sabato 5 novembre 2022

IL DOTTOR BERGELON Georges Simenon

 


IL DOTTOR BERGELON 

Georges Simenon


Recensione

È  stata, ancora una volta,  la fenomenale capacità  di Simenon di penetrare nel profondo  dell’essere umano, a catturarmi e tenermi legato alla lettura, dall'inizio alla fine, di questo romanzo.

Bergelon, Cosson, Cecile, Germaine, protagonisti a vario titolo di questo romanzo vengono spogliati  e mostrati al lettore nella loro essenza.

Non solo Bergelon, ma, tutti gli altri protagonisti o semplici comparse del romanzo sono delineati con tratti precisi: non  ci ricorderemo del loro aspetto fisico, ma perché  infelici o rassegnati, speranzosi o indolenti, arrabbiati o sognatori.

Pregi e difetti, meschinità e umanità concorrono nella descrizione di quello che è la natura degli uomini.

Basta un solo, imprevedibile evento a incrinare irrimediabilmente una vita tranquilla, organizzata o predefinita, e rivelare una carica che fa esplodere emozioni represse e sepolte.

La scheda 

«La parcella della prima operazione che mi procurerà sarà tutta per lei... In seguito, a ogni paziente che mi manderà, faremo a metà...»: questo aveva detto Mandalin, rinomato chirurgo e proprietario di una clinica di lusso. E quando il dottor Bergelon aveva dirottato sulla clinica la prima partoriente, Mandalin li aveva invitati a cena, lui e la moglie, nella sua bella casa dei quartieri alti, dove Bergelon aveva bevuto troppo, come Mandalin del resto, e poi tutto era andato storto, la partoriente era morta, e anche il bambino... Risultato: adesso il vedovo minacciava di ucciderlo – non Mandalin, ma lui, Bergelon! Eppure, ciò che spingerà il giovane medico a infrangere le regole di una tranquilla, e in definitiva soddisfacente, esistenza provinciale non sarà la paura di morire, né saranno le apprensioni di quella moglie rassegnata e piagnucolosa, ma un «lancinante bisogno di cambiamento», come la sensazione di avere addosso un vestito troppo stretto. «In lui» scrive Simenon «c’era una sorta di trepidazione, di ansia, una speranza, un’attesa, la voglia di fare un gesto – ma quale? –, di aprire non una porta, ma una strada, un mondo, una prospettiva nuova...». Come molti personaggi di Simenon, anche il dottor Bergelon ci proverà, a non accettare il suo destino, a togliersi di dosso quel vestito troppo stretto...


IL DOTTOR BERGELON 

1

Non c’era bisogno di essere medico per fare quella diagnosi: Bergelon aveva i postumi di una sbornia. La cosa non era sgradevole in sé, soprattutto finché se ne stava a letto. Sudando come sudava, gli sembrava che tutta la sua fatica, tutto ciò che di turpe aveva dentro gli uscissero lentamente dalla pelle. Senza contare quella specie di prurito da ferita che si cicatrizza...

Di lì a poco, quando si fosse alzato, non sarebbe più stato così. Avrebbe avuto un gran mal di testa, si sarebbe sentito confuso. Anche se non gli dispiaceva quella sorta di vaghezza, né i pensieri dolceamari che la accompagnavano: non è male, di tanto in tanto, lasciarsi prendere un po’ dalla malinconia.

Istintivamente, tastò il posto accanto a sé nel letto e seppe così, senza aprire gli occhi, che Germaine si era alzata. Era l’inevitabile pecca della situazione. Non gli avrebbe mosso rimproveri, ma sarebbe stata triste tutto il giorno. Triste e dolce, il che era peggio. E lui, già lo sapeva, non avrebbe potuto fare a meno di mormorare:

«Ieri sera devo aver bevuto un po’ troppo...».

Gesto vago di lei, come di rassegnazione:

«Non importa...».

Il che non avrebbe impedito a Bergelon di girarle intorno, di spiegarsi, di cercare di dimostrarle che non era colpa sua, che tutto sommato era piuttosto un bene...

Sempre con gli occhi chiusi, aggrottò le sopracciglia. Una mosca gli si era posata sul naso. La finestra era aperta. Il sole inondava la stanza e la strada era deserta. Conosceva quell’atmosfera. Non si sentivano né la trombetta dell’erbivendolo né l’aprirsi e il richiudersi delle porte al passaggio di chi andava al lavoro, per lo più impiegati.

Inoltre, le campane annunciavano una messa: era domenica. Germaine era appena rientrata e si stava togliendo il cappotto in corridoio. Tornava dalla funzione delle sette a Saint-Nicolas, dove aveva fatto anche la comunione.

Porte che sbattevano, scarpe chiodate che raschiavano il legno dei gradini delle scale: di sicuro Émile andava al raduno degli scout, mentre sua sorella si sarebbe chiusa in bagno per un’ora buona.

Probabilmente il ragazzo esitava a svegliare il padre per chiedergli il supplemento domenicale della paghetta che questi gli dava all’insaputa della madre.

Germaine stava preparando la tavola. L’acqua bolliva sul fornello a gas perché, nelle domeniche d’estate, si faceva a meno di accendere il fuoco.

Ed ecco che, a un tratto, Bergelon sentì come una fitta e fu proprio con quella fitta quasi impercettibile che cominciò tutto. Esattamente come capita a certi malati.

«Ha avvertito qualcosa negli ultimi tempi?» domandava loro.

«Forse sì... Ogni tanto, specie la mattina a digiuno, un senso di vuoto qui, nel petto...».

«Da quanto tempo?».

Per lui erano domande di routine: facevano parte del quotidiano. Per loro i pochi minuti che passavano nell’ambulatorio, dopo aver fatto la fila sulle seggioline rivestite di velluto verde della sala d’attesa, costituivano la svolta definitiva. Quelli che erano stati solo malesseri vaghi e fitte a stento avvertite ora prendevano un nome e le persone, di punto in bianco, acquisivano la condizione di malati.

Era sudato fradicio, fu sul punto di aprire gli occhi, di pensare in modo lucido, ma alla fine preferì crogiolarsi ancora per alcuni minuti in quella sonnolenza.

Un volto... Uno di quei volti giovani, incompiuti e tuttavia già segnati, in cui l’ansia si mescola a un che di aggressivo nello sguardo... Ne andavano spesso, in ambulatorio, di quei giovani, quasi sempre per porre la stessa domanda:

«È quello?».

Li sentiva tremare. Lo spazio tra il naso e il labbro superiore si copriva di goccioline umide.

Questa volta era diverso. Cosson, il figlio dell’ex poliziotto che era morto di un cancro allo stomaco – lo aveva curato lo stesso Bergelon –, lo guardava con un’angoscia più intensa, forse addirittura minacciosa...

Si rigirò nelle lenzuola. Doveva decidersi ad alzarsi. La porta si aprì. Era Émile.

«Dormi?».

Socchiuse le palpebre e vide suo figlio, dritto in piedi, con le ginocchia sporgenti, in divisa da boy-scout.

«Nella tasca dei miei pantaloni ci sono dei soldi. Prendi dieci franchi...».

Vedere Émile afferrare i pantaloni dello smoking fu un altro brutto colpo, perché Bergelon portava lo smoking una sola volta all’anno. Lo smoking gli ricordò Mandalin, il chirurgo, e Mandalin gli ricordò la clinica della Città Alta e il parco fiorito di tulipani che Jean Cosson misurava a grandi passi.

«Tua madre è tornata?».

Lo sapeva, ma lo chiese lo stesso. L’insolito retrogusto che sentiva in bocca era il retrogusto del whisky, perché da Mandalin aveva bevuto whisky giocando a bridge. Doveva aver fatto una figura ridicola: gli avevano chiesto se giocava a bridge e lui, imprudentemente, aveva risposto di sì. Poi, come sempre quando beveva, si era lasciato prendere dall’entusiasmo, aveva fatto dichiarazioni esagerate, e per di più si era ostinato a dimostrare che aveva ragione.

«Oggi dove andate?».

«Nella foresta di Méran. I lupetti devono fare tre piste e...».

Lo squillo del telefono, giù in ambulatorio. La voce di Germaine che rispondeva, poi, nella tromba delle scale:

«Élie!... È per te...».

Afferrò al volo la vestaglia viola, la infilò scendendo e si rese conto che la testa gli faceva davvero molto male. Passando, scorse sua moglie e sua figlia in sala da pranzo.

«Pronto... Dottor Bergelon...».

Riconobbe subito la voce:

«È lei, ragazzo mio?».

Mandalin aveva la mania di chiamare tutti «ragazzo mio».

«Come va?... Non troppo mal di testa, spero... Senta un po’!... A proposito della Cosson... Io e mia moglie dobbiamo pranzare da certi amici in Sologne, partiamo tra pochi minuti... Forse sarebbe il caso che lei andasse in clinica a dare un’occhiata...».

A Bergelon tremavano le dita, ma dipendeva dall’aver bevuto troppo la sera prima.

«Ci sono novità?» domandò.

«Mi ha appena telefonato l’infermiera... Quello non la smette...».

«E allora?».

«Niente... Cosa vuole che ci faccia, ragazzo mio?... Rientrerò in serata e le darò un colpo di telefono... I miei ossequi a sua moglie...».

Tutto qui! Restò in piedi nello stesso punto e riappese lentamente il ricevitore.

Perché doveva andarci lui, in clinica? Mica era lui, il chirurgo. Mica era stato lui, alle tre del mattino, a far partorire la moglie di Cosson.

Badò appena al bacio che suo figlio gli appioppava sulla fronte alzandosi sulla punta dei piedi prima di precipitarsi in strada e far tremare tutta la casa per la violenza con cui chiudeva la porta.

«Un giorno o l’altro la romperà...».

Germaine era sempre profeta di sventure, e sempre con quella voce sommessa e rassegnata.

«Non vieni a far colazione?».

Impossibile evitare la sua prima occhiata carica di ansia, né lo sguardo curioso di Annie, già pronta per la messa solenne. Aveva tredici anni, e tutti i suoi atteggiamenti, tutte le espressioni del suo volto ricalcavano quelli della madre.

Pazienza! Dispensò i due canonici baci, uno per guancia, e si sedette al solito posto, di fronte alla porta finestra aperta sul piccolo giardino. In fondo, dietro una rete metallica, chiocciavano sei galline e un gallo. Alto nel cielo ronzava un aereo, della base di Bourges o di Moulins. Si sentirono di nuovo le campane, ma non erano più quelle della parrocchia: il suono veniva da più lontano, da un’altra chiesa.

La tovaglia era a quadretti blu. Bergelon aveva una caffettiera tutta per sé, perché non beveva latte e detestava la cicoria.

Ma era poi così tragico, dopotutto? Rivedeva Cosson, nel giardino della clinica, quando cominciava a far giorno. Era davvero una gran bella clinica, sulla collina, in mezzo agli alberi e alle ville nuove. Mandalin sapeva quanto i pazienti siano sensibili a un ambiente lussuoso, e sapeva che si può far pagare molto di più un’operazione se le infermiere sono carine e portano un’uniforme elegante.

Nell’attesa, Bergelon era uscito a fumare una sigaretta. Non era completamente ubriaco. Forse la sbronza gli era già passata... Dal suolo umido saliva uno sgradevole odore di terriccio. Nelle case vicine le persiane erano ancora chiuse. Un autista mattiniero lavava con il getto di una pompa una magnifica automobile. Nella pianura scorreva la Loira.

E Cosson, mentre sua moglie partoriva, stava chino a osservare un’aiuola di tulipani.

Era agitato. Ma era un tipo così, sempre teso. Poiché Bergelon si avvicinava, provò il bisogno di pronunciare, indicando i fiori:

«È incredibile pensare che sono nati così, semplicemente, senza dolore, mentre...».

Tirava su col naso, sembrava sull’orlo delle lacrime, e si girava verso una finestra della clinica, verso una tenda color crema dietro alla quale era accesa la luce.

Era sincero o no? E lo era stato un mese prima, quando era andato da Bergelon per fargli visitare la moglie, figlia di un pensionato delle Ferrovie?

«È sicuro, dottore, che il bambino è messo bene?».

Sempre teso! Troppo teso! Stancante guardarlo vivere!

E anche troppo... come dire?... troppo bravo ragazzo... Troppo sensibile... troppo a modino...

«Senta, dottore... Non sono ricco... Sono nato qui e lei mi conosce... Mio padre era poliziotto... È morto giovane e mia madre ha lavorato sodo per farmi studiare... Sono entrato in banca come contabile... Ho sposato Marthe... Abbiamo appena arredato un appartamento senza pretese ma confortevole... I pochi risparmi che mi restano voglio spenderli per il parto... Non deve mancarle niente, dev’essere seguita dal miglior specialista... E se non riesco a pagare in una volta sola, salderò il conto a rate... Posso informarmi in banca...».

Il gallo si pavoneggiava in fondo al giardinetto tagliato in due dal sole. Germaine esitò, guardò la figlia, cercò una perifrasi e alla fine sospirò:

«È andato tutto bene?».

Peggio per lei! Era colpa sua, alla fine! Se non gli avesse sempre parlato di soldi... E sempre con quel tono piagnucoloso!...

Come se i suoi genitori ne avessero, di soldi! Suo padre non andava forse di casa in casa a piazzare personalmente le pentole che vendeva?

Eppure, da quando si erano sposati, stava sempre lì a fare i conti, ad accantonare mucchietti di spiccioli.

«Questo è per il gas...».

O per la luce! O per il carbone! Un mese prima! Tralasciando il fatto che, al limite, la compagnia del gas poteva aspettare...

Non aveva forse calcolato quasi al centesimo quanto poteva renderle un uovo delle sue galline?

