L’INVERNO STA ARRIVANDO
Garry Kasparov con Mig Greengard
Perché Vladimir Putin e i nemici del mondo libero devono essere fermati
Recensione
Scritto nel 2015 ma totalmente attuale . Utile per farsi un'idea della terribile situazione che stiamo vivendo.
"Putin è un problema Russo e sta ai russi risolverlo, ma diventerà presto un problema europeo e subito dopo un problema mondiale se le sue ambizioni continueranno a essere ignorate." G.K.
L'ascesa di Vladimir Putin, un ex colonnello del KGB, alla presidenza della Russia nel 1999, da molti è stata letta come un primo segno di allontanamento del paese dalla democrazia. In questi lunghi anni, nonostante il mondo abbia tentato di trovare un canale di comunicazione pacifico con il nuovo Presidente, Putin ha trasformato sempre più la sua minaccia globale. Con il suo ampio arsenale nucleare, Putin è al centro di un assalto alla libertà politica. Per Garry Kasparov, niente di tutto questo è una novità. Per più di 10 anni ha criticato aspramente la politica di Putin, fino a guidare una lista pro-democrazia nelle farsesche elezioni presidenziali del 2008.
Dopo aver trascorso anni a inviare le sue fosche profezie sulle reali intenzioni di Putin, come una moderna Cassandra, Kasparov ha visto realizzarsi le sue più nere aspettative: la Russia di Putin si definisce, come fanno l'Isis e Al Qaeda, a partire dalla contrapposizione con gli stati liberi del mondo. È come se stesse ancora combattendo una sua personale Guerra Fredda, dimenticando o smentendo le lezioni apprese da quella passata.
Per evitare di essere trascinati in un altro prolungato e drammatico conflitto, Kasparov incita a una presa di posizione ferma - diplomatica, politica ed economica - contro la Russia. Se le più importanti democrazie del mondo continueranno a riconoscere e negoziare con Putin, lui manterrà la sua credibilità e consenso nel Paese. Il Presidente affronta pochi nemici interni, ormai allo stremo, quindi un'opposizione efficace deve provenire dall'estero.
Argomentato con forza e supportato dalla classe e dall'intelligenza di Kasparov, nonché dal grande amore per il suo Paese, "L'Inverno sta arrivando" è un'inequivocabile chiamata all'azione contro una minaccia che è stata ignorata troppo a lungo.
Garry Kasparov è stato il più giovane campione di scacchi di sempre ed è rimasto per vent'anni ai vertici di questo gioco. Si è ritirato nel 2005 per guidare la lista democratica che si è opposta a Vladimir Putin nelle elezioni presidenziali del 2008. Nel 2012 è stato nominato Presidente di Human Rights Foundation, sostituendo Václav Havel dopo la sua morte. È un editorialista del Wall Street Journal dal 1991 e il suo libro, How Life Imitates Chess (2007), è stato pubblicato in 23 lingue. Vive a New York, in esilio autoimposto con sua moglie Dasha.
L'ascesa di Vladimir Putin, un ex colonnello del KGB, alla presidenza della Russia nel 1999, da molti è stata letta come un primo segno di allontanamento del paese dalla democrazia. In questi lunghi anni, nonostante il mondo abbia tentato di trovare un canale di comunicazione pacifico con il nuovo Presidente, Putin ha trasformato sempre più la sua minaccia globale. Con il suo ampio arsenale nucleare, Putin è al centro di un assalto alla libertà politica. Per Garry Kasparov, niente di tutto questo è una novità. Per più di 10 anni ha criticato aspramente la politica di Putin, fino a guidare una lista pro-democrazia nelle farsesche elezioni presidenziali del 2008.
Dopo aver trascorso anni a inviare le sue fosche profezie sulle reali intenzioni di Putin, come una moderna Cassandra, Kasparov ha visto realizzarsi le sue più nere aspettative: la Russia di Putin si definisce, come fanno l'Isis e Al Qaeda, a partire dalla contrapposizione con gli stati liberi del mondo. È come se stesse ancora combattendo una sua personale Guerra Fredda, dimenticando o smentendo le lezioni apprese da quella passata.
Per evitare di essere trascinati in un altro prolungato e drammatico conflitto, Kasparov incita a una presa di posizione ferma - diplomatica, politica ed economica - contro la Russia. Se le più importanti democrazie del mondo continueranno a riconoscere e negoziare con Putin, lui manterrà la sua credibilità e consenso nel Paese. Il Presidente affronta pochi nemici interni, ormai allo stremo, quindi un'opposizione efficace deve provenire dall'estero.
Argomentato con forza e supportato dalla classe e dall'intelligenza di Kasparov, nonché dal grande amore per il suo Paese, "L'Inverno sta arrivando" è un'inequivocabile chiamata all'azione contro una minaccia che è stata ignorata troppo a lungo.
Garry Kasparov è stato il più giovane campione di scacchi di sempre ed è rimasto per vent'anni ai vertici di questo gioco. Si è ritirato nel 2005 per guidare la lista democratica che si è opposta a Vladimir Putin nelle elezioni presidenziali del 2008. Nel 2012 è stato nominato Presidente di Human Rights Foundation, sostituendo Václav Havel dopo la sua morte. È un editorialista del Wall Street Journal dal 1991 e il suo libro, How Life Imitates Chess (2007), è stato pubblicato in 23 lingue. Vive a New York, in esilio autoimposto con sua moglie Dasha.
‘Winter Is Coming,’ by Garry Kasparov
By Serge Schmemann
(Serge Schmemann, a member of The Times’s editorial board, was for many years the paper’s bureau chief in Moscow.)
• Nov. 2, 2015
Russians in positions of power tend to measure their country’s standing in the world against the United States, longing to be recognized as equally important and powerful and getting very angry when they’re not so treated. President Vladimir Putin has made victimhood at America’s hands a leitmotif of his reign, and many Russians have bought into his claim that Washington tirelessly seeks ways to weaken, impoverish and otherwise humiliate their country. Many critics of Putin, in Russia and in the West, similarly hold that Washington’s treatment of Russia after the collapse of the Soviet Union was disdainful and thus undermined embryonic moves toward democracy, contributing to the rise of Putinism.
Garry Kasparov, the great Russian chess grandmaster who has become a fierce Putin opponent, offers a mirror image of this theme. In his view, espoused in many articles and now in “Winter Is Coming,” the West — more specifically, the United States, and even more specifically the Democratic Party under President Obama — is guilty of chronic appeasement and weakness in letting bad guys like Putin stay in power.
I should say up front that I cannot agree that the United States somehow deliberately sought to humiliate Russia in those chaotic days in the 1990s when Communist rule collapsed, or somehow failed to support the first tentative democratic reforms. To argue that the United States had the prescience and power to understand and direct events in Russia overlooks the enormous complexity in the disintegration of a vast, nuclear-armed, totalitarian empire. From the time Mikhail Gorbachev first loosened Soviet control until the Soviet Union was dissolved in December 1991, events moved in ways nobody in the East or West could predict or fully grasp, and it is to Russia’s and America’s credit that so little blood was shed in that momentous transition.
Kasparov sees things differently. To him, what hope there was for Russia after the Berlin Wall came down soon turned into a steady march toward authoritarian rule under a former K.G.B. agent, aided and abetted by a feckless West. Half the book is about the evolution of Putin from Boris Yeltsin’s handpicked successor to the capo di tutti capi of a mafia state. There is not much new here, and most readers will not need to be convinced that Putin is a bad guy.
The other and more important theme of the book is the reputed absence of a moral component in Western foreign affairs, which has “encouraged autocrats like Putin and terrorist groups like ISIS to flourish around the world.” Kasparov’s message is aimed at an American audience. Written in English (with the chess writer Mig Greengard), and with a title borrowed from “Game of Thrones,” “Winter Is Coming” is meant as a warning of impending doom should the West persist with the “moral capitulation” that Kasparov repeatedly decries.
There’s no pretense of nonpartisanship here, no subtlety. A fiery man known for his dynamic play in chess and for his self-assurance, Kasparov fully credits Ronald Reagan for the end of the Cold War and the fall of the “evil empire” — “Lesser problems were left to lesser men” — and he has no doubt that “the world would be a safer, more democratic place today had John McCain been elected” president, or at least Mitt Romney, who called Russia “without question our No. 1 geopolitical foe.” Barack Obama, by contrast, is relentlessly and repeatedly skewered: The president is “reluctant to confront the enemies of democracy to defend the values he touts so convincingly”; he is “busy retreating on every front”; and even when he does seem to be standing up to Putin, the most Kasparov can allow is, “I suppose that doing the right thing for the wrong reason is better than never doing it at all.”
The politicking becomes somewhat tedious, as do the “I told you so” moments scattered through the book: “It is cold comfort to be told, ‘You were right!’ ” Kasparov laments in his introduction. But much as one may disagree with Kasparov’s analyses, the main problem here is not so much with his accusations of Western or American perfidy. He has his right to his opinions, and even to the aggressive tone in which they are served up. That’s who he is.
I covered Kasparov’s ascent to the world chess championship against the grandmaster openly preferred by the Kremlin, Anatoly Karpov, in matches that became a memorable ideological contest between the audacious upstart and the dull company man. In 2005, Kasparov retired from professional chess and dedicated himself “to push back against the rising tide of repression coming from the Kremlin,” and he was admirably active in the anti-Putin marches until a relentless crackdown curtailed open opposition. Kasparov now lives in self-imposed exile — temporary, he insists — in New York.
The real problem with “Winter Is Coming” is with its presumption that the United States is somehow responsible for what Russia has become, or for what it should become. Certainly Washington has an obligation to challenge Moscow and Putin when international norms or human rights are violated. Indeed, Obama and America’s democratic allies have done just that with the progressively tougher sanctions they have ordered against Russia. But even Reagan, the president Kasparov so adulates, never sought regime change in the “evil empire,” instead looking for areas of cooperation with Gorbachev. And ultimately it was Gorbachev, more than any American or other Western leader, who played the greatest role in bringing down the Soviet system.
Yet Kasparov, born and raised in the Soviet Union and intimately aware that Communism was overthrown first and foremost by Russians themselves, acknowledges their responsibility for Putin’s rule only in one throwaway line — “In the end, Putin is a Russian problem, of course, and Russians must deal with how to remove him.’’ The next sentence is: “He and his repressive regime, however, are supported directly and indirectly by the free world.”
