mio passato, tutto mischiato e confuso come in un
unico tiepido uovo, un enorme uovo di non so quale uccello (un archeopterix?)
al riparo in un nido di macerie fumanti. Mi misi a pensare, per esempio, ai
denti che avevo perduto, anche se in quel momento, nel settembre del 1968, i
miei denti li avevo ancora tutti, cosa che a ben guardare è piuttosto strana.
Quel che è certo comunque è che pensai ai miei denti, i miei quattro denti
davanti che cominciai a perdere in anni successivi perché non avevo i soldi per
andare dal dentista, e neppure la voglia di andare dal dentista, né il tempo. E
fu abbastanza curioso pensare ai miei denti perché da un lato non me ne fregava
proprio niente di restare senza i quattro denti più importanti nella dentatura
di una donna, ma d'altra parte il fatto di perderli mi ferì nel più profondo
del mio essere e quella ferita bruciava, ed era allo stesso tempo necessaria e
superflua, una ferita assurda. Ancora oggi, quando ci penso, non riesco a
capire. Insomma, persi i miei denti in Messico come in Messico avevo perduto
tante altre cose, e anche se di tanto in tanto voci amiche o che avevano la
pretesa di essere tali mi dicevano, Auxilio, rimettiti i denti, faremo una
colletta per comprarti una dentiera, Auxilio, io ho sempre saputo che quel buco
sarebbe rimasto fino alla fine dei miei giorni sulla carne viva e non ci facevo
molto caso, anche se non davo neppure una risposta decisamente negativa.
La perdita portò con sé una nuova abitudine. A partire da allora,
quando parlavo o quando ridevo, coprivo la mia bocca sdentata con il palmo
della mano, gesto che, stando a quanto venni a sapere, non tardò a diventare
popolare in certi ambienti. Io ho perso i miei denti, ma non ho mai perduto la
riservatezza, la discrezione, un certo senso dell'eleganza. L'imperatrice
Giuseppina, è risaputo, aveva delle enormi carie nere sulla parte posteriore
della sua dentatura, e questo non scalfiva minimamente il suo fascino. Lei si
copriva con un fazzoletto o con un ventaglio, io invece, che sono più
terrestre, abitante del DF alato e del DF sotterraneo, mi mettevo il palmo
della mano sulle labbra e ridevo, parlavo liberamente nelle lunghe notti
messicane. Il mio aspetto, per coloro che mi avevano conosciuta soltanto da
poco, era quello di un cospiratore, di un essere strano, metà bellezza araba e
metà pipistrello albino. Ma a me non importava. Laggiù c'è Auxilio, dicevano i
poeti, e lì c'ero io, seduta al tavolo di un romanziere in preda al delirium
tremens o di un giornalista suicida, a ridere e parlare, a raccontare segreti o
semplici dicerie, e nessuno poteva dire: io ho visto la bocca ferita
dell'uru-guagia, io ho visto le gengive pelate dell'unica persona che è rimasta
dentro l'università quando sono entrati i granatieri, nel settembre del '68.
Potevano dire: Auxilio parla come i cospiratori, avvicinando la testa e
coprendosi la bocca. Potevano dire: Auxilio parla guardandoti negli occhi.
Potevano dire (e ridere, quando lo dicevano): come diavolo fa Auxilio, che ha
le mani occupate dai libri e da un bicchiere di tequila eppure riesce sempre a
portarsi una mano alla bocca, e perfino in modo spontaneo e naturale? Dove sta
il segreto del suo prodigioso gioco di mani? Il segreto, amici miei, non ho
intenzione di portarlo con me nella tomba (nella tomba non bisognerebbe
portarsi niente). Il segreto sta nei nervi. Nei nervi che si tendono e si
allungano per raggiungere il confine della socievolezza e dell'amore. Il
confine estremamente sottile della socievolezza e dell'amore. Io ho perso i
miei denti sull'altare dei sacrifici umani.
4.
Ma non è che abbia pensato solo ai miei denti, che ancora non erano
caduti, naturalmente pensai anche ad altre cose, come per esempio al giovane
Arturo Belano, che io conobbi quando aveva sedici o diciassette anni, nel 1970,
quando io ero già la madre dei giovani poeti del Messico e lui un ragazzino che
non sapeva bere ma che si sentiva molto orgoglioso perché nel suo Cile lontano
le elezioni le aveva vinte Salvador Allende.
Io l'ho conosciuto. L'ho conosciuto in un'assordante riunione di poeti
nel bar Encrucijada Veracruzana, un'atroce spelonca, un porcile dove a volte si
riuniva un gruppo eterogeneo di giovani e meno giovani promesse. Tra tutte le
promesse lui era la promessa più giovane. E oltretutto era l'unico che a
diciassette anni avesse già scritto un romanzo. Un romanzo che in seguito andò
perso, o fu divorato dal fuoco o forse finì in una di quelle immense discariche
che circondano il DF e che io lessi, all'inizio con qualche riserva e poi con
piacere, non perché fosse particolarmente bello, no, il piacere me lo davano
gli slanci di volontà che intravedevo in ogni pagina, la commovente volontà di
un adolescente: il romanzo era brutto, ma lui era veramente carino. E io
diventai sua amica. Credo che fu per il fatto che eravamo gli unici due
sudamericani in mezzo a tanti messicani. Io diventai sua amica, mi avvicinai,
gli parlai coprendomi la bocca con una mano e lui sostenne il mio sguardo e mi
osservò il dorso della mano ma non mi chiese per quale motivo mi coprivo la
bocca, anche se credo che, a differenza di altri, se ne fosse reso conto
all'istante, voglio dire che si rese conto del motivo ultimo, il senso di
dignità estrema che mi portava a coprirmi le labbra, e non gliene importò
nulla. Quella notte io diventai sua amica, malgrado la differenza d'età,
malgrado la differenza di tutto. Fui io a dirgli, qualche settimana dopo, chi
era Ezra Pound, chi era William Carlos Williams, chi era T.S. Eliot. Fui io a
riportarlo a casa una volta, malato, ubriaco, fui io riportalo a cavalcioni,
appeso alla mia gracile schiena, e divenni amica di suo padre, di sua madre e
di sua sorella che era molto simpatica. Erano tutti simpatici.
La prima cosa che dissi a sua madre fu: signora, non mi sono scopata
suo figlio. A me piace essere franca e sincera con la gente franca e sincera
(anche se questa mia inveterata abitudine mi ha causato dispiaceri che non sto
qui a raccontare). Alzai le mani e sorrisi e poi abbassai le mani e le dissi
così e lei mi guardò come se fosse appena uscita da uno dei quaderni di suo
figlio, di Arturito Belano, che in quel momento smaltiva la sbornia dormendo in
quella caverna che era la sua stanza. Lei mi rispose: ne sono certa, Auxilio,
ma non chiamarmi signora, che abbiamo quasi la stessa età. Io inarcai un
sopracciglio e piantai su di lei il mio occhio più azzurro, il destro, e
pensai: diamine, mi sa che ha ragione, dovevamo avere più o meno la stessa età,
io potevo essere due o tre anni più giovane, o forse uno solo, ma
fondamentalmente eravamo della stessa generazione, l'unica differenza era che
lei aveva una casa e un lavoro e una volta al mese riceveva il suo stipendio e
io no, l'unica differenza era che io uscivo con gente giovane e la madre di
Arturito usciva con gente della sua età, l'unica differenza era che lei aveva
due figli adolescenti e io non ne avevo neanche uno, ma neppure quello era
importante perché a quel tempo anch'io avevo, a modo mio, centinaia di figli.
Insomma divenni un'amica di famiglia. Una famiglia di cileni
viaggiatori che era emigrata in Messico nel 1968. Una volta glielo dissi alla
mamma di Arturo: guarda, le dissi, quando tu stavi facendo gli ultimi
preparativi per il tuo viaggio, io me ne stavo rinchiusa nel bagno delle donne
al quarto piano della facoltà di Lettere e Filosofia della UNAM. Lo so già,
Auxilio, mi diceva lei. È curioso, no? dicevo io. Certo che lo è, diceva lei. E
così potevamo restare anche per un bel pezzo, di notte, ad ascoltare musica, a
parlare e ridere. Divenni amica di famiglia. Mi invitavano a casa e io ci
restavo per lunghi periodi, una volta un mese, un'altra volta quindici giorni,
un'altra volta un mese e mezzo, perché a quei tempi non avevo i soldi per
pagarmi una pensione o un sottotetto e la mia vita quotidiana era diventata un
continuo vagare da una parte all'altra della città, alla mercé del vento
notturno che corre per le strade e per i lunghi viali del DF. Di giorno vivevo
all'università facendo mille cose e di notte vivevo la vita del bohémien e
dormivo e andavo disseminando le mie povere cose in casa di amiche e amici: i
vestiti, i libri, le riviste, le foto, io con Reme-dios Varo, con Leonora
Carrington, con Eunice Odio, con Lilian Serpas (ah, povera Lilian, devo
assolutamente parlare di lei). E, naturalmente, arrivava un momento in cui le
mie amiche e i miei amici si rompevano le scatole e mi chiedevano di andare
via. E io me ne andavo. Facevo una battuta e me ne andavo. Cercavo di
sdrammatizzare la cosa e me ne andavo. Abbassavo la testa e me ne andavo. Li
ringraziavo con un bacio sulla guancia e me ne andavo. Certe malelingue ora
dicono che io non me ne andavo. Mentono. Io me ne andavo appena me lo
chiedevano. Forse in qualche occasione mi sono rinchiusa in bagno e ho versato
qualche lacrima. Certe lingue biforcute dicono che i bagni erano il mio punto
debole. Sono completamente fuori strada. I bagni erano il mio incubo anche se
dal settembre del '68 gli incubi non mi erano estranei. Si finisce per fare
l'abitudine a tutto. Mi piacciono i bagni. Mi piacciono i bagni delle mie
amiche e dei miei amici. Mi piace, come a qualsiasi essere umano, farmi una
doccia prima di andare a dormire. La mamma di Arturito mi diceva: usa
quell'asciugamano, l'ho messo per te, Auxilio, ma io non usavo asciugamani. Non
mi piaceva. Preferivo rivestirmi con la pelle ancora bagnata e che fosse il
calore del mio corpo ad asciugare le goccioline. Questo divertiva la gente.
E divertiva anche me. Ma avrei potuto anche impazzire.
5.
Se non sono impazzita è perché ho conservato sempre il senso
dell'umorismo.
Ridevo delle mie gonne, dei miei pantaloni a tubo, delle mie calze
smagliate, dei miei calzini bianchi, dei miei capelli ogni giorno meno biondi e
più bianchi e del loro taglio a caschetto, dei miei occhi che scrutavano la
notte del DF, delle mie orecchie rosee che ascoltavano le storie
dell'università, le ascese e le discese dei signor nessuno, postergazioni, culi
da leccare, adulazioni, falsi meriti, letti tremolanti che si facevano e poi si
disfacevano ancora sotto il cielo esterrefatto del DF, quel cielo che io
conoscevo a menadito, quel cielo sconvolto e irraggiungibile come una grande
pentola azteca sotto il quale io mi muovevo felice della vita, con tutti i
poeti del Messico e con Arturito Belano che aveva diciassette anni, diciotto, e
andava crescendo mentre io lo guardavo. Tutti crescevano protetti dal mio
sguardo! Cioè, crescevano tutti nell'intemperie messicana, l'intemperie
latinoamericana, che è la più grande delle intemperie perché è la più netta e
la più disperata. E il mio sguardo brillava come la luna attraverso
quell'intemperie e si fermava sulle statue, sulle figure intimorite, sui
capannelli di ombre, sui profili che non avevano nulla eccetto l'utopia della
parola, una parola, d'altra parte, piuttosto miserabile. Miserabile? Sì,
ammettiamolo pure, piuttosto miserabile. E io ero lì con loro, perché neppure
io avevo nulla, tranne la mia memoria.
Io avevo i ricordi. Io vivevo rinchiusa nel bagno delle dorme della
facoltà, vivevo murata nel mese di settembre del '68 e pertanto potevo avere
una visione scevra di passioni, anche se a volte, fortunatamente, giocavo con
la passione e con l'amore. Perché non tutti i miei amanti furono platonici. Ci
sono anche andata a letto con i poeti. Non con molti, ma con qualcuno di loro
ci sono andata a letto. Io, malgrado le apparenze, ero una donna e non ero una
santa. E me ne sono portata a letto più d'uno, questo è vero.
La maggior parte furono amori di una sola notte, giovanotti ubriachi
che trascinai su un letto o sulla poltrona di una stanza appartata mentre nella
camera a fianco risuonava una musica terribile che adesso preferisco non
evocare. Altri, la minoranza, furono amori sventurati che si prolungarono ben
oltre una notte e ben oltre un fine settimana, nei quali il mio ruolo fu più
quello di una psicoterapeuta che di un'amante. Ma in generale non mi lamento.
Con la perdita dei denti avevo dei problemi nel dare e ricevere baci, e quale
amore si può sostenere a lungo se non ti baciano sulla bocca? Ma anche così ci
sono andata a letto e ho fatto l'amore sempre con voglia. Voglia è la parola
giusta. Per fare l'amore bisogna avere voglia. Bisogna avere l'opportunità,
chiaro, ma soprattutto bisogna avere voglia.
A proposito di questo, c'è una storia di quegli anni che probabilmente
non sarebbe inutile raccontare. Conobbi ima ragazza in facoltà. Accadde nel
periodo in cui mi ero data al teatro. Una ragazza affascinante. Aveva finito
Filosofia. Era colta ed elegante. Io mi ero addormentata su una poltrona del
teatro della facoltà (un teatro praticamente inesistente) e stavo sognando la
mia infanzia o forse degli extraterrestri. Lei si sedette accanto a me. Il
teatro, naturalmente, era vuoto: sulla scena una compagnia disastrosa stava provando
un'opera di Garcia Lorca. Non so in che momento mi svegliai. Ma fu allora che
lei mi disse: tu sei Auxi-lio Lacouture, giusto? E me lo disse con un calore
tale che mi fu immediatamente simpatica. Aveva la voce leggermente roca, i
capelli neri pettinati all'indietro, non molto lunghi. Poi disse qualcosa di
divertente o forse fui io a dire qualcosa di divertente, fatto sta che ci
mettemmo a ridere, sottovoce, per non farci sentire dal regista, un tipo che
era stato amico mio nel '68 ma che adesso era diventato un pessimo regista
teatrale. Lui lo sapeva bene e questo lo faceva essere in guerra con il mondo
intero. Uscimmo insieme per le strade del Messico.
Lei si chiamava Elena e mi invitò a bere un caffè. Disse che aveva un
sacco di cose da dirmi. Disse che da un sacco di tempo aveva voglia di
conoscermi. Uscendo dalla facoltà mi accorsi che era zoppa. Non molto, però
zoppicava in modo evidente. Elena la filosofa. Aveva una
Volkswagen e mi portò in un bar di Insurgentes Sur. Io non c'ero mai
stata prima. Era un posto affascinante e carissimo, ma Elena era danarosa e
aveva una voglia matta di parlare con me, anche se alla fine fui io l'unica a
parlare. Lei ascoltava e rideva, sembrava felice ma non parlò molto. Quando ci
separammo pensai: chissà cosa aveva da dirmi? Di cosa voleva parlarmi?