«Non pensi che si approfittino di te e che potresti farti pagare di più le visite?».

Il denaro fine a se stesso, per la sicurezza che procura! Non aveva mai voluto una domestica. Già era tanto se due volte alla settimana veniva una donna a ore per i lavori più pesanti. Germaine correva tutto il giorno, sempre lì a stirare, a lavare, a togliere la polvere o a rammendare. E se disgraziatamente Émile si sedeva per terra, subito si sentiva dire:

«Così consumi i pantaloni!».

Allo stesso tempo, si rattristava che la casa non avesse un piano in più, un piano di cui non avrebbero saputo cosa fare ma che, ai suoi occhi, avrebbe rappresentato la ricchezza!

Be’, no! Non era andato tutto bene! Per niente! Era andata male! Malissimo!

«Il bambino è morto!» buttò là.

Il che non gl’impediva, in quel momento, di gustarsi il croissant e di seguire con gli occhi le prodezze del gallo che correva dietro alla gallina livornese.

«Povera donna! Come deve soffrire!...».

«Non lo sa ancora...».

«Non si è fatta portare il bambino?».

Lui guardò la figlia. Era difficile continuare davanti a lei. Annie lo capì e disse, offesa:

«Io vado... Mamma! Dove hai cacciato il messale?».

Perché, oltre ai normali libri da messa, avevano un messale rilegato in zigrino rosso e con taglio in oro che serviva a tutta la famiglia. Annie s’infilò i guanti bianchi. Ancora baci. In casa ci si baciava continuamente, se si entrava, se si usciva. Ci si baciava con un movimento automatico delle labbra, come una beccata, guardando da un’altra parte.

Adesso che Annie era uscita, Bergelon poteva continuare:

«Lei sta malissimo... Ci sono poche probabilità che ce la faccia...».

«E quel povero ragazzo?».

Il povero ragazzo sarebbe diventato vedovo, ecco tutto! Bergelon ebbe quasi voglia di risponderle così, a muso duro.

Era colpa sua, di Germaine! Per quanto strano potesse sembrare. Quella sua idea del secondo piano. Solo perché due abitanti della via si erano fatti costruire un piano supplementare!

Un giorno, per caso, un paio di mesi prima, Bergelon aveva incontrato per strada il dottor Mandalin, che conosceva solo per averlo intravisto ad alcune riunioni del sindacato dei medici. Mandalin era un personaggio importante. Abitava in una palazzina d’epoca nei quartieri alti di Bugle. Aveva fatto costruire una clinica modello con una dozzina di letti. Da qualche tempo aveva il suo autista personale.

«Senta un po’, Bergelon, vecchio mio...».

Neanche si fossero conosciuti a scuola o al servizio militare.

«Non è per rimproverarla, ma lei non mi manda mai i suoi malati...».

«Che vuole... Ho soprattutto una clientela di quartiere...».

Avrebbe potuto aggiungere:

«Di un quartiere modesto...».

Perché con la clientela povera si può ancora lavorare. Non con quelli della parrocchia di Saint-Nicolas, né ricchi né poveri, che guadagnano poco e investono quel poco in un’apparenza di dignità.

«Si esagera molto sui miei prezzi... So adeguarmi alla clientela... Quanto a lei, non se ne pentirà... La parcella della prima operazione che mi procurerà sarà tutta per lei... In seguito, a ogni paziente che mi manderà faremo a metà... Arrivederci, vecchio mio... A presto...».

Dopodiché, la vita di tutti i giorni, le visite a venti franchi e le taccagnerie di Germaine.

È come se la gente corresse dritta incontro al proprio destino... Cosson e sua moglie... Cosson che fa lo spavaldo, che tira su col naso, che giura su «quanto ha di più prezioso al mondo» e che esige, per la nascita di suo figlio, il «miglior ostetrico di Bugle».

Mandalin, che diamine! Mandalin che adegua i prezzi! Mandalin che, improvvisamente, manda ai Bergelon un elegante cartoncino goffrato invitandoli a una cena seguita da bridge.

«Abito da sera».

Panico di Germaine, che si precipita dalla sarta. Odore tenace di benzina in tutta la casa perché ha voluto a tutti i costi rimettere a nuovo lo smoking del marito.

A tavola serve un maggiordomo in guanti bianchi. Ci sono solo medici, medici che, evidentemente, mandano i loro malati al padrone di casa.

Mandalin ha una faccia da coniglio. Nel salotto troneggia il suo ritratto a olio, a grandezza naturale, completo di decorazioni, accanto a quello della bella signora Mandalin.

«Gioca a bridge, signora?».

Germaine risponde di no e arrossisce come se confessasse una tara.

«Sa, ho così poco tempo... Fra i bambini e la casa...».

Poco ci manca che stia seduta sull’orlo della sedia e, a ogni portata, ringrazia il maggiordomo chiamandolo signore.

«Senta, Mandalin...».

Perché è il chirurgo stesso che, il giorno prima, ha pregato Bergelon di chiamarlo così.

Bergelon gli indica il proprio orologio. Alle otto è arrivata una prima telefonata dalla clinica dove la signora Cosson è entrata nel pomeriggio. Sono iniziate le doglie.

«Tranquillo, vecchio mio... Arriveremo in tempo».

Poi, verso la fine della cena, il maggiordomo si è chinato su Mandalin e gli ha parlato sottovoce. Bergelon ha capito che si trattava della signora Cosson, e ha rivolto a Mandalin un cenno interrogativo al di sopra della tavola.

«Non si preoccupi!».

Poi comincia l’incubo. Mancanza di allenamento! Bergelon è troppo agitato. Non è abituato a indossare lo smoking né a giocare a bridge con poste così alte. Ha un bicchiere di whisky sempre pieno a portata di mano. La sua partner è la moglie dell’otorinolaringoiatra, lei stessa figlia di un professore universitario.

Mandalin balla al suono del grammofono, chino sulle signore che invita a ballare raccontando loro delle amenità che lo fanno sorridere a trentadue denti.

Bergelon vorrebbe tanto domandargli se... Dà un’occhiata all’orologio... La sua partner gli rimprovera di aver «contrato»... Allora lui spiega... Spiega disperatamente... E Germaine, nel frattempo, con lo sguardo carico di riprovazione, siede sola in un angolo... Ringrazia quando le porgono dei pasticcini... Ringrazia quando le offrono una coppa di champagne... Ringrazia tutti, umile e sdolcinata...

Le due... Le due e mezzo... Dalla clinica hanno telefonato di nuovo... L’otorinolaringoiatra è il primo ad alzarsi.

«Allora, andiamo, ragazzo mio?... Intanto il mio autista accompagnerà a casa sua moglie...».

C’è da scommettere che Germaine si è profusa in ringraziamenti anche con l’autista!

Quanto a Mandalin e Bergelon, hanno raggiunto a piedi la Città Alta, sotto il cielo stellato di una notte meravigliosamente fresca.

«Lei capisce, vecchio mio, che se dessi retta a tutti dovrei stare al loro capezzale dieci ore di fila... E ci sono giorni in cui arrivo a fare dieci operazioni... La capoinfermiera conosce i miei metodi...».

Chi dei due barcolla? Bergelon? Mandalin? Forse tutti e due...

«Potrà facilmente contare su un guadagno da dieci a ventimila franchi all’anno mandandomi ogni tanto...».

Che cos’altro ha detto? Ah, sì! Che lui aveva dodici letti da riempire, dodici letti che, anche quando sono vuoti, comportano le stesse spese generali...

Hanno trovato Cosson in piedi al capezzale della moglie, la mano che stringeva quella di lei, lo sguardo tragico, le labbra tremanti.

«Mi dica, dottore...».

«Per cominciare, lei si tolga dai piedi... Vada in giardino... La chiameremo quando sarà tutto finito...».

Strizzatina d’occhio a Bergelon. Visto come lavora, lui?

Guarda distrattamente il referto che gli porgono, tasta il polso senza farci caso e continua a barcollare.

«Portatemela in sala operatoria... Avvertite la signorina Berthe... Iniezione di...».

Si sentono i treni merci che passano fischiando. Tranne il personale della stazione, gli unici a essere ancora svegli in città sono loro.

No! È sveglio anche Hubert il Guercio, un pescatore di frodo che Bergelon ha curato e che, in quel momento, sta probabilmente lanciando la sua rete nella Loira per rifornire le balere del fritto domenicale...

«È sicuro, dottore, che...».

Cacciano via Cosson. Lo cacciano via, letteralmente: Mandalin gode di reale autorità. In una camera vicina si sente vagire un bambino mentre da un’altra camera esce un’infermiera con mucchi di cotone in un contenitore smaltato.

«Il 2?».

«Sempre uguale».

«E il 7?».

«Non un granché...».

Mandalin è ubriaco! Bergelon è sicuro che Mandalin sia ubriaco, ma è pure sicuro di esserlo anche lui. Si muovono in una luce soffusa. Ci sono fiori davanti a tutte le porte, fiori che vengono portati fuori dalle camere per la notte. A volte un campanello, una lampadina che si accende come negli alberghi, qualcuno che chiede da bere, o che sente troppo dolore, o che non ce la fa più a stare solo e chiama un’infermiera.

«Aspettami un momento, ragazzo mio...».

Mandalin gli ha dato del tu. Quando ricompare indossa stivali di feltro, ha un grembiule di gomma, rosso, intorno ai fianchi e un berretto bianco da chirurgo. La metà inferiore della sua faccia da coniglio è coperta da una benda di garza.

Solo cenni... Ordina... E barcolla! Barcolla sempre di più!

In giardino, Cosson si commuove sui tulipani, sullo spuntare del giorno, sul mistero di quella notte in cui sta per nascere suo figlio...

Passa la barella... Il lettino articolato... La maschera...

Bergelon, impressionato, si è seduto in un angolo. Gli sembra di essere meno ubriaco. Ha quasi voglia di intervenire, di gridare che è tutta una buffonata, che si può far partorire diversamente, in modo più semplice, come lui ha fatto partorire tutte le donne del suo quartiere...

Troppi strumenti scintillanti nella bacinella di smalto... Forcipi... Mandalin che ha l’aria di dire:

«Lasciate fare a me! State per vedere qualcosa di straordinario...».

E che poco dopo impreca attraverso la garza che gli copre le labbra:

«Porca puttana di un...».

Fa caldo. Le due infermiere si guardano. Hanno coperto il volto della puerpera... Un treno...

Ed ecco che Mandalin, con il forcipe in mano, fa un gesto sbagliato... Perché ha bevuto...

Si raddrizza, si strappa la maschera. Riprende fiato con difficoltà e dichiara:

«Era inevitabile, non si poteva fare diversamente...».

Il bambino è morto.

«Senta, Bergelon, mentre io faccio quello che mi rimane da fare, pensi lei a informare il padre...».

Ha lavorato ancora per quasi un’ora.

«Che scalogna, vecchio mio... Sigaretta?...».

E sono ritornati in città camminando per le strade deserte dove il sole indorava muri bianchi mentre fischiavano i merli. A un incrocio si sono separati.

«Ho lasciato istruzioni... Spero che l’emorragia si fermi... La mia capoinfermiera...».

 

 

Ha mangiato tre croissant senza mai staccare gli occhi dal gallo. L’orologio sul camino fa tic tac. Germaine dice:

«Ho promesso ad Annie che avremmo fatto un giro in barca...».

Perché sulla Loira, a due chilometri da Bugle, si noleggiano le barche, e ci si può andare con l’autobus. Annie si siede a poppa, seria e compassata come una signora, mettendo tutte e due le mani in acqua mentre suo padre, in maniche di camicia, rema lentamente e Germaine fa il bilancio dei problemi che ha affrontato quella settimana.

«Non so se potrò... Devo andare alla clinica... Vado difilato a vestirmi...».

«La biancheria è pronta... Sul secondo ripiano dell’armadio...».

Le campane della messa solenne... Di solito lui si accontenta della messa delle undici, l’ultima, seguita quasi solo da uomini che stanno in piedi vicino alla porta...

Pazienza! Si lava. Si fa la barba. Non se la sente di prepararsi un bagno, e del resto la domenica, dopo che tutti gli altri lo hanno fatto, l’acqua non è più abbastanza calda. Radendosi si taglia, macchia di sangue un asciugamano. Si passa un velo di cipria e gliene resta un po’ dietro le orecchie.

Chi suona il campanello? Chi ha suonato? Germaine è andata ad aprire. Ha fatto entrare qualcuno nella sala d’attesa dalle poltroncine verdi.

Non la si sente salire. Non la si sente mai. Scivola sui pavimenti. Apre la porta e, pallida e grave come la personificazione di una coscienza, mormora:

«C’è giù il piccolo Cosson».

Perché tutti e due lo hanno conosciuto da bambino, prima che diventasse un giovane uomo e poi un uomo sovreccitato. Appartengono alla stessa parrocchia. Hanno frequentato le stesse scuole, seguito le funzioni alla chiesa di Saint-Nicolas e mangiato i gelati dello stesso italiano.

«Che cosa vuole?».

«Vuole che qualcuno vada alla clinica... L’emorragia...».

Bergelon è pronto. Scende. Apre la porta e già volta la testa dall’altra parte, con aria colpevole.

Come fa con sua moglie. Proprio non riesce a mostrarsi spavaldo. Assume un’aria colpevole prima di esserlo e si scusa prima di essere accusato. Senza ragione, in una cattiva imitazione della disinvoltura di Mandalin, che sta viaggiando con la famiglia verso la Sologne, prova il bisogno di dire:

«Mio povero amico!...».

«Deve venire subito... L’infermiera non vuole parlare, ma io capisco... C’è un taxi che aspetta...».

Lei sta per morire, ecco tutto! Ha poche probabilità di farcela! Ah, se il povero Cosson sapesse com’erano andate le cose fra le tre e le quattro del mattino...

