MALINCONIA
Giovanna Bemporad
Estratto da "Poesia" febbraio 2014
Giovanna Bemporad
Estratto da "Poesia" febbraio 2014
Sempre ch’io viva a me sarà compagna
malinconia. Tu, sera, mi addolcisci,
o intatta sera, l’ultima sua fiamma.
Non più l’anima mia di sentimenti
gonfiano brune giovani cantando.
E la campana semplice che squilla
l’ora del vespro più non mi trasale.
Oh, tramontando il sole, è fatta oscura
la giovinezza: solo esce una bruna
spigolatrice, freddamente a sera.
<<Quel distacco fu una cosa naturale, in un certo senso scritta nel mio destino. Io con la scuola non legavo, così come non legavo con la famiglia, specialmente con mia madre. A dire proprio tutta la verità sono stata una contestatrice avanti lettera...Per le strade, i ragazzi mi ridevano dietro, mi insultavano. Ma io nemmeno me ne accorgevo. Avevo un gran fuoco dentro, mi sentivo una vestale della poesia.>> *Giovanna Bemporad (Ferrara, 1928 - Roma, 2013) racconta in un'intervista al settimanale Gente del 21 ottobre 1983 la scelta di andar via da casa a soli 14 anni, mantenendosi coi primi soldi guadagnati con le traduzioni dell’Odissea.
Poliglotta e traduttrice sopraffina dello stesso poema omerico, a cui dedicò tutta la sua esistenza, la poetessa e partigiana di famiglia ebrea fu molto amica di Pier Paolo Pasolini, che la valorizzò per primo con una recensione sul giornale 'Il Mattino del Popolo'. Nel 1957 sposò il futuro ministro Giulio Orlando, con una cerimonia civile in cui Giuseppe Ungaretti fece il testimone di nozze.
L'indomito spirito ribelle manifestato già da ragazzina le salvò la vita durante la Resistenza, all'età di 16 anni. Imprigionata dai militari tedeschi perché scoperta a portare in bicicletta messaggi segreti ai partigiani, infatti, si sottrasse alla fucilazione grazie al suo comportamento eroico ed irriducibile, come ricorderà nell'intervista citata:
"Venni catturata dalle SS e fui portata in campagna, messa contro un muro, le canne dei fucili puntate addosso. Era una fredda sera di novembre, il mese dei morti. Una furia selvaggia mi salì dalle viscere, mi misi a gridare in tedesco: «Perché mi volete uccidere? Non si uccide la poesia!». E continuai, sempre in tedesco, affidando la mia disperata voglia di vivere ai versi di Hoelderlin, uno dei poeti a me più cari dopo Leopardi. Le SS rinunciarono alla fucilazione e mi rinchiusero nelle carceri di Rovigo. Qui per tre mesi mi tennero sotto il torchio dei loro terribili interrogatori. Ma non approdarono a nulla. Io non rispondevo alle domande. Mi comportavo come se la guerra non ci fosse, come se i partigiani fossero solo una favola. Parlavo di Nietzsche, del 'Leviatano' di Hobbes, della grande filosofia di Hegel. A stancarsi furono loro, i miei aguzzini, e mi lasciarono andare".
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