A partire da allora prendemmo l'abitudine di incontrarci ogni tanto,
nel teatro oppure nei corridoi della facoltà, quasi sempre all'imbrunire,
quando comincia a scendere la sera sull'università e certe persone non sanno
dove andare né cosa fare delle proprie vite. Io incontravo Elena ed Elena mi
invitava a bere qualcosa o a mangiare un boccone in qualche ristorante di
Insurgentes Sur. Una volta mi invitò anche a casa sua, a Coyoacán, una casa
carina, piccola ma carina, molto femminile e terribilmente intellettuale, piena
di libri di filosofia e di teatro, perché Elena pensava che la filosofia e il
teatro fossero strettamente collegati. Una volta cominciò a parlarmene, ma io
non capii una sola parola. Per me il teatro era collegato alla poesia, per lei
alla filosofia. Ognuno ha le sue fissazioni. Finché all'improvviso non la vidi
più. Non so quanto tempo passò. Mesi, probabilmente. Ovviamente chiesi ad
alcune delle segretarie della facoltà che fine avesse fatto Elena, se era
malata, se era partita, se ne sapevano qualcosa, e nessuna seppe darmi una
risposta convincente. Un pomeriggio decisi di andare a casa sua ma mi persi.
Era la prima volta che mi capitava una cosa simile! Dal settembre del 1968 non
mi ero persa neppure una volta nel labirinto del DF! Prima sì, prima mi
capitava di perdermi, non molto spesso ma mi capitava di perdermi. Poi non più.
E adesso ero lì, cercavo la sua casa e non la trovavo, e allora mi dissi, qui
sta succedendo qualcosa di strano, Auxilio, bambina mia, apri gli occhi e stai
attenta anche ai dettagli se non vuoi che ti sfugga proprio la parte più
importante di questa storia. Fu proprio quel che feci. Aprii gli occhi e vagai
per Coyoacán fino le undici e mezzo di sera, ogni volta più persa, ogni volta
più cieca, come se la povera Elena fosse morta o non fosse mai esistita. Così
passò il tempo. Io lasciai il mio posto di factotum teatrale. Tornai con i
poeti e la mia vita prese una china che è inutile spiegare. L'unica cosa certa
è che smisi di aiutare quel regista veterano del '68, non perché la messa in
scena mi sembrasse brutta, come in realtà era, ma per astio, perché avevo
bisogno di respirare, di vagabondare, perché il mio spirito chiedeva un altro
tipo di inquietudine.
E un giorno, quando meno l'aspettavo, tornai a incontrare Elena.
Accadde nel bar della facoltà. Io stavo lì, improvvisavo un sondaggio sulla
bellezza degli studenti, e di colpo la vidi a un tavolino appartato, in un
angoletto, e anche se all'inizio mi parve la stessa di sempre, man mano che mi
avvicinai, un avvicinamento che non so bene perché dilatai, fermandomi a ogni
tavolino e intrattenendo conversazioni brevi e piuttosto accalorate, notai che
qualcosa in lei era cambiato, anche se in quel momento non riuscii a capire con
precisione che cosa fosse cambiato. Quando mi vide, questo ve lo posso
assicurare, mi salutò con lo stesso affetto e la stessa simpatia di sempre.
Era... non so come dirlo. Forse più magra. Forse più smunta, anche se in realtà
smunta non era. Probabilmente più silenziosa, ma mi bastarono tre minuti per
rendermi conto che non era neppure più silenziosa. Può darsi che avesse le
palpebre gonfie. Può darsi che avesse tutta la faccia un pochino più gonfia,
come se stesse prendendo del cortisone. E invece no. I miei occhi non potevano
ingannarmi: era la stessa di sempre. Quella sera non mi separai da lei.
Restammo un bel po' nel bar che poco a poco cominciò a svuotarsi di studenti e
professori e alla fine restammo soltanto noi due, la donna delle pulizie e un
uomo di mezza età, un tipo molto simpatico e allo stesso tempo molto triste che
serviva al bancone. Poi ci alzammo (lei disse che il bar a quell'ora aveva un
aspetto sinistro; io tenni per me la mia opinione, ma non vedo perché non
dovrei dirla neppure adesso: il bar a quell'ora mi sembrava magnifico, logoro e
maestoso, povero e assolutamente libero, penetrato dagli ultimi scintillìi del
sole della valle, un bar che mi chiedeva con un sussurro di restarmene lì fino
alla fine a leggere una poesia di Rimbaud, un bar per il quale valeva la pena
piangere) e allora ci infilammo nella sua auto e, quando avevamo già percorso
un bel pezzo di strada, lei disse che mi avrebbe presentato un tipo
straordinario, disse proprio così, straordinario, Auxilio, voglio che tu lo conosca
e che poi mi dia la tua opinione, anche se mi resi conto all'istante che la mia
opinione non le interessava minimamente. Dopo che te l'avrò presentato, però,
devi andare via, che ho bisogno di parlare da sola con lui. Certo, dissi,
Elena, come no. Tu me lo presenti e io me ne vado. A buon intenditor, poche
parole. Tra l'altro stanotte ho anche da fare. Cos'hai da fare? disse lei. Devo
vedermi coi poeti dell'avenida Bucareli, risposi. E allora scoppiammo a ridere
come due matte e quasi ci schiantammo con l'auto, ma io nella mia coscienza
pensavo e ripensavo, e più pensavo e più vedevo che Elena non stava bene, anche
se non potevo spiegare con precisione cos'avesse, oggettivamente, cosa me la
facesse vedere così. Mentre pensavo queste cose, arrivammo a un locale della
Zona Rosa, una specie di trattoria di cui ho dimenticato il nome, ma che si
trovava nella calle Varsovia ed era specializzata in formaggi e vini. Era la
prima volta che andavo in un posto del genere, voglio dire in un posto così
caro, e la verità è che di colpo mi venne un attacco di fame terribile, perché
io sarò anche la più magra di tutte le magre, ma quando si tratta di mangiare
sono capace di comportarmi come la ghiottona più irredenta del Cono Sur, come
la Emily Dickinson della bulimia, e peggio ancora se ti presentano sul tavolo
una varietà di formaggi da non credere, e un assortimento di vini che ti fa
tremare dalla testa ai piedi. Non so che faccia devo aver fatto, ma Elena ebbe
compassione di me e mi disse di restare a cenare con loro, anche se sotto il
tavolo mi diede un calcione che voleva dire: fermati a cena con noi ma poi
sparisci veloce come il vento. Io rimasi a mangiare con loro e a bere con loro
e assaggiai almeno una quindicina di formaggi diversi, bevvi una bottiglia di
Rioja e conobbi quell'uomo straordinario, un italiano che era di passaggio in
Messico e che in Italia era amico di Giorgio Strehler, così diceva lui, e al
quale dovetti risultare simpatica, questo almeno lo deduco adesso, perché
quando dissi per la prima volta che dovevo andarmene, lui mi disse resta qui,
Auxilio, che fretta c'è, e quando dissi per la seconda volta che dovevo andar
via, lui disse non andartene, donna di conversazione portentosa (disse
esattamente così), la notte è giovane, e quando dissi per la terza volta che
dovevo andare via, lui disse basta con queste manfrine, Auxilio, forse Elena e
io ti abbiamo fatto qualcosa di male? E allora Elena mi diede un'altra pedata
sotto il tavolo, e la sua voce serenissima e ben modulata disse, resta con noi,
Auxilio, poi ci penso io a darti uno strappo lì dove devi andare. Io li
guardavo e annuivo, estasiata dal vino e dai formaggi, e non sapevo cosa fare,
se andarmene o non andarmene, se la promessa di Elena voleva dire esattamente
quel che aveva detto o se voleva dire qualche altra cosa. E in quel dilemma
decisi che la cosa migliore da fare era starmene zitta e ascoltare. E così
feci.
L'italiano si chiamava Paolo. Con questo credo di aver detto tutto. Era
nato in un paesino nelle vicinanze di Torino, era alto almeno un metro e
ottanta, aveva lunghi capelli castani e aveva pure una barba enorme, ed Elena o
qualsiasi altra donna avrebbe potuto, senza alcun problema, perdersi tra le sue
braccia. Era uno studioso del teatro moderno, ma in Messico non era venuto a studiare
nessuna manifestazione teatrale. In Messico stava solo aspettando un visto e
una data per andare a Cuba e incontrare Fidel Castro. Stava aspettando ormai da
molto tempo. Una volta gli chiesi perché ci mettevano tanto tempo. Mi rispose
che i cubani, per prima cosa, lo stavano studiando. Non tutti potevano
avvicinare Fidel Castro.
Era già stato un paio di volte a Cuba e questo, a quel che diceva lui
(mentre Elena ne confermava le parole), lo rendeva sospetto agli occhi della
polizia messicana, anche se io non vidi mai nessun poliziotto girargli intorno.
Se tu riuscissi a vederli, mi diceva Elena, sarebbero dei pessimi poliziotti,
mentre Paolo è controllato dagli agenti della polizia segreta. Questo era,
ovviamente, un punto a mio favore, visto che è noto che gli agenti della
polizia segreta sono quelli che più assomigliano al proprio personaggio. Un
vigile urbano, per esempio, se gli togli l'uniforme, può sembrare
tranquillamente un operaio, qualcuno sembra addirittura un leader operaio. Ma
uno della polizia segreta avrà sempre l'aspetto di uno della polizia segreta.
Da quella notte diventammo amici. Il sabato e la domenica andavamo
tutti e tre a teatro gratis alla Casa del Lago. A Paolo piaceva vedere i gruppi
amatoriali che facevano teatro all'aria aperta. Elena si sedeva in mezzo,
poggiava la testa sul braccio di Paolo e non tardava ad addormentarsi. A Elena
non piacevano gli attori dilettanti.
Io mi sedevo alla destra di Elena e in verità prestavo ben poca
attenzione a quello che succedeva sul palco, visto che passavo tutto il tempo a
guardarmi intorno senza dare nell'occhio per vedere se sorprendevo qualche
agente della polizia segreta. In verità non ne scoprii uno soltanto, ma
parecchi. Quando lo raccontai a Elena, lei scoppiò a ridere. Non può essere,
Auxilio, mi disse, ma io sapevo di non essermi sbagliata. Poi compresi la
verità. La Casa del Lago, il sabato e la domenica, si riempiva letteralmente di
spie, ma non tutti erano lì per seguire le tracce di Paolo, la maggior parte
stava sorvegliando altre persone. Alcune di quelle persone le avevamo
conosciute all'università o nei gruppi teatrali indipendenti e le salutavamo.
Altre non le conoscevamo affatto e potevamo solo immaginare e condividere
l'itinerario che avrebbero seguito loro e i loro inseguitori.
Non mi ci volle molto per rendermi conto che Elena era profondamente
innamorata di Paolo. Cosa farai quando lui se ne andrà a Cuba? Le chiesi un
giorno. Non lo so, disse, e nel suo faccino da bambina messicana credetti di
vedere una luce o una desolazione che avevo già visto altre volte e che non
portava mai nulla di buono. L'amore non porta mai nulla di buono. L'amore porta
sempre qualcosa di meglio. Ma il meglio a volte equivale al peggio se sei
donna, se vivi in questo continente nel quale un brutto giorno si imbatterono
gli spagnoli, che un brutto giorno fu popolato da asiatici che non sapevano
bene dove andare.
Questo pensavo io, rinchiusa nel bagno delle donne al quarto piano
della facoltà di Lettere e Filosofia nel settembre del 1968. Pensavo agli
asiatici che avevano attraversato lo stretto di Bering, pensavo alla solitudine
dell'America, pensavo a quanto sia curioso emigrare verso est e non verso
ovest. Perché io sono un po' tonta e non so niente di questo argomento, ma
nessuno avrà il coraggio di negarmi in questo momento convulso che emigrare
verso est è come emigrare verso la notte più nera. Questo pensavo io. Seduta
sul pavimento, con la schiena appoggiata al muro e lo sguardo perso tra le
macchie del soffitto. Verso l'est. Verso il posto da dove viene la notte. Poi
però pensai: è anche il posto da dove viene il sole. Dipende dall'ora nella
quale i pellegrini iniziano la marcia. E allora mi diedi un colpo sulla fronte
(un colpo debole, perché dopo tanti giorni senza mangiare le forze scarseggiavano)
e vidi Elena camminare per una strada solitaria della colonia Roma, vidi Elena
camminare verso est, verso la notte più nera, sola, zoppicando, ben vestita, la
vidi e le gridai, Elena!, ma dalle mie labbra non uscì alcun suono.
Elena si voltò verso di me e mi disse che non sapeva cosa avrebbe
fatto. Forse me ne andrò in Italia, disse. Forse aspetterò che lui torni di
nuovo in Messico. Non lo so, mi disse sorridendo, e capii che lei sapeva fin
troppo bene cosa avrebbe fatto e cosa invece non le interessava. L'italiano, da
parte sua, si lasciava amare e portare a spasso per il DF. Non ricordo più in
quanti posti andammo insieme, a La Villa, a Coyoacàn, a Tla-telolco (lì non ci
andai, ci andò solo Elena, a me non fu possibile), alle falde del Popocatépetl,
a Teotihuacàn, e dappertutto l'italiano era felice, e pure Elena era felice ed
ero felice anch'io perché a me è sempre piaciuto andare in giro e stare in
compagnia di gente che si sente felice.
Un giorno, alla Casa del Lago, incontrammo perfino Arturito Belano. Lo
presentai a Elena e Paolo. Dissi che era un poeta cileno di diciotto anni. E
spiegai che non scriveva solo poesie ma anche testi di teatro. Paolo disse che
era davvero interessante. Elena non disse niente perché a Elena, a quel punto, l'unica
cosa che sembrava interessante era la sua relazione con Paolo. Andammo a bere
un caffè in un posto che si chiamava E1 Principio de México e che stava
(l'hanno chiuso poco tempo fa) nella calle Tokyo. Non so perché mi ricordo di
quel pomeriggio. Quel pomeriggio del 1971 o del 1972. E la cosa più curiosa è
che lo ricordo dal mio punto di osservazione del 1968. Dalla mia torre di
vedetta, dal mio sanguinante vagone di metropolitana, dal mio immenso giorno di
pioggia. Dal bagno delle donne al quarto piano della facoltà di Lettere e
Filosofia, la mia nave del tempo dalla quale posso osservare tutti i momenti
nei quali respira e vive Auxilio Lacouture, che non sono molti, ma comunque ci
sono. E ricordo che Arturo e l'italiano parlarono di teatro, del teatro latinoamericano,
che Elena chiese un cappuccino e che era piuttosto silenziosa, e che io mi misi
a guardare le pareti e il pavimento del Principio de México e notai
immediatamente qualcosa di strano (a me certe cose non passano inosservate),
era come un rumore, un vento o un sospiro che correva a intervalli irregolari
nelle fondamenta del bar. E così passarono i minuti, con Arturo e Paolo che
parlavano di teatro, con Elena silenziosa e con me che giravo la testa ogni
secondo seguendo la scia dei rumori che stavano scavando non già le fondamenta
del Principio de México ma l'intera città, come se mi avvisassero con qualche
anno di anticipo o con qualche secolo di ritardo del destino del teatro
latinoamericano, della natura doppia del silenzio e della catastrofe collettiva
della quale solitamente i rumori inverosimili sono gli araldi. I rumori
inverosimili e le nuvole. E allora Paolo smise di parlare con Arturo e disse
che quella mattina era arrivato il visto per il suo viaggio a Cuba. Non ci fu
altro. Cessarono i rumori. Si ruppe il silenzio pensieroso. Dimenticammo il
teatro latinoamericano, perfino Arturo, che pure non dimenticava niente, anche
se il teatro da lui preferito non era precisamente quello latinoamericano ma
quello di Beckett e di Jean Genet. E ci mettemmo a parlare di Cuba e
dell'intervista che Paolo avrebbe fatto e Fidel Castro. E fu così che finì
tutto. Ci dicemmo addio a Reforma. Arturo fu il primo ad andarsene. Poi se ne
andarono Elena e il suo italiano. Io me ne restai ferma, sorbendo l'aria che
passava per il viale, e li vidi allontanarsi. Elena zoppicava più del solito.