A Bergelon basterebbe tacere, assumere un’espressione grave, tutt’al più lasciar cadere qualche parola solenne. Invece, nell’auto che attraversa il quartiere, le strade soleggiate con tratti d’ombra e il mercato degli uccelli che si tiene alla domenica sotto i platani di una piazzetta, ripete imprudentemente:

«Mio povero amico!...».

«Crede che...?».

È sincero o non lo è? Ha gli occhi pieni di lacrime, o soltanto quello che può vedere Cosson?

Bergelon non lo fa apposta. È più forte di lui. Ha notato, passando, una voliera di pappagallini e gli è venuta voglia di sistemare in giardino una voliera di pappagallini!

Ha visto anche il carretto dei gelati dell’italiano e ne ha ritrovato il sapore in bocca, come quando era piccolo.

Tergiversa, a disagio.

«Le assicuro che il dottor Mandalin e io abbiamo fatto tutto il possibile per...».

Proprio quello che non bisognava dire! L’altro ha alzato la testa con lo scatto di un uccello impaurito. E ha un profilo da uccello, l’occhio rotondo e vivace, i lineamenti aguzzi, la bocca sottile. Tipi del genere sono capaci di tutto, specie quando perdono il lume della ragione.

«Lei mi aveva assicurato che la posizione del bambino era perfetta...».

«Ma non si può mai sapere...».

«Vi hanno telefonato tre volte nel corso della serata e...».

Si confonderà, adesso? Quello è pur sempre il suo quartiere, le strade familiari, l’ortolano che vende anche caramelle davanti alla scuola dove...

«Le assicuro, mio caro Cosson...».

«Le infermiere si rifiutano di rispondere alle mie domande... Come se avessero qualcosa da nascondere...».

Le strade cambiano. Adesso sono quasi viali, con alberi troppo giovani che non fanno ancora ombra e ville sfarzose davanti alle quali sono parcheggiate auto di grossa cilindrata. I loro abitanti, come Mandalin, approfitteranno della primavera per fare escursioni nella regione.

Cosson ha le palpebre orlate di rosso, la cravatta allentata. Fuma una sigaretta che tiene con le dita macchiate di nicotina.

Batte sul vetro, perché l’autista non si è fermato in tempo. Guarda Bergelon. Bergelon volta la testa dall’altra parte.

Perché leggere un’accusa negli occhi del suo compagno? Non è proprio lui, invece, che sta facendo nascere quel dubbio, quel sospetto?

Un cancello. Un vecchio portinaio con l’uniforme da infermiere.

«È per...?».

«Il 9...».

Il giardino. I giacinti. I tulipani. Uno zampillo solitario d’acqua che descrive un cerchio sopra un prato. Un’infermiera che passa con dei biberon.

Jean Cosson cammina in fretta. Se potesse, tirerebbe il dottore per un braccio. Ma Bergelon ha capito. E rallenta, al contrario.

Davanti alla finestra che quella notte era illuminata ha visto una tenda nera.

Si sente di nuovo girare la testa... La bocca impastata... E il tepore del sole sulla nuca...

Marthe Cosson è morta.

Guarda altrove. Guarda la Loira, l’infinito luccicare delle sue acque. Gli viene da vomitare.

E la cosa più terribile è che Cosson non gli stacca gli occhi di dosso.

2

«Pronto! È lei, ragazzo mio?».


«Dottor Bergelon» rispose meccanicamente Élie giocherellando con un tagliacarte.


Era strano ascoltare la voce di Mandalin all’altro capo del filo e guardare il ventre pallido della signora Pholien sdraiata sullo stretto lettino di finta pelle.


Bergelon pensava a quello che gli veniva detto al telefono, certo. Ma strizzava le palpebre perché pensava anche alla signora Pholien che, come lui, aveva sempre abitato in rue Pasteur. Lui al 3. Lei al 27. Lei aveva già la stessa età di adesso, per così dire, quando lui era un ragazzino che le rompeva i vetri della finestra giocando a palla. Non avrebbe mai immaginato, a quell’epoca, che un giorno sarebbe venuta a mostrargli il ventre raccontandogli i suoi malanni...


«Senta un po’! Ci è andato, lei, al funerale? Lui le ha detto qualcosa?».


Bergelon sorrideva ancora al ventre della signora Pholien che già Mandalin lo portava altrove. Non abbastanza in fretta, comunque, da non fargli ricordare le note stridenti di violino quando si passava davanti all’appartamento dei Pholien, perché il marito, che aveva una gran massa di capelli, dava lezioni di violino. Forse ne aveva prese anche Jean Cosson...


Il funerale? Ah, sì!...


«No! Non mi ha detto niente... Ma sa, c’era molta gente...».


Persino qualcuno che si fermava lungo il marciapiede per veder passare il corteo funebre con le due bare, quella della madre e quella del bambino. Cosson, ovviamente in nero, con gli occhi e il naso rossi, un fazzoletto appallottolato in mano, teneva lo sguardo fisso davanti a sé con aria truce mentre uno zio lo sorreggeva per un braccio...


Bergelon gli aveva stretto la mano, come tutti, all’uscita del cimitero, e aveva ricevuto in cambio lo stesso cenno del capo riservato agli altri, una sorta di ringraziamento muto e desolato.


Il gallo cantava, in fondo al giardino. Da Halkin, il calderaio, i lavoranti battevano il rame e l’eco delle martellate risuonava in tutto il quartiere. La signora Pholien ascoltava pur facendo finta di non ascoltare. E Bergelon continuava a giocherellare con quel tagliacarte che veniva da Lourdes.


«Non è venuto da lei, dopo?».


«Non ancora...».


Mandalin tossicchiò, disse qualcosa a un’infermiera che gli chiedeva un’informazione. Ovunque splendeva il sole. Alla clinica, lassù, scintillante e calda in mezzo ai fiori del parco. Nell’ambulatorio di Bergelon, le cui finestre davano sulla strada. Splendeva anche sulla parrocchia di Saint-Nicolas, sopra la quale volavano dei piccioni – o meglio, si trattava piuttosto di un’aria luminosa, vibrante, sonora, dotata di una fluidità e una profondità infinite.


«È sempre in linea?... Senta, vecchio mio... Gli avevo spedito la parcella, come al solito... Me la sono appena ritrovata sulla scrivania... Me l’ha rimandata senza neanche aprire la busta... Ho voluto avvertirla nel caso in cui...».


Nel caso in cui Bergelon reclamasse quello che Mandalin aveva promesso! Mandalin era preoccupato. La signora Pholien scacciò una mosca che le si era posata sul ventre. Era la terza volta che veniva a farsi vedere, convinta di avere l’appendicite.


«E non è tutto... La capoinfermiera mi ha riferito poco fa che Cosson ha fatto la posta all’altra infermiera, la giovane con i capelli rossi che lei ha visto in clinica. L’ha fermata per strada e le ha fatto delle domande. Capisce?».


Fu in quel momento che sentì la seconda fitta, come quando si era svegliato la domenica mattina con i postumi della sbronza. Una sorta di sfasamento. La mano che stringeva convulsa il tagliacarte. La sensazione di non essere più tutt’uno con il suo ambulatorio, con la strada, con il suo mondo.


«Non possiamo farci niente, vero? Volevo solo metterla al corrente casomai venisse da lei...».


Fu una coincidenza: nello stesso momento davanti alle finestre stava passando una sagoma, in cui Bergelon riconobbe Jean Cosson. Un attimo dopo si sentì il cicalino della porta d’ingresso. Perché i pazienti aprivano loro stessi la porta, che faceva scattare un cicalino dal suono grave. Attraverso il vetro della cucina Germaine si accertava che la cosa riguardasse il marito e non interrompeva quello che stava facendo. I pazienti prendevano posto da sé nella sala d’attesa...


«Ci vediamo presto?».


«Sì, certo, presto...».


Bergelon era in ansia. Nel quartiere molti lo chiamavano il Dottorino, prima di tutto perché molti lo avevano conosciuto da ragazzo, poi perché a trentatré anni ne dimostrava venticinque, e infine perché era realmente piccolo, smilzo, vispo.


«Le chiedo scusa...» disse alla signora Pholien riagganciando il ricevitore.


Quindi le tastò il ventre in diversi punti.


«Respiri... Non respiri... Le faccio male?... Qui?... Ha la stessa sensazione quando tocco da questa parte e dall’altra?... Posso dirle con certezza che lei non ha un’appendicite... C’è un leggero imbarazzo intestinale, semplicemente... Le prescrivo qualcosa da prendere ogni mattina a digiuno per alcuni giorni...».


«Era a proposito di Cosson, ci scommetto... Mi domando se quello che ho sentito ieri è vero... Aveva un’aria così disperata!... Mi ricordo ancora di quando veniva a prendere lezioni di violino...».


Si rivestiva. Lui, intanto, compilava la ricetta. La donna parlava con una voce monotona che gli arrivava all’orecchio come il ronzio di una vespa.


«Mi hanno dato per certo che da un pezzo ha una relazione con una prostituta...».


Bergelon alzò la testa e lei riprese:


«Ma lei lo crede possibile? Un ragazzo sposato da appena un anno! E con una persona così dolce, così modesta!».


Piegò il foglio della ricetta e lo mise nella borsa, posò sulla scrivania i venti franchi della visita perché, come usava ripetere, non voleva avere debiti.


Bergelon aprì la porta. La signora Pholien uscì, passando davanti ai pazienti in attesa nella penombra. Il dottore non aveva bisogno di dire:


«Il prossimo...».


La persona si alzava di propria iniziativa ed entrava nell’ambulatorio, mentre il dottore gettava un’occhiata agli ultimi arrivati.


«È per la bambina, dottore... Da un paio di giorni ha dei puntini sul petto e sulla schiena...».


Un carretto, in strada...


Bergelon si sforzava di non lasciarsi distrarre dalla faccenda di Cosson. Non ci riusciva. Avrebbe voluto rinchiudersi nella sua sfera personale come ci si avvolge in un mantello.


Lo faceva spesso, al punto che Germaine, mentre gli parlava di importanti questioni familiari, s’interrompeva sorpresa, indispettita di vederlo sorridere con lo sguardo perso nel vuoto.


«A che pensi?».


A niente! Non pensava a niente di preciso. Sentiva dei rumori, alcuni che venivano da molto lontano, come quelli del mercato di place Gambetta, a due isolati di distanza. E con i rumori del mercato gli arrivava una folata di infanzia, quando si infilava con sua madre in mezzo ai banchi, alle ceste di ortaggi e di frutta, e moriva dalla voglia di mangiare una di quelle torte belle spesse vendute da una vecchia ambulante.


«Non c’è da fidarsi... Non sappiamo come le fanno...».


In mezzo agli altri rumori si insinuavano voci di bambini in ricreazione, ed eccolo nella sua scuola, in rue de la Loi, dove, insieme a un paio di compagni, godeva del privilegio di passare l’intervallo a strappare le erbacce nel giardino del direttore.


Sentiva comunque quello che sua moglie gli andava dicendo, come anche le parole che rasserenavano i suoi malati.


«Ho pensato che può essere morbillo, dottore... Ce n’è un caso nel quartiere...».


«Ma no, no, cara signora... Sono semplicemente piccoli sfoghi di calore... Ci metta del talco, molto talco...».


Il prossimo! E Cosson che era sempre l’ultimo! Non leggeva. Indossava il completo da lutto e teneva in mano il cappello guarnito di un nastro nero. Ogni volta che Bergelon apriva la porta, alzava la testa e fissava su di lui il suo sguardo penetrante.


In realtà, non era giovane come sembrava. Se Bergelon ricordava bene, era entrato in prima elementare quando lui, Bergelon, otteneva il diploma. Quindi doveva avere ventisei o ventisette anni... E non aveva un fratello, morto durante il servizio militare?


Il prossimo!...


Stava cominciando a perdere la pazienza. Uno dei malati, Thioux – il quale, pur essendo stato suo compagno di giochi, da quando lui era diventato medico non osava più dargli del tu –, lo guardò stupito, ma non si arrischiò a fare commenti. A Thioux, che era panettiere, era venuta un’ernia a forza di portare sacchi di farina.


Germaine aspettò che quello fosse uscito ed entrò nell’ambulatorio prima del paziente successivo per lasciare a Bergelon la sua quotidiana tazza di tè.


«Hai visto chi c’è in sala d’attesa?».


«Ma sì, sì! E allora?».


I ragazzi tornavano da scuola e, come sempre, Émile strascicava i piedi in corridoio.


Ne era rimasto uno solo: Cosson, che si alzò mentre Bergelon non riusciva a impedire che le dita gli si contraessero.


«Buonasera, dottore».


Non era un uomo tormentato, era il tormento fatto uomo. Anche solo per dire «Buonasera, dottore», provava il bisogno di assumere un tono drammatico. E subito, dal fiato, Bergelon capì che aveva bevuto.


«Si sieda... Che cosa...».


«Oh, non sono ammalato! Non è per me che sono qui...».


C’era qualcosa di stonato. La voce non era naturale. Lo sguardo, ora sfuggente e ora aggressivo, sembrava passare in rassegna gli oggetti banali dell’ambulatorio cercando chissà quale indizio rivelatore.


«È a proposito di Marthe... Non posso fare a meno di pensare... La sera, non riesco ad addormentarmi e rimugino per ore...».


Era magrissimo. Gli occhi infossati, i capelli troppo lunghi. Continuava a tirarsi le dita facendole scrocchiare, e ogni volta Bergelon trasaliva.


«Prima di tutto, mi domando perché non mi è stato permesso di assistere al parto».


Bisognava pur dirgli qualcosa. Ma perché anche la voce di Bergelon suonava innaturale? Perché aveva ripreso in mano il tagliacarte e, invece di sedersi, andava su e giù per l’ambulatorio continuando a guardare fuori dalla finestra?