What the free world should be doing, he argues, includes adopting a “global Magna Carta” uniting all democracies in the fight against dictators, arming Ukraine, developing substitutes for the energy Europe imports from Russia and heeding Kasparov. Over the years, he laments, he has provided long lists of ways to counter Putin, but “even now, after he has proven my worst fears correct and everyone is telling me how right I was, few of those recommendations have been enacted.”
This is not the place to argue the merits or feasibility of arming Ukraine or cutting Russian gas imports. Nor is there a need to defend President Obama against Kasparov’s crude and baseless insults. The question to be posed is whether even the most aggressive Western stance toward Putin would make him less dictatorial or Russia more free. That change must come from within, and I would have much preferred to hear Kasparov’s take on what must change in Russia and how the Russians might do it. There are plenty of other people to trash Barack Obama.
L'INVERNO STA ARRIVANDO
Introduzione
Il 19 agosto 1991 andava in scena, in diretta sulla Cnn, il tentato colpo di Stato contro il presidente sovietico Michail Gorbaciov. Alleatisi con il Kgb, alcuni falchi del regime comunista ormai in disfacimento avevano fatto sequestrare Gorbaciov nella sua dacia in Crimea e dichiarato lo stato di emergenza. La stampa internazionale ospitava i commenti di decine di esperti e di esponenti politici, preoccupati che il golpe segnasse d’un colpo la fine della Perestroika o addirittura l’inizio di una guerra civile, mentre intanto i carri armati sfilavano nel centro di Mosca. Quella sera fui ospite del programma di Larry King, insieme all’ex ambasciatore Usa presso le Nazioni Unite Jeane Kirkpatrick, a un professore della California e a un ex agente del Kgb. Fui l’unico tra gli invitati a dichiarare che il colpo di Stato era condannato al fallimento e che tutto sarebbe finito nel giro di quarantotto ore, e non nell’arco di qualche mese, come sostenevano Kirkpatrick e altri. Poiché i capi di quel golpe non godevano del sostegno popolare – spiegai–, il tentativo di bloccare le riforme che, a parer loro, avrebbero portato al crollo dell’Urss aveva le ore contate. Inoltre, la burocrazia al potere era segnata da profonde spaccature, e in quella cerchia molti erano convinti che si sarebbero dischiuse maggiori opportunità con la caduta del regime sovietico. I fatti mi diedero ragione: il presidente russo Boris Eltsin salì a bordo di un carro armato, la gente di Mosca scese in strada per difendere la libertà e la democrazia e il gruppo di cospiratori realizzò infine di avere il popolo contro. Si arresero due giorni dopo. Non solo il golpe fallì ma anzi accelerò il crollo dell’Urss, poiché mise il popolo sovietico dinanzi a una scelta: la dissoluzione e l’indipendenza facevano paura, naturalmente, ma quel futuro non poteva essere certo peggiore del presente totalitario. Come pedine di un domino, una dopo l’altra le repubbliche sovietiche dichiararono l’indipendenza nei mesi successivi. A Mosca, intanto, due giorni dopo il fallito golpe, una folla esultante abbatteva la statua dello spietato fondatore della polizia segreta sovietica Felix Dzeržinskij – detto Felix di Ferro –, che sorgeva dinnanzi al quartier generale del Kgb. Quasi mi commuovo a rileggere oggi le dichiarazioni rilasciate ai giornali da quelle persone. “Comincia da qui il nostro cammino di purificazione”, diceva un leader del sindacato dei minatori. E un sacerdote ortodosso: “Distruggeremo la gigantesca, terribile macchina totalitaria del Kgb”. La folla gridava “Abbasso il Kgb!” o “Svo-bo-da!”, che in russo significa Libertà. I poliziotti si sfilavano il cappello e si univano alla marcia, mentre sul piedistallo dell’odiata statua venivano scarabocchiate frasi del tipo: “A processo i macellai del Kgb!”. Era riportata la frase di un medico secondo cui quella protesta era diversa dalle altre: “È come se fossimo nati una seconda volta”, diceva. A pensarci adesso, quindi, è sconvolgente che otto anni dopo, il 31 dicembre 1999, un ex tenente colonnello del Kgb potesse diventare presidente della Russia. Le riforme democratiche che erano state avviate pochi anni prima furono frenate e ridimensionate. Il governo impose misure restrittive ai mezzi d’informazione e a tutta la società civile. La politica estera si fece prepotente e aggressiva. Non c’era stato alcun cammino di purificazione, nessun processo per i macellai, nessuna distruzione della macchina del Kgb. La statua di Felix di Ferro era stata abbattuta, ma non la repressione totalitarista che essa simboleggiava. Anzi era stata quest’ultima a nascere una seconda volta, nella persona di Vladimir Putin. Con un balzo in avanti arriviamo a oggi: Putin è ancora al Cremlino. Le forze armate russe hanno attaccato l’Ucraina e annesso la Crimea, sei anni dopo l’invasione di un altro paese vicino, la Repubblica di Georgia. Pochi giorni dopo i Giochi olimpici invernali di Sochi, nel febbraio del 2014, Putin dapprima ha fomentato una guerra nell’Ucraina orientale, poi ha annesso con la forza un territorio straniero sovrano; un fatto che non si verificava dai tempi di Saddam Hussein nel Kuwait. Quegli stessi leader mondiali che fino a un anno prima si facevano fotografare sorridenti insieme a Putin si sono infine decisi ad adottare sanzioni contro la Russia e la sua classe dirigente. La Russia minaccia di chiudere le pipeline che riforniscono l’Europa di un terzo del petrolio e del gas. Questo Stato-mafia – con Putin nel ruolo di capo di tutti i capi [in italiano nel testo] – non è più un’agnostica cleptocrazia ma fa ricorso a una propaganda e a una strategia spudoratamente fasciste. E, nel frattempo, viene anche rievocato lo spauracchio messo da parte per anni: la bomba atomica. La crisi attuale stimola due riflessioni. La prima si interroga su come mai in così poco tempo la Russia sia passata dai festeggiamenti per la fine del comunismo all’elezione di un ufficiale del Kgb e poi all’invasione dei paesi vicini. La seconda spiega in che modo il mondo libero abbia contribuito a questa deriva, con la sua apatia, la sua ignoranza e una buona fede malriposta. È fondamentale capire cosa è andato storto, anche perché l’Europa e l’America si ostinano a sbagliare strategia, nonostante Putin costituisca oggi più che mai un pericolo tangibile. Le democrazie di tutto il mondo devono unirsi e ristudiare la lezione di come fu vinta la Guerra Fredda, prima di ritrovarsi invischiate in una nuova. La Russia di Putin è la minaccia più grave con cui il mondo debba confrontarsi, ma non è l’unica. Gruppi terroristici come Al Qaeda e lo Stato Islamico, o Isis, sono (a dispetto del nome di quest’ultimo) privi di uno Stato, così come delle risorse e delle armi di distruzione di massa su cui può invece contare Putin. Tuttavia, gli attacchi dell’11 settembre e altri eventi simili ci hanno insegnato che non serve una bandiera nazionale e nemmeno un esercito per infliggere un danno consistente al paese più potente del mondo. A questo si aggiunga che gli Stati che finanziano il terrorismo ne traggono maggiori vantaggi proprio perché i paesi democratici bersaglio di quegli attacchi non riescono a predisporre una difesa aggressiva. Cosicché gli spietati regimi di Iran, Corea del Nord e Siria possono permettersi di temporeggiare al tavolo negoziale con le grandi potenze mondiali, senza da parte loro fare concessioni sostanziali. Le problematiche collegate al mondo multipolare nato dopo la Guerra Fredda non sono certo una novità. Tuttavia, manca ancora una strategia coerente per tentare di risolverle. Con la fine della Guerra Fredda, i vincitori si ritrovano senza una visione del futuro e senza un nemico comune contro cui coalizzarsi. I nemici del mondo libero non hanno invece queste perplessità: continuano a definire se stessi in funzione dell’ostilità ai principi e alle politiche della liberal-democrazia e dei diritti umani, la cui massima espressione, simbolica e materiale, sono ai loro occhi gli Stati Uniti. Ciononostante, ci si ostina in una politica di compromesso e di negoziato con quei nemici, addirittura rifornendoli di armi e di ricchezze che poi usano per attaccare noi. Per citare la definizione di distensione data da Winston Churchill, nutriamo i coccodrilli nella speranza che ci divorino per ultimi. Qualsiasi gelo nei rapporti tra Washington e Mosca, o Pechino, viene immediatamente stigmatizzato da entrambi i fronti come un possibile “ritorno alla Guerra Fredda”. Ricorrere a questo cliché è paradossale, dal momento che la strategia con cui fu combattuta e vinta la Guerra Fredda non è stata affatto emulata, anzi è stata del tutto dimenticata. Invece di affidarsi ai principi di bene e male, di giusto e sbagliato, e al valore universale dei diritti umani e della vita umana, si sceglie il compromesso, si sceglie di premere il tasto reset, si sceglie l’equivalenza morale. Insomma, espressioni diverse per definire l’identica strategia della distensione. Al mondo occorre invece una nuova alleanza fondata su una Magna Carta mondiale: una dichiarazione dei diritti fondamentali che venga riconosciuta da tutti gli aderenti. Le nazioni che hanno a cuore la libertà individuale controllano oggi la maggior parte delle risorse mondiali e della potenza militare. Se si uniranno e cesseranno di assecondare i regimi criminali e i finanziatori del terrorismo, la loro integrità e il loro potere d’influenza saranno invincibili. L’obiettivo, tuttavia, non deve essere di costruire dei nuovi muri e isolare così i milioni di persone che vivono nei regimi autoritari, bensì di dar loro la speranza e la prospettiva di un futuro migliore. Chi di noi ha vissuto dietro la Cortina di ferro sapeva che nel mondo libero c’erano persone che si preoccupavano e lottavano per noi, non contro di noi. E saperlo era importante. Oggi i cosiddetti leader del mondo libero parlano di promuovere la democrazia, ma intanto trattano da eguali i leader dei regimi più repressivi del