Io pensai a Elena. Respirai. Tremai. La vidi allontanarsi zoppicando al fianco
dell'italiano. E all'improvviso vidi soltanto lei. L'italiano cominciò a
sparire, a farsi trasparente, tutta la gente che camminava per Reforma divenne
trasparente. Soltanto Elena e il suo cappotto e le sue scarpe esistevano per i
miei occhi doloranti. E allora pensai: resisti, Elena. E pensai anche: corrile
dietro e abbracciala. Ma lei stava per vivere le sue ultime notti d'amore e io
non potevo disturbarla.
Dopo quel giorno passò molto tempo senza che io sapessi nulla di Elena.
Nessuno sapeva nulla. Uno dei suoi amici mi disse: morta in battaglia. Un
altro: pare sia andata a Puebla a casa dei suoi genitori. Io sapevo che Elena
era nel DF. Un giorno cercai la sua casa e mi persi. Un altro giorno riuscii a
farmi dare il suo indirizzo all'università e ci andai in taxi ma nessuno mi
aprì la porta. Tornai con i poeti, tornai alla mia vita notturna e dimenticai
Elena. A volte la sognavo e la vedevo zoppicare per il campus infinito della
UNAM. A volte mi affacciavo alla finestra del bagno delle dorine al quarto
piano e la vedevo avvicinarsi alla facoltà in un vortice di trasparenze. A
volte mi addormentavo sulle piastrelle del pavimento e sentivo i suoi passi per
le scale, come se venisse a recuperarmi, come se venisse a dirmi perdonami per
averci messo tutto questo tempo. E io aprivo la bocca, mezza morta o mezza
addormentata, e dicevo chido Elena, sei un mito, con un termine dell'argot
messicano che non adopero mai perché mi sembra orribile. Mitico, mitico,
mitico. Orribile. L'argot messicano è masochista. E a volte anche
sadomasochista.
6.
L'amore è così, amici, ve lo dico io che sono stata la madre di tutti i
poeti. L'amore è così, l'argot è così, le strade sono così, i sonetti sono
così, il cielo delle cinque di mattina è così. L'amicizia invece, non è così.
Nell'amicizia non si è mai soli.
E io sono stata amica di Leon Felipe e di don Pedro Garfias, ma sono
stata amica anche dei più giovani, di quei bambini che vivevano nella
solitudine dell'amore e nella solitudine dell'argot. Uno di loro era Arturito
Belano.
Io l'ho conosciuto e sono stata sua amica e lui è stato il mio poeta
giovane preferito, anche se lui non era messicano e la denominazione
"poeta giovane" o "giovane poesia" o "nuova
generazione" si impiegava fondamentalmente per riferirsi ai giovani messicani
che tentavano di raccogliere l'eredità di Pacheco o del cospicuo greco di
Guanajuato o del cicciottello che lavorava nella Segreteria di Governo in
attesa che il governo messicano gli desse qualche ambasciata o qualche
consolato, o dei Poeti Contadini, non ricordo più se erano tre, quattro o
cinque cavalieri dell'apocalisse nerudiana, e Arturo Belano, pur essendo il più
giovane di tutti o il più giovane quantomeno in un determinato periodo, non era
messicano e pertanto non rientrava nella denominazione "poeta
giovane" o "giovane poesia", una massa informe ma viva la cui
meta era scuotere il tappeto o la terra fertile dove pascolavano come statue
Pacheco, il greco di Guanajuato, o Aguascalientes o Irapuato, o il cicciottello
che il passare del tempo aveva trasformato in un'ossequiosa palla di lardo
(come accade spesso con i poeti), e i Poeti Contadini ogni giorno più e meglio
ammanicati (ma cosa dico, sistemati, avvitati, radicati dal principio della
loro epoca) con la burocrazia (amministrativa e letteraria). Quello che i poeti
giovani o quelli della nuova generazione pretendevano era far tremare il
pavimento e, al momento opportuno, abbattere quelle statue, tranne quella di
Pacheco, l'unico che sembrava avere qualcosa da dire, l'unico che non sembrava
diventato un funzionario. Ma in fondo erano anche contro Pacheco. In fondo
dovevano necessariamente essere contro tutto. Sicché, quando io dicevo,
guardate che José Emilio è affascinante, tenerissimo, interessante, e poi è un
vero signore, i poeti giovani del Messico (e tra loro Arturito, anche se
Arturito non era uno di loro) mi guardavano come per dire ma cosa sta dicendo
questa matta, cosa vuole quel manico di scopa uscito direttamente dall'inferno
del bagno delle donne al quarto piano della facoltà di Lettere e Filosofia, e
davanti a sguardi del genere una, generalmente, non sa cosa pensare. Una
qualsiasi, ma non io, che ero la madre di tutti loro e che non mi lasciavo mai
intimidire.
A loro, una volta, avevo raccontato una storia che avevo sentito
raccontare da José Emilio: se Rubén Dario non fosse morto così giovane, prima
di compiere cinquantanni, sicuramente Huidobro sarebbe arrivato a conoscerlo,
più o meno allo stesso modo in cui Ezra Pound conobbe W.B. Yeats. Provate a
immaginarlo: Huidobro che diventa segretario di Rubén Dario. Ma i giovani poeti
erano giovani e non sapevano calibrare l'importanza che ebbe per la poesia in
lingua inglese (e in realtà per la poesia di tutto il mondo) l'incontro tra il
vecchio Yeats ed Ezra Pound, e pertanto non si rendevano neppure conto dell'importanza
che avrebbe avuto l'ipotetico incontro tra Dario e Hui-dobro, la possibile
amicizia, il ventaglio di possibilità perdute per la poesia nella nostra
lingua. Perché, dico io, Dario avrebbe insegnato molto a Huidobro, ma anche
Huidobro avrebbe insegnato qualcosa a Dario. Il rapporto tra maestro e
discepolo è così: apprende il discepolo ma allo stesso tempo apprende anche il
maestro. E provate a immaginare: io credo, e lo credeva anche Pacheco (proprio
lì sta una delle grandezze di José Emilio, nel suo innocente entusiasmo), che
Dario avrebbe imparato di più, sarebbe stato capace di porre fine al modernismo
e di iniziare un qualcosa di nuovo che non sarebbe stata l'avanguardia ma
comunque una cosa vicina all'avanguardia, diciamo una specie di isola a metà
tra il modernismo e l'avanguardia, un'isola che adesso potremmo chiamare
l'isola che non c'è, parole che non furono, e che semplicemente avrebbero
potuto essere (è già molto immaginarle) dopo l'incontro immaginario tra Dario e
Huidobro, e lo stesso Huidobro dopo il suo fruttuoso incontro con Dario sarebbe
stato capace di fondare un'avanguardia ancor più vigorosa, un'avanguardia che
adesso chiamiamo l'avanguardia inesistente e che se fosse esistita avrebbe reso
diversi anche noi, ci avrebbe cambiato la vita. Questo lo dicevo io ai poeti
giovani del Messico (e ad Arturito Belano) quando parlavano male di José Emilio
Pacheco, ma loro non mi ascoltavano o ascoltavano solo la parte aneddotica
della storia, i viaggi di Dario e i viaggi di Huidobro, le degenze in ospedale,
una salute diversa, non condannata a spegnersi prematuramente come si spengono
tante cose in America Latina.
E allora io me ne restavo in silenzio e loro continuavano a parlare
(male) dei poeti del Messico dicendone peste e corna, e io mi mettevo a pensare
a quei poeti morti come Dario e Huidobro e agli incontri mai realizzati. La
verità è che la nostra storia è piena di incontri mai realizzati, non abbiamo
avuto il nostro Pound né il nostro Yeats, abbiamo avuto Huidobro e Dario.
Abbiamo avuto quel che abbiamo avuto.
Addirittura, tendendo la corda con la quale tutti finiranno per
impiccarsi tranne me, certe notti i miei amici sembravano incarnare almeno per
un attimo coloro che non sono mai esistiti: i poeti dell'America Latina morti a
cinque o a dieci anni, i poeti morti a pochi mesi dalla nascita. Era difficile,
e oltretutto era o pareva inutile, ma certe notti di luce violacea io vedevo
nei loro volti le faccine dei neonati che non sono mai cresciuti. Vedevo gli
angioletti che in America Latina sotterriamo dentro scatole di scarpe o in
piccole bare di legno dipinte di bianco. E a volte mi dicevo: questi ragazzi
sono la speranza. Altre volte invece mi dicevo: che razza di speranza vuoi che
siano, quale spumeggiante speranza può nascere da questi giovani ubriaconi
capaci solo di parlare male di José Emilio, questi giovani alcolizzati, abili
nell'arte dell'ospitalità ma non in quella della poesia.
E allora i giovani poeti del Messico si mettevano a recitare con le
loro voci profonde ma irrimediabilmente giovanili e i versi che recitavano se
li portava via il vento per le strade del DF mentre io scoppiavo a piangere e
loro dicevano Auxilio è ubriaca, illusi, c'è bisogno di molto alcol per fare
ubriacare me, o dicevano sta piangendo perché il tale l'ha lasciata, e io li
lasciavo dire ciò che volevano. O a volte ci litigavo. O li insultavo. O mi
alzavo dalla mia sedia e me ne andavo senza pagare, perché io non pagavo mai o
quasi mai. Io ero quella che vedeva nel passato e quelle che vedono nel passato
non pagano mai. Vedevo anche il futuro e quelle invece sì che pagano un prezzo
elevato, in certe occasioni il prezzo è la vita stessa o la tenerezza, e
secondo me in quelle notti dimenticate, senza che nessuno se ne rendesse conto,
io stavo pagando il giro per tutti, quelli che sarebbero stati poeti e quelli
che poeti non lo sarebbero stati mai.
Io me ne andavo e sembrava che non pagassi. Non pagavo perché vedevo il
vortice del passato che passava come un'esalazione di aria calda per le strade
del DF rompendo i vetri degli edifici. Ma io vedevo anche il futuro dalla mia
caverna abolita del bagno delle donne al quarto piano e per quello stavo
pagando con la mia vita. Cioè, me ne andavo e pagavo, anche se nessuno se ne
accorgeva! Io pagavo il mio conto e pagavo il conto dei giovani poeti del
Messico e il conto degli alcolisti anonimi del bar in cui stavamo. E me ne
andavo barcollando per le vie del Messico, seguendo la mia ombra schiva, sola e
piangente, sentendo ciò che probabilmente avrebbe sentito l'ultima uruguagia di
tutto il pianeta Terra, anche se io non ero certo l'ultima, ho questa
presunzione, e i crateri illuminati da centinaia di lune che attraversavo non
erano quelli della Terra ma quelli del Messico, che sembra lo stesso ma lo
stesso non è.
E una volta mi accorsi che qualcuno mi seguiva. Non ricordo dove
eravamo. Può essere che ci trovassimo in una cantina nei dintorni di La Villa o
forse in una bettola della colonia Guerrero. Non lo ricordo. So soltanto che
continuai a camminare, aprendomi la via tra le macerie, senza prestare troppa
attenzione ai passi che seguivano i miei passi, finché di colpo il sole
notturno si spense, io smisi di piangere, tornai alla realtà con un brivido e
compresi che chi mi seguiva desiderava la mia morte. O la mia vita. O le mie
lacrime che aspergevano quella realtà odiosa come la nostra lingua spesso
avversa. Allora mi fermai e aspettai e i passi che seguivano i miei passi si
fermarono e aspettarono e io guardai la strada in cerca di qualche faccia
conosciuta o sconosciuta alla quale afferrarmi gridando o un braccio da
prendere al volo per poi farmi accompagnare fino a una stazione di
metropolitana o fino a trovare un taxi, ma non vidi nessuno. O probabilmente
no. Qualcosa vidi. Chiusi gli occhi e vidi le pareti di mattonelle bianche del
bagno delle donne al quarto piano. E poi chiusi gli occhi di nuovo e ascoltai
il vento che spazzava il campus della facoltà di Lettere e Filosofia con una
meticolosità degna di miglior sorte. E pensai: così è la Storia, un breve racconto
del terrore. E quando aprii gli occhi un'ombra si staccò da un muro, sullo
stesso marciapiede, a una decina di metri, e cominciò ad avanzare verso di me,
e allora io misi la mano nella borsetta, ma cosa dico borsetta, nel mio zaino
comprato a Oaxaca, e cercai il coltello, quello che portavo sempre con me in
previsione di qualche catastrofe urbana, ma la punta delle mie dita, i miei
polpastrelli che ardevano, palparono soltanto carte e libri e riviste e perfino
biancheria pulita (lavata a mano senza sapone, solo con acqua e buona volontà
in uno dei lavatoi di quel quarto piano ubicuo come un incubo), ma il coltello
no, ahi, amici miei, un'altra forma di terrore ricorrente e mortalmente
latinoamericano: cercare l'arma e non trovarla, cercarla dove l'hai lasciata e
non trovarla. Così vanno le cose da queste parti.
E così sarebbe potuta andare a me. Ma proprio quando l'ombra che voleva
la mia morte o se non proprio la mia morte almeno il mio dolore e la mia
umiliazione, cominciò ad avanzare verso l'androne dove mi ero nascosta, altre
ombre apparvero in quella strada che avrebbe potuto trasformarsi nel compendio
delle mie strade del dolore. Apparvero e mi chiamarono: Auxilio, Auxilio,
Socorro, Amparo, Caridad, Remedios, Lacouture, dove ti sei cacciata? E tra quelle
voci che mi chiamavano riconobbi la voce del malinconico e intelligente Julián
Gómez e l'altra voce, più ridanciana, era quella di Arturito Belano, disposto
come sempre alla battaglia. E allora l'ombra che cercava di affliggermi si
arrestò, guardò indietro e poi continuò ad avanzare, passò al mio fianco, un
tipo assolutamente normale di messicano uscito dagli inferi, e insieme a lui
passò un vento tiepido e leggermente umido che evocava geometrie instabili, che
evocava solitudini, schizofrenie, macellerie. E neppure mi guardò, quel
perfettissimo figlio di puttana. Quindi ce ne andammo in centro, tutti e tre
insieme, e Julián Gómez e Arturito Belano continuavano a parlare di poesia, e
all'Encrucijada Veracruzana si unirono a noi altri due o tre poeti, o forse
semplici giornalisti o futuri professori di scuole superiori, e tutti
continuavano a parlare di poesia, di nuova poesia, io invece non parlavo, io
ascoltavo i battiti del mio cuore, impressionata dall'ombra che era passata al
mio fianco e della quale non avevo fatto parola, e non mi resi nemmeno conto
quando il dialogo degenerò in discussione e la discussione in urla e insulti.