«È la regola... Nelle cliniche, a meno che il padre non lo richieda formalmente, sotto la sua responsabilità...».


«E il medico?... Non ha responsabilità, lui?».


Aveva pronunciato quelle parole con durezza e con le labbra tremanti.


«Perché, quando l’infermiera ha telefonato, il dottor Mandalin non è venuto?».


«Perché non era ancora il momento...».


Era uno sbaglio parlare come se stesse mentendo! Uno sbaglio aver l’aria di scantonare! Sì, aveva proprio l’aria di scantonare, e si rendeva conto che questo lo rendeva ancora più maldestro.


«Deve capire, amico mio...».


Perché quel «amico mio», che lui era incapace di pronunciare con la disinvoltura di un Mandalin che dispensava a destra e a manca il suo «ragazzo mio»?...


«Prima di tutto non sono un suo amico, sono un suo paziente...».


«Giusto!».


«E come paziente ho il diritto di sapere. Intuisco che mi si nasconde la verità, e che fin dall’inizio ci sono state cose poco chiare. Se la sentirebbe di giurare il contrario?».


Adesso che sarebbe stato necessario parlare, il dottore taceva.


«L’infermiera ha telefonato tre volte... Ero dietro la porta, e non ho sentito tutto, ma so che ha detto al dottore che era urgente...».


«Lei non può capire. I chirurghi conoscono i loro pazienti, sanno in anticipo qual è il momento esatto in cui devono intervenire...».


«E arrivano troppo tardi!».


«Ma no! Perché sostiene che sia arrivato troppo tardi?».


«Perché il bambino è morto... E mi hanno mentito... Ho interrogato un’infermiera... Adesso so che poteva vivere».


Bergelon aveva freddo, davvero freddo, e gettò sulla scrivania il tagliacarte che serviva solo a innervosirlo di più.


«Ci sono casi sfortunati...».


«Per chi?».


«Per tutti, mi creda».


Aveva freddo eppure sudava. Gli tornava in bocca come un retrogusto di whisky. Si rivedeva al tavolo del bridge, con un occhio all’orologio, preoccupato, senza il coraggio di disturbare Mandalin con la sua insistenza. Che cosa ci era andato a fare, in mezzo a quei luminari della città? E sua moglie, lasciata sola in un angolo a vergognarsi delle sue mani sciupate da casalinga...


«Quando penso che Marthe...».


Cosson tirava su col naso, girava la testa dall’altra parte, non tanto per nascondere le lacrime quanto perché quando si piange davanti a qualcuno si usa fare così.


Poi, di colpo, si drizzò di scatto e il dottore si accorse che era più alto di lui di tutta la testa. Parlava tra i singhiozzi, con voce soffocata.


«Mica è sua moglie quella che è morta, dottore... E se a partorire fosse stata la sua, di moglie, Mandalin avrebbe aspettato l’ultimo momento?... E tanto per cominciare, perché eravate tutti e due in smoking?... Che cosa facevate mentre aspettavamo, io e Marthe?... Quando siete arrivati, lei aveva ancora, sì, lei, un grosso sigaro in bocca e non ha neanche pensato di spegnerlo o di gettarlo prima di entrare in clinica...».


Era vero. Bergelon se ne ricordò improvvisamente. Lui che non fumava mai sigari!...


«Ma saprò la verità... Ci metterò il tempo che occorrerà... Ma saprò se li avete uccisi, mio figlio e mia moglie...».


Cercava il cappello e doveva avere la vista offuscata per via delle lacrime.


«Ecco quello che sono venuto a dirle... Lo ripeta al suo amico Mandalin... Quanto alla parcella che mi ha mandato, la informo che gliel’ho rispedita senza neanche aprire la busta... Non che ci tenga, al denaro... A questo punto, non me ne importa niente... Avevo fatto tutto, tutto quello che bisognava fare, tutto quello che potevo fare, per essere felice... Adesso me ne vado in giro per ore senza trovare la forza di tornare a casa...».


Che cosa avrebbe dovuto fare Bergelon? Stava a testa bassa, immobile.


L’altro, che aveva finalmente trovato il cappello, aprì la porta sogghignando:


«Facile, vero, giocare con la vita degli altri?...».


La porta sbatté. In strada, Cosson rimase fermo un attimo sul marciapiede per asciugarsi il viso e mettersi il cappello, senza sapere bene che direzione prendere.


Germaine ebbe il cattivo gusto di entrare in quel momento.


«Che cosa ti ha detto?».


E, per di più, con quella voce da profeta di sventure! Ma perché aveva sposato una donna che sembrava fiutare da lontano tutte le disgrazie della vita e che sospirava, rassegnata in anticipo, per intere giornate?


Era la figlia del venditore di stufe e di fornelli a gas di rue Saint-Nicolas. Bergelon aveva giocato con lei da bambino. Era già triste allora, e questo le dava un che di poetico!


Si ricordava, tra l’altro, della sepoltura di un uccellino, un canarino, nella scarpata in riva alla Loira, dove lei aveva creato con dei ciottoli e dei rami un cimitero in miniatura...


Lui quanti anni aveva quando avevano cominciato a sbaciucchiarsi di sera negli angoli, soprattutto contro il muro della scuola, che era poco illuminato? Sedici?


Le loro effusioni erano pacate come quelle delle persone sposate. Veniva da pensare che la loro unione fosse decisa dalla notte dei tempi!


E un bel giorno, tornando a Bugle dopo aver finito gli studi, l’aveva ritrovata con un cappello di paglia dall’ampia tesa, ornato da un nastro azzurro (doveva essere ancora da qualche parte in soffitta).


A quell’epoca Bergelon era solo. Suo padre era appena morto, una sera che aveva bevuto più del solito. La madre era andata a vivere in campagna, a pochi chilometri da Bourges, dov’era nata.


Era la festa della parrocchia. C’erano giostre, tirassegni. Germaine aveva un vestito bianco e il suo passo gli parve sinuoso, aereo.


Come un tempo, si erano rannicchiati in un angolo buio per baciarsi e tre mesi dopo si sposavano.


Non era infelice. Non era questo il punto! Del resto, lui non poteva essere infelice perché sapeva sempre crearsi piccole gioie personali.


Suo figlio Émile doveva essere un po’ come lui. Non ne era certo, perché non parlavano di queste cose per una sorta di pudore, ma più di una volta aveva colto come uno scintillio negli occhi di Mile, una vaga beatitudine sul suo volto. Ascoltava. Tirava su col naso. Si lasciava penetrare dalla vita tiepida e segreta delle cose.


«A che pensi, Mimile?».


Germaine diceva Mimile. Bergelon diceva Émile, o Mile.


«A niente, madre...».


Un altro particolare curioso: Mile chiamava sua madre «madre», ma suo padre «papà»!


Adesso Bergelon guardava, dalla finestra, il selciato della strada battuto dal sole dove un tempo, d’estate, bisognava strappar via le erbacce che crescevano tra le pietre. C’era ancora la buca che serviva per giocare a biglie.


Germaine, appena un po’ sciupata, sempre la solita Germaine insomma, era là, rassegnata in anticipo, che sussurrava:


«Che cosa ti ha detto?».


Lui cercò una risposta, non la trovò, sbottò, stizzito:


«Niente!».


«Non hai bevuto il tuo tè?».


«E no!» si inalberò lui. «No, non ho bevuto il mio tè! E allora?».


Gli avevano guastato il suo cielo, il suo sole, le sue piccole gioie che sembravano inafferrabili e che lui cercava invano di riacciuffare.


«Deve essere terribilmente infelice!».


«Terribilmente!».


«Quando penso a quanto è bravo quel povero ragazzo... E sua madre, che ha fatto di tutto per dargli un’istruzione... Per un attimo ho pensato che potesse commettere una sciocchezza...».


Sua moglie aveva paura delle parole: una sciocchezza, in questo caso, voleva dire suicidarsi.


Ma Jean Cosson non si era suicidato. Era posseduto dio solo sa da quale demone. E quale assurdo piano aveva concepito?...


A questo proposito, Bergelon si ricordava di un particolare: la signora Pholien aveva affermato che il giovane aveva una relazione con una prostituta... Chissà se era vero...


Se solo avesse potuto non pensare più a Cosson! Mica ci pensava, a Cosson, Mandalin, se non per avvertire il collega di non contare sulla parcella promessa! Si era forse preso la briga, Mandalin, di assistere al funerale? Forse, se avesse incontrato Cosson per strada, non l’avrebbe nemmeno riconosciuto.


È vero che Mandalin non era del posto. Si era trasferito a Bugle come avrebbe potuto trasferirsi altrove, dopo aver fatto un’indagine sulle località che offrivano le migliori prospettive di lavoro a una clinica di chirurgia e di ostetricia.


Abitava in un palazzetto d’epoca, con un grande portone che si affacciava su una piazza ombreggiata da platani dove sorgevano solo residenze private dello stesso tipo e dove i ragazzini, intimiditi da quel silenzio aristocratico, evitavano di giocare.


«Hai altre visite, stasera?».


«Probabile... Sì...».


Perché Germaine non capiva che in certi momenti il silenzio è doveroso? Che cosa poteva dirle, dal momento che lui stesso non sapeva niente?


«Annie va a cena dalla piccola Mabille... Vuole sapere se poi andrai a prenderla...».


«Ma sì, certo!».


Preferiva cederle il campo. Erano le cinque. Aveva un vecchio malato da visitare, sul lungofiume, accanto al bottaio, un povero diavolo che finiva i suoi giorni tutto solo in una tetra mansarda da dove non usciva da dieci anni.


Di solito il lungofiume gli piaceva. E gli piaceva anche quella casa, un’ex fattoria che la città aveva progressivamente accerchiato, lasciando tuttavia degli edifici bassi, le galline nel cortile, mucchi di letame, botti e un frutteto dove alcune donne, pagando pochi soldi, avevano il diritto di stendere la biancheria.


Non entrò. Peggio per il vecchio malato, che si chiamava Hautois.


Non era la donna morta a tormentarlo. E neanche il bambino. Era Jean Cosson a non dargli pace?


Solo in parte! Quello che lo assillava era lui stesso! Era tutto un insieme confuso! Come una malattia ancora latente e di cui scrutava i sintomi.


Camminava lungo i marciapiedi. Salutava. Perché tutti lo salutavano. Sapeva chi abitava in ogni casa. Conosceva la storia delle persone. Nella seconda strada a sinistra c’era la scuola femminile che aveva frequentato Germaine. In quella dopo abitava Cosson, al primo piano sopra una salumeria, una casa nuova di zecca.


Ci passò davanti. La facciata del pianterreno era di marmo bianco, i due piani di mattoni di un bel rosso. C’era un ingresso privato con due targhe di ottone, una delle quali era quella di Cosson.


Chissà se era in casa...


C’era un gruppo di ragazzini che stavano giocando e almeno tre li aveva curati. Gli altri... poteva dire chi erano semplicemente in base alla somiglianza con i genitori, che conosceva.


Più in là, a cento metri dalla chiesa di Saint-Nicolas, cominciava il quartiere commerciale, le strade anguste, le botteghe strette le une contro le altre, e ancora più in là, lontano dal rumore, lontano dagli erbivendoli, dai macellai e da ogni odore di cibo, il quartiere di Mandalin.


Di Mandalin che probabilmente diceva tra sé:


«Povero ragazzo! Per una volta che lavora con me...».


Un Mandalin protettivo, che offriva whisky e sorrideva delle cantonate che Bergelon prendeva giocando a bridge!


Sull’angolo di rue des Minimes, vicino a un cinema in cui si davano solo film di serie B, a base di revolverate e raffiche di mitra, avevano aperto, l’uno accanto all’altro, tre o quattro baretti piuttosto malfamati, con pareti arancione o di un blu violento, i cui proprietari non erano gente del luogo, e con cameriere alquanto sfacciate. Bastavano i nomi! Zanzi-Bar... Select-Bar... Aux copains...


Giusto in mezzo, la porta sempre aperta di un albergo a ore, un ingresso buio in fondo al quale s’intravedevano i primi gradini di una scala.


Una volta Bergelon era stato chiamato lì intorno all’una di notte: una prostituta era stata quasi strangolata da un cliente sadico, un noto commerciante di granaglie della regione. A proposito, lo avevano poi arrestato?


Nei bar o sul marciapiede stazionavano alcune prostitute, e lui le conosceva tutte perché tra le sue mansioni c’era quella di visitarle settimanalmente all’ospedale, insieme a un altro medico.


Quale di loro? Pensava sempre a Cosson. Cosson gli si era incollato addosso come una giacca bagnata da un acquazzone. La signora Pholien aveva detto...


Si fermò davanti all’entrata del cinema, e subito vide Jean Cosson nel secondo bar, che teneva la porta spalancata. Era il bar dipinto di arancione. Cosson stava in piedi. Aveva davanti un bicchiere, sicuramente un alcolico. Chinato in avanti e sempre esagitato, stava parlando alla cameriera, convulso, veemente, con una ciocca di capelli biondicci che gli ricadeva sulla guancia.


Che cosa poteva importargliene, al dottorino? Doveva solo fare dietrofront e tornarsene a casa. Qualcuno poteva aver telefonato... L’impiegata delle poste aveva un’ulcera duodenale che poteva degenerare in peritonite da un momento all’altro. E dopo cena doveva passare a prendere sua figlia che, a tredici anni, andava in visita come un’adulta e toccava il cielo con un dito quando le permettevano di invitare le sue amiche per il tè.


Cosson si girò, gettò un’occhiata alla strada e il suo sguardo incrociò quello del dottore.