mondo. La strategia del compromesso con i dittatori ha fallito su tutti i fronti, ed è ormai tempo di riconoscere questo fallimento. Come disse Ronald Reagan nel celebre discorso del 1964, “Tempo di scegliere”, non si tratta di scegliere tra la pace e la guerra ma tra la lotta e la resa. Dobbiamo scegliere. Non dobbiamo arrenderci. Si deve lottare con tutte le risorse a disposizione del mondo libero, a cominciare dai valori etici e dagli incentivi economici, ricorrendo all’azione militare come ultima ratio. Deve essere l’America a mettersi alla testa di questa lotta, con le sue straordinarie risorse e la sua capacità di mobilitare i riottosi e discordi alleati. Tuttavia, ormai parlare di valori americani, o anche di valori occidentali è obsoleto: anche il Giappone e la Corea del Sud devono agire, così come l’Australia, il Brasile, l’India, il Sudafrica e gli altri paesi che hanno a cuore la democrazia e la libertà, e tutto da guadagnare dalla stabilità globale. Sappiamo che si può fare perché è già stato fatto in passato. Dobbiamo soltanto trovare il coraggio di rifarlo ancora. Cinque anni dopo che Putin salì al potere e cominciò a ricostituire lo Stato di polizia da lui tanto venerato, anch’io vissi una specie di rinascita. Nel 2005 mi ritirai dal mondo degli scacchi, dopo esserci stato ai massimi livelli per vent’anni, per unirmi al nascente movimento filo-democratico russo. Ero diventato campione mondiale di scacchi a ventidue anni, nel 1985, e sentivo di aver ormai ottenuto tutto dalla scacchiera. Ho sempre voluto dare il mio contributo al mondo, ma per me il tempo degli scacchi si era ormai esaurito. Volevo che i miei figli crescessero in una Russia libera. Mi ritornò allora in mente un quadro che mia madre aveva appeso al muro della mia stanza, con su scritto uno slogan dei dissidenti sovietici: “Se non tu, chi altri?”. Speravo quindi di usare la mia energia e la mia fama per contrastare l’ondata di repressione che andava levandosi dal Cremlino. Come molti russi anch’io ero preoccupato per i trascorsi di Putin nel Kgb, ancora poco noti, e per la sua improvvisa scalata al potere grazie alla gestione del sanguinoso conflitto del 1999 per pacificare la Cecenia. Tuttavia, come i miei connazionali, all’inizio ero disposto a dare una possibilità a Putin, sia pur con delle riserve. Eltsin aveva sciupato le sue credenziali democratiche con la rielezione del 1996, quando usò i poteri presidenziali per influenzare il risultato elettorale. Devo confessare che all’epoca anche io credevo che sacrificare parte del processo democratico fosse un male minore se ciò fosse servito a impedire agli odiati comunisti di riconquistare il potere. Simili compromessi sono sempre sbagliati, e anche questo caso non faceva eccezione perché aiutò un individuo ancor più spietato a sfruttare a suo vantaggio l’indebolimento del sistema. Il default del 1998 aveva fortemente destabilizzato l’economia russa, per quanto già nel 2000 la crescita del Pil fosse in ripresa. La criminalità, l’inflazione e la sensazione di debolezza e di incertezza che regnavano in quegli anni fecero apparire il tecnocrate Putin, dal linguaggio franco e diretto, una scelta accattivante. La percezione diffusa era che il paese sarebbe precipitato nel caos se qualcuno non ne avesse preso le redini con mano salda. L’insicurezza a livello personale e sociale sono da sempre una leva potente nelle democrazie fragili e spesso i dittatori conquistano il potere con il consenso del popolo. Sono innumerevoli nella storia gli esempi di autocrati e giunte militari legittimati dal popolo e dalla sua richiesta di ordine e di una “mano dura” [in italiano nel testo] che freni gli eccessi di un governo debole. Ci si dimentica sempre che è molto più facile insediare un dittatore che destituirlo. Naturalmente non mi aspettavo che sarebbe stata un’impresa semplice muovermi in quella che, troppo generosamente, si può chiamare la “politica” russa. L’opposizione non aspirava a vincere le elezioni: combattevamo solo per poterne avere di autentiche. Ecco perché ho sempre preferito definirmi un attivista e non un politico, anche quando vinsi le primarie per le presidenziali del 2008. Sapevamo che non avrebbero mai fatto comparire il mio nome su una scheda elettorale, ma ciò che contava era smascherare questo fatto e provare a irrobustire i muscoli atrofizzati del processo democratico russo. Il mio intento iniziale era di unificare tutte le forze anti-Putin presenti nel paese, anche quelle che normalmente non sarebbero mai state fianco a fianco. Il campo dei riformisti liberali al quale io appartenevo, ad esempio, non aveva nulla in comune con il Partito nazional-bolscevico, a parte la marginalizzazione e la persecuzione subita da Putin, e il fatto di sentirsi oltraggiati dai suoi piani per restare al potere per sempre. Eppure la nostra fragile coalizione marciò per le strade di Mosca e di San Pietroburgo: le prime vere manifestazioni di protesta da quando Putin si era insediato. Volevamo dimostrare al popolo russo che la resistenza era possibile e far capire che rinunciare alla libertà in nome della stabilità è una falsa scelta. Purtroppo Putin, come tutti gli autocrati moderni, disponeva, e dispone ancora oggi, di un’arma che la leadership sovietica non si sarebbe neanche sognata: un profondo legame compromissorio, economico e politico, con il mondo libero. Decenni di scambi commerciali avevano generato una ricchezza mostruosa, che le dittature come quelle russa e cinese usano per edificare sofisticate infrastrutture autoritarie all’interno del paese e per esercitare pressioni in politica estera. Pensavamo, ingenuamente, che il mondo libero avrebbe sfruttato quelle relazioni socioeconomiche per liberalizzare gradualmente gli Stati autoritari. In realtà, sono stati gli Stati autoritari a diffondere il loro sistema corrotto all’estero e inasprire la repressione in patria abusando di quell’apertura e dell’interdipendenza economica. Giusto per fare un esempio: l’Europa acquisisce un terzo dell’energia dalla Russia, e in alcuni paesi la quota è decisamente più elevata. Questo significa però, anche, che l’Europa attrae l’80% delle esportazioni energetiche della Russia. Dunque, chi ha il coltello dalla parte del manico? Eppure durante la crisi in Ucraina si è continuato a ripetere che l’Europa non può agire contro la Russia per via della sua dipendenza energetica! Otto mesi dopo l’annessione della Crimea, e tre mesi e mezzo dopo l’abbattimento di un aereo civile in volo sull’Ucraina da parte delle forze armate russe, l’Europa stava ancora “valutando” se trovare un’alternativa al gas russo. Invece di usare la schiacciante influenza economica per frenare l’aggressione di Putin, l’Unione europea continua a far finta di nulla. Un boicottaggio europeo, o quantomeno una tassazione pesante sulle importazioni di energia, potrebbe mettere in ginocchio l’economia russa, che dipende completamente dal settore energetico. Ma all’Europa manca la volontà politica di fare sacrifici nell’immediato pur di arginare la minaccia alla sicurezza e alle economie globalizzate, ben più grave in prospettiva, rappresentata da un Putin senza più controllo. La strategia del compromesso consegna altresì nelle mani dei regimi autoritari strumenti ancor più subdoli per mettersi al riparo dagli strali dell’Occidente. A New York come a Londra, essi possiedono titoli e beni immobili di lusso che garantiscono sostanziose entrate fiscali, alle quali mai e poi mai gli avidi politici e le multinazionali occidentali rinuncerebbero in nome dei diritti umani. Gli Stati non liberi fanno quindi leva sull’apertura del mondo libero assoldando lobbisti, diffondendo la loro propaganda sui media ed elargendo generosi finanziamenti a esponenti politici, partiti e Ong. E quand’anche queste attività vengano allo scoperto non c’è una risposta decisa. Talvolta i cittadini del mondo libero manifestano il loro sdegno quando sulla stampa si racconta lo sfruttamento in qualche fabbrica, ma in definitiva si curano poco del contesto sociale dei paesi che producono il loro petrolio, i loro vestiti, i loro iPhone. Mentre gli oligarchi russi esportavano le loro ricchezze e l’influenza politica di Putin in giro per il mondo, le compagnie occidentali ricambiavano il favore investendo in Russia. Giganti energetici come la Shell e la British Petroleum (Bp) non vedevano l’ora di mettere le mani sulleimmense riserve energetiche della Russia, e il mercato russo, rimasto dormiente per così tanto tempo, era una preda troppo appetibile per preoccuparsi di quante concessioni si sarebbero dovute fare pur di stringere quegli accordi. I diritti umani in Russia erano l’ultimo dei pensieri delle multinazionali occidentali. Pur con tutti gli imbrogli, i tradimenti e le minacce dei partner russi, e nonostante fossero estromesse dalle partnership o addirittura dal paese, le società occidentali sono sempre tornate, come un cane bastonato torna dal padrone violento. Uno dei casi più sconcertanti è quello dell’amministratore delegato della Bp, Robert Dudley, che fuggì dalla Russia nel 2008, all’epoca in cui era amministratore delegato di una joint venture con alcuni miliardari russi. Avendo subito continue vessazioni e temendo l’arresto (e anche di essere avvelenato, stando a una fonte), alla fine Dudley scappò e si nascose da qualche parte. Eppure, qualche anno dopo eccolo di nuovo in Russia, immortalato in una foto ufficiale con Putin, in occasione di un accordo di esplorazione petrolifera con la compagnia statale Rosneft! Se è vero che gli investimenti stranieri hanno risollevato la crescita del Pil – soprattutto per via dell’impennata dei prezzi petroliferi – i russi non ne hanno tratto grande giovamento. Gran parte delle nuove ricchezze ha preso una direzione ben diversa andando a finire nei conti correnti e negli immobili occidentali intestati all’élite oligarchica di Putin. Così, sebbene il nostro movimento di opposizione crescesse e riuscisse poco a poco ad attirare l’attenzione sulla realtà antidemocratica della