Ci buttarono fuori dal bar. E allora ci mettemmo a camminare per le strade
vuote del DF delle cinque del mattino e uno a uno cominciammo a disperderci,
ognuno a casa sua, anch'io, che a quel tempo avevo un sottotetto nella colonia
Roma Norte, nella calle Tabasco, e siccome Arturito Belano viveva nella colonia
Juárez, nella calle Versalles, ci incamminammo insieme, anche se, secondo il
manuale delle giovani marmotte lui avrebbe dovuto prendere verso ovest, in
direzione della Glorieta de Insurgentes o della Zona Rosa perché viveva proprio
vicino all'incrocio di Ver-salles con Berlin, mentre io avrei dovuto proseguire
verso il sud. Ma Arturito Belano preferì allontanarsi un po' dal suo itinerario
e farmi compagnia. E a quell'ora della notte per dire la verità nessuno dei due
aveva una gran favella, e malgrado occasionalmente parlassimo della lite
all'Encrucijada Veracruzana, più che altro camminavamo e respiravamo, come se
all'alba l'aria del DF si fosse purificata, finché all'improvviso, con la sua
voce più tranquilla, Arturito disse che si era preoccupato per me in quel
tugurio di La Villa (dunque era successo a La Villa) e quando io gli chiesi
perché e lui disse che era perché aveva visto (anche lui, angioletto mio)
l'ombra che seguiva la mia ombra, io con grande naturalezza lo guardai, mi
portai una mano alla bocca e gli dissi: era l'ombra della morte. Lui rise, non
credeva all'ombra della morte, ma la sua risata, per quanto incredula, in
qualche modo fu offensiva. La sua risata era come se dicesse porca miseria,
Auxilio, te la sei vista brutta con quell'ombra lì. Io mi portai di nuovo la
mano alla bocca, mi fermai un attimo e gli dissi: se non fosse stato per te e
Julián io adesso sarei morta. E Arturito mi ascoltò e riprese a camminare. E io
ripresi a camminare al suo fianco. Così, senza rendercene conto, fermandoci a
parlare o camminando in silenzio, arrivammo fino al portone del palazzo dove io
vivevo. E questo fu tutto. Poi, nel 1973, lui decise di tornare in patria a
fare la rivoluzione, e io fui l'unica, a parte la sua famiglia, che andò a
salutarlo alla stazione dei pullman, perché Arturito Belano viaggiò via terra,
un viaggio lungo, lunghissimo, infestato di pericoli, il viaggio di iniziazione
di tutti i ragazzi latinoamericani, percorrere questo continente assurdo che
facciamo fatica a capire oppure non capiamo affatto. E quando Arturito si
affacciò al finestrino per farci ciao con la mano, non pianse soltanto sua
madre, piansi anch'io, inspiegabilmente, mi si riempirono gli occhi di lacrime,
come se quel ragazzo fosse anche figlio mio e temessi che quella fosse l'ultima
volta che lo vedevo.
Quella notte dormii in casa della sua famiglia, più che altro per fare
compagnia a sua madre, e ricordo che restammo a chiacchierare fino a tardi di
cose di donne anche se i miei argomenti di conversazione non sono propriamente
quelli tipici delle donne. Parlammo dei figli che crescono e si lanciano alla
scoperta del mondo, parlammo della vita dei figli che si separano dai loro
genitori e vanno per il mondo alla scoperta di cose sconosciute. Poi parlammo
del mondo in lungo e in largo. Un mondo che per noi non era, in realtà, né così
lungo né così largo. Quindi la mamma di Arturo mi fece i tarocchi e me li lesse
e disse che la mia vita sarebbe cambiata e io dissi meno male, non sai quanto
mi farebbe bene un cambiamento in questo periodo. Poi preparai il caffè, non so
che ora sarà stata ma era tardissimo e dovevamo essere entrambe molto stanche
anche se non lo lasciavamo trasparire, e quando tornai in sala trovai la madre
di Arturito Belano che si stava facendo le carte da sola, sopra un tavolino
nano, e senza dire niente rimasi un momento a guardarla, lei era lì, seduta sul
sofà con un'espressione concentrata sul viso (anche se dietro la concentrazione
era possibile vedere anche un poco di perplessità), mentre le sue mani piccole
muovevano le carte come se fossero state strappate a forza dal corpo. Stava
facendo i tarocchi a se stessa, di questo mi resi conto immediatamente, e
quello che veniva fuori dalle carte era terribile, ma non era questa la cosa
importante. L'importante era qualcosa un po' più difficile da discernere.
L'importante era che lei era sola e che mi aspettava, l'importante era che non
mi temeva.
Quella notte mi sarebbe piaciuto essere più intelligente di quella che
sono. Mi sarebbe piaciuto essere capace di consolarla. Invece l'unica cosa che
riuscii a fare fu portarle il caffè e dirle di non preoccuparsi, che sarebbe
andato tutto bene.
La mattina seguente me ne andai, anche se in quei giorni non avevo un
posto dove andare, tranne la facoltà, i bar, i caffè e le cantine di sempre, ma
me ne andai comunque, non mi piace abusare.
7.
Quando Arturo tornò in Messico,
nel gennaio del 1974, era già un'altra persona. Allende era caduto e lui aveva
fatto fino in fondo il suo dovere, questo me lo raccontò sua sorella, Arturito
aveva fatto il suo dovere e la sua coscienza, la sua terribile coscienza di
piccolo maschio latinoamericano, in teoria non aveva nulla da rimproverarsi.
Quando Arturo tornò in Messico per tutti i suoi amici di un tempo era ormai uno
sconosciuto, tranne che per me. Io non avevo mai smesso di passare da casa sua
per avere sue notizie. Sono sempre stata lì. Discretamente. Non restavo più ad
alloggiare in casa sua, passavo soltanto, me ne stavo un momentino a
chiacchierare con sua madre o con sua sorella (con suo padre no perché non mi
amava molto) e poi me ne andavo e non tornavo prima di un mese. Fu così che
venni a sapere delle sue avventure in Guatemala, nel Salvador (dove rimase
parecchio tempo in casa di un suo amico, Manuel Soto, che era stato anche amico
mio), in Nicaragua, in Costa Rica, a Panama. A Panama aveva litigato con un
negro panamense per un "togliti di mezzo". Dio mio, quante risate ci
siamo fatte io e sua sorella dopo quella lettera. Il negro, secondo Arturo, era
alto 1,90 e doveva pesare almeno cento chili, mentre lui era alto 1,76 e quanto
ai chili non andava oltre i 65. Poi a Cristóbal salì su una barca che lo portò
attraverso l'oceano Pacifico fino in Colombia, in Ecuador, in Perù e quindi in
Cile. Trovai sua sorella e sua madre alla prima manifestazione che si svolse in
Messico dopo il golpe. A quel tempo non sapevo niente di Arturo e tutte noi
temevamo il peggio. Ricordo quella manifestazione, può darsi che fosse la prima
che si svolse in America Latina per la caduta di Allende. In quell'occasione
vidi facce conosciute del '68 e vidi alcuni irriducibili della facoltà, ma
soprattutto vidi giovani messicani generosi. Vidi anche qualcos'altro: vidi uno
specchio e io infilai la testa dentro quello specchio e vidi una valle enorme e
disabitata e la visione della valle mi riempì gli occhi di lacrime, tra l'altro
perché in quei giorni non riuscivo a smettere di piangere per le questioni più
insignificanti. La valle che vidi, però, non era una questione insignificante.
Non so se era la valle della felicità o se era la valle della sventura. Ma la
vidi, e allora vidi me stessa rinchiusa nel bagno delle donne e ricordai che lì
dentro avevo sognato la stessa valle e quando mi svegliai da quel sonno o da
quell'incubo mi ero messa a piangere o magari furono proprio le lacrime a
svegliarmi. E in quel settembre del 1973 ricompariva il sogno del settembre del
1968 e sicuramente voleva dire qualcosa, questo genere di cose non accadono mai
per caso, nessuno esce indenne dalle concatenazioni, dai rivolgimenti e dalla
disposizioni del caso, forse Arturito è già morto, pensai, forse questa valle
solitaria è la raffigurazione della morte, perché la morte è il bastone sul
quale si appoggia l'America Latina e l'America Latina non può camminare senza
il suo bastone. In quel momento la madre di Arturo mi prese per il braccio (io
ero rimasta leggermente indietro) e avanzammo tutte insieme gridando el pueblo
unido, jamás serà vencido, e soltanto a ricordarlo mi scendono di nuovo le
lacrime.
Due settimane dopo parlai con sua
sorella per telefono e fu lei a dirmi che Arturo era vivo. Respirai. Che
sollievo! Ma dovevo andare avanti. Io ero la madre camminante. La transeunte.
La vita mi aveva imbarcato in altre storie.
Una notte, mentre con i gomiti
appoggiati su un mare di tequila osservavo come un gruppo di amici
internazionali tentava di rompere una pentola nel giardino di una casa della
colonia Anzures, mi venne in mente che quei giorni erano i più idonei per
riprovare a chiamarli. Mi rispose la sorella con una voce mezza addormentata.
Buon Natale, le dissi. Buon Natale, mi disse lei. Poi chiese dove mi trovavo.
Con degli amici, dissi. E Arturo? Tornerà in Messico il mese prossimo, mi
disse. In che giorno? dissi io. Non lo sappiamo, disse lei. Mi piacerebbe
andare ad aspettarlo all'aeroporto, dissi io. Poi restammo entrambe in silenzio
ad ascoltare il rumore della festa che veniva dal patio della casa dove mi
trovavo. Ti senti bene? disse sua sorella. Mi sento strana, dissi io. Be',
questo in te è normale, disse lei. Del tutto normale no, dissi io, la maggior
parte delle volte mi sento meravigliosamente bene. La sorella di Arturo rimase
un attimo in silenzio e poi disse che in realtà era lei a sentirsi strana. E
perché? dissi io. La domanda era assolutamente retorica. La verità è che tutte
e due avevamo sufficienti motivi per sentirci strane. Non ricordo cosa mi
rispose. Ci augurammo di nuovo Buon Natale e riattaccammo.
Pochi giorni dopo, nel gennaio
1974, arrivò Arturito dal Cile ed era un'altra persona.
Voglio dire: era lo stesso di
sempre ma nel fondo dell'anima qualcosa era cambiata, o era cresciuto, o magari
era cresciuto e cambiato allo stesso tempo.
Voglio dire: la gente, i suoi
amici, cominciarono a guardarlo come se fosse un'altra persona anche se lui era
lo stesso di sempre. Voglio dire: tutti aspettavano che in qualche modo lui aprisse
la bocca e raccontasse le ultime notizie dall'Orrore, ma lui osservava un
silenzio assoluto come se ciò che gli altri si aspettavano si fosse tramutato
in un linguaggio incomprensibile o come se proprio non gliene fregasse un
cazzo.
E allora i suoi migliori amici
smisero di essere i poeti giovani del Messico, tutti più grandi di lui, e
cominciò a uscire con i poeti giovanissimi del Messico, tutti più piccoli di
lui, pischelletti di diciotto anni, di diciassette, che sembravano usciti da
quel grande orfanotrofio che è la metropolitana del DF e non certo dalla
facoltà di Lettere e Filosofia, esseri di carne e ossa che io vedevo affacciati
alle finestre dei bar e dei caffè di Bucareli e la cui sola visione mi dava i
brividi, come se non fossero di carne e ossa, una generazione uscita
direttamente dalla ferita aperta di Tlate-lolco, come formiche o come cicale o
magari come pus, ma che a Tlatelolco non c'era stata e neppure nelle battaglie
del '68, bambini che quando io me ne stavo rinchiusa nell'università nel
settembre del '68 non avevano neppure iniziato le scuole superiori. Erano
quelli i nuovi amici di Arturito. E io non fui immune alla loro bellezza. Io
non sono immune a nessun tipo di bellezza. Ma mi resi conto (proprio mentre li
guardavo e tremavo) che il loro linguaggio era un altro, diverso dal mio,
diverso da quello dei giovani poeti, ciò che loro dicevano, poveri uccellini
orfani, non lo avrebbe capito José Augustin, il romanziere di moda, né i
giovani poeti che volevano sbattersene di José Emilio Pacheco, tantomeno José
Emilio, che sognava l'incontro impossibile tra Dario e Huidobro. Nessuno
avrebbe potuto comprenderli, le loro voci che noi non sentivamo dicevano: non
siamo di questa parte del DF, noi veniamo dalla metropolitana, dai sotterranei
del DF, dalla rete delle fogne, viviamo nelle zone più scure, nelle zone più
sporche, lì dove il più scafato dei giovani poeti non potrebbe fare altro che
vomitare.
A pensarci bene, fu normale che
Arturo si unisse a loro e si allontanasse a poco a poco dai suoi vecchi amici.
Loro erano i bambini delle fogne e Arturo era sempre stato un bambino delle
fogne. Uno dei suoi vecchi amici, però, non si allontanò da lui. Ernesto San
Epifanio. Io conobbi prima Arturo, poi conobbi Ernesto San Epifanio una radiosa
notte del 1971. A quei tempi Arturo era il più giovane del gruppo. Poi arrivò
Ernesto che era un anno o appena qualche mese più giovane di lui, e Arturito
perse quel primato equivoco e brillante. Ma tra di loro non ci fu alcun tipo di
invidia e quando Arturo tornò dal Cile, nel gennaio del 1974, Ernesto San
Epifanio continuò a essergli amico. Quello che accadde tra di loro è davvero
curioso. Io sono l'unica che può raccontarlo. Ernesto San Epifanio in quei
giorni si aggirava come malato. Quasi non mangiava e stava diventando pelle e
ossa. Di notte, in quelle notti del DF coperte da strati di lenzuola di lino,
non faceva altro che bere e a malapena scambiava qualche parola con gli altri e
quando uscivamo in strada guardava da tutti i lati come se avesse paura di
qualcuno. Ma quando gli amici gli chiedevano cosa stesse accadendo lui non
diceva niente o al massimo rispondeva con una citazione di Oscar Wil-de, uno
dei suoi scrittori preferiti, ma anche in quel punto, in quello
dell'ingegnosità, la sua forza era illanguidita e in bocca a lui una frase di
Oscar Wilde più che far pensare, provocava un sentimento di perplessità e
commiserazione. Una notte gli diedi la notizia di Arturo (avevo parlato con sua
madre e con sua sorella) e lui mi ascoltò come se vivere nel Cile di Pinochet
non fosse, in fondo, una cattiva idea. I primi giorni dopo il suo ritorno
Arturo se ne restò chiuso in casa, senza mettere piede fuori, e per tutti, meno
che per me, fu come se non fosse tornato dal Cile. Ma io andai a casa sua e gli
parlai, seppi che era stato dentro, otto giorni, e che anche se non era stato
torturato, aveva dato dimostrazione di grande coraggio. E lo dissi ai suoi
amici. Dissi: Arturito è tornato, e addobbai il suo ritorno con colori attinti
alla tavolozza della poesia epica. E quando Arturito, una notte, riapparve
finalmente al caffè Quito, nell'avenida Bu-careli, i suoi vecchi amici, cioè i
giovani poeti, lo guardarono con uno sguardo che non era più lo stesso. Perché
non era più lo stesso? Perché adesso per loro Arturito era entrato a far parte
della categoria di coloro che hanno visto la morte da vicino, nella
sottocategoria
dei tipi duri, e questo, nella gerarchia dei disperati maschietti
latinoamericani, era un diploma, un giardino di medaglie che era impossibile
non prendere in considerazione. In fondo in fondo, bisogna dire anche questo,
nessuno lo prendeva particolarmente sul serio. Vale a dire: la leggenda era
partita dalle mie labbra, le mie labbra nascoste dal dorso della mano, e anche
se ciò che avevo raccontato mentre lui era ancora rinchiuso in casa sua era
tutto vero, visto e considerato da dove proveniva, cioè da me, il racconto non
aveva goduto di eccessiva credibilità. Così vanno le cose in questo continente.
Io ero la madre e mi credevano, ma non si può dire che mi credessero troppo.