Doveva essere ubriaco. Con un sogghigno indicò Bergelon puntando il dito e si mise a parlare con maggior loquacità alla cameriera, che aveva una larga cicatrice sul collo.


Bergelon aveva fatto esattamente tutto quello che non doveva fare. L’altro aveva ripreso a guardarlo e lui, sentendosi a disagio, si era allontanato a malincuore e, passando davanti a una cappelleria, si era ricordato di avervi lasciato il suo cappello grigio da pulire. Non se la sentì di entrare e di sorbirsi le chiacchiere politiche del cappellaio che si era presentato due volte, senza successo, alle elezioni comunali.


Camminava... Pensava a Cosson, sempre a lui... E, da Cosson, arrivò a suo padre e d’un tratto, per la prima volta, si domandò perché questi si fosse messo a bere...


Perché il vecchio Bergelon beveva. Beveva da solo, ovunque fosse, qualsiasi ora fosse, non esitava a entrare in bar come quelli nelle vicinanze del cinema, dove si scolava un bicchiere dopo l’altro, buttandoli giù in un sorso, per poi asciugarsi la barba rossiccia con un gesto meccanico.


Quasi non parlava. Non sragionava mai. La cosa strana è che non perdeva la clientela, i pazienti dicevano:


«Anche quando è ubriaco fradicio, non sbaglia una diagnosi...».


Magari era vero. Aveva un senso straordinario della materia umana, della carne e delle sue miserie. Dichiarava brutalmente:


«Tu puzzi, amico mio!».


E ai malati annunciava:


«Probabilmente non ne hai per molto... Tocca a te, adesso, dopo tutto quello che hai fatto agli altri, o no?».


Il padre di suo padre, un mercante di bestiame noto in tutte le fiere del paese, era un ubriacone pure lui.


Il negozio a sinistra, con due vetrine in cui erano esposti diversi articoli per il riscaldamento, era quello dei genitori di Germaine. Passò oltre, intravide sua suocera, sul fondo, che discuteva con una cliente accompagnata da due bambini.


La verità è che aveva la febbre. Come i suoi malati! Ma ancora non si era formato il cosiddetto ascesso di fissazione. Non era del solito umore, avrebbe detto Germaine. Si sentiva a disagio. Qualcosa si era guastato, senza che lui riuscisse a capire cosa.


Il sole del tramonto tingeva di un rosso più acceso i piani alti delle case. La prospettiva di una strada trasversale era nettamente color rame.


Doveva solo lasciarsi vivere, semplicemente, senza occuparsi del resto. Peggio per Cosson! Peggio per lui! Forse a volte ci avrebbe pensato, la sera, quando non fosse riuscito a prendere sonno, ma al mattino la vita sarebbe ricominciata come al solito.


Aveva osato evadere dal suo mondo, fare un’incursione nell’universo dei Mandalin. Gli era andata male, e doveva fatalmente essere così.


A mano a mano che procedeva, le strade diventavano più larghe e più vuote. Era a casa sua, nel suo quartiere. Fatta eccezione per alcuni edifici nuovi, da quando era nato non era cambiato niente.


Davanti alla vetrina di un negozio di dolci, di fronte alla scuola, vide suo figlio. Era buffo, perché Mile era solo nella strada, immobile, con lo sguardo incantato sulle centinaia di caramelle, di fondants e di cioccolatini.


Non potevano non incontrarsi. Mile sentì dei passi, guardò, trasalì e diventò rosso. Aveva in mano un pacchetto.


«Sono andato a prendere il burro» spiegò.


«Vuoi delle caramelle?».


«No, grazie...».


Non voleva aver l’aria di... E suo padre non insistette...


Si avviarono l’uno accanto all’altro. Mimile infilò la mano in quella di Bergelon. In fondo alla strada c’era il lungofiume, il duplice filare di giovani olmi, il parapetto, poi, in ripido pendio, il tappeto d’erba della scarpata che scendeva fino alla Loira.


Il sole inondava il paesaggio di un rosso acceso e per contrasto la vegetazione appariva scura. Il selciato risuonava sotto i passi. Mile trotterellava sempre più in fretta con le sue gambette.


Che cosa era successo, alla fine? La vita continuava. Una salumeria, a destra, vuota, senza clienti. Un appartamento al primo piano, vuoto.


La giornata si concludeva in una pace quasi solenne e persino Mile taceva, forse turbato dalla loro solitudine sotto quel cielo che a oriente virava verso un verde pallido, metafisico.


Bergelon se ne uscì goffamente con:


«Che cosa ha fatto per cena tua madre?».


E il ragazzino, accelerando il passo per non restare indietro:


«Stava pulendo gli spinaci...».

3

Ogni mercoledì le vedeva arrivare, da sole o a coppie, lungo le strade che facevano la loro toilette mattutina, all’ora in cui le donne di casa tornano dal mercato. Le più volgari, che solo quel giorno emergevano alla luce del sole, avevano labbra dipinte di rosso sangue, camicette di seta dai colori sgargianti e a volte, essendosi appena svegliate, strascicavano sul selciato ciabatte rosa o azzurre. Ce n’erano altre che camminavano con naturalezza, composte, con la borsetta in mano, un grazioso cappellino in testa e le calze ben tese.

Facevano tutte lo stesso percorso, e, una volta arrivate alla periferia della città, imboccavano il viale che costeggiava un braccio della Loira.

Era un viale largo come un campo di manovra, con sei filari di alberi, certi castagni così vecchi, così alti, dal fogliame così denso che le case, intraviste in una lontana prospettiva di tronchi, di ombre e di luci, sembravano un gioco di costruzioni.

Lungo tutto un lato, la cancellata dipinta di verde dell’ospedale. Una volta al mese il viale era invaso dalla fiera dei cavalli. Negli altri giorni, i sergenti istruttori addestravano all’uso delle armi piccoli gruppi di reclute in casacca da lavoro.

Il mercoledì passavano le donne. I soldati le conoscevano. Gli istruttori anche. E, ai piedi di un albero, una comare esponeva su un tavolino pieghevole fette di torta dorate, panini dolci, sigarette vendute al pezzo.

E ogni mercoledì, di primo mattino, il dottor Bergelon girava l’angolo pedalando sulla sua bicicletta dalle gomme grosse. Erano due, i medici condotti che si occupavano delle prostitute, i meno abbienti, perché il Comune, che stabiliva le tariffe, per quelle visite ne aveva fissata una ridicola: due franchi l’una!

Per di più l’altro medico si era preso le case chiuse, le cui tenutarie, poiché si trattava di visite a domicilio, dovevano versargli un supplemento.

A Bergelon erano toccate quelle di strada. Gli avevano messo a disposizione un piccolo padiglione in fondo all’ospedale, alla fine del viale e della città, dove avevano relegato l’obitorio e appunto il reparto destinato al controllo sanitario delle prostitute.

Gli piacevano quel viale, i suoi grandi alberi, i suoi soldatini. Gli piacevano anche il grande locale dalle pareti spoglie, imbiancate a calce, i tavoli di legno bianco, i pochi strumenti nichelati o smaltati, il tutto vecchio, trasandato, burocratico, e gli piaceva il commissario Grosclaude, dai lunghi baffi merovingici, con la sua pipa ricurva che puzzava terribilmente.

«Tutto bene?».

«Tutto bene...».

Il commissario della Buoncostume aveva una seconda personalità: era uno dei migliori giocatori di biliardo di Francia e gli capitava di andare a giocare ad Amsterdam, a Zurigo o a Londra.

Le donne entravano senza interrompere il loro chiacchiericcio, perché erano un po’ di casa. Si presentavano con naturalezza al cospetto di Bergelon e all’occorrenza lo avvertivano:

«Non si preoccupi... È solo un foruncolo!».

E Grosclaude, che su un registro spuntava i nomi con una croce, le apostrofava:

«Senti un po’, Maria... Devi dire a Bébert che lo hanno visto salire sul treno per Parigi... Se la cosa si ripete, dovrò fare rapporto...».

Sì, perché a Bugle c’era una mezza dozzina di individui colpiti dal divieto di soggiorno che non erano autorizzati a raggiungere la capitale.

«Gli aveva telefonato la sorella... Aspetta un bambino...».

«Bambino o non bambino, avvertilo... E a te, ragazza mia, se continui a ubriacarti e a rubare il cappello ai passanti, dovrò togliere la tessera... Hai capito?».

Sembrava che redarguisse dei bambini. Le gonne si alzavano. Alcune donne dovevano spogliarsi completamente e biancheria e vestiti si ammucchiavano su un vecchio banco di scuola.

«Ehi, tu... lo conosci un certo Cosson?».

«Eccome se ne conosco, di grossi cosi!» rispose la donna con una fragorosa risata. «Quanto al suo Cosson, com’è?».

«Molto giovane, magro, con i capelli lunghi...».

Il commissario lanciò un’occhiata al dottore. Che idiozia. Non aveva nessun senso. Anzi, sì: creava intorno a Bergelon un equivoco inutile e gli dimostrava che non riusciva a liberarsi da quei pensieri. Poco prima aveva preso da parte Grosclaude e gli aveva detto:

«Una di queste donne deve avere dei rapporti con un certo Cosson».

«Quello che ha perso la moglie?».

E una di loro, interrogata, aveva risposto:

«Con i capelli lunghi, no!... Non ne ho visti di tipi così dalle nostre parti...».

Vicino alla porta c’era una ragazza alta, con un tailleur blu, una camicetta bianca e un elegante cappellino bianco.

«Sei mica tu, Cécile?» le domandò il commissario.

«Perché me lo chiede? Che cosa ha fatto?».

Era lei!

«Non ha fatto niente... Volevo solo sapere... Che genere di uomo è?».

Lei si strinse nelle spalle.

«Come vuole che sia?».

Aveva ragione lei. Era Bergelon a essere imbarazzato.

«Lo conosci da tanto?».

«È più che altro un amico...».

«Vuoi dire che non paga?».

«Dipende...».

Era davvero alta; mezza testa almeno più delle altre. Poteva avere ventitré o ventiquattro anni. Era calma.

«E il tuo uomo non dice niente?».

«Lei sa bene che è a Poissy...».

Porse la tessera sanitaria da timbrare, si sottopose alla visita con un’indifferenza che somigliava a una sorta di dignità. Mentre Bergelon era chino su di lei, lo guardò e aggrottò la fronte, come se all’improvviso avesse scoperto il perché delle domande del commissario. Il dottore se ne accorse e si turbò.

Tutto questo era assurdo, ma da qualche giorno nel suo comportamento c’erano tante altre cose assurde. Cose ancora vaghe, che nessuno notava, ma di cui lui si rendeva conto, come per esempio passare più spesso del necessario davanti allo Zanzi-Bar quando sapeva che Cosson stava lì, appoggiato al banco.

Che cosa poteva importargli che Cosson si fosse messo a bere? Che bisogno aveva di andare ancora in cerca di quello sguardo malevolo, pieno di sospetto e di sfida, che il giovane gli lanciava dall’altro lato della strada?

Anche adesso, finite le visite, invece di inforcare la bicicletta e raggiungere i suoi malati camminava lungo il viale spingendo a mano la bici, fianco a fianco con il commissario che procedeva a grandi passi regolari.

«È una brava ragazza, viene dal Berry, credo... Non ho pensato di consultare la sua scheda... Il suo uomo si sta facendo cinque anni di prigione per aver ucciso un tizio con una coltellata durante una rissa... Non è una che lavora molto per strada, ha un piccolo appartamento pulito in rue des Minimes, sopra un ciabattino... E ha soprattutto clienti abituali... Ogni tanto, però, batte anche il marciapiede, ma non in posti fissi...».

I soldati, a riposo, attorniavano la venditrice di torte e di panini. Un’autoambulanza usciva dall’ospedale. Faceva caldo.

«È piuttosto una bella ragazza» concluse il poliziotto della Buoncostume.

Non era esattamente così. Aveva un corpo quasi mascolino, spalle larghe, fianchi stretti, seni appena accennati. Ma la pelle era bella, di grana fine e uniforme.

E il volto, i cui lineamenti non avevano niente di particolarmente degno di nota, aveva colpito il dottore solo per gli occhi color bronzo in cui a tratti scintillavano come delle pagliuzze dorate.

Perché, osservando Bergelon, aveva aggrottato la fronte? Evidentemente Cosson le aveva parlato di lui. E che cosa le aveva detto?

I due uomini erano arrivati all’angolo del viale, là dove cominciava realmente la città; si strinsero la mano, il dottore inforcò la bicicletta e si chiese con quale malato avrebbe cominciato il suo giro di visite.

Era di nuovo nel suo mondo. Salutava. Lo salutavano. Ogni passante aveva un nome, ogni rumore un senso, e lui avrebbe saputo dire in quale punto esatto della strada gli sarebbe arrivato il profumo del caffè che veniva tostato all’Épicerie Nivernaise.

Che cosa pensava quella ragazza? E perché Cosson, che era sposato e sembrava aggrapparsi con tanto accanimento alla vita familiare, era il suo amante?

Gli sarebbe piaciuto vederlo, quel piccolo appartamento di cui aveva parlato il commissario. Riaffioravano vecchi ricordi, un’epoca piuttosto turbolenta della sua vita. Quando studiava a Poitiers... E... Adesso era lui ad aggrottare la fronte. Gli tornava alla mente un particolare, e cioè che a quell’epoca anche lui portava i capelli più lunghi della maggior parte degli uomini. Faceva parte di un gruppetto che si riuniva in un tetro caffè dietro la Prefettura. E lui e un altro si dividevano, d’amore e d’accordo, la stessa amante, una ragazza alta come Cécile e altrettanto calma.

«Chi si ferma, stanotte?» domandava lei sbadigliando e aprendo il letto.