Russia putiniana, esso partiva da una posizione di forte svantaggio. Il dominio del Cremlino sui mass media e la brutale persecuzione di qualsiasi forma di dissidenza nella società civile non ci consentivano di costruire una spinta duratura. I nostri sforzi erano sabotati anche dall’accoglienza riservata a Putin dai leader democratici, i quali gli garantirono quella legittimazione di cui aveva bisogno, non essendovi autentiche elezioni in Russia. Non è facile battersi per le riforme democratiche quando tutte le televisioni e i giornali mostrano in continuazione i leader delle democrazie più potenti del mondo accogliere un dittatore come fosse un membro della loro famiglia. Quelle immagini fanno pensare o che non è davvero un dittatore oppure che la democrazia e la libertà individuale non sono che una merce di scambio; esattamente quello che sostengono Putin e quelli come lui. Alla fine, c’è voluta l’invasione dell’Ucraina per convincere il G7 (mi sono sempre rifiutato di chiamarlo G8) a espellere la Russia di Putin dal club delle democrazie industriali. Già nel 2008, quando Putin diede in prestito la presidenza al suo uomo ombra, Dmitrij Medvedev, ci si sarebbe dovuti accorgere che la democrazia russa era defunta. Gli unici nomi sulla scheda elettorale erano quelli degli oppositori lealisti, che recitavano ruoli già assegnati: Gennadij Zjuganov, il comunista, e Vladimir Žirinovskij, che ricopriva la parte dell’estremista di destra sin dal 1991. Entrambi erano, e sono, un paravento per dare una flebile parvenza di democrazia. Eppure, uno dopo l’altro, i leader delle democrazie mondiali accettarono quella messinscena. George W. Bush telefonò al suo omologo per fargli le congratulazioni. Il presidente francese Nicolas Sarkozy porse a Medvedev un caloroso invito a recarsi a Parigi. Encomi simili arrivarono anche dai governanti di Germania, Regno Unito e diversi altri paesi. Tutto questo nonostante le elezioni fossero state boicottate dal più importante organismo di monitoraggio elettorale europeo, l’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa), in segno di protesta contro le restrizioni imposte agli osservatori. Due mesi dopo l’insediamento di Barack Obama, il neopresidente insieme con il segretario di Stato Hillary Clinton avviarono una nuova iniziativa di politica estera per “resettare” i rapporti tra Stati Uniti e Russia. Ma non con quell’approccio realistico che ci si sarebbe aspettati, soprattutto alla luce dell’invasione russa, qualche mese prima, della piccola Georgia e della creazione in quel territorio di enclave autonome, ancora oggi occupate dai soldati russi. Nossignore, l’America avviò una campagna di vera e propria riconciliazione (con tanto di oggetti scenici, mal fatti peraltro. Sul famigerato “Reset Button” offerto dalla Clinton all’omologo russo Sergej Lavrov, infatti, compariva una parola russa che non significa “resettare” bensì “sovraccaricare”). La presidenza Obama volle credere che il giovane e sorridente Medvedev fosse davvero un riformatore, un potenziale liberalizzatore che avrebbe preso le distanze dal corso politico di Putin. Anche volendo leggere questa iniziativa come un’ingenuità dei primi tempi, quelli della “speranza” e del “cambiamento”, è incredibile che questa politica del compromesso sia continuata anche quando fu chiaro che chi comandava davvero era Putin e che il suo piano per fare della Russia uno Stato di polizia non era mai tramontato. L’“operazione Medvedev” fu una grande vittoria per Putin. In quel modo guadagnò altri quattro anni per eliminare qualsiasi residuo di opposizione interna, evitando al contempo le ripercussioni a livello internazionale. Quando Putin, com’era prevedibile, tornò in carica nel 2012, non si prese nemmeno il disturbo di rendere credibile la nuova tornata elettorale. Come molti dittatori, Putin ha un fiuto animalesco nel soppesare i propri avversari, quindi sapeva che non avrebbe incontrato grossi ostacoli dai leader mondiali. E, come capita a tutti i dittatori, ogni nuovo successo lo imbaldanziva sempre di più. I dittatori non si pongono il problema di non riuscire ad accrescere il loro potere, semmai si chiedono perché mai non dovrebbero riuscirci. Osservando il modo in cui lo trattavano leader del calibro della Merkel, di Cameron e di Obama, Putin capì che avrebbe potuto fare ciò che avrebbe voluto. Non serve essere uno storico per riconoscere questo schema e per capire che fu questo a preparare il terreno per la guerra in Ucraina. L’atteggiamento compiacente diffusosi nelle nazioni del mondo libero dopo la caduta della Cortina di ferro non sarebbe stato sradicato tanto facilmente, anche se ora bisognava trattare con un personaggio come Vladimir Putin. Da par suo, Putin sa sfruttare a suo vantaggio la strategia del compromesso senza però fare nessuna concessione. Per anni, mentre i diritti umani in Russia andavano assottigliandosi, i politici e gli strateghi occidentali come Condoleezza Rice ed Henry Kissinger continuavano a difendere la linea morbida con Putin, ricorrendo tra l’altro all’argomentazione secondo cui i russi stavano molto meglio adesso che non sotto l’Unione Sovietica. Innanzitutto, un grazie sarcastico a loro per averci condannato al nostro destino con questo approssimativo riconoscimento! Invece di fare raffronti con gli anni Cinquanta o Settanta, perché non parlare degli anni Novanta? Non ci vuole granché a vivere meglio rispetto ai tempi del totalitarismo comunista di Stalin o di Breznev, ma che dire della vita durante l’era Eltsin? Che dire della disintegrazione delle giovani istituzioni democratiche, mentre i Rice e i Kissinger di tutto il mondo restavano a guardare? Se per i leader e i cittadini del mondo libero i diritti umani del popolo sovietico e i prigionieri politici nei gulag erano importanti, e naturalmente lo erano, perché allora i dissidenti del ventunesimo secolo non meritano lo stesso rispetto e attenzione? Una linea politica efficace deve fondarsi sui principi. Come mi ha raccontato Václav Havel, Ronald Reagan dialogava con i sovietici ma solo dopo aver messo sul tavolo la lista dei prigionieri politici! Nei primi anni del mio impegno politico ho spesso ripetuto che, pur essendo Putin innanzitutto un problema della Russia, che avrebbero dovuto risolvere i russi, se le sue mire fossero state prese sotto gamba egli sarebbe presto diventato un problema dell’intero continente e poi dell’intero pianeta. Quella triste evoluzione si è poi verificata, e a costo di numerose vite. Non è una gran consolazione sentirsi dire “avevi ragione!”. Ed è ancor più desolante dover notare che ancora oggi si fa ben poco per fermare l’aggressività di Putin. Che senso ha dire che bisognava dare retta a quegli avvertimenti e prendere delle contromisure se poi si rimane sordi e non si agisce? Negli ultimi vent’anni la linea del compromesso, e dunque dell’inerzia di fronte ai crimini delle dittature – specie se sono importanti partner commerciali –, si è talmente consolidata che nemmeno l’invasione di una nazione sovrana europea è riuscita a metterla in discussione. Gli Stati Uniti e l’Ue si sono decisi a imporre sanzioni, per quanto ridotte e intempestive, a funzionari e industrie della Russia. Tuttavia, si ostinano a non ammettere che è indispensabile condannare e isolare la Russia perché con Putin essa è diventata un pericoloso Stato canaglia. I nuovi leader occidentali non vogliono accettare l’esistenza del male nel mondo e il fatto che vada combattuto a partire da principi assoluti, senza negoziare. È evidente che le democrazie del ventunesimo secolo non sono pronte per questa battaglia. Resta da vedere se, prima o poi, lo saranno. È pericoloso pensare che il tramonto di un simbolo equivalga alla fine di ciò che quel simbolo rappresentava, eppure la tentazione è irresistibile. La gente ama i simboli e le narrazioni, specialmente quando segnano il lieto fine di una favola lunga e paurosa. Il Muro di Berlino incarnava la suddivisione del mondo, letterale e figurata, in bene e male, in luce e tenebra. Quando i tedeschi si riversarono in massa al di là del confine fortificato e presero a martellate l’odiato Muro tutti pensarono che il male stesso fosse stato distrutto. L’esultanza ovviamente era pienamente giustificata. Centinaia di milioni di persone si risvegliavano da un incubo totalitarista durato decenni. L’“Impero del male” era caduto. Una regione vasta 6700 chilometri – un quarto del pianeta, dalla Penisola dei Ciukci, nell’estremo est della Russia, a Berlino – si liberava dalla repressione comunista e dal degrado economico per entrare d’un colpo in un futuro radioso di democrazia e libero mercato. Fu un momento glorioso, indimenticabile. C’erano anche motivi più concreti per cui rallegrarsi. La minaccia esistenziale della guerra atomica era oramai scongiurata. Tre generazioni erano cresciute con le esercitazioni antiatomiche e le conversazioni a cena sulla teoria della “reciproca distruzione assicurata”. Centinaia di miliardi di dollari erano stati spesi in misure e contromisure militari, divenute oramai inutili. Il “dividendo della pace” avrebbe portato una nuova era di prosperità, o almeno questo si narrava nella storia ufficiale. Più di una volta ho scritto a proposito di un atteggiamento, tipico degli scacchisti, che io definisco il “peso delle vittorie precedenti”. Ogni vittoria diminuisce di un po’ le probabilità di vincere la volta successiva, perché scema lo stimolo a migliorarsi. Al contrario, chi perde è consapevole di aver commesso un errore, che qualcosa non è andato per il verso giusto, e quindi si impegnerà al massimo per migliorare. Spesso chi vince pensa che vincerà ancora solo perché è un grande giocatore. In genere, invece, vince chi fa il penultimo errore. Ci vuole una disciplina rigorosissima per resistere a quella tentazione e imparare anche da una vittoria. All’indomani della vittoria della Guerra Fredda la reazione naturale, umana, fu tendere la mano al nemico di un tempo. Clinton e Eltsin si abbracciarono sorridenti. L’Unione europea