Ernesto San Epifanio, invece, prese le mie parole per oro colato. Nei giorni
che precedettero la riapparizione in pubblico di Arturo mi costrinse a ripetere
le sue avventure all'altro capo del mondo e a ogni ripetizione il suo
entusiasmo aumentava. Vale a dire: io parlavo e inventavo nuove avventure e la
languidezza di Ernesto San Epifanio andava scomparendo, andava scomparendo la
sua malinconia, o almeno la languidezza e la malinconia trasalivano, si
scrollavano la polvere di dosso, avevano un attimo di respiro. Così, quando
Arturo ricomparve e tutti vollero stare con lui, tra loro si presentò anche
Ernesto San Epifanio e partecipò insieme agli altri, pur mantenendosi
discretamente in secondo piano, al benvenuto che i suoi vecchi amici gli
riservarono e che consisteva, se non ricordo male, nell'offrire una birra e un
piatto di chilaquiles al caffè Quito, agape modesto senza dubbio, ma in linea
con la situazione economica generale. E quando tutti furono andati via, Ernesto
San Epifanio rimase ancora lì, appoggiato al bancone dell'Encrucijada
Veracruzana, visto che a quel punto già non eravamo più al Quito ma ci eravamo
trasferiti nel suddetto bar mentre Arturo, solo con i suoi fantasmi, seduto a
un tavolo, guardava il suo ultimo bicchiere di tequila come se in fondo a quel
bicchiere si stesse verificando un naufragio di proporzioni omeriche, qualcosa
di improprio da qualunque prospettiva la si volesse vedere, in un ragazzo che
non aveva ancora compiuto ventun anni. Allora cominciò l'avventura.
Io ho visto tutto di persona.
Posso giurarlo. Ero seduta a un altro tavolo, parlavo con un giornalista
principiante della pagina culturale di un giornale del DF, e avevo appena
comprato un disegno da Lilian Serpas e Lilian Serpas dopo averci venduto il
disegno ci aveva sorriso con il suo sorriso più enigmatico (ma la parola
enigmatico non basta a disegnare quell'oscurità abissale che era il suo
sorriso) ed era sparita nella notte del DF mentre io spiegavo al giornalista
chi era Lilian Serpas, gli dicevo che il disegno non era suo ma di suo figlio,
gli raccontavo le poche cose che sapevo di quella donna che appariva e spariva
nei bar e nei caffè dell'avenida Bucareli. E in quel momento, mentre io parlavo
e Arturo contemplava al tavolo vicino i mulinelli congetturali della sua
tequila, Ernesto San Epifanio si allontanò dal bancone e si sedette vicino a
lui e per un istante vidi le loro due teste, i due cespugli di capelli lunghi
che cadevano fin sulle spalle, quelli ricci di Arturo e quelli di Ernesto lisci
e molto più scuri, e per un momento parlarono mentre la Encrucijada Veracruzana
si andava svuotando degli ultimi nottambuli, quelli che d'improvviso hanno fretta
di andarsene e gridano viva México dalla porta e quelli che sono così sbronzi
che non riescono neppure ad alzarsi dalle sedie.
Allora mi alzai io e rimasi in
piedi vicino a loro come la statua di vetro che avrei voluto essere da bambina
e sentii che Ernesto San Epifanio raccontava una storia terribile sul re dei
froci della colonia Guer-rero, un tipo che chiamavano il Re e che controllava
la prostituzione maschile di quel tipico e, perché no, viscerale quartiere
della capitale. Il Re, secondo Ernesto San Epifanio, aveva comprato il suo
corpo e adesso lui gli apparteneva corpo e anima (cose che capitano quando ti
distrai un attimo e permetti che qualcuno ti compri), e se non cedeva a tutte
le sue richieste, la giustizia e la rabbia del Re si sarebbero abbattute su di
lui e sulla sua famiglia. Arturito ascoltava quel che diceva Ernesto e a tratti
sollevava la testa dal suo maelstròm di tequila e cercava gli occhi dell'amico
come se stesse domandando come aveva potuto Ernesto essere coglione al punto da
mettersi in testa una storia così. Ed Ernesto San Epifanio, come se leggesse
nel pensiero dell'amico, disse che in un determinato momento delle loro vite,
tutti i gay del Messico commettevano una stronzata irreparabile, e disse anche
che non aveva nessuno che potesse aiutarlo e che se le cose fossero andate
avanti così sarebbe stato destinato a diventare lo schiavo del re dei froci
della colonia Guerrero. E allora Arturo, il bambino che io avevo conosciuto
quando aveva diciassette anni disse: vuoi davvero che io ti aiuti a risolvere
questa puttanata? ed Ernesto San Epifanio disse: questa puttanata non ha
soluzione, ma non sarebbe male se tu mi dessi una mano. E Arturo disse: cosa
vuoi che faccia, che ammazzi il re dei froci? Ernesto San Epifanio disse: non voglio
che ammazzi nessuno, voglio solo che mi accompagni e gli dica di lasciarmi in
pace per sempre. E Arturo disse: perché cazzo non glielo dici tu? Ed Ernesto
disse: se ci vado io da solo e glielo dico mi spareranno addosso tutti gli
uomini del re dei froci e poi butteranno il mio cadavere in pasto ai cani. E
Arturo disse: ah, che cazzata. Ed Ernesto San Epifanio disse: cazzate saranno
quelle che dici tu. E Arturo disse: non rompere i coglioni. Ed Ernesto disse: i
coglioni li stai rompendo tu, io la mia parte l'ho già fatta. Le mie poesie
resteranno nell'olimpo della poesia messicana, se non hai voglia di
accompagnarmi, non mi accompagnare. In fondo hai ragione tu. Di che ragione
stai parlando? disse Arturo, e si stiracchiò come se fino a quel momento avesse
sognato. Poi si misero a parlare del potere che esercitava il re dei froci
della colonia Guerrero e Arturo chiese su cosa si basava quel potere. Sulla
paura, disse Ernesto San Epifanio, il Re imponeva il suo potere attraverso la
paura. E io cosa dovrei fare? disse Arturito. Tu non hai paura, disse Ernesto,
tu vieni dal Cile, tutto quello che il Re potrebbe ordinare di farmi, tu l'hai
visto moltiplicato per cento o forse anche per mille. Quando Ernesto gli disse
così io non riuscii a vedere la faccia di Arturo ma indovinai che il gesto,
l'atteggiamento che aveva avuto fino ad allora, leggermente perduto, si
scomponeva sottilmente come una piccola ruga quasi impercettibile, nella quale
però si concentrava tutta la paura del mondo. E allora Arturito scoppiò a
ridere ed Ernesto scoppiò a ridere anche lui, le loro risate cristalline
somigliarono a uccelli polimorfi nello spazio pieno di cenere che era
l'Enrcucijada Vera-cruzana a quell'ora, alla fine Arturo si alzò e disse
andiamo alla colonia Guerrero ed Ernesto si alzò e uscì dietro di lui e nel
giro di trenta secondi anch'io uscii sparata dal bar agonizzante e li seguii a
distanza di sicurezza perché sapevo che se mi avessero vista non mi avrebbero
lasciata andare con loro perché io ero pur sempre una donna e una donna non
s'immischia in quelle faccende, perché io ero già adulta e una persona adulta
non ha lo slancio di un giovane di vent'anni, e perché a quell'ora incerta
dell'alba Arturito Belano accettava il suo destino di bambino delle fogne e
usciva in cerca dei suoi fantasmi.
Io non volevo lasciarlo solo. Né
lui né Ernesto San Epifanio. Quindi uscii dietro di loro, a distanza di
sicurezza, e mentre camminavo cominciai a frugare nella borsa o nel mio vecchio
zaino comprato a Oaxaca cercando il mio vecchio coltello fortunato e stavolta
sì che lo trovai senza difficoltà e me lo misi in una tasca della gonna a
pieghe, una gonna grigia a pieghe, con due grandi tasche ai lati, che mi
mettevo raramente e che era un regalo di Elena. E in quel momento non pensai alle
conseguenze che quell'atto poteva comportare su di me e sugli altri che, senza
dubbio alcuno, si sarebbero visti coinvolti. Pensai a Ernesto, che quella sera
era vestito con una giacca color lilla e una camicia verde scuro con il collo e
i polsini inamidati, e pensai alle conseguenze del desiderio. Pensai anche ad
Arturo, che di punto in bianco era asceso involontariamente al rango di
veterano delle guerre puniche e che, vai a capire per quale oscuro motivo,
accettava tutte le responsabilità che quell'equivoco portava con sé.
E li seguii: li vidi camminare
con passo leggero per Bucareli fino a Reforma e poi li vidi attraversare
Reforma senza aspettare il semaforo verde, entrambi coi capelli lunghi e
scompigliati perché a quell'ora su Reforma tira tutto il vento notturno che è
avanzato alla sera, l'avenida Reforma si trasforma in un tubo trasparente, in
un polmone di forma cuneiforme nel quale passano le esalazioni immaginarie
della città, e poi iniziammo a camminare per l'avenida Guerrero, loro un po' più
lentamente di prima, io un po' più in fretta di prima, la Guerrero a quell'ora
somiglia sopra ogni altra cosa a un cimitero, ma non a un cimitero del 1974, né
a un cimitero del 1968, né a un cimitero del 1975, ma a un cimitero del 2666,
un cimitero dimenticato sotto una palpebra morta o mai nata, le acquosità prive
di passione di un occhio che volendo dimenticare qualcosa ha finito per
dimenticare tutto. A quel punto avevamo già attraversato la strada diretti
verso Puente de Alvarado e avevamo intravisto le ultime formiche umane che
trafficavano protette dall'oscurità della plaza San Fernando, e io cominciai a
sentirmi francamente nervosa perché a partire da quel momento entravamo davvero
nel regno del re dei froci che Ernesto (figlio, tra l'altro, della sofferente
classe dei lavoratori del DF) tanto temeva.
8.
Insomma, lì si trovava, cari i
miei amici, la madre della poesia messicana col suo coltello in tasca mentre
seguiva i due poeti che non avevano ancora compiuto i ventun anni, attraverso
quel fiume turbolento che era ed è l'avenida Guerrero, simile non al Rio delle
Amazzoni, non è il caso di esagerare, ma al Grijalva, il fiume cantato ai suoi
tempi da Efrain Huerta (se la memoria non m'inganna), anche se quel Grijalva
notturno che era ed è l'avenida Guerrero aveva perduto da tempo immemorabile la
sua condizione primigenia di innocenza. Vale a dire, quel Grijalva che fluiva
di notte era, sotto tutti gli aspetti, un fiume dannato lungo la cui corrente
scivolavano via cadaveri o parvenze di cadaveri, automobili nere che apparivano
e sparivano, e poi apparivano di nuovo, le stesse o la loro silenziosa eco
impazzita, come se il fiume dell'inferno fosse circolare, il che, ora che ci
penso, probabilmente è vero.
L'unica cosa certa è che io
camminai dietro di loro e loro si addentrarono per l'avenida Guerrero, poi
girarono nella calle Magnolia e dai gesti che facevano si sarebbe potuto dire
che stavano discutendo animatamente, anche se quello non era il luogo né l'ora
più opportuna per l'esercizio del dialogo. Dai locali della calle Magnolia (per
la verità non molto numerosi) moriva una musica tropicale che invitava al
raccoglimento e non alla festa né al ballo, di tanto in tanto risuonava un
grido, e ricordo che pensai che quella strada somigliava a una spina o a una
freccia conficcata in un fianco dell'avenida Guerrero, immagine che non sarebbe
dispiaciuta a Ernesto San Epifanio. Subito dopo si fermarono davanti
all'insegna luminosa dell'hotel Trifoglio, e anche questo aveva un che di
grazioso, perché era o comunque mi sembrò che fosse (ero molto nervosa) come se
un esercizio commerciale sito nella calle Berlin si chiamasse Paris, e sembrava
stessero discutendo la strategia che avrebbero seguito a partire da quel
momento: Ernesto, all'ultimo momento, mi diede l'impressione di voler tornare
sui suoi passi e allontanarsi più rapidamente possibile da lì, mentre Arturito,
al contrario, si mostrava disposto ad andare avanti, totalmente immedesimato
nella parte del duro che io avevo contribuito a costruirgli e che lui, in
quella notte carente di tutto, perfino d'aria, accettava come un'ostia di carne
amara, quell'ostia che nessuno ha diritto a ingoiare.
E allora i due eroi entrarono
nell'hotel Trifoglio. Prima Arturo Belano e poi Ernesto San Epifanio, poeti
forgiati nel Distrito Federal del Messico, e dopo di loro entrai io, la
spolveratrice di Leon Felipe, la rompivasi di don Pedro Garfias, l'unica
persona rimasta dentro l'università nel settembre del 1968, quando i granatieri
violarono l'autonomia universitaria. A prima vista l'interno dell'hotel mi
parve deludente. In casi del genere è come lanciarsi con gli occhi chiusi nel
cerchio di fuoco e soltanto dopo, aprire gli occhi. Io mi ero lanciata. E poi
avevo aperto gli occhi. E ciò che avevo visto non aveva nulla di terribile. Una
reception angusta, con due sofà sui quali il passare del tempo aveva fatto
danni indicibili, un portiere bruno, tracagnotto e con un enorme cespuglio di
capelli neri come il carbone, un tubo fluorescente appeso al soffitto, un
pavimento di mattonelle verdi, una scala rivestita da una moquette di plastica
grigio sporco, una portineria di infimo livello anche se per una porzione della
colonia Guerrero probabilmente quell'hotel era considerato un lusso
considerevole. Dopo aver parlottato con il portiere i due eroi salirono per le
scale, e io entrai nell'hotel e dissi al portiere che ero insieme a loro. Il
tracagnotto socchiuse un attimo gli occhi e fu sul punto di dire qualcosa,
provò a mostrare gli incisivi, ma quando lo fece io ero già al primo piano e
attraverso una nuvola di disinfettante e una luce smorta si denudò davanti ai
miei occhi un corridoio che doveva essere nudo sin dai primi giorni della
Creazione, aprii una porta che si era appena chiusa ed ebbi accesso, testimone
invisibile, alla camera reale del re dei froci della colonia Guerrero.
Il Re, amici miei, non era solo,
ma questo era scontato. Nella stanza c'era un tavolo e sul tavolo c'era un
panno verde, ma gli occupanti della stanza non stavano giocando a carte: erano
impegnati a chiudere i conti della giornata o forse della settimana, vale a
dire, sul tavolo c'erano delle carte con nomi e numeri, e c'erano dei soldi.
Nessuno fu sorpreso di vedermi.
Il Re era un tipo forte che
doveva essere intorno alla trentina. Aveva i capelli castani, di quella
tonalità di castano che in Messico non capirò mai se sul serio o per scherzo
chiamano biondiccio, e indossava una camicia bianca, un po' sudata, che
permetteva allo spettatore casuale di apprezzare quasi senza volerlo degli
avambracci muscolosi e pelosi. Insieme a lui stava seduto un tipo grassoccio,
con i baffi e delle basette smisurate, probabilmente il contabile del regno. In
fondo alla stanza, nella penombra che avvolgeva il letto, un terzo uomo ci
controllava e ci ascoltava scuotendo la testa. La prima cosa che pensai fu che
quell'uomo non stava bene. All'inizio fu l'unico che mi fece davvero paura, ma
col passare dei minuti il timore si trasformò in commiserazione: pensai che
l'uomo che se ne stava semidisteso sul letto (in una posizione che, d'altra
parte, doveva richiedere uno sforzo notevole) non poteva che essere una persona
malata, forse un subnormale, forse un nipote del Re, subnormale o imbottito di
sedativi, e questo mi spinse a pensare che per brutte che siano le situazioni
che si vivono (in questo caso la situazione che viveva Ernesto San Epifanio)
c'è sempre qualcuno che sta peggio.
Ricordo ancora le parole del Re.
Ricordo il suo sorriso quando vide Ernesto e il suo sguardo inquisitore quando
vide Arturo. Ricordo la distanza che il Re interpose tra la sua persona e i
suoi visitatori con un semplice gesto, quello di prendere i soldi e metterseli
in tasca. Poi parlarono.
Il Re evocò due notti nelle quali
Ernesto si era messo nei guai volontariamente e parlò delle obbligazioni
contratte, le obbligazioni che a tutt'oggi, per ragioni futili o accidentali,
si porta dietro. Parlò del cuore. Il cuore degli uomini che sanguina come le
donne (credo si riferisse alle mestruazioni) e che obbliga i veri uomini a
prendersi la responsabilità delle proprie azioni, di qualunque tipo esse siano.