L’amico si era poi arruolato in marina come medico. La ragazza si chiamava Élise, Élise Noireaud, ma il cognome non lo diceva mai...

«Non crede, dottore, che oggi possa dargli qualcosa da mangiare?... Continua a dire che ha fame...».

Un ometto di cinque anni in un letto, tutto rosso e con gli occhi febbricitanti.

«Gli dia un po’ di brodo di verdure... Leggerissimo...».

Entrava nelle case. Conosceva la tappezzeria delle camere, l’odore delle cucine, al cui acquaio andava per lo più a lavarsi le mani.

Il sole era alto. Diversi impiegati tornavano a casa in bicicletta per il pranzo. Alcuni muratori mangiavano un boccone, tutti impolverati, seduti sul ciglio del marciapiede, e uno di loro ce l’aveva con Bergelon perché, a seguito di un incidente, il dottore non aveva voluto firmargli un falso certificato per l’assicurazione.

Una volta a casa, mise la bicicletta in corridoio. Sua moglie, che lo aveva sentito arrivare, gridò verso il giardino:

«Ragazzi, a tavola! Lavati le mani, Mimile...».

Nemmeno là, seduto al suo posto nella sala da pranzo, con Émile alla sinistra e Annie alla destra, riusciva a ritrovare pienamente il suo equilibrio. La cosa più strana era che non ne soffriva. Qualche buona donna, indicandogli un malato, diceva spesso:

«È già da un po’ che covava qualcosa...».

E sua moglie doveva avere lo stesso pensiero, perché a tratti gli lanciava uno sguardo ansioso. È vero che lei prevedeva sempre qualche disgrazia!

«Poco fa ha telefonato il dottor Mandalin».

«Che cosa voleva?».

«Non l’ha detto. Richiamerà...».

Mangiò la sua costoletta di montone con contorno di patate fritte mentre Annie raccontava alla madre una lunga storia che lui non ascoltò. E all’improvviso accadde. Sentì l’auto girare l’angolo della strada e fu certo che si sarebbe fermata davanti a casa sua. Fece per alzarsi, e infatti, nello stesso istante, si udì il campanello perché, quando non era orario di visite, la porta sulla strada veniva chiusa e una suoneria a carillon sostituiva il cicalino automatico.

«Vado io...» disse.

Con il tovagliolo in mano, pulendosi la bocca...

Era Mandalin.

«La disturbo... Eravate a tavola... Volevo telefonare, ma dato che tornavo dall’ospedale...».

Nella sala da pranzo il rumore delle posate era cessato di colpo. Germaine aveva fatto segno ai figli di stare zitti e tendeva l’orecchio.

«Venga in ambulatorio».

Richiuse la porta.

«Senta un po’, vecchio mio, un vero rompiscatole, il suo paziente!».

Perché a Bergelon quelle parole fecero in qualche modo piacere? Forse perché era avido di tutto quello che riguardava Cosson?...

Cosicché sembrava che i suoi occhietti ridessero, come se si burlassero di Mandalin e della paura che questi tradiva. Soprattutto di profilo, aveva più che mai una faccia da coniglio, da coniglio spaventato da un rumore improvviso...

«Stamattina sono andato in Procura... Ho cercato di raggiungerla al telefono, ma sua moglie mi ha detto che era già uscito... A proposito, come sta la signora?».

Perché Mandalin non dimenticava mai le buone maniere.

«Benissimo, grazie...».

«Mia moglie vorrebbe invitarla a prendere il tè uno di questi giorni... Stavo dicendo?... Ah, sì... Sono molto amico di Brévannes, il procuratore... Ho operato sua moglie e sua figlia...».

Abbassò la voce, guardò verso la porta.

«Questo Cosson è un pazzo, un pazzo pericoloso! Pensi che ha mandato una lunga lettera al procuratore, un mucchio di sciocchezze. Pretende l’esumazione e l’autopsia perché secondo lui sua moglie è stata fatta partorire in condizioni indegne...».

Mandalin aggrottò la fronte, perché gli era parso che Bergelon sorridesse.

Era quasi vero. Se non sorrideva apertamente, non era comunque addolorato da quanto gli riferiva il collega, anzi, per un momento, ebbe persino l’idea infantile di uscirsene con un:

«Caspita!».

Perché gli faceva piacere vedere Mandalin roso dall’ansia. Per contrasto, quel suo ambulatorio non troppo confortevole, non troppo pulito, sembrava impregnato di una pacifica mediocrità.

«E dà dei particolari, l’ora delle telefonate, le frasi pronunciate dalla mia capoinfermiera, le informazioni che ha estorto alla signorina Berthe. A sentir lui, quando siamo arrivati eravamo tutti e due ubriachi. Aggiunge – e questo indica che il ragazzo non è privo di fantasia – che lei è entrato in sala operatoria con il sigaro in bocca...».

«E allora?».

Era questo che Bergelon aspettava da diversi giorni? Era perché si era arrivati finalmente al punto che si sentiva sollevato?

«Non ha l’aria di scomporsi, lei! È vero che la faccenda non compromette molto la sua posizione...».

Il che voleva dire, accompagnato da una significativa occhiata all’ambulatorio:

«... Un modesto medico condotto!».

Bergelon aveva sempre in mano il tovagliolo macchiato di vino rosso.

«Fortunatamente Brévannes è un amico e mi conosce... Ho promesso di mandargli un rapporto che firmeremo tutti e due... Se necessario, lo farò controfirmare da due colleghi che testimonieranno che tutto si è svolto regolarmente, così la denuncia sarà respinta... Ciò non toglie che se avessi tra le mani quel fior di mascalzone...».

L’epiteto divertì tanto Bergelon che fu tentato di ripeterlo: quel fior di mascalzone!

«Se è d’accordo, stenderò il rapporto oggi pomeriggio... Passerà lei da me per firmarlo o preferisce che glielo faccia portare dalla mia segretaria?».

«È lo stesso. Anzi, no: me lo faccia portare...».

«Adesso devo scappare... Nel pomeriggio ho tre operazioni... e in più il rapporto!... A proposito... Forse non è il caso di precisare che quella sera lei era a cena da me...».

Povera Germaine! Era già sconvolta. Alzando la testa per guardare il marito che entrava in sala da pranzo, si aspettava di trovarsi davanti tutti i guai della terra, e invece Bergelon era sorridente, vivace.

«È rimasto qualcosa da mangiare?» chiese mettendosi a tavola.

«La composta di frutta... Cattive notizie?».

«Perché?».

«Non so... Mi sembrava...».

Macché! Niente di preoccupante. L’ingranaggio cominciava a mettersi in moto, ecco tutto. Un fatto strano, quella lettera che Jean Cosson aveva scritto alla procura. Un fior di mascalzone, lo aveva definito Mandalin. Ma mica stupido, in fondo. Troppo focoso!

«Mimile! Va’ ad aprire la porta e inserisci il cicalino».

Era l’una e mezzo e i pazienti stavano per arrivare.

«Non prendi la frutta?».

Germaine notò che lui metteva i gomiti sulla tavola e mangiava come avevano proibito di fare ai ragazzi.

«Diglielo, madre!» disse il ragazzino tornando dopo aver aperto la porta.

«Forse non è il momento» obiettò lei.

E Bergelon, incuriosito:

«Il momento per che cosa? Perché non sarebbe il momento?».

«Mimile esagera. Prima ha voluto la divisa da scout. Poi abbiamo dovuto pagare la quota d’iscrizione. Poi ha preteso la bicicletta. Adesso, figurati, vorrebbe avere una tenda. Pare che dal mese prossimo i lupetti andranno ogni sabato in campeggio nella foresta di Méran...».

«E allora?» si stupì Bergelon.

«Non credi che sia troppo giovane per...».

«Ce n’è di più piccoli di me! C’è perfino una bambina di sette anni che viene con i ragazzi!».

«Compriamogliela, questa tenda...».

E, poiché aveva già sentito il cicalino, si accese una sigaretta, arrotolò il tovagliolo, lo infilò nell’anello di bosso e raggiunse l’ambulatorio.

Parecchi anni prima gli era capitata una fortuna provvidenziale. Che età aveva, esattamente? Frequentava l’ultimo anno delle medie. Suo padre non controllava mai i suoi voti. Era l’anno in cui lui aveva scoperto i romanzi di Alexandre Dumas e ne leggeva anche due al giorno, per la strada, in classe; buttava giù in fretta i compiti, non studiava le lezioni.

Fin dal mese di giugno sapeva che sarebbe stato bocciato agli esami e più volte al giorno lo assaliva l’angoscia, eppure non si decideva a reagire e a lasciare da parte gli amati Dumas.

Ma poi, di colpo, quattro giorni prima degli esami, alle sue paure subentrò la febbre. Una mattina si svegliò con trentanove e mezzo. Il giorno seguente suo padre comunicò la diagnosi: paratifo.

Una volta superati i primi momenti, era stato un mese meraviglioso, su, nella sua camera, con solo i libri a fargli compagnia! Dimagriva. Deperiva. Faceva talmente pena che agli esami di ottobre, ancora convalescente, poté godere della massima indulgenza!

«Di che cosa si tratta, signora Barmat?».

«È per la mutua... Anche stamattina mio marito non ce l’ha fatta ad alzarsi... È sempre pieno di dolori...».

Non era vero. Suo marito non aveva un bel niente, ma aveva deciso di ridipingere l’appartamento continuando a riscuotere la paga.

«Mi dia il foglio...».

Firmò. Il giorno prima non l’avrebbe fatto. Fece entrare il prossimo, poi ancora il prossimo, sentendosi, per tutto il pomeriggio, di una leggerezza straordinaria. Come quando era a letto con trentanove e mezzo. Le cose non avevano più la stessa importanza. Quasi non avvertì le martellate dei calderai da Halkin e non badò al chiasso degli scolari durante la ricreazione.

Germaine gli portò la solita tazza di tè e si ritirò in punta di piedi. Aveva sempre quel modo furtivo di attraversare la sala d’attesa, quasi a scusarsi con i malati.

Chissà se c’erano clienti da Cécile, nel piccolo appartamento sopra il ciabattino... Non aveva ben chiaro dove si trovasse perché non passava quasi mai per rue des Minimes, né aveva mai dovuto andarci per una visita. Era un po’ prima del ponte, non lontano dal cinema.

«Prendo la magnesia bisurata...».

«Farebbe meglio a non prendere farmaci e a bere meno...».

Un altro certificato; questa volta per un bambino che aveva gli orecchioni e non poteva andare a scuola.

Un ultimo malato. Un’ultima ricetta. Venti franchi. Alcuni pazienti preparavano i soldi in anticipo e li tenevano in mano per tutto il tempo che stavano nella sala d’attesa, per poi posarli, appena entrati, su un angolo della scrivania.

Finalmente poté andare a chiudere la porta. I figli erano tornati da scuola.

«Élie! Non ti dimentichi, vero, che è il giorno del dentista?».

Se n’era dimenticato, ma non aveva importanza.

«Annie è pronta?».

«Si sta lavando i denti, scende subito...».

Bergelon uscì con la figlia. Lo studio del dentista era piuttosto lontano, nel quartiere Saint-Éloi.

«Che cosa mi comprerete, a me, se comprate una tenda a Mile?».

Non si poteva dire che non volesse bene a sua figlia, ma non gli faceva alcun piacere trovarsi da solo con lei. Era venale, metteva i soldi da parte, e parlava delle sue amichette come parlano fra loro le donne, innalzando già delle barriere tra le classi sociali. Non sarebbe mai andata a scuola senza guanti!

Il dentista era un amico. Mentre trapanava il dente, Bergelon andava su e giù nell’ambulatorio ammirando gli strumenti. L’altro gli parlava della decisione del sindacato di aumentare il prezzo delle visite e...

Uscirono. Annie lo prese per mano.

«Non ho neanche pianto!» si vantò, compiaciuta.

Per la verità, quello che accadde dopo non fu colpa di Bergelon. Forse pensava confusamente a Cécile, che a quell’ora doveva essere in piena attività.

No, nemmeno questo! Camminava in mezzo alla folla, tirato di qua e di là da sua figlia che guardava le vetrine e parlava, parlava incessantemente. Il cielo si era annuvolato. Le strade avevano perso colore. Non aveva intenzione di passare davanti allo Zanzi-Bar, lo fece solo perché quello era il tragitto più corto.

«Dovrò decidermi a venire a ritirare il mio cappello!» rifletté scorgendo l’insegna del cappellaio.

Nello stesso momento ebbe la sensazione che stesse capitando qualcosa. Notò un uomo che attraversava la strada a grandi passi e istintivamente fece per alzare il braccio come per parare un colpo.

E pensò, né più né meno:

«Ecco, è Cosson che mi salta addosso!».

Eppure, era la sola volta che non aveva dato un’occhiata nel bar. L’altro era sovreccitato. Già da un po’, dopo essersi scolato diversi bicchierini, annunciava sogghignando alla cameriera:

«Aspetta e vedrai!».

C’era in giro molta gente. Erano le sei. Davanti al cinema il marciapiede si restringeva. Istintivamente, il primo movimento del dottore fu di affrettare il passo per evitare la scenata, ma fu inutile. Il nemico si avvicinava; un braccio si allungò. Bergelon incassò la testa nelle spalle.

E su una di esse piombò la mano di Cosson, o meglio si aggrappò alla sua giacca tirando su la manica e provocandogli un malessere in tutto il corpo.

«Un momento, dottore!».

Era su di giri. Cercava lo scandalo. Non gl’importava niente della ragazzina che Bergelon teneva per mano né dei passanti che si voltavano.

«Aspetti un attimo, per favore... Devo dirle due parole...».

Una donna con la borsa della spesa da cui spuntava un mazzo di porri si fermò per prima.

«Mi faccia passare...».