e la Nato accolsero a braccia aperte le nazioni del blocco sovietico, cui elargirono miliardi di dollari in aiuti. Quanto alle riforme economiche e politiche, il bastone dell’isolamento e del contenimento fu messo da parte in favore di una linea politica fondata esclusivamente sulla carota. L’Ue e altre istituzioni offrirono ai paesi appena liberati incentivi perché diventassero dei partner a tutti gli effetti, ponendo come unica condizione il rispetto di standard minimi di trasparenza politica e di riforme economiche. Questa strategia del compromesso riscosse un grande successo nell’Europa dell’Est, anche se per molti paesi la strada da percorrere non era certo facile. Tuttavia, la linea espansiva fu applicata anche in luoghi in cui le forze dell’oppressione non erano state affatto sradicate. Paesi che si erano limitati a dare una mano di vernice alla repressione di stampo sovietico furono invitati nel club senza fare troppe domande, e senza che ci fosse grande reciprocità. Il pensiero dominante in Occidente era: “Va bene così, tanto alla fine si convinceranno. La democrazia ha vinto, i cattivi stanno dalla parte sbagliata della storia. Dobbiamo solo continuare a dialogare e aspettare”. Ma le proverbiali forze della storia non vincono le guerre da sole: come dimostra l’esperienza, spesso si può avere successo pur essendo dalla parte sbagliata della storia, purché ci si trovi dalla parte giusta di un oleodotto. A ben guardare, è sconcertante con quale rapidità siano stati dimenticati gli insegnamenti derivanti dalla vittoria della Guerra Fredda. Proprio nella fase storica di maggiore ascesa per le forze della libertà e della democrazia, l’Occidente rinunciò a sfruttare questo vantaggio. Pur potendo contare su una potenza militare, economica e morale schiacciante, i paesi occidentali decisero di modificare radicalmente la loro strategia. In quest’epoca di globalizzazione e falsa equivalenza, si tende a dimenticare che i leader della Guerra Fredda avevano visto in faccia il male durante la Seconda guerra mondiale. Erano ben consapevoli di quello che un dittatore avrebbe potuto fare se solo gliene fosse stata data l’opportunità. Avevano vissuto sulla loro pelle le minacce all’esistenza stessa e gli orrori dei campi di concentramento. Sapevano anche che le armi atomiche potevano effettivamente essere usate durante una guerra; un’idea inconcepibile per le generazioni successive. Non è bene che Adolf Hitler e Iosif Stalin siano ormai considerati dei personaggi quasi caricaturali, delle figure mitologiche che incarnano un male antico scomparso tanto tempo fa. Il male non muore, così come la storia non finisce. Come l’erba infestante, il male può essere tagliato ma mai sradicato del tutto. E aspetta solo l’occasione di insinuarsi nelle crepe della nostra attenzione. Può attecchire nel terreno fertile della nostra condiscendenza, o addirittura tra le macerie pietrose del Muro di Berlino. Il comunismo non è crollato con la caduta del Muro. Quasi 1,5 miliardi di persone sono soggette ancora oggi a delle dittature comuniste, e un altro miliardo e mezzo vive in Stati non liberi, comprese naturalmente molte nazioni dell’ex blocco sovietico. Il desiderio dell’uomo di sfruttare gli altri e governare per decreto e con la forza non è certo scomparso con la caduta del Muro. Ciò che è scomparso – o quantomeno è sbiadito notevolmente – è la volontà del mondo libero di assumere una posizione ferma in favore degli oppressi. Un simile cambio di rotta è comprensibile: esso in fondo rispecchiava il desiderio della gente di farla finita con una tensione e una paralisi che duravano da decenni. Bill Clinton, salito al potere nel 1992, era il primo presidente della generazione dei baby-boomers; era il simbolo di quella volontà di superare la visione del mondo manichea tipica della Guerra Fredda. Nel frattempo, però, i denti del drago andavano affilandosi. Nel 1994 cominciò il mandato a vita del dittatore bielorusso Lukashenko. I suoi colleghi dell’Asia centrale, Nazarbaev in Kazakistan e Karimov in Uzbekistan, sono al potere da quasi venticinque anni. Non è un caso che i due paesi dell’ex Unione sovietica con le maggiori chance di liberarsi dalla terribile spinta gravitazionale della Russia, ossia la Georgia e l’Ucraina, siano state entrambe attaccate e parzialmente occupate dai russi. Se è vero che questi autocrati e criminali non sono una minaccia all’ordine globale nemmeno paragonabile a quella costituita dall’Unione sovietica, è anche vero che Putin tenta di creare una “versione light” dell’Urss mediante accordi commerciali, intimidazioni e leader fantoccio. Oltre alla potenza militare, l’Unione sovietica era pericolosa perché propugnava in modo aggressivo un’ideologia tossica, che riuscì a diffondere ben oltre i suoi confini. Fino a pochi anni fa Putin non ha avuto bisogno di ricorrere a nessuna ideologia per depredare la Russia e consolidare il potere. L’unica idea che ispirava la sua cerchia si può riassumere nella frase “Rubiamo insieme”: la struttura governativa serviva a far confluire i denari pubblici nelle tasche di chi esercita il potere. Con il deteriorarsi della situazione economica, tuttavia, Putin ha dovuto leggere fino in fondo il manuale del perfetto dittatore alla ricerca di nuovi pretesti con cui giustificare il suo ruolo di leader supremo. Così, dal 2013, il Cremlino e i suoi megafoni giustificano le azioni repressive a danno degli omosessuali e dei mezzi d’informazione con una retorica smaccatamente fascista tutta basata sulla condanna di comportamenti “non russi”, su ipotetici tradimenti e sulla mancanza di lealtà verso la nazione. Questi discorsi, compresi quelli dello stesso Putin, somigliano molto a quelli dei gerarchi nazisti degli anni Trenta, tanto che basta sostituire a “Vaterland” la parola “madrepatria”. Tuttavia,
come anche Hitler sapeva, i nemici interni prima o poi finiscono, e bisogna quindi rivolgersi all’estero. Anche se da dieci anni andava avanti la demonizzazione degli Stati Uniti sui mezzi d’informazione controllati dallo Stato, tutto questo ancora non bastava. Quando il burattino di Putin in Ucraina, il presidente Viktor Janukovyč, fuggì dal paese a seguito delle manifestazioni del movimento “Euromaidan”, con le quali si chiedeva una maggiore integrazione europea, il presidente russo colse al volo l’occasione. Accampando come pretesto la necessità di proteggere i russi che vivono in Ucraina, Putin dapprima occupò e annesse la Crimea, poi cominciò a fomentare la violenza servendosi di “ribelli” prezzolati che erano stanziati nell’Ucraina orientale. Nel giro di poco tempo il conflitto cedette il passo a un’invasione in piena regola, con l’arrivo di soldati e armi pesanti dalla Russia, nonostante il Cremlino si ostinasse a dichiarare che non era così. Se la guerra è sempre un fatto atroce, in questo caso occorre porre l’attenzione anche sulla pericolosa deriva di Putin verso un imperialismo su base etnica. Chi sostiene che il conflitto ucraino in fondo riguardi una regione remota ed è improbabile che possa generare instabilità a livello globale evidentemente non coglie il chiaro avvertimento lanciato da Putin. Non v’è ragione di credere che la visione, da lui più volte espressa, di una “Grande Russia” rimarrà confinata all’Ucraina orientale; anzi, esistono diverse ragioni che portano a pensare il contrario. I dittatori si fermano solo quando è qualcun altro a fermarli, e cercare la distensione con Putin in merito all’Ucraina non farà che alimentare la sua sete di conquista. Quella in Ucraina è solo una battaglia, trascurata dal mondo libero, all’interno di una guerra più ampia della quale esso si ostina a non ammettere l’esistenza. Del resto, fingere di non avere nemici non significa che non se ne abbiano. Il Muro di Berlino e l’Unione Sovietica non ci sono più, ma i nemici della libertà che li costruirono ci sono ancora. La storia non finisce ma scorre secondo cicli che ritornano, e la mancata difesa dell’Ucraina è analoga all’incapacità degli Alleati di difendere la Cecoslovacchia nel 1938. Il mondo deve agire subito se non vuole che la Polonia del 2015 si ritrovi a giocare lo stesso ruolo della Polonia del 1939. La Guerra Fredda non fu vinta soltanto grazie alla superiorità militare o economica, ma anche grazie a quei valori che io, da cittadino dell’ex Unione Sovietica, definisco senza ombra d’ironia i valori tradizionali americani, adottati poi da tutto il blocco occidentale. Non possiamo risolvere i problemi della globalizzazione ricorrendo agli stessi strumenti giuridici ed economici che l’hanno creata. Occorrono dunque nuove strutture, fondate sull’etica, per fronteggiare dittature, come quelle di Russia e Cina, che fanno parte integrante del nostro mondo globalizzato. Occorrono inoltre nuove alleanze per combattere network terroristici transnazionali che usano la nostra tecnologia contro di noi. Queste strutture e queste alleanze devono essere edificate su principi etici: le uniche armi con cui i nemici della democrazia non possono competere. E questo tanto più vale nel caso in cui quei nemici posseggano armi nucleari, che renderebbero uno scontro militare estremamente pericoloso. Si può ovviare all’indefinitezza delle linee del fronte nei moderni conflitti soltanto fissando delle linee etiche ben precise. In questo contesto, possiamo riconoscere i nemici del mondo libero osservando quali sono i loro bersagli. Costoro sanno di essere fuori gioco se vincono le politiche della democrazia liberale e del libero mercato, ed è dunque su questo fronte che lottano per la loro sopravvivenza. Per fronteggiare questo tipo di aggressioni dobbiamo tradurre i nostri principi in politiche concrete. Dobbiamo capire per cosa combattiamo e contro cosa combattiamo; dobbiamo essere pronti a difendere i nostri valori come se la nostra stessa vita dipendesse da essi, perché è davvero così. Non dobbiamo cedere ai diversivi, alle scuse, alle argomentazioni pretestuose addotte da dittatori e criminali e riprese da pacificatori e codardi di vario genere.