E poi parlò di debiti. Non c'era nulla di più spregevole che un debito non
saldato. Poi tacque e aspettò quel che avevano da dirgli i suoi ospiti. Il
primo a parlare fu Ernesto San Epifanio. Disse che lui non aveva alcun debito
con il Re. Disse che l'unica cosa che aveva fatto era andarci a letto per due
notti di seguito (due notti di follia, precisò), probabilmente sapendo che si
stava infilando nel letto con il re dei froci, e senza calibrare, dunque, i
pericoli e le "responsabilità" che con questa azione contraeva, ma
che lo aveva fatto in modo innocente (anche se nel dire la parola
"innocente" Ernesto non riuscì a reprimere un risolino nervoso che
probabilmente contraddiceva l'aggettivo che si era autoassegnato) guidato solo
dal desiderio e dalla voglia di avventura, e non dal segreto disegno di
trasformarsi in schiavo del Re. Tu sei il mio schiavo frocio, disse il Re
interrompendolo. Sono io il tuo schiavo frocio, disse l'uomo o il ragazzo che
si trovava in fondo alla stanza. Aveva una voce acuta e dolente che mi fece sussultare.
Il Re si voltò e gli ordinò di tacere. Io non sono il tuo schiavo frocio, disse
Ernesto. Il Re guardò Ernesto con un sorriso paziente e malevolo. Gli domandò
chi credeva di essere. Un poeta omosessuale messicano, disse Ernesto, un poeta,
un (il Re non capì nulla), e poi aggiunse qualcosa riguardo al diritto che
aveva (il diritto inalienabile) di andare a letto con chi voleva e non per
questo essere considerato uno schiavo. Se questa storia non fosse patetica, ci
sarebbe da morire dal ridere. E allora puoi già cominciare a ridere, disse il
Re, prima che ti diano un premio alla memoria. La sua voce era diventata
improvvisamente dura. Ernesto divenne rosso. Io lo vedevo di profilo e notai
come gli tremava il labbro inferiore. Faremo di te un martire, disse il Re. Ti
sbatteremo la testa contro il muro fino a sfondartela, disse il contabile del
regno. E poi ti riempiremo di pallottole fino a farti diventare i polmoni un
colabrodo, fino a farti diventare un colabrodo perfino il cuore, disse il Re.
Il fatto curioso, però, fu che dissero tutto senza muovere le labbra e senza
che dalle loro bocche uscisse un solo suono.
Smettila di perseguitarmi, disse
Ernesto con voce esangue. Il povero ragazzo subnormale che stava in fondo alla
stanza cominciò a tremare e si coprì con una coperta di lana. Poco dopo tutti
sentimmo chiaramente i suoi gemiti soffocati.
Allora parlò
Arturo. Lui chi sarebbe? disse.
Chi sarebbe chi, stronzo?, disse
il Re. Chi sarebbe quello là, disse Arturo e indicò la massa informe nel letto.
Il contabile rivolse uno sguardo inquisitore verso il fondo della stanza e poi
guardò Arturo ed Ernesto con un sorriso vuoto. Il Re non si voltò neppure. Chi
è? disse Arturo. Chi cazzo sei tu? disse il Re.
Il ragazzo in fondo alla stanza
rabbrividì sotto la coperta. Sembrava che si rigirasse. Avvolto o annegato
nelle coperte, chi lo guardava non poteva dire con precisione se la sua testa
fosse vicina al cuscino o ai piedi del letto. È malato, disse Arturo. Non era
una domanda e neppure un'affermazione. Fu come se lo dicesse per se stesso e
fu, nello stesso tempo, come se perdesse vigore, e pensate che cosa curiosa, in
quel momento sentii la sua voce e invece di pensare a ciò che aveva appena
detto o alla malattia di quel povero ragazzo, pensai che Arturo aveva
recuperato (o forse non aveva ancora perso) l'accento cileno in tutti i mesi
che aveva passato nel suo paese. E all'istante cominciai a pensare, cosa
succederebbe se io, supponiamo, tornassi a Montevideo. Recupererei il mio
accento? Smetterei, poco alla volta, di essere la madre della poesia messicana?
Io sono fatta così. Penso le cose più peregrine e inopportune nei momenti
peggiori.
Be', quello senza dubbio era uno
dei momenti peggiori, e io pensai perfino che il Re potesse ammazzarci con
assoluta impunità e dare i nostri cadaveri in pasto ai cani, i cani muti della
colonia Guerrero, o farci persino qualcosa di peggio. Ma allora Arturo si
schiarì la voce (o almeno così mi parve) e si sedette su una sedia vuota
davanti al Re (ma prima quella sedia non era lì), si coprì la faccia con le
mani (come se avesse mal di mare o temesse di svenire) e il Re e il contabile
del regno lo guardarono con curiosità, come se non avessero mai visto un
teppista così languido in tutta la loro vita. Allora Arturo disse, senza
togliersi le mani dalla faccia, che quella notte i problemi di Ernesto San
Epifanio si dovevano risolvere una volta per tutte. Lo sguardo di curiosità del
Re gli si sciolse sul viso. Andava a finire sempre così con gli sguardi di
curiosità: al minimo cambiamento tendono a trasformarsi in qualcos'altro: si
sciolgono, ma non si sciolgono mai fino in fondo; si fermano a metà strada, la
curiosità è lunga, e anche se il viaggio d'andata sembra corto (perché siamo
ben predisposti nei suoi confronti), quello di ritorno si fa interminabile: un
incubo inconcluso. E lo sguardo del Re quella notte ne era il riflesso: un
incubo inconcluso dal quale avrebbe voluto scappare attraverso la violenza.
Ma in quel momento Arturo
cominciò a parlare d'altro. Parlò del ragazzo malato che tremava nel letto lì
in fondo e disse che anche lui sarebbe venuto via con noi, parlò della morte e
parlò del ragazzo che tremava (anche se ormai non tremava più) e il cui volto
faceva capolino da sopra i lembi del lenzuolo e guardandoci, e parlò ancora
della morte e si ripeté una volta e poi un'altra ancora e finiva sempre per
tornare al tema della morte, come se stesse dicendo al re dei froci della
colonia Guerrero che in materia di morte non aveva alcuna autorità, e in quel
momento esatto pensai: sta facendo letteratura, sta inventando storie, è tutto
falso, e allora, come se Arturito Belano mi avesse letto nel pensiero, si voltò
leggermente, appena un movimento delle spalle e mi disse: dammelo, e tese il
palmo della sua mano destra. Io misi sul palmo della sua mano destra il mio
coltello aperto, lui ringraziò e mi diede nuovamente le spalle. E allora il Re
gli chiese se per caso era sbronzo. No, disse Arturo, o forse sì ma non molto.
E allora il Re domandò se Ernesto era il suo amichetto. E Arturo disse di sì,
il che dimostrava come stavano le cose: niente sbronze ma molta letteratura. E
allora il Re provò ad alzarsi, probabilmente per darci la buona notte e accompagnarci
alla porta, ma Arturo gli disse non muoverti pezzo di merda, nessuno si muova,
e tenete quelle fottutissime mani ferme sul tavolo, e sorprendentemente il Re e
il contabile gli obbedirono. Io credo che in quel momento Arturo si rese conto
di aver vinto, o di aver vinto almeno la prima parte del combattimento o il
primo round, e dovette anche rendersi conto che se il conflitto fosse andato
per le lunghe avrebbe ancora potuto perderlo. Ossia, se il combattimento fosse
stato su due round, le sue possibilità erano enormi, ma se il combattimento
fosse stato sulle dieci, dodici, o quindici riprese, le sue possibilità si
sarebbero disperse nell'immensità del regno. E così andò ancora avanti e disse
a Ernesto di andare a dare un'occhiata al ragazzo in fondo alla stanza. Ernesto
lo guardò come per dire, non spingerti troppo in là, amico mio, ma visto che
non era quello il momento più adatto per discutere, gli obbedì. E dal fondo
della stanza Ernesto disse che il ragazzino stava più di là che di qua. Io lo
vidi bene Ernesto. Lo vidi avanzare tracciando un semicerchio per la camera
reale fino ad arrivare al letto e lì scoprire il giovane schiavo e toccarlo o
magari dargli un pizzicotto sul braccio o sussurrargli parole all'orecchio e
avvicinare le sue orecchie alle labbra del ragazzo e poi ingoiare saliva (io
l'ho visto ingoiare saliva mentre era chino su quel letto che possedeva le
caratteristiche di un pantano e di un deserto allo stesso tempo) e poi dire che
era più di là che di qua. Se questo ragazzino ci lascia le penne, io torno qui
e ti ammazzo, disse Arturo. Allora io aprii la bocca per la prima volta quella
sera: ce lo portiamo via? chiesi. Certo, lui viene via con noi, disse Arturo.
Ed Ernesto, che era rimasto in fondo alla stanza, si mise a sedere sul letto
come se di colpo si sentisse terribilmente scoraggiato e disse: vieni a vederlo
di persona, Arturo. Vidi che Arturo muoveva la testa in segno di diniego
diverse volte. Non voleva vederlo. E allora guardai Ernesto e mi parve per un
momento che il fondo della stanza, con il letto come una vela abbattuta, si
staccasse dal resto della camera, si allontanasse dall'edificio dell'hotel
Trifoglio navigando su un lago che a sua volta navigava in un cielo
chiarissimo, uno dei cieli della valle del Messico dipinti dal dottor Atl. La
visione fu talmente chiara che mancò solo che io e Arturo ci alzassimo in piedi
e li salutassimo con la mano. Mai come in quel momento Ernesto mi sembrò
coraggioso. E a suo modo anche il ragazzo malato.
Mi mossi. Anch'io mi mossi. Prima
mentalmente. Poi fisicamente. Il ragazzo malato mi guardò negli occhi e scoppiò
a piangere. In effetti stava molto male, ma preferii non dirlo ad Arturo. Dove
sono i suoi pantaloni? chiese Arturo. Devono essere lì, disse il Re. Cercai
sotto il letto. Non c'era niente. Cercai ai lati del letto. Guardai Arturo come
per dirgli, non li trovo, cosa facciamo? Allora a Ernesto venne in mente di
cercarli tra le coperte e tirò fuori dei pantaloni mezzi zuppi e un paio di
scarpe da tennis di marca. Lascia fare a me, dissi. Misi il ragazzo a sedere
sul bordo del letto, gli infilai i blue-jeans e le scarpe. Poi lo sollevai in
piedi per vedere se era in grado di camminare. Poteva.
Andiamo via, dissi. Arturo non si
mosse. Svegliati, Arturo, pensai. Voglio raccontare un'ultima storiella a sua
maestà, disse. Cominciate a uscire e aspettatemi giù, alla porta.
Ernesto e io riuscimmo in qualche
modo a portare giù il ragazzo. Fermammo un taxi e aspettammo all'ingresso
dell'hotel Trifoglio. Dopo un momento spuntò Arturo. Nei miei ricordi, i
contorni di quella notte nella quale non accadde niente ma avrebbe potuto
accadere di tutto, svaniscono come divorati da un animale gigantesco. A volte
vedo in lontananza, verso nord, una grande tormenta elettrica che avanza verso
il centro del DF, ma la mia memoria mi dice che non c'è stata nessuna tormenta
elettrica, l'alto cielo messicano divenne un po' più basso, questo sì, a
momenti respirare costava una gran fatica, l'aria era secca e faceva male alla
gola, e ricordo la risata di Ernesto San Epifanio e la risata di Arturito
Belano dentro il taxi, una risata che li riportava alla realtà, o a quello che
preferivano chiamare realtà, e ricordo l'aria del marciapiede davanti all'hotel
e quella dentro il taxi come fossero fatte di cactus, di tutta
l'incommensurabile varietà di cactus di questo paese, e ricordo che io dissi
qui si fa fatica a respirare, e poi: ridammi il mio coltello, e poi ancora: si
fa fatica anche a parlare, e: dove andiamo, e ricordo che a ognuna delle mie
parole Ernesto e Arturo scoppiavano a ridere e che alla fine dovetti ridere
anch'io, come loro e più di loro, e ridevamo tutti tranne il tassista, che a un
certo momento ci guardò come se per tutta la notte non avesse fatto altro che
raccattare gente come noi (cosa che, trattandosi del DF, è assolutamente
normale), e tranne il ragazzo malato, che si addormentò con la testa appoggiata
sulla mia spalla.
E fu così che entrammo e poco
dopo uscimmo dal regno del re dei froci, incastonato nel deserto della colonia
Guerrero, Ernesto San Epifanio, di venti o diciannove anni, poeta omosessuale
nato in Messico (che insieme a Ulises Lima, che ancora non conoscevamo, fu il
miglior poeta della sua generazione), Arturo Belano, di vent'anni, poeta
eterosessuale nato in Cile, Juan de Dios Montes (chiamato anche Juan de Dos
Montes e Juan Dedos), di diciotto anni, garzone di panetteria in un forno della
colonia Buenavista, bisessuale o almeno così sembra, e io, Auxilio Lacoutu-re,
di età sempre incerta, lettrice e madre nata in Uruguay o Repubblica degli
Orientali e testimone delle reticolazioni dell'aridità.
E siccome di Juan de Dos Montes
non parlerò più, posso almeno dirvi che il suo incubo ebbe un lieto fine.
Per qualche giorno restò in casa
dei genitori di Arturito e poi per un periodo fece il giro di diverse soffitte.
Alla fine alcuni degli amici gli trovarono un lavoretto in un forno della
colonia Roma e a quel punto sparì, almeno apparentemente, dalle nostre vite.
Gli piaceva drogarsi inalando colla. Era malinconico e tendenzialmente triste.
Era stoico. Una volta lo incontrai per caso nel Parque Hundido. Gli dissi, come
stai Juan de Dios. Non potrei stare meglio, mi rispose. Mesi più tardi, nella
festa che diede Ernesto San Epifanio dopo aver ottenuto la borsa di studio
Salvador Novo (e alla quale Arturo non andò, perché i poeti litigano sempre),
gli dissi che quella notte ormai quasi dimenticata non era lui, come tutti
pensavamo, che stavano per ammazzare, ma Juan de Dios. Sì, mi disse Ernesto,
sono arrivato anch'io a quella conclusione. Era Juan de Dios quello che sarebbe
morto. Il nostro disegno segreto fu evitare che lo ammazzassero.
9.
Poi tornai al mondo. Basta con le
avventure, mi dissi con l'ultimo filo di voce. Avventure, avventure. Io ho
vissuto le avventure della poesia, che sono sempre avventure per la vita o per
la morte, ma poi sono tornata, sono tornata alle strade del Messico, e la
quotidianità mi è sembrata bella, perché chiedere di più. Perché ingannarmi
ancora. La quotidianità è una trasparenza immobile che dura solo pochi secondi.
Io tornai, la guardai, e mi lasciai coinvolgere. Io sono la madre, dissi, e
francamente non credo che i film del terrore siano la cosa più raccomandabile
per me. E allora la quotidianità si gonfiò come una bolla di sapone, ma di
quelle enormi, ed esplose.
Ero di nuovo nel bagno delle
donne al quarto piano della facoltà di Lettere e Filosofia ed era il settembre
del 1968 e io pensavo alle avventure e a Remedios Varo. Sono pochissimi quelli
che si ricordano di Remedios Varo. Io non l'ho conosciuta. Sinceramente mi
piacerebbe molto dire di averla conosciuta, ma la verità è che non l'ho
conosciuta. Ho conosciuto donne meravigliose, forti come montagne o come
correnti marine, ma Remedios Varo non l'ho conosciuta. Non perché mi
vergognassi di andare a trovarla a casa sua, non perché non apprezzassi la sua
opera (che apprezzo di tutto cuore), ma perché Remedios Varo morì nel 1963 e io
nel 1963 ero ancora nella mia lontana e carissima Montevideo.