Non era vigliaccheria. Il dottore cercava ancora di evitare un assembramento.

«Passerà dopo che le avrò detto quello che le devo dire... Se c’è uno di noi due che ha il diritto di chiamare la polizia, quello sono io e non lei, ha capito?...».

Annie, spaventata, tirando il padre per un braccio mormorava:

«Vieni via!... Lascialo perdere...».

Ma Jean Cosson teneva stretta l’altra manica. Era più alto dell’avversario e, senza neanche rendersene conto, lo scrollava, sicché Bergelon si sentiva come un grottesco fantoccio.

«Capisce di cosa parlo, vero?... La mia vita privata riguarda solo me... Ma la vita dei suoi malati la riguarda eccome!...».

Fremeva dalla testa ai piedi. Gli ci erano voluti ore, forse giorni di delirio per arrivare a quello stato di tensione. Riusciva appena ad articolare qualche sillaba, e nel piccolo bar dipinto di arancione dove aveva annunciato che ne avrebbero viste delle belle gli avventori lo guardavano.

«Se la scopro ancora a occuparsi di una certa persona che lei sa, le spacco la faccia, chiaro?».

Alcuni passanti si erano fermati a un metro, a tre metri, a cinque metri di distanza. Aspettavano di vedere se era una faccenda seria. Di lì a poco, avrebbero formato un cerchio.

«Vieni via, padre... Vieni via!...» supplicava Annie cercando di trattenere la sua voglia di piangere.

«Chiaro?...» ripeteva Cosson.

Forse erano entrambi disorientati... Il dottore non aveva reagito, l’idea di colpirlo gli venne troppo tardi, quando l’altro, dopo averlo ripetutamente scrollato, era già indietreggiato di almeno un metro. Era quello che avrebbe dovuto fare, adesso lo sapeva: colpire in piena faccia, un pugno fulmineo, categorico, e poi ritirarsi con dignità.

Non lo aveva fatto. Non aveva fatto niente, detto niente. Aveva le orecchie in fiamme. Cosson, prima di attraversare di nuovo la strada e tornare nel bar, si domandava se bastava così, se non c’era qualcosa di più clamoroso da tentare.

«Chiaro?». Evidentemente gli era rimasta solo quella parola, e poiché s’intravedeva il berretto di un poliziotto a una trentina di metri, indietreggiò, tornò sui suoi passi, si voltò e ripeté ancora una volta:

«Chiaro?».

La donna con i porri nella sporta sospirò:

«È ubriaco!».

Il che fece arrossire Bergelon perché sembrava volesse consolarlo. Dunque, le faceva compassione.

Il poliziotto, vedendo che la situazione era tranquilla, si fermò in mezzo alla strada e i passanti si rimisero in moto. Annie continuava a tirare il padre per un braccio e si calmò soltanto quando, girato l’angolo di rue des Prêtres, si sentì al sicuro.

«Che cosa voleva?» domandò allora. «Chi è?».

«Nessuno».

Non fu consapevole di pronunciare quella parola, ma la sentì.

«Perché ce l’aveva con te?».

Si vide in una vetrina. A causa di un rigonfiamento della giacca, la spalla che l’altro aveva afferrato restava più alta dell’altra, e questo lo avvilì.

Avrebbe dovuto...

Ma era troppo tardi.

«Perché ti ha aggredito?».

Erano tristi, le strade, in una sera d’estate senza sole, e quella che stavano prendendo, senza negozi, senza botteghe, dava una sensazione di vuoto.

Fu sul punto di chiedere a sua figlia di non dir niente a Germaine, ma Annie avrebbe fatto comunque la misteriosa, si sarebbe data delle arie, e la cosa avrebbe finito per diventare ancora più grave.

Per colmo del ridicolo, quando girarono l’angolo videro sulla soglia di casa Germaine, che subito si precipitò loro incontro ansimante:

«Cos’è successo? Sei stato picchiato?...».

Era già al corrente! Una vicina, la figlia del barbiere, aveva assistito alla scenata fin dall’inizio ed era subito corsa a suonare il campanello dei Bergelon.

«Signora Bergelon! Un tizio è saltato addosso a suo marito in rue Saint-Nicolas...».

Aspettava anche lei sulla porta. E anche qualcun altro, due case più in là.

Tutto era grigio, di un grigiore compatto, profondo.

«Si è lanciato addosso a papà e ha...».

Annie faceva il resoconto. Bergelon aveva solo fretta di entrare in casa, chiudere la porta e togliersi la giacca che lo faceva sentire a disagio.

«Chi è stato? È stato Cosson?».

Il tono di Germaine era eloquente. Tutto in lei proclamava:

«Lo sapevo! Me l’aspettavo da un pezzo...».

Seguendolo in corridoio, continuava ostinata:

«Sei sicuro che non ti ha colpito?».

Come se avesse potuto non rendersene conto! O come se si compiacesse a mentire!

«Mano! Ma no!...».

«Ha detto...» cominciava Annie. «Ha detto che se papà...».

E lui, per farla finita:

«... Che se metto ancora il naso negli affari suoi mi spacca la faccia!... È un pazzo... Era ubriaco... E adesso lasciatemi in pace...».

Sbatté la porta dell’ambulatorio dove, automaticamente, i suoi lineamenti si distesero.

Cinque minuti dopo aveva sul viso la stessa espressione che gli era spuntata durante la visita di Mandalin. Era tanto se non sorrideva.


4

Appena aveva finito di radersi e sentito la porta richiudersi, era sceso, senza solino, in pantofole. I ragazzi erano già usciti per andare a scuola. Germaine, come sempre, ne approfittava per fare la spesa. La casa era vuota e qualcosa che mandava un buon profumo cuoceva a fuoco lento sul fornello della cucina. Anche senza aprire la porta sapeva che sulla soglia, vicino alla bottiglia del latte, c’erano degli spiccioli già preparati.


Seguendo un rito stabilito da anni, per prima cosa andò a controllare la cassetta delle lettere. Non si aspettava niente di sensazionale: inviti alle riunioni di qualche società, pubblicità di prodotti farmaceutici, svariati opuscoli. Si cacciò tutto nella tasca della giacca da camera, e sempre lì, in piedi nel corridoio, aprì «Le Phare de Bugle». Alla terza pagina, quella stampata peggio, con inchiostro diluito, gettò una breve occhiata quasi professionale alla cronaca locale... Ciclista investito... Scontro automobilistico... Bambino morso da un cane...


Uno spioncino praticato nella porta gli mandava un rettangolo di sole.


 


«Riceviamo e pubblichiamo: “Allo scopo di mettere a tacere certe voci che qualcuno cerca perfidamente di diffondere, il Sindacato dei medici e chirurghi della circoscrizione di Bugle, riunitosi ieri, ha votato un ordine del giorno che conferma la sua totale solidarietà con i due onorevoli membri del corpo medico chiamati in causa.


«“Il Sindacato, dopo un’accurata indagine dei fatti imputati a un chirurgo e a un medico della nostra città, dichiara che l’intervento in questione si è svolto in condizioni normali”».


 


Bergelon assisteva raramente alle riunioni del Sindacato, eppure non gli era difficile immaginare il gran gesticolare di Mandalin durante la seduta del giorno prima.


Che idiozia! Che colossale idiozia! La classica cantonata di un ente pubblico!


Sentì dei passi nella strada. Il loro ritmo si fece più lento, poi qualcuno si fermò davanti alla porta. Senza guardare lo spioncino, il passante infilò qualcosa nella cassetta delle lettere e in quell’istante, alzando la testa, scoprì attraverso la grata di ferro, nella penombra del corridoio, lo sguardo stupito di Bergelon.


Era Jean Cosson! Per un attimo i due uomini restarono immobili, entrambi ugualmente sorpresi, separati dalla porta. Alla fine Cosson scrollò le spalle e si allontanò in direzione del lungofiume.


Bergelon prese la lettera dalla cassetta e si avviò verso la sala da pranzo; in tavola c’era ancora apparecchiato per lui, perché faceva colazione dopo gli altri. Si versò una tazza di caffè, scelse un croissant ben croccante, posò la posta sulla tovaglia e, solo a quel punto, aprì la busta.


«Un giorno o l’altro ti farò la pelle».


 


Tutto qui! La firma era inutile. Anche se il dottore non avesse intravisto Cosson, avrebbe capito. La cosa più strana era che Cosson gli dava del tu, riconoscendo così che tra loro si era stabilita una certa intimità.


Bergelon finì con calma di fare colazione, poi andò in camera da letto a vestirsi. Nel frattempo sua moglie era tornata dalla spesa con le provviste. Quindi il dottore uscì in bicicletta, fece le visite di routine nel quartiere, passò davanti alla salumeria sopra la quale abitava Cosson e notò che le finestre del primo piano erano chiuse.


Fu una giornata particolarmente tranquilla, e gli parve di assaporarla a piccoli morsi, soprattutto la mattina, il momento del giorno che preferiva. Era sereno. Visitò i suoi malati in totale libertà di spirito. Di quando in quando pensava a Cosson, come un giovanotto che, in mezzo alle preoccupazioni quotidiane, si ricorda di essere innamorato e si concede un pensiero commosso prima di riprendere il lavoro.


Non successe niente, solo una telefonata di Mandalin.


«Pronto!... Hai letto?».


Dopo averlo chiamato «ragazzo mio», adesso Mandalin iniziava a dargli del tu, e questo a Bergelon non fece piacere.


«Sì, ho letto».


«Era meglio chiuderla una volta per tutte... Se adesso non si dà una calmata... Come sta la signora Bergelon?».


Evitò il baretto dipinto di arancione, ma verso sera fu costretto a passare davanti alla salumeria, e vide che nonostante il tepore dell’aria le finestre erano sempre chiuse.


Passò ancora un giorno, poi un altro, senza niente di diverso dai soliti piccoli eventi quotidiani. Un solo fatto degno di nota: Germaine andò a comprare la famosa tenda con Émile. Quando Bergelon vide il pacco, la tela, le corde, i pali di bambù, volle assolutamente montare la tenda nel giardinetto e ci impiegò quasi due ore, mentre il vecchio Hautois lo aspettava nel suo abbaino.


All’orizzonte non sembrava profilarsi niente di anomalo. L’avvenire era come sospeso e tuttavia, il terzo giorno, Bergelon seppe che, imboccando rue des Minimes, stava mettendo in moto nuovi eventi.


Era al confine di Saint-Nicolas e già la strada non aveva più il carattere tranquillo e decoroso delle strade del suo quartiere. Era molto più affollata. Al pianterreno di tutte le case c’erano botteghe di artigiani, un tappezziere, un materassaio, un idraulico, uno che aggiustava le radio e una straordinaria libreria in cui si noleggiavano romanzi popolari a giornata.


Porte e finestre erano aperte. Alcuni vecchi sedevano davanti alle case. I bambini giocavano. Dal canale di scolo saliva l’odore acre dei quartieri poveri e tra le case serpeggiavano vicoli più sordidi e ancora più maleodoranti.


Bergelon non era in bicicletta. Camminava lentamente, senza affannarsi. Era ancora abbastanza lontano quando riconobbe la bottega del ciabattino, e trasalì. Affacciato a una finestra del primo piano, in maniche di camicia come gli abitanti del quartiere, Jean Cosson fumava la pipa lasciando vagare lo sguardo sulla strada.


Vide il dottore che proseguiva e si girò verso la camera in penombra. Probabilmente disse qualcosa perché apparve Cécile, in vestaglia, che gli posò una mano sulla spalla e si sporse con l’aria di chiedere:


«Dov’è?».


Cosson indicò Bergelon con il cannello della pipa e per un attimo sembrò che stesse per apostrofarlo. Lasciò perdere, si limitò a sputare e si udì il rumore sordo dello sputo sull’orlo del marciapiede.


La domenica seguente tutta la famiglia andò in campagna per inaugurare la tenda di Mile all’aperto. L’universo era di cristallo sonoro fino al momento in cui, verso le quattro, scoppiò un temporale che li obbligò a rifugiarsi in un piccolo caffè di paese pieno di uomini seduti nella penombra davanti a bicchieri di rosé. Le scarpe bianche di Annie si erano sporcate e il suo nuovo cappello di paglia appariva irrimediabilmente sformato. Solo Mimile era rimasto sotto la tenda durante l’acquazzone.


«Purché non lo colpisca un fulmine...» sospirava Germaine.


L’indomani, lunedì, un incontro casuale. Verso le quattro del pomeriggio, in centro città, Bergelon scorse Cécile seguita a pochi passi da un uomo sulla cinquantina. Li osservò dall’altro marciapiede. Giunta all’angolo della strada, Cécile si voltò un attimo. Probabilmente l’uomo le rivolse un cenno affermativo, lei avanzò a passi più rapidi nella via traversa e si infilò in un albergo di cui Bergelon ignorava l’esistenza. Dopo qualche secondo, l’uomo le andò dietro.


Almeno dieci volte Bergelon era passato davanti all’abitazione di Cosson e non aveva mai visto le finestre aperte. Ci era passato anche di sera, e benché le finestre fossero prive di imposte non si scorgeva alcuna luce all’interno.


Aspettava il mercoledì con segreta impazienza. Tutto era come sempre, i grandi alberi del viale, i soldati a piccoli gruppi, le prostitute distribuite lungo il percorso dal centro della città e per finire il commissario Grosclaude con la sua pipa puzzolente.


Perché aveva temuto che Cécile non venisse? Arrivò come le altre volte, con il suo tailleur blu, il cappellino bianco, la camicetta, e aspettò il suo turno seduta sulla panca. Bergelon faceva di tutto per non guardarla, e quando lei salì sul lettino che serviva per la visita si sentì in imbarazzo.