ostoro non fanno che avanzare ipotesi negative su ciò che accadrebbe se il mondo libero dovesse opporsi a Putin o sulle ripercussioni di un intervento militare diretto contro l’Isis. Però non si interrogano mai sulle conseguenze di iniziative inefficaci che lasciano inalterato lo status quo della mediazione e del compromesso. Evitare che scoppi una nuova Guerra Fredda può sembrare un fine lodevole, ma ci siamo mai chiesti se per caso non la stiamo già vivendo di fatto? Che dire, ad esempio, della guerra, dell’invasione e dell’annessione di un territorio europeo che sono già in atto in Ucraina? La negazione non è una linea politica accettabile. Preoccuparsi per i possibili sviluppi futuri quando la situazione attuale è già catastrofica è un modo patetico per procrastinare delle decisioni difficili. Ignorare un cancro e litigare con i medici che lo hanno diagnosticato non salverà il paziente, anche se la terapia fa paura. Non è dato sapere cosa accadrebbe se le nazioni del mondo libero, guidate dagli Stati Uniti e dalla Nato, dovessero contrastare Putin in Ucraina (o anche se dovessero decidere di eliminare l’Isis una volta per tutte). Quel che sappiamo con certezza è che questo genere di intervento prima o poi si dovrà fare e che quanto più tempo passerà tanto più elevato sarà il costo in termini di risorse, sacrifici e vite umane. Come nel caso di tutti gli altri dittatori prima di lui, la fiducia e gli appoggi di cui gode Putin non faranno che aumentare se egli non incontrerà nessun ostacolo davanti a sé. A ogni nuovo successo che Putin potrà sbandierare davanti al popolo russo mandarlo via diventerà più complicato, e questo a sua volta lo spronerà a compiere azioni ancor più aggressive. Certo, anche se l’America, l’Europa e le altre democrazie mondiali dovessero finalmente rendersi conto che l’era del compromesso è finita e decidere di colpire Putin, e gli altri criminali, isolandoli e sostenendo militarmente i loro avversari, c’è la possibilità che i conflitti si inaspriscano notevolmente prima di riuscire finalmente a estinguerli. Questa visione, ossia accettare un sacrificio nell’immediato per il bene futuro, richiede una leadership che oggi manca al mondo libero. Richiede un pensiero che vada oltre i sondaggi, i rapporti trimestrali o le prossime elezioni. La strategia della Guerra Fredda rimase identica per decenni, a prescindere dalle diverse amministrazioni, e alla fine fece trionfare il fronte della libertà. Dopo quella fase storica, però, tutti i presidenti e tutti i primi ministri hanno scaricato ai loro successori la responsabilità dei diritti umani in Russia, fino a quando Putin non è diventato così forte da muovere una guerra vera e propria sul suolo europeo. Uno dei pretesti addotti con maggiore frequenza è che un intervento deciso contro l’aggressione potrebbe portare alla Terza guerra mondiale o addirittura a un olocausto atomico. La verità, però, è che la crisi non farà che peggiorare se Putin non sentirà concretamente minacciato il suo potere, che è l’unica cosa di cui gli importi davvero. Se gli sarà ancora consentito di collezionare una vittoria dopo l’altra, spazzando via qualsiasi residuo di opposizione in patria e conquistando territorio e influenza all’estero, il pericolo di una guerra totale aumenterà drammaticamente. Adolf Hitler attaccò la Polonia nel 1939 non perché gli Alleati si schierarono dalla parte della Cecoslovacchia, ma proprio perché non lo fecero, ed entrò nel territorio dei Sudeti non perché il mondo si ribellò all’Anschluss dell’Austria, ma perché la reazione contro di essa fu eccessivamente blanda. Hitler trovò l’ardire di spingersi oltre solo perché ottenne quei trionfi con tanta facilità, senza incontrare quasi nessun ostacolo da parte delle democrazie occidentali. Naturalmente Putin non è Hitler e quel male indescrivibile non potrà mai essere eguagliato; per quanto chi ha vissuto gli orrori di Stalin, Mao Tze-tung e Pol Pot potrebbe avere qualcosa da ridire su questa affermazione. Non dimentichiamo, però, che nel 1936 – o anche nel ’37 e nel ’38 – Hitler non era ancora diventato Hitler! L’adulazione degli atleti e dei dignitari stranieri ai Giochi Olimpici di Berlino, la pronta capitolazione di Chamberlain, la facilità con cui l’esercito nazista avanzò oltre i confini tedeschi fissati dopo la Prima guerra mondiale: sono tutti fattori che consentirono a Hitler di diventare quel mostro che conosciamo. In termini di influenza a livello mondiale, la potenza industriale e militare della Russia moderna non può competere con quella della Germania nazista. Ma Putin possiede una cosa che a Hitler mancava: le armi atomiche. Né del resto lui stesso si fa troppi scrupoli a ricordarcelo. Ho dovuto riascoltare due volte le dichiarazioni di Putin a un forum di discussione tenutosi a Sochi nell’ottobre del 2014, perché non potevo credere che davvero avesse elogiato con tanta nonchalance il gioco sleale di Nikita Krusciov con il nucleare. Tutti, in realtà, dovrebbero ascoltare con attenzione ciò che dice Putin, perché ha già dimostrato di saper passare dalle parole ai fatti quando gli si lascia campo libero. Se i leader del mondo libero si ravvedranno per tempo e faranno fronte comune contro Putin – mediante sanzioni economiche, fonti di approvvigionamento energetico alternative, isolamento economico e sostegno economico e militare agli avversari del regime putiniano – ciò favorirà altresì la nascita di una nuova alleanza tra le democrazie di tutto il mondo. In tal modo si potrà mettere le dittature dinnanzi alla scelta se attuare le riforme e diventare parte di quella comunità oppure ritrovarsi progressivamente marginalizzate e isolate. L’Unione europea adotta già questo meccanismo: ciascun paese che voglia diventare Stato membro deve soddisfare precisi requisiti in materia di sviluppo economico e diritti umani. Va detto però che la stessa Ue è disposta a fare affari con delle dittature – come la stessa Russia – che non accetterebbe mai al suo interno. Nondimeno, far cessare la guerra di Putin e allo stesso tempo abbandonare questa ipocrita linea compromissoria è possibile. Lo scopo di questo libro è innanzitutto illustrare perché questa guerra, pur essendo una guerra non dichiarata, è reale e tanto importante. In mancanza di simboli concreti attorno ai quali fare fronte comune, e senza un impero del male contro cui combattere, non è facile indurre le democrazie mondiali ad agire, eppure è fondamentale che lo facciano. In secondo luogo si spiegherà in che modo il trinceramento e il disimpegno dell’Occidente abbiano favorito l’ascesa di autocrati come Putin e di gruppi terroristici come l’Isis in tutto il mondo. Poiché, come dice il proverbio, ogni democrazia ha il leader che si merita, è necessario osservare con attenzione l’inversione nella scala di valori e di priorità che ha fatto di una realpolitik rinunciataria e pacificatoria la linea dominante della politica estera contemporanea. Rimuovere la componente etica dagli affari esteri è stata una scelta disastrosa, dalla quale ci vorrà molto tempo per riprendersi. Nell’ultima parte del volume viene dunque esposto un progetto complessivo per mettere in moto quella ripresa, a partire da alcune domande alle quali qualsiasi aspirante leader democratico è tenuto a rispondere. In questo libro racconterò le mie esperienze e le riflessioni maturate grazie al mio impegno come attivista in Russia e come presidente della Human Rights Foundation, che ha sede a New York. In realtà le mie battaglie politiche erano cominciate già prima, negli anni Ottanta, quando da campione di scacchi mi ribellavo contro le autorità sportive sovietiche o rilasciavo interviste alle testate occidentali in cui protestavo contro le ingiustizie del sistema comunista: tutte cose che mi procurarono non pochi problemi. Tuttavia, il protagonista di questo libro non sono io, bensì Vladimir Putin, il quale, grazie all’indifferenza e non di rado al sostegno di quello stesso mondo libero che aveva fatto crollare l’Unione sovietica, è riuscito a bloccare l’esperimento democratico in Russia. Prologo Per raccontare la storia dell’ascesa e della caduta della democrazia russa basterebbe, purtroppo, un libro brevissimo. Ci sono voluti solo otto anni per passare dalle folle in delirio che festeggiavano il crollo dell’Unione sovietica, nel 1992, all’elezione alla presidenza dell’ex agente del Kgb Vladimir Putin. Altri otto anni sono poi bastati a Putin per corrompere e sgretolare le fondamenta democratiche del paese: l’equilibrio tra i diversi rami del governo, le elezioni regolari, l’indipendenza della magistratura, la libertà di stampa e una società civile che interagisse con il governo della nazione invece di temerlo. Gli oligarchi che non si piegavano furono messi in carcere o esiliati, e la stampa imparò presto quali notizie si potevano riportare e quali no. Putin, inoltre, accentrò l’economia russa, dando una stretta alle riforme del libero mercato e promuovendo invece la nascita di “campioni nazionali” nel settore energetico e in quello bancario. Nel 2008, quando Putin raggiunse il limite costituzionale del doppio mandato da quattro anni ciascuno, sembrava di essere arrivati a una svolta. Non che qualcuno si aspettasse davvero che Putin si sarebbe fatto da parte con eleganza, o anche senza, ma ci si domandava in che modo avrebbe mantenuto il potere salvando al tempo stesso le apparenze. Putin aveva accentrato il potere non solo nel suo partito e nella sua carica, ma anche nella sua stessa persona. Il suo ritiro avrebbe implicato staccare la spina allo Stato-mafia del Kgb che lui e i suoi sodali avevano impiegato otto anni a costruire. Certo, Putin avrebbe potuto modificare la Costituzione russa in modo da candidarsi nuovamente, ma a quell’epoca era ancora interessato a salvare le apparenze democratiche. Innanzitutto era impensabile che gli altri leader del G8 lo accogliessero a braccia aperte dopo una presa del potere tanto grossolana, e a Putin faceva gioco in patria rimanere nelle grazie dei leader di Stati Uniti, Giappone e dell’Europa occidentale: chi mai avrebbe potuto dire di lui che era antidemocratico, o addirittura un tiranno, se veniva accolto tanto calorosamente da figure del calibro di George W. Bush, Silvio Berlusconi e Nicolas Sarkozy? Questi dilemmi di Putin diedero a noi del movimento di opposizione un breve barlume di speranza che le elezioni del 2008 potessero tramutarsi in un’occasione per modificare il corso del paese. Sapevamo che le elezioni sarebbero state manipolate ma pensavamo che se fossimo riusciti a portare allo scoperto quei brogli avremmo convinto anche altri ad aderire alla nostra causa. I russi si rendevano conto di star perdendo le loro libertà sotto Putin e forse ci tenevano ancora a cambiare le cose, come avrebbero dimostrato le proteste di massa del 2011. La decisione che alla fine prese Putin fu un colpo da maestro: invece di mantenere egli stesso la presidenza designò quale suo successore il primo vice primo ministro, il giovane Dmitrij Medvedev, da tutti considerato più liberale e filooccidentale rispetto al suo capo. Le elezioni furono manipolate e andarono come previsto: Medvedev vinse, con pochi voti in meno rispetto a quanti ne aveva presi Putin nel 2004 (la battuta che circolava in quei giorni era che sarebbe stato tremendamente scortese da parte di Medvedev prendere più voti di Putin, e anche, se è per questo, essere più alto di lui). Subito Medvedev nominò Putin suo primo ministro e i due si trasferirono da un ufficio all’altro, in un aggraziato pas de deux sulla tomba della democrazia russa. Quattro anni dopo, Medvedev restituì prontamente la presidenza al suo padrone, dopo aver modificato la Costituzione in modo che Putin potesse tornare al comando per altri due mandati da sei anni ciascuno. Alle elezioni del 2012 ci si preoccupò ancor meno di mascherare il fatto che la Russia era ridiventata, di fatto, una dittatura. Lungo la strada, tuttavia, ci fu qualche intoppo. Massicce proteste, le più grandi dell’era post-sovietica, erano scoppiate tre mesi prima delle elezioni presidenziali del 4 marzo, perché la gente non era riuscita proprio a digerire i vergognosi brogli delle elezioni parlamentari. Nei mesi successivi centinaia di migliaia di russi scesero in strada al grido di “Putin deve andare via!” e “La Russia senza Putin!”