Anche se certe notti, quando la
luna entra nel bagno delle donne e io sono ancora sveglia, penso che non è
così, che nel 1963 io ero nel DF e che don Pedro Garfias mi ascolta, assorto,
mentre gli chiedo l'indirizzo di Remedios Varo, che lui non frequenta ma
rispetta, poi si avvicina con movimenti incerti alla sua scrivania, tira fuori
un bigliettino, un'agenda da un cassetto, la penna da una tasca della giacca e
mi scrive cerimoniosamente e con eccellente calligrafia le indicazioni per
trovare la pittrice catalana.
E verso quell'indirizzo mi dirigo
volando, verso la casa di Remedios Varo, che si trova nella colonia Polanco, è
possibile? o nella colonia Anzures, può essere? o nella colonia Tlaxpana, è
possibile anche questo? La memoria gioca brutti scherzi quando la luna si
insinua come un ragno nel bagno delle donne, in ogni caso io vado, rapida, per
le strade del Messico che si succedono una dopo l'altra e a poco a poco, man
mano che mi avvicino a casa sua, cominciano a cambiare (e ogni cambio si
appoggia sul cambio precedente, come successione e allo stesso tempo come critica),
fino a giungere a una via dove tutte le case sembrano castelli distrutti, e
allora suono un campanello e aspetto qualche secondo durante il quale sento
soltanto i battiti del mio cuore (perché io sono così, un po' tonta, quando sto
per conoscere qualcuno che ammiro, il cuore mi si accelera), e poi ascolto dei
passi e qualcuno apre la porta e quel qualcuno è Remedios Varo. Ha
cinquantaquattro anni. Cioè, le resta un anno di vita. Mi invita a entrare. Non
ricevo molte visite, mi dice. Io avanzo e lei indietreggia. Entri, entri pure,
dice, e m'incammino per un corridoio debolmente illuminato fino a una sala di
grandi dimensioni, con due finestre che danno su un patio interno, velate da un
paio di pesanti tende color lilla. In sala c'è una poltrona e io mi siedo. Sul
tavolino riposano due tazze di caffè. In un portacenere osservo tre mozziconi.
La conclusione ovvia è che c'è una terza persona in casa. Remedios Varo mi
guarda negli occhi e sorride: sono sola, annuncia. Le dico quanto l'ammiro, le
parlo dei surrealisti francesi e dei surrealisti catalani, della guerra civile
spagnola, di Benjamin Péret non le parlo perché si separarono nel 1942 e non so
che ricordo conserverà di lui, però le parlo di Parigi e dell'esilio, del suo
arrivo in Messico e della sua amicizia con Leonora Carrington e allora mi rendo
conto che sto raccontando a Remedios Varo la sua vita, che mi sto comportando
come un'adolescente nervosa che recita la sua lezione davanti a un tribunale
inesistente. E allora divento rossa come un pomodoro e chiedo scusa, non so
cosa dico, potrei fumare? E cerco nella mia borsa un pacchetto di Delicados ma
non lo trovo, e allora chiedo: per caso avrebbe una sigaretta? e Remedios Varo
che sta in piedi dando le spalle a un quadro coperto con una vecchia gonna (ma
una vecchia gonna, mi dico, che doveva appartenere a un gigante), dice che lei
non fuma, che i suoi polmoni adesso sono fragili, anche se non ha la faccia di
una che ha dei brutti polmoni, non ha neppure la faccia di chi ha visto
qualcosa di male, l'ascensione del diavolo, l'interminabile corteo delle
formiche sull'Albero della Vita, la contesa tra la Cultura e l'Ombra o l'Impero
o il Regno dell'Ordine, visto che in tutti questi modi può essere chiamata la
macchia irrazionale che pretende di trasformarci in bestie o in robot e che
lotta contro la Cultura sin dalla notte dei tempi (congettura personale che
nessun uomo di cultura darebbe per buona), io lo so bene che lei ha visto cose
che pochissime donne sanno di aver visto e che adesso sta vedendo la propria
morte entro un lasso di tempo già stabilito e inferiore ai dodici mesi, e so
che in casa sua c'è qualcuno che fuma, lui sì, e che non vuole essere sorpreso
da me, cosa che mi fa pensare che, chiunque esso sia, deve essere qualcuno che
conosco. Allora sospiro e guardo la luna calante riflessa sulle mattonelle del
bagno delle donne del quarto piano e con un gesto che si sovrappone alla
stanchezza e alla paura tendo la mano e le chiedo che quadro è quello coperto
con una gonna da gigante. E Remedios Varo mi guarda sorridendo e poi si gira,
mi volta le spalle per un attimo e per un momento studia il quadro, ma senza
togliere o fare scorrere la gonna che lo preserva da sguardi indiscreti. È
l'ultimo, dice. O forse dice che è il penultimo. L'eco delle sue parole
rimbalza sulle mattonelle graffiate dalla luna e così è troppo facile
confondersi tra l'ultimo e il penultimo. Eh sì, tutti i quadri di Remedios
Varo, in quest'ora di insonnia militante, sfilano come lacrime versate dalla
luna o dai miei occhi azzurri. E così è difficile, sinceramente, far caso ai
dettagli o distinguere con chiarezza la parola ultimo dalla parola penultimo. E
allora Remedios Varo solleva la gonna da gigante e io posso finalmente vedere
una valle enorme, una valle vista dalla montagna più alta, una valle verde e
marrone, e la sola visione di quel paesaggio mi produce angoscia, perché io so,
così come so che c'è un'altra persona in casa, so che ciò che la pittrice mi
mostra è un preambolo, una scenografia nella quale si svilupperà una scena che
mi marchierà a fuoco, o no, a fuoco forse no, a questo punto ormai nulla potrà
marchiarmi a fuoco. Quello che intuisco alla perfezione è un uomo di ghiaccio,
un uomo fatto di cubetti di ghiaccio che si avvicinerà e mi darà un bacio sulla
bocca, la mia bocca sdentata, e io sentirò quelle labbra di ghiaccio sulle mie
labbra e vedrò quegli occhi di ghiaccio a pochi centimetri dai miei occhi, e
allora cadrò a terra svenuta, come Juana de Ibarbourou e sussurrerò: perché
proprio io? una civetteria che mi verrà perdonata, e l'uomo fatto di cubetti di
ghiaccio sbatterà le ciglia, le palpebre, e in quel batter di ciglia e di
palpebre io riuscirò a malapena a vedere un uragano di neve, come se qualcuno
aprisse la finestra e poi, pentito, la chiudesse in fretta e furia dicendo non
ancora, Auxilio, quel che devi vedere lo vedrai, ma non adesso. Io lo so che
quel paesaggio, quella valle immensa con una leggera aria di sfondo
rinascimentale, aspetta. Ma che cosa aspetta?
E allora Remedios Varo copre la
tela con la gonna e mi offre un caffè, ci mettiamo a parlare d'altro, della
vita quotidiana, per esempio, anche se nel mezzo del discorso s'infiltrano
parole decontestualizzate, come parusìa, ierofanìa, come psicofarmaci o
elettroshock. E poi parliamo di qualcuno che sta facendo o ha fatto poco tempo
fa uno sciopero della fame, e io ascolto me stessa dire: dopo una settimana
senza mangiare non hai più neanche fame, e Remedios Varo mi guarda e mi dice:
poverina.
Proprio in quel momento la
pesante tenda color lilla si agita e io salto in piedi e non mi riesce (e
nemmeno me lo permetto) di riflettere su quello che ha appena detto la pittrice
catalana. Mi avvicino alla finestra, scosto la tenda e scopro un gattino nero.
Tiro un sospiro di sollievo. Lo so che, alle mie spalle, Remedios Varo sta
sorridendo e allo stesso tempo si sta chiedendo chi diavolo sono io. La
finestra dà su un piccolo giardino interno dove sonnecchiano altri cinque o sei
gatti. Quanti gatti! Sono tutti suoi? Più o meno, dice Remedios Varo. La
guardo: il gattino nero è tra le sue braccia e Remedios Varo gli dice: bonic,
on eres?, bonic, feia hores que te buscava. Vuole ascoltare un po' di musica?
Lo sta dicendo a me o al gattino?
A me, suppongo, visto che al gattino parla in catalano, anche se a prima vista
chiunque si renderebbe conto che è un gatto messicano, un gatto messicano di
strada con una stirpe di almeno trecento anni, anche se adesso che la luna si
lascia trasportare, con passettini da gatta, da una mattonella all'altra nel
bagno delle donne, mi chiedo se in Messico prima che arrivassero gli spagnoli
c'erano i gatti, e rispondo a me stessa, spassionatamente, obiettivamente,
perfino con un pizzico di indifferenza, che no, non c'erano gatti, i gatti
arrivarono con la seconda o la terza ondata. E allora, con voce sonnambula,
perché sto pensando ai gatti sonnambuli del Messico, le dico di sì e Remedios
Varo si avvicina al giradischi, un giradischi vecchio, cosa che non ha nulla di
strano visto che siamo nell'anno 1962 e tutte le cose sono vecchie, tutte le
cose si portano una mano alla bocca come me per soffocare un grido di
meraviglia o una confidenza inopportuna! e mette un disco, e mi dice: è il
Concertino in la minore di Salvador Bacarisse, e io ascolto per la prima volta
quel musicista spagnolo e mi metto a piangere, di nuovo, mentre la luna salta
da una piastrella all'altra, al rallentatore, come se questo film lo dirigessi
io e non la natura.
Quanto tempo siamo rimasti ad
ascoltare Bacarisse? Non lo so. So soltanto che a un certo momento Remedios
Varo solleva il braccio del giradischi e dà per conclusa l'audizione. E poi io
mi avvicino a lei (perché non voglio andare via, devo riconoscerlo) e mi offro,
rossa in viso, per lavarle le tazze che abbiamo utilizzato, per spazzare il
pavimento, per toglierle la polvere dai mobili, per lucidare le pentole della
cucina, per farle la spesa, per rifarle il letto, per prepararle la vasca da
bagno, ma Remedios Varo sorride e mi dice: non mi serve più niente di tutto
questo, Auxilio, grazie lo stesso. Non ho più bisogno di niente. Non ho più
bisogno di nessun aiuto, dice Remedios Varo. Bugia! Come potrebbe non aver
bisogno di nulla? penso mentre mi accompagna alla porta.
Poi rivedo me stessa nel portone
di casa sua. Lei è dalla parte interna e con una mano stringe il pomo della
porta. Ci sono tante cose che vorrei chiederle. La prima, se posso tornare a
trovarla. Un sole come vino bianco si estende adesso per tutta la strada vuota.
Quello è il sole che illumina il suo volto e lo tinge di malinconia e di coraggio.
Bene. Va tutto bene. È ora di andarmene. Non so se darle la mano o darle un
bacio su ogni guancia. Noi latinoamericane, per quello che ne so, diamo un solo
bacio. Un bacio sulla guancia. Le spagnole ne danno due. Le francesi tre.
Quando ero ragazzina pensavo che i tre baci che davano le francesi volessero
dire: liberté, egalité, fraternité. Adesso so che non è così, ma mi piace
ancora pensarlo. E allora le do tre baci e lei mi guarda come se, a sua volta,
in qualche momento della sua vita, avesse creduto la stessa cosa. Un bacio
sulla guancia sinistra, uno sulla destra, un ultimo bacio sulla guancia
sinistra. Remedios Varo mi guarda e il suo sguardo dice: non preoccuparti,
Auxilio, tu non morirai, non impazzirai, tu stai tenendo alta la bandiera
dell'autonomia universitaria, tu stai salvando l'onore delle università della
nostra America, la cosa peggiore che può succederti è dimagrire in un modo
orribile, la cosa peggiore che può succederti è avere le visioni, la cosa
peggiore che può succederti è essere scoperta, ma non pensarci, resisti, leggi
il povero Pe-drito Garfias (avresti potuto portarti un altro libro al bagno,
ragazza mia) e lascia che la tua mente spazi liberamente attraverso il tempo,
dal 18 di settembre al 30 di settembre del 1968, neanche un giorno di più. È
tutto ciò che devi fare.
E allora Remedios Varo chiude la
porta e dallo sguardo successivo che manda a schiantarsi contro il mio sguardo,
capisco, senza alcun palliativo, che lei è già morta.
10.
Uscii dalla casa di Remedios Varo
peggio di una sonnambula, perché i sonnambuli riescono sempre a tornare a casa
mentre io sapevo che a casa di Remedios Varo non sarei tornata. Sapevo che mi
sarei risvegliata nell'intemperie, di notte o sul fare del giorno, che
differenza fa, nel bel mezzo di una città che avevo scelto per amore o per
rabbia. E i miei ricordi, che cercano in qualche modo di ordinarsi prima e dopo
quell'indifeso mese di settembre del 1968, mi dicono, balbettando,
tartagliando, che io avevo deciso di restare in attesa sotto quel sole colore
dell'acqua, in piedi a un angolo di strada, ad ascoltare tutti i rumori del
Messico, perfino quello delle ombre delle case che incalzavano come fiere
appena uscite dalla tana dell'imbalsamatore. Non so quanto tempo passò, se
molto o poco, perché i miei sensi a malapena galleggiavano nello spazio e non
nel tempo, prima di veder aprire la porta di casa di Remedios Varo e veder
uscire la donna che si era nascosta in camera da letto o nel bagno o magari
dietro una tenda durante la mia visita.
Una donna dalle gambe lunghe e
magre, ma senza alcun dubbio, come calcolai seguendola, di statura inferiore
alla mia. Quella donna era alta, soprattutto per i canoni messicani, ma io ero
più alta ancora.
Dalla mia posizione di
pedinatrice, potevo vederle soltanto la schiena e le gambe, una figura magra
come ho già detto, e una chioma di capelli castani e leggermente ondulati che
le cadeva poco sotto le spalle e che malgrado un'aria un po' trasandata (che
potrei anche confondere con sciatteria, ma non mi azzardo) non mancava di
grazia. La verità è che tutta la sua figura era circondata di grazia, imbevuta
di grazia, anche se mi sarebbe stato difficile pensare dove questa grazia
radicava visto che vestiva in modo normale, decoroso, vestiti che nessuno
avrebbe osato giudicare originali: una gonna nera e un gilè color crema
piuttosto logori, di quelli che trovi a pochi pesos sulle bancarelle del
mercato. Le scarpe, invece, erano coi tacchi, tacchi non molto alti, ma
stilizzati, scarpe che non corrispondevano a tutto il resto dell'immagine.
Sotto il braccio portava una cartellina piena di fogli. Contrariamente a ciò
che mi aspettavo, non si fermò alla fermata degli autobus ma continuò a
camminare in direzione del centro. Dopo un po' entrò in un caffè. Restai fuori
e la osservai attraverso le vetrate. La vidi dirigersi a un tavolo e mostrare
qualcosa che tirò fuori dalla cartella: un foglio, poi un altro. Erano disegni
o riproduzioni di disegni. L'uomo e la donna che erano seduti osservarono i
fogli e poi fecero un gesto di diniego con la testa. Lei sorrise e ripeté la
scena a un tavolo vicino. Il risultato fu lo stesso. Senza perdersi d'animo
andò a un altro tavolo e poi a un altro e un altro ancora fino a parlare con
tutte le persone del caffè. Riuscì a vendere un disegno. Soltanto poche monete,
il che mi fece pensare che a stabilire il prezzo della mercanzia fosse
soprattutto la volontà del compratore. Poi si avvicinò al bancone, dove scambiò
qualche parola con una cameriera. Lei parlò e la cameriera ascoltò.
Probabilmente si conoscevano. Quando la cameriera le diede le spalle e si mise
a preparare un caffè, lei approfittò per dirigersi verso gli uomini che si
trovavano al bancone e offrire loro i suoi disegni, ma questa volta parlò con
loro senza muoversi dal suo posto e uno, forse due uomini, si avvicinarono a
lei e gettarono uno sguardo distratto al suo tesoro. Doveva avere una
sessantina d'anni compiuti. E portati malissimo. Forse anche di più. E questo
accadde dieci anni dopo la morte di Remedios Varo, vale a dire nel 1973, non
nel 1963. Allora ebbi un brivido. E il brivido mi disse: ehi, Auxilio
(dall'accento mi sembrava un brivido uru-guagio, non messicano), la donna che
stai seguendo, la donna che è uscita surrettiziamente dalla casa di Remedios
Varo, è la vera madre della
poesia, non tu, la donna i cui passi stai seguendo è la madre e non tu, non tu,
non tu.
Credo che cominciò a farmi male
la testa e chiusi gli occhi. Credo che cominciarono a farmi male i denti che
già non avevo più e chiusi gli occhi. E quando li riaprii lei era al bancone,
definitivamente sola, seduta su uno sgabello, prendeva un caffè macchiato e
leggeva una rivista che probabilmente teneva riposta nella cartella, insieme
alle riproduzioni dei disegni del suo figlio adorato.
La donna che l'aveva servita, a
un paio di metri di distanza, aveva i gomiti appoggiati sul bancone, e lo
sguardo trasognato perso in un punto imprecisato al di là delle finestre,
aldisopra della mia testa. Alcuni tavoli si erano svuotati. In altri la gente
tornava a occuparsi dei fatti propri.
Capii allora che avevo seguito,
nel sonno o forse nella veglia, Lilian Serpas, e ricordai la sua storia o
meglio quel poco che sapevo della sua storia.
Per un periodo, suppongo nel
decennio degli anni Cinquanta, Lilian era stata una poetessa più o meno
conosciuta e una donna di straordinaria bellezza. Il cognome è di origine
incerta, sembrerebbe greco (a me sembra così), a orecchio può sembrare
ungherese, potrebbe essere un vecchio cognome castigliano. Ma Lilian era
messicana e aveva vissuto quasi tutta la vita nel DF. Si diceva che nella sua
prolungata gioventù avesse avuto molti fidanzati e pretendenti. Lilian però non
voleva fidanzati ma amanti, e anche di quelli ne aveva avuti abbastanza. Avrei
voluto dirle: Lilian, lascia perdere tutti quegli amanti, dagli uomini non ci
si può aspettare granché, ti useranno e poi ti lasceranno gettata in qualche
angolo di strada, ma io ero come una vergine pazza e Lilian viveva la sua
sessualità nel modo che più le piaceva, intensamente, abbandonandosi soltanto
al piacere del proprio corpo e al piacere dei sonetti che in quegli anni
scriveva. E, chiaramente, le andò male. O le andò bene. Chi sono io per dirlo?
Ebbe degli amanti. Io ne ho avuto a malapena qualcuno.
Un giorno, però, Lilian si
innamorò di un uomo ed ebbe un figlio da lui. Era un tale Coffeen, poteva
essere statunitense, poteva essere inglese o magari poteva essere messicano. Il
fatto è che ebbe un figlio da lui e il figlio si chiamò Carlos Coffeen Serpas.
Il pittore Carlos Coffeen Serpas.
Più tardi (quanto più tardi, lo
ignoro) il signor Coffeen sparì. Forse fu lui a lasciare Lilian. O forse fu
Lilian a lasciare lui. Forse, e questo sarebbe più romantico, Coffeen morì e
Lilian credette di dover morire anche lei, ma c'era di mezzo il bambino e
allora sopravvisse all'assenza. Un'assenza ben presto riempita da altri
signori, perché Lilian era ancora bella e le piaceva ancora infilarsi a letto
con gli uomini e ululare di piacere fino al sorgere del sole. Nel frattempo il
piccolo Coffeen Serpas cresceva e frequentava, già da piccolino, gli ambienti
di sua madre, dove tutti si meravigliavano della sua intelligenza e prevedevano
per lui un promettente futuro nel procelloso mondo dell'arte. Quali erano gli ambienti
che frequentava Lilian Serpas accompagnata da suo figlio? Quelli di sempre, i
bar e i caffè del centro del DF, dove si riunivano vecchi giornalisti falliti
ed esuli spagnoli. Gente simpaticissima ma non propriamente il tipo di persone
che raccomanderei come frequentazioni per un bambino sensibile. I lavori di
Lilian, in quegli anni, furono molteplici. Fece la segretaria, la commessa in
vari negozi di abbigliamento, lavorò un periodo in un paio di giornali e
perfino in una radio sfigata. In nessuno di questi posti restava a lungo,
perché lei, me lo disse non senza un filo di tristezza, era poetessa, la vita
notturna la chiamava, e allora non c'era proprio verso di lavorare
regolarmente.
Naturalmente io la capivo, io ero
d'accordo con lei, pur manifestando il mio accordo con una voce e con gesti che
acquistavano automaticamente, incoscientemente, un'aria di superiorità
nauseabonda, come se volessi dirle: Lilian, sono d'accordo con te, ma in fin
dei conti mi sembra una cosa da bambini, Lilian, non nego che sia un passatempo
simpatico e divertente, ma non contate su di me per questi esperimenti.
Come se io, per il solo fatto di
alternare l'infetta avenida Bucareli con l'università, fossi migliore di lei.
Come se io, per il fatto di conoscere e frequentare i giovani poeti e non solo
i vecchi giornalisti falliti, fossi migliore di lei. La verità è che non sono
affatto migliore. La verità è che i giovani poeti generalmente finiscono per
essere vecchi giornalisti falliti. E l'università, la mia cara università, sta
aspettando la sua opportunità proprio qui sotto, nelle cloache dell'avenida
Bucareli. Una notte, anche questo me lo raccontò lei, conobbe nel caffè Quito
un esule sudamericano col quale rimase a parlare fino alla chiusura. Poi
andarono a casa di Lilian e si infilarono a letto senza far rumore perché
Carlitos Coffeen non si
svegliasse. Il sudamericano era Ernesto Guevara. Non ci posso credere, Lilian,
le dissi. Sì, era proprio lui, mi disse Lilian con quel modo di parlare che
aveva quando io la conobbi, una voce flebile, di bambola rotta, una voce come
quella che avrebbe avuto il dottor Vidriera se fosse stato una dottoressa o
almeno una diplomata e fosse stata totalmente pazza e straordinariamente lucida
allo stesso tempo, nel bel mezzo dello sventurato Siglo de Oro. E com'era il
Che a letto? fu la prima cosa che volli sapere. Lilian disse una cosa che non
riuscii a capire. Come? dissi, come? come? Normale, disse Lilian, con lo
sguardo perso tra le pieghe della sua cartella. Può darsi che fosse una bugia.
Quando la conobbi io, Lilian sembrava interessata soltanto a vendere le
riproduzioni dei disegni del figlio. La poesia la lasciava indifferente.
Arrivava al caffè Quito che era già tardissimo, si sedeva al tavolo dei giovani
poeti o al tavolo dei vecchi giornalisti falliti (tutti suoi ex amanti) e si
dedicava ad ascoltare i discorsi di sempre. Se qualcuno le diceva, per esempio,
parlaci di Che Guevara, lei diceva: normale. Ed era tutto. Nel caffè Quito, del
resto, più d'uno dei vecchi giornalisti falliti aveva conosciuto il Che insieme
a Fidel, e lo aveva frequentato durante la sua permanenza in Messico, e a
nessuno sembrò strano il fatto che Lilian lo definisse normale, anche se loro
probabilmente non sapevano che Lilian il Che se l'era portato a letto.
Credevano che Lilian si fosse portata a letto soltanto loro e qualche pesce
grosso che non frequentava l'avenida Bucareli a notte fonda, ma questo, nel
caso specifico, non cambiava le cose. Sì, lo riconosco, mi sarebbe piaciuto
sapere come scopava Che Guevara. Normale. Chiaro. Ma come?
Questi ragazzi, dissi una sera a
Lilian, hanno diritto a sapere come scopava il Che. Era un'idea balzana, senza
capo né coda, ma gliela spiattellai lo stesso.
Ricordo che Lilian mi guardò con
la sua maschera da bambola raggrinzita, martirizzata, dalla quale a ogni
secondo sembrava stesse per venir fuori la regina dei mari con la sua corte di
tuoni, e sulla quale invece non succedeva mai niente. Questi ragazzi, benedetti
ragazzi, disse, e poi guardò il soffitto del caffè Quito che in quel momento
due adolescenti arrampicati su un'impalcatura portatile stavano dipingendo.
Così era Lilian, così era la donna che mi misi a seguire dal sogno di Remedios
Varo, la grande pittrice catalana, fino al sogno delle strade terminali del DF
dove succedevano sempre cose che sembravano sussurrare, gridare o sputarti in
faccia che lì non succedeva mai niente. E così mi vidi di nuovo nel caffè Quito
nel 1973 o forse nei primi mesi del 1974 e vidi arrivare Lilian attraverso il
fumo e le luci traccianti del caffè alle undici di sera, e lei arriva, come
sempre, avvolta dal fumo, mentre il suo fumo e il fumo del caffè si contemplano
come ragnatele prima di fondersi in un solo fumo nel quale primeggia il profumo
di caffè perché all'interno del Quito c'è una torrefazione di caffè ed è tra
l'altro uno dei pochi posti dell'avenida Bucareli dove hanno una macchina
italiana per preparare l'espresso.
E allora i miei amici, i poeti
giovani del Messico, senza alzarsi dalla sedia la salutano, dicono buonasera,
Lilian Serpas, cosa c'è, Lilian Serpas, perfino i più suonati le dicono
buonasera, Lilian Serpas, come se mediante l'atto di salutarla una divinità
scendesse dalle alture del caffè Quito (dove due giovani operai intrepidi si
affannano in un equilibrio che non posso non considerare precario) e sul loro
petto venisse appuntata la medaglia al valore della poesia, mentre in realtà
quel che succede (questo però lo penso ma non lo dico) è che salutandola così,
in quel modo, l'unica cosa che stanno facendo è appoggiare le loro giovani e
stolte testoline sul patibolo. E Lilian si ferma, come se avesse sentito male,
e cerca il tavolo dove stanno quelli lì (e dove ci sono anch'io) e quando ci
vede si avvicina per salutare e di passaggio cerca di vendere qualcuna delle
sue riproduzioni mentre io guardo da un'altra parte. Perché mai guardo da
un'altra parte? Perché conosco la sua storia.
Così guardo da un'altra parte
mentre Lilian, seduta o in piedi, saluta tutti, generalmente più di cinque
poeti giovani mischiati alla rinfusa intorno a un tavolo, e quando mi saluta io
smetto di guardare per terra e giro la testa con una lentezza esasperante (ma
non posso farlo più in fretta) e le ricambio anch'io, obbediente, la buonasera.
E così passa il tempo (Lilian non cerca di venderci nessun disegno perché sa bene
che non abbiamo né soldi né voglia di comprare, però consente a chi vuole di
dare uno sguardo alle riproduzioni, che non sono fatte così come viene, ma in
una tipografia, su carta satinata, il che dice almeno qualcosa sulla singolare
predisposizione mercantile di Carlos Coffeen Serpas o di sua madre, eremiti o
mendicanti, ma che in un momento di ispirazione che preferisco non immaginare
decidono di vivere esclusivamente della loro arte) e poco a poco la gente
comincia a sfollare o a cambiare tavolo, perché nel Quito, a una certa ora
della notte, chi più chi meno, tutti si conoscono e tutti hanno voglia di
scambiare almeno qualche parola con i propri conoscenti. E così, naufraga nel
mezzo di una rotazione incessante, in un determinato momento mi ritrovo da sola
a guardare la mia tazza di caffè piena a metà e l'attimo seguente (ma quasi
senza transizione) un'ombra schiva, talmente schiva che sembra concitare su di
sé tutte le ombre del caffè, come se il suo campo gravitazionale attraesse solo
gli oggetti inerti, si muove verso il mio tavolo e si siede vicino a me. Come
stai, Auxilio? dice il fantasma di Lilian Serpas. Sono qui, le rispondo.
Ed è allora che il tempo si ferma
di nuovo, un'immagine così abusata che più abusata non si può perché il tempo o
non si ferma mai oppure è fermo da sempre, diciamo allora che il continuum del
tempo rabbrividisce, o diciamo che il tempo apre le gambe e si china e mette la
testa tra le gambe e mi guarda alla rovescia, solo pochi centimetri più giù del
culo e mi strizza un occhio, o diciamo che la luna piena o crescente o la
oscura luna calante del DF torna a scivolare sulle mattonelle del bagno delle
donne al quarto piano della facoltà di Lettere e Filosofia, o diciamo che si
alza un silenzio da veglia funebre nel caffè Quito e che sento soltanto il
mormorio dei fantasmi della corte di Lilian Serpas e che non so, ancora una
volta, se mi trovo nel '68 o nel '74 o nell'80 o se una volta per tutte mi sto
avvicinando come l'ombra di una barca naufragata al lietissimo anno 2000 che
non vedrò. Comunque sia, al tempo succede qualcosa di strano. Io so che al
tempo sta succedendo qualcosa e non voglio parlare dello spazio. Ho il
presentimento che qualcosa stia accadendo e che tra l'altro non è la prima che
accade, anche se trattandosi del tempo tutto accade per la prima volta e qui
non c'è esperienza che valga, e in fondo è meglio così, perché l'esperienza in
genere è una truffa.
E allora Lilian (che è l'unica
indenne in questa storia, perché lei ha già patito tutto) mi chiede, ancora una
volta, il primo e ultimo favore che mi chiederà in tutta la sua vita.
Dice: è tardi. Dice: come stai
bene, Auxilio. Dice: a volte ti penso, Auxilio. E io la osservo e osservo il
soffitto del caffè Quito dove i due giovani sonnolenti continuano a lavorare o
a far finta di lavorare issati su un'impalcatura costruita in modo pessimo e
poi di nuovo guardo lei, che parla senza guardarmi in faccia ma guardando il
suo bicchiere grande e grosso di caffelatte, mentre ascolto con un orecchio le
sue parole e con l'altro le urla che i clienti abituali del caffè Quito
indirizzano ai giovani dell'impalcatura, frasi che costituiscono un rituale di
iniziazione maschile, intuisco, o frasi che hanno la pretesa di essere
affettuose ma che sono soltanto premonitrici di un disastro che porterà con sé
non solo la coppia di decoratori (o idraulici o elettricisti, non lo so, io li
ho semplicemente visti, e li vedo ancora mentre la luna attraversa impazzita
ognuna delle mattonelle del bagno delle donne come se il tempo di quell'intervallo
di tempo contenesse tutta la sovversione possibile, e questo mi atterrisce) ma
anche loro, i vociferanti, quelli che danno consigli, noi.
E allora Lilian dice: devi andare
a casa mia. Dice: io stanotte non posso tornare a casa. Dice: devi andare tu da
parte mia e dire a Carlos che tornerò domattina presto. E la prima cosa che mi
viene in mente è rifiutarmi decisamente. Ma allora Lilian mi guarda in faccia e
mi sorride (lei non si copre la bocca come me, quando parla, anche se dovrebbe
farlo) e io resto senza parole, perché sono davanti alla madre della poesia
messicana, la peggior madre che la poesia messicana potesse avere, ma in fin
dei conti l'unica, l'autentica. Allora dico di sì, che andrò a casa sua se mi
dà l'indirizzo e se non è troppo lontano e che dirò a Carlos Coffeen Serpas, il
pittore, che sua madre quella notte la passerà fuori.