. Anche io partecipai a quelle manifestazioni, insieme ad altri leader dell’opposizione come Alexej Navalnyj e Boris Nemtsov. Ma fu soprattutto la presenza in piazza Bolotnaya, il 10 dicembre, di decine di migliaia di moscoviti, solitamente apolitici e apatici, a farci sperare che qualcosa potesse cambiare. Dal 2005 avevo preso parte in prima linea a molte manifestazioni, in cui di solito eravamo dieci contro uno con i poliziotti antisommossa. Ma nella marcia del 24 dicembre sulla Prospettiva Sacharov quella proporzione si ribaltò. Davanti a quel mare di bandiere che sventolavano contro la corruzione e contro Putin, chi non avrebbe sognato un futuro diverso? Quello slancio, tuttavia, non era destinato a durare. Prontamente furono approvate delle leggi molto restrittive contro la libertà di riunione, che prevedevano multe salatissime e la penalizzazione delle proteste non violente. Svariati leader ed esponenti dell’opposizione furono aggrediti, arrestati e interrogati in merito al loro ruolo nell’organizzazione delle manifestazioni. Il Cremlino investì risorse ingenti per fermare l’ondata di proteste; l’ultima grande manifestazione del 6 maggio 2013 fu sedata brutalmente e portò poi al cosiddetto processo di piazza Bolotnaya, che ha coinvolto più di tredicimila testimoni ed è culminato con la condanna a diversi anni di prigione per decine di manifestanti. Nel frattempo i mezzi d’informazione asserviti al Cremlino cominciarono a presentare, sempre più spesso, i manifestanti e i leader dell’opposizione come pericolosi estremisti e possibili traditori della patria. La rivoluzione non veniva trasmessa in tv e, ovviamente, nemmeno gli aspiranti rivoluzionari potevano andare in televisione. Qualche altra grande manifestazione fu organizzata in seguito all’annuncio dell’elezione, si fa per dire, di Putin, ma in quel 2012 mi resi conto che la democrazia in Russia era morta. Non riuscivo più a immaginare una transizione pacifica verso un governo che non fosse quello di Putin, e penso che se mai lui dovesse cadere sarebbe in modo scomposto e violento. Dopo l’ennesima volta in cui venivo convocato dal pubblico ministero per una di quelle audizioni tutte particolari in cui entri da testimone ed esci da sospettato, sempre che tu riesca a uscire, nel 2013 decisi di non tornare in Russia. A questo punto voglio fare una digressione e osservare la Russia in modo distaccato. Nonostante il boom del prezzo del petrolio, la propaganda, la repressione e una popolazione corriva, Putin non avrebbe potuto raggiungere il suo obiettivo senza un consistente aiuto dall’esterno. Dopotutto, non è così semplice fondare una dittatura al giorno d’oggi. Grazie alle comunicazioni globali, ad esempio, è più probabile che un popolo ambisca ai diritti e al benessere dei propri vicini. Anche per questo Putin ha sempre fatto di tutto perché nei paesi vicini fiorissero dei regimi autoritari. Una delle maggiori conquiste dell’umanità nella seconda metà del ventesimo secolo fu l’espansione della democrazia a livello mondiale. Prima della Seconda guerra mondiale, invece, la stragrande maggioranza dei governi democratici era dislocata in Europa e nelle Americhe. Samuel Huntington ha documentato questa “terza ondata” di democratizzazione nel libro omonimo del 1991, mentre del 1992 è il celebre volume di Francis Fukuyama La fine della Storia. La democrazia liberale e il capitalismo furono i grandi vincitori dell’ultima vera battaglia ideologica di cui abbiamo avuto esperienza, mentre il totalitarismo e il comunismo ne uscirono sconfitti. I “buoni” avevano vinto la Guerra Fredda, McDonald’s apriva i battenti a Mosca ed era giunto il momento di gioire. Ma in Russia le cose andarono diversamente. La fine della Guerra Fredda rappresentava un’occasione, non soltanto di progresso economico ma anche di essere accolti tra le potenze democratiche. Anche se l’Unione Sovietica crollò, la Russia – il suo membro di gran lunga più vasto e più potente – mantenne molti dei privilegi e delle posizioni dell’Urss, e conservò anche l’arsenale atomico più grande del mondo, mentre sull’Ucraina, la Bielorussia e il Kazakistan furono esercitate, e con successo, forti pressioni perché rinunciassero ai loro. La Russia prese il posto dell’Unione Sovietica nel Consiglio di sicurezza Onu, e nonostante le continue rimostranze, infondate, per le umiliazioni subite dall’Occidente vittorioso, non furono mai pagate le riparazioni chieste dalla parte vincente. Anzi, gli Stati Uniti e diversi altri paesi concessero garanzie di prestito e altri aiuti di cui la Russia aveva bisogno, direttamente o tramite il Fondo monetario internazionale (Fmi). La Russia fu addirittura pagata per ritirare le truppe dispiegate in Germania. Non si trattava solo di beneficienza: il tracollo e il caos in quel gigante nuclearizzato non avrebbero giovato a nessuno. Non furono d’altro canto istituiti nemmeno processi o commissioni di verità e riconciliazione per l’Urss, né a livello nazionale né a livello internazionale. Dopo decenni di genocidi, trasferimenti e imprigionamenti di massa e di repressione totalitaria, fu semplicemente deciso che quello era il passato e che si sarebbe entrati in un futuro radioso senza nessuna recriminazione. Ovviamente tanti nuovi leader e dirigenti avevano tutto l’interesse a non scavare troppo a fondo in quel passato così feroce. Io stesso non vado fiero di aver fatto parte del Partito comunista, anche se la mia era stata un’affiliazione di comodo per poter continuare la mia carriera da scacchista (ho lasciato il partito nel gennaio del 1990). “Evitare la caccia alle streghe” era dunque la posizione condivisa, anche se ciò significava lasciare che persone con le mani sporche di sangue occupassero posizioni di potere. Ciò fece sì, peraltro, che le basi del potente apparato di sicurezza russo rimanessero sostanzialmente intatte, seppur con un nuovo nome e con un profilo decisamente più basso, almeno per il momento. Eltsin non voleva processi, cosicché gli archivi del Kgb rimasero secretati. Ai vecchi funzionari furono tacitamente promesse immunità e sicurezza finanziaria se avessero agevolato la transizione del potere. Questa stessa formula fu impiegata da Eltsin quando scelse Putin come suo successore nel 1999. Le nazioni occidentali sono state complici di questo discutibile insabbiamento. È incredibile la rapidità con cui persino i più veementi fautori della Guerra Fredda perdonarono e dimenticarono tutto non appena l’Urss cessò di esistere. La “caccia alle streghe” implica che un processo sia portato avanti sulla base di false accuse e di prove inesistenti. E se invece di streghe in giro ce ne fossero parecchie, insieme alle prove di stregoneria? Non dimentichiamo che il mausoleo di Lenin non è stato mai rimosso dalla Piazza Rossa. Probabilmente ci si lasciò prendere la mano dall’euforia su entrambe le sponde della Cortina di ferro. Noi russi finalmente potevamo saperne di più sul resto del mondo, potevamo viaggiare, leggere dei giornali stimolanti. Potevamo parlare di questioni politiche importanti e addirittura votare! Non avevamo quindi troppa voglia di seguire cupi processi che riferissero nel dettaglio gli orrori consumatisi in Unione Sovietica, che del resto conoscevamo bene. Tutto questo si rivelò un terribile errore, che la Russia, come il resto del mondo, sta scontando ancora oggi. Non c’è un momento specifico in cui la Russia ha perduto la rotta e uno come Vladimir Putin, o chi per lui, è diventato una scelta inevitabile. Non c’è stato nemmeno un unico punto di svolta nei rapporti tra Occidente e Russia a segnare il passaggio dallo scontro sui diritti umani alla linea del compromesso. È stato invece un processo lento e costante. Stati Uniti ed Europa hanno continuato a chiudere un occhio sui crimini e le malefatte di Gorbaciov, Eltsin e Putin nella speranza che tutto si sarebbe rimesso a posto per conto proprio. I presidenti statunitensi, in particolare, hanno sempre riposto troppa fiducia negli individui invece di appoggiare le riforme strutturali e istituzionali che avrebbero potuto garantire la sopravvivenza della democrazia in Russia. La tolleranza nei confronti dell’autoritarismo russo, in realtà, è cominciata ancor prima che l’Unione Sovietica diventasse l’ex Urss. Già nel 1988, infatti, la fede incondizionata di Ronald Reagan nella superiorità morale della libertà individuale e del libero mercato dovette cedere il passo al prudente pragmatismo di George H. W. Bush. Agli inizi del 1991 Gorbaciov aveva serie difficoltà a portare avanti il suo timido programma di riforme, mentre il vento del cambiamento già soffiava forte dall’Europa orientale. Bush fece del suo meglio per appoggiare le iniziative di Gorbaciov per tenere insieme l’Urss, ad esempio con il famigerato discorso del “Chicken Kiev” del 1° agosto 1991, in cui intimò agli ucraini di non spingersi troppo oltre nella richiesta d’indipendenza dall’Unione Sovietica; ammonimento che li fece andare su tutte le furie. Il disperato tentativo di Gorbaciov di salvare il socialismo e l’Unione Sovietica alla fine fallì miseramente, mentre lui diventava senza volerlo un eroe dell’Occidente. Io personalmente, al contrario di altri, non gli riconosco il minimo merito per non aver mandato i soliti carri armati a sedare le rivolte anticomuniste scoppiate in tutto il blocco sovietico, anche perché in realtà Gorbaciov inviò militari in Lettonia e in Lituania, dove secondo lui avrebbe potuto agire indisturbato. Gorbaciov non era propriamente un cuor di leone quando c’era in ballo la sua testa, e non voleva fare la fine del dittatore rumeno Nicolae Ceaușescu, la cui destituzione e il cui assassinio, nel dicembre del 1989, erano ancora ben impressi nella memoria collettiva. In un mio intervento al Parlamento europeo, nel settembre del 1991, paragonai Gorbaciov a Luigi XVI: anche lui aveva richiamato il Parlamento e si era rifiutato di usare la forza contro i rivoluzionari nella speranza che costoro lo lasciassero in vita. Da questo punto di vista Gorbaciov ha avuto più fortuna di Luigi XVI, sebbene godesse più o meno della stessa popolarità presso il suo popolo. Si possono ravvisare delle somiglianze anche con l’ultimo zar, Nicola II, che pure tentò di scongiurare la rivoluzione e salvare la sua autocrazia concedendo delle blande riforme. Nonostante lo zar avesse istituito un parlamento ed emanato una costituzione finì comunque in rovina. (Non posso non far notare che Gorbaciov, Nicola II e Luigi XVI avevano in comune anche il fatto di essere sposati con donne intelligenti, influenti e impopolari: Raissa, Aleksandra e Maria Antonietta. Raissa era certamente consapevole della brutta fine toccata in sorte alle altre, e immagino che abbia incoraggiato il marito a non usare la forza per aumentare le chance di fuggire e salvare la pelle, e le sue pellicce.) Boris Eltsin, al contrario, era un populista autentico, nonostante la sua carriera da funzionario di partito. Il suo culto del popolo trovava riscontro nelle sue azioni e nelle ambiziose riforme politiche. Sul fronte internazionale non aveva il polso fermo e ne era consapevole, ma cercava di compensare questa pecca con un mix di arroganza e fascino nei rapporti con i leader stranieri. In ogni caso, Eltsin riuscì a tutelare la sfera di interesse regionale malgrado la profonda debolezza della Russia sulla scena mondiale negli anni Novanta. Ciò che riuscì a ottenere va tutto a suo merito, con grande demerito di Bill Clinton e degli altri leader del G7 che glielo consentirono. Gli anni Novanta furono un susseguirsi di grandi occasioni mancate per le forze della democrazia a livello mondiale. Più che in qualsiasi altra epoca della storia, la potenza economica, militare e morale era tutta da una parte, ma questo capitale invece di essere sfruttato, ad esempio per riformare le Nazioni Unite a partire da una nuova e solida piattaforma in materia di diritti umani, fu dissipato inutilmente. Gli Stati Uniti e gli alleati europei possedevano le risorse e l’influenza per esercitare una fortissima pressione in favore di riforme sostanziali; risorse che erano state usate con profitto per vincere la Guerra Fredda. Non appena cadde il Muro di Berlino, però, Usa ed Europa cambiarono rotta, confidando quasi esclusivamente sulla strategia degli incentivi e del compromesso, che andava bene nell’Europa orientale ma non avrebbe funzionato con autocrati come Vladimir Putin. Tutte le volte che Putin ha inasprito la repressione in Russia, o anche quando ha interferito negli affari delle nazioni vicine, l’Occidente ha avuto la possibilità di contrattaccare. Invece, ogni volta si è preferito rispondere concedendogli rapporti ancor più saldi con le principali democrazie mondiali e, soprattutto, una maggiore apertura ai loro lucrosi mercati. Non possiamo sapere con certezza se una posizione ferma da parte del mondo libero avrebbe potuto effettivamente deviare o bloccare il cammino di Putin verso la dittatura. Eppure io sono convinto di sì. Putin non è un ideologo. Lui e i suoi sodali hanno accumulato ricchezze spaventose e la minaccia di non poterne usufruire liberamente in Occidente sarebbe per loro devastante. A differenza dei loro predecessori sovietici, Putin e i suoi alleati non si accontentano di una limousine ultimo modello e di una bella dacia sul mar Nero. Vogliono governare come Iosif Stalin ma vivere come Roman Abramovič, il caro amico di Putin che ha speso una fortuna per comprare una famosa squadra di calcio inglese e svariati yatch grandi quanto un campo di calcio. Gli oligarchi di Putin viaggiano in tutto il mondo e custodiscono le loro ricchezze all’estero, e questo dà ai governi occidentali una leva di potere consistente, se soltanto avessero il coraggio di usarla. Questo ragionamento era tanto più valido all’inizio del primo mandato di Putin, quando ancora stava valutando come muoversi. Come ogni autocrate che si rispetti, Putin risponde solo al potere. Fa un passo, si guarda intorno, annusa l’aria e poi, se non ci sono intoppi, va avanti. Ad ogni nuovo passo acquista sempre più fiducia, e di conseguenza diventa più complicato fermarlo. Per gente come Putin, le deboli manifestazioni di preoccupazione dei diplomatici e i ministri degli Esteri sono soltanto un invito a tirare dritto per la sua strada. Ai suoi occhi chiacchiere di quel genere sono fatte apposta per non voler dire nulla. Del resto se la preoccupazione degli Stati Uniti fosse sincera, farebbero qualcosa invece di esprimerla a parole senza muovere un dito. Alla base di questa linea distensiva c’è un ottimismo immotivato circa la vera natura di Putin oppure un cinico carrierismo politico che giudica una Russia aggressiva e ricca di risorse energetiche un problema troppo complicato da risolvere. Era più comodo per i leader occidentali fingere che la Russia non fosse un problema che ammettere che sarebbe stato difficile o impossibile risolverlo. Poi c’è una categoria a parte, quella di leader come Silvio Berlusconi e Gerhard Schröder, per i quali cooperare con Putin è solo una questione d’affari. Per quanto si possa dare a questa strategia il nome di “compromesso”, essa somiglia troppo al ben noto appeasement. La lezione di Chamberlain e di Daladier, che nel 1938 incontrarono Hitler a Monaco, è valida ancora oggi: dando a un dittatore ciò che vuole, lo si spingerà a pretendere sempre di più, e così si convincerà che gli altri non sono abbastanza forti per impedirgli di prendersi ciò che vuole, altrimenti si sarebbero opposti fin dall’inizio. È così che ragiona un dittatore. Di segnali circa la vera natura e le intenzioni di Putin ce ne sono stati molti. La sua scalata al potere fu agevolata dal modo in cui gestì la crisi seguita ai bombardamenti di alcune palazzine nel 1999. Peraltro, ancora oggi taluni sospettano che quegli atti terroristici fossero stati in realtà provocati ad arte, sul modello dell’incendio al Reichstag (ma diversamente da quell’episodio, in questo caso fu versato davvero del sangue). I bombardamenti a tappeto e le torture di civili in Cecenia che ne seguirono furono fatti passare per azioni sviluppatesi all’interno della guerra globale al terrorismo, ma si trattava di una menzogna bell’e buona. In seguito, lo spregio di Putin per il valore della vita umana trovò ulteriore conferma in due occasioni, entrambe legate alla gestione di alcuni sequestri. La prima fu nel 2002, quando durante l’assedio al teatro Dubrovka, a Mosca, i soldati federali uccisero decine di ostaggi usando un gas non ben identificato. La seconda fu nel 2004, quando le forze di sicurezza usarono armamenti militari e demolirono una scuola piena di bambini tenuti in ostaggio a Beslan, provocando la morte di centinaia di persone. Nella percezione dell’opinione pubblica il repentino assoggettamento della stampa russa al Cremlino è stato, insieme con il rialzo dei prezzi del petrolio di oltre il 700% nel 2008, tra i motivi principali del successo del regime putiniano. Fin dagli esordi del suo primo mandato, Putin comprese che era fondamentale controllare il Quarto potere per riuscire a controllare gli altri tre. Questa lezione fu appresa quando, nell’agosto del 2000, il pasticciato salvataggio dell’equipaggio del sottomarino nucleare Kursk, affondato a causa di un’esplosione durante un’esercitazione nel mare di Barents, scatenò le proteste dell’opinione pubblica. Invece di strigliare i vertici militari o fare pulizia nella nostra pachidermica burocrazia, Putin se la prese con la stampa indipendente. Diverse testate furono rilevate in quel periodo da forze vicine a Putin e alla sua cerchia. Dopo aver trascorso tre giorni in prigione, nel giugno del 2000, il proprietario della Ntv Vladimir Gusinsky dovette cedere la sua società. Per la precisione, fu costretto a firmare la cessione della società prima di poter uscire dal carcere, con una “tecnica di negoziazione” che sarebbe diventata tipica di quei giorni. Mentre la sua televisione veniva confiscata e assorbita nell’orbita del Cremlino, nell’aprile del 2001, Gusinsky fuggiva in Israele. Oggi l’Ntv è forse il canale che con maggiore spudoratezza diffonde la propaganda ufficiale, per quanto da questo punto di vista la concorrenza sia spietata. A questa “censura soft” si accompagnava quella tradizionale, con liste di proscrizione e argomenti tabù. Il potere mediatico fu dunque centralizzato come quello politico e per lo stesso scopo: saccheggiare il paese e impedire lo scoppio di rivolte popolari. La corruzione dell’era Eltsin è rimasta impressa nella memoria collettiva della Russia solo perché in quel periodo era la stampa a raccontarcela. Negli anni Novanta i vari oligarchi si facevano la guerra usando come armi i mezzi d’informazione di loro proprietà. Sebbene non fosse combattuta lealmente e onestamente, nondimeno quella guerra portava alla luce un’enorme quantità di fatti, e migliaia di onesti giornalisti facevano del loro meglio per raccontare ai russi la verità. Sotto Putin, l’unica luce divenne quella proveniente dagli sfavillanti articoli su di lui e sulla sua amministrazione. Secondo uno schema ormai consolidato, la reazione occidentale a quest’avanzata verso il dispotismo si limitò a qualche comunicato stampa in cui si esprimevano le solite preoccupazioni, mentre gli affari andavano avanti come sempre. Putin fu accolto come membro a pieno diritto del G7, che in teoria dovrebbe rappresentare le grandi democrazie industriali. A chi per giustificare quell’adesione si appella alle dimensioni e al peso geopolitico della Russia andrebbe fatto presente che la Cina non ne fa parte. Poiché l’inclusione della Russia era una ricompensa per aver avviato le riforme democratiche, la si sarebbe dovuta revocare non appena Putin bloccò il processo riformatore. È significativo che la Russia sia stata mandata via solo e soltanto quando Putin ha invaso l’Ucraina e annesso la Crimea, nel marzo del 2014.[...]