Cécile non sviò lo sguardo; lo osservava, al contrario, con calma curiosità, come se dopo l’ultima volta lui fosse diventato ai suoi occhi qualcosa di diverso dal medico delle prostitute.


«Tutto a posto...».


Cominciava a coglierlo una certa impazienza. Gli sembrava che ciò che doveva accadere tardasse a compiersi, che forse non sarebbe affatto accaduto.


Quello stesso pomeriggio intravide ancora Cécile che passeggiava per strada in modo inequivocabile. Bergelon capitò di proposito davanti allo Zanzi-Bar e fu deluso di non scorgervi Cosson, che in genere a quell’ora c’era sempre.


Quando tornò a casa, sua moglie gli porse una busta; lui riconobbe subito la scrittura, e si sarebbe detto che l’avesse riconosciuta anche Germaine, tanto era angosciata.


«È senza francobollo!» osservò. «L’hanno infilata nella cassetta...».


 


«Non pensi che ho calato le brache! Sto prolungando il piacere, ma le farò la pelle».


 


Ma guarda! Perché Cosson non gli dava più del tu?


«Che cos’è?» domandò Germaine.


«Niente... Un pazzo...».


«Fa’ vedere...».


Commise un errore, di nuovo. Ogni volta che ne commetteva uno, se ne rendeva conto. Cedendo allo strano impulso di far preoccupare sua moglie, le fece vedere il biglietto.


«È di Cosson?».


«Sì».


«Dimmi... Credi che Mandalin, quella notte...?».


«Mandalin era ubriaco!».


«E allora?».


«Allora, l’ha ammazzata, lei e pure il bambino...».


Come poteva pronunciare quelle parole in tono disinvolto, quasi allegro?


«Non pensi che quel ragazzo...? Io, al tuo posto, mi rivolgerei alla polizia...».


Era irrequieto, ma di un’irrequietezza piacevole. Le piccole preoccupazioni non erano più molto importanti. Osservava con occhio divertito certi pazienti spaventati.


«Ma no che non sta per morire! Perché vuole morire? Mica sono morto, io!».


«Ma lei non ha un cancro!».


«E lei che cosa ne sa? Nessuno sa se ha o no un cancro...».


Si agitava più del solito. Era passato altre due volte in rue des Minimes. La prima volta non aveva visto nessuno; la seconda aveva intravisto Cosson seduto davanti alla finestra con un libro che doveva provenire dalla vicina libreria.


«Ha telefonato il dottor Mandalin... Ti prega di richiamarlo...».


Al diavolo Mandalin! Non lo richiamò. E, verso le tre, mentre era occupato con una paziente, proprio la signora Pholien, sempre ossessionata dalla sua appendicite, qualcuno bussò timidamente alla porta. Bergelon la socchiuse: era Germaine.


«Puoi venire un momento?».


Capì che era qualcosa di grave, si scusò con la signora Pholien e seguì la moglie lungo il corridoio.


«È uno della polizia. L’ho fatto entrare in salotto...».


Bergelon aprì la porta e si trovò davanti un ispettore che non conosceva.


«Mi scusi se la disturbo, dottore. Poco fa il suo collega, il dottor Mandalin, è venuto da noi, in commissariato. Penso lei sappia di che cosa si tratta...».


Bergelon rimase in silenzio, e addirittura s’irrigidì. Il suo interlocutore lo trattava con una cordialità non priva di rispetto, come volesse sottolineare con il suo atteggiamento che erano dalla stessa parte della barricata.


«Suppongo che anche lei abbia motivo di lamentarsi di questo Cosson. Ho sentito dire che l’ha aggredita in mezzo alla strada...».


Un gesto vago che voleva dire:


«Niente d’importante...».


«Ieri, quando il dottor Mandalin è sceso dalla macchina davanti all’abitazione di un paziente, Cosson gli ha sputato in faccia coprendolo poi di ingiurie e di minacce... Ho preso informazioni su di lui... Da più di una settimana non si fa vedere alla banca dove lavora... Il direttore, in considerazione del suo lutto, gli ha mandato a casa un impiegato e ha saputo così che Cosson non rincasava più, neanche per dormire... Da parte mia, ho accertato che al momento vive con una prostituta in rue des Minimes...».


Silenzio assoluto. Bergelon non aprì bocca, non disse una sola parola di incoraggiamento.


«Come ho spiegato al dottor Mandalin, noi non possiamo far molto finché il soggetto in questione non passa alle vie di fatto... Tuttavia, se anche lei avesse delle rimostranze da fare, lo convocherò in commissariato per ricordargli certi articoli del Codice... Capisce?... Insomma, potrebbe essere incriminato per sfruttamento della prostituzione... Il dottor Mandalin mi ha consigliato di venire prima a trovarla...».


«Non ho rimostranze da fare!» affermò Bergelon.


«Ah!».


L’ispettore assunse un’aria smarrita, come chi lancia un’occhiata d’intesa a qualcuno che si rifiuta di capire.


«Credevo... Anche il commissario mi ha consigliato di venire da lei... Ma dal momento che va tutto bene...».


Cercava il cappello.


«Tuttavia, nel caso in cui dovesse importunarla...».


«Vi avviserò, certo...».


Uscito l’ispettore, si scontrò con Germaine.


«Che cosa voleva?».


«Niente».


«C’entra ancora Cosson?».


«Ma no!».


E tornò dalla signora Pholien che si era rivestita e lo aspettava, dignitosa e immobile come una statua.


Dalle cinque alle sette fece ancora alcune visite. Il caso volle che da uno dei suoi vecchi pazienti, già curato da suo padre, gli offrissero un aperitivo.


Non era un gran bevitore. Anzi, manifestava a questo proposito una prudenza persino esagerata, perché si ricordava bene com’era finito suo padre. Di conseguenza, l’alcol aveva su di lui un grande effetto, come quella sera alla cena dai Mandalin. Un primo bicchiere lo spingeva a continuare aumentando la dose e, dopo l’aperitivo offerto dal paziente, provò il bisogno, prima di rincasare, di entrare in un caffè e prendere un secondo bicchiere.


A casa, Germaine fece un’osservazione inopportuna:


«Che cos’hai? Non avrai mica bevuto...».


«Ho preso un aperitivo dagli Chiron. E allora?».


«Niente... Esci?».


Lui infatti non si era messo le pantofole com’era abituato a fare quando passava la serata a casa.


«Sì, devo uscire».


«Pensi di rientrare tardi?».


«Non lo so».


Aveva i nervi tesi, le tempie strette in una morsa. Mangiò di malavoglia e strapazzò ingiustamente la figlia che non aveva fatto niente.


Quanto detestava quell’istinto di sua moglie che le faceva prevedere le disgrazie e che, anche quella sera, lo avvertiva di un pericolo incombente!


«Non vai da lui, vero?» insistette Germaine, raggiungendolo in corridoio quando stava per uscire.


«No!».


Andava proprio da lui, invece! Non subito! Ed era peggio. Gironzolò dapprima nella luce violacea che le lampade al neon diffondevano su un grande tratto di marciapiede. Entrò in un bar. Non sapeva cosa bere, e finì per ordinare un calvados perché ce n’era una piccola brocca giusto davanti a lui.


«Mi dia questo...».


Si sentiva pervadere da una sensazione di perfida ingiustizia, insieme a una sensazione più vaga, più oscura nei confronti di Cosson. Era quel senso di ingiustizia ad averlo raggelato durante la visita dell’ispettore. Subodorava una sorta di complotto: Mandalin e il Sindacato dei medici... Il procuratore Brévannes che era amico di Mandalin... La polizia che si metteva di mezzo...


Rivedeva Cosson affacciato alla finestra in maniche di camicia, che osservava dall’alto la strada affollata, e Cécile che andava su e giù facendo chilometri di marciapiede...


«Un altro, per favore...».


Un tremito nervoso alle ginocchia, come un avvertimento... Al diavolo!... Imboccò rue des Minimes, vide una luce alla finestra... Gli sembrò che la tenda si muovesse, che lo avessero visto arrivare...


Varcò comunque la soglia e si ritrovò in una scala non illuminata che salì a tastoni. Inciampò diverse volte, fece rumore. Una porta si aprì proiettando un triangolo di luce. Un uomo, in piedi sul pianerottolo, lo guardava venire avanti.


E improvvisamente Bergelon gli fu vicinissimo, fin quasi a toccarlo. Stava per aprire la bocca, ma fu un’altra voce a dire:


«Avanti!».


Era la voce di Cosson, che richiudeva la porta. Dentro c’era Cécile, vestita da casa, preoccupata, ansiosa, che cercava di togliere una bottiglia dalla tavola.


«Lasciala lì!» ordinò bruscamente Cosson.


Il dottore capì subito che anche lui era ubriaco. Si era passato una mano fra i capelli con un gesto che gli era abituale e una ciocca gli ricadeva sulla guancia. Aveva la faccia a chiazze bianche e rosse, e gli occhi, infossati nelle orbite, brillavano di una luce terribile.


«Lasciala lì!... Se io sono ubriaco e lui no, non è giusto...».


Era alto, e lo sembrava ancora di più in quell’alloggio angusto, male illuminato da un lampadario a petrolio, perché in quella casa non c’era la luce elettrica. Si sentiva il ronzio di una macchina per cucire nella stanza sotto di loro, il retrobottega del ciabattino.


«Dagli un bicchiere... Riempilo fino all’orlo...».


Respirava con affanno. Andava avanti e indietro. Non riusciva a star fermo. Girava intorno al dottore con l’aria di chiedersi da che parte prenderlo.


«Be’?... Non beve?... Ha paura?...».


Su una gruccia erano appesi il tailleur blu e la camicetta di Cécile. Il letto non era disfatto. S’intravedeva una minuscola cucina che doveva servire anche per lavarsi.


«Versagliene ancora!... E danne anche a me, forza!...».


Era un liquore dozzinale, che bruciava la gola e a Bergelon dava il voltastomaco, soprattutto dopo il calvados.


«Può mettersi a sedere... Dove vuole... Sul letto, se le fa piacere... Ha paura, lo ammetta... Vero?... E ha ragione... Ho detto che la ucciderò e la ucciderò...».


Si girò stizzito verso la giovane donna la cui vestaglia azzurra creava una macchia strana in quella luce incerta.


«E tu, esci o siediti... Sai che detesto vederti in piedi...».


E, piantato davanti al medico, gettando indietro i capelli con uno scatto della testa che sembrava un tic:


«Cos’è venuto a fare?... Forza!... Parli!...».


«Sono venuto a dirle...».


«Dirmi cosa?... Su, coraggio!... È venuto a dirmi che non li avete uccisi, mio figlio e mia moglie, è così?».


«No!...».


«Dunque lo ammette che li avete uccisi, lei e il suo amico Mandalin?...».


«Senta, Cosson...».


Annaspava in una specie di nebbia opaca, una di quelle nebbie dalla sfumatura gialla che rendono irreale lo scenario più familiare. Eppure, non tutto era così irreale intorno a lui. Ritrovava persino certi sapori, certi odori, una certa penombra che gli ricordavano la camera di Poitiers dove lui e l’amico si dividevano Élise Noireaud; il fornello a petrolio e il copriletto rosso, il vicino che, di tanto in tanto, quando facevano troppo rumore, dava dei gran colpi contro la parete... E anche allora bevevano, apposta per ubriacarsi.


«Senta, Cosson... So quello che pensa...».


«Penso che avete ucciso mia moglie e mio figlio... È vero o no?».


E a Bergelon scappò detto:


«In un certo senso è vero...».


Era venuto a far questo? Non lo sapeva più nemmeno lui. Aveva il cervello appannato. Eppure era consapevole di tutto, il che rendeva più chiare cose fino a quel momento vaghe. Solo che erano difficili da esprimere e lui aveva un cerchio alla testa.


«Voglio provare a spiegarle... È stato lei a volere che sua moglie partorisse in una grande clinica...».


«Pensa un po’!» disse Cosson con tono beffardo versandosi da bere e vuotando il bicchiere d’un fiato.


E nello stesso momento dagli occhi gli spuntavano delle lacrime – lacrime di ubriaco, forse?


La cosa più sconcertante era quella macchia azzurra, su una sedia, nella penombra: la presenza immobile e silenziosa di Cécile e, sulla tela cerata della tavola, avanzi di salumi in una carta, un residuo di vino rosso in un bicchiere, briciole di pane...


«Lei non lo capisce perché avevo bisogno che fosse così, vero?».


A un tratto i suoi lineamenti si alterarono, cedettero, sembrò che stesse per scoppiare in singhiozzi.


«Branco d’imbecilli!...» protestò come per vincere la propria emozione. «Quando penso che facevo di tutto... Di tutto!...».


Che cosa faceva? E perché?


Beveva, si asciugava la bocca con la manica, diventava tenero, sentimentale.


«Se crede che sia facile, quando uno è figlio di un semplice poliziotto!... E mia madre che per farmi studiare andava a servizio!... Non lo sa nessuno, nel quartiere, perché lei se ne vergognava e andava a lavorare all’altro capo della città... Lei non lo capisce questo, vero?... E ancor meno lo capisce il suo Mandalin!... Ma non ce l’ho con lui... Non è la stessa cosa... Mentre lei, lei è del quartiere...».


Si passava la mano fra i capelli. Adesso la sua faccia era chiazzata di rosso, con un fondo livido e solchi lucidi.


«Facevo di tutto!... Ero un bravo bambino... E non avevo neanche dieci centesimi per comprarmi una tavoletta di cioccolato alla ricreazione... E mia madre mi cuciva i pantaloni tagliandoli da quelli vecchi che le regalavano...».


Tutto ciò era doloroso da ricordare. Veniva da lontano, denso come una feccia, acre, amaro, con un tanfo nauseabondo che gli faceva storcere le labbra.


«E a scuola ero il primo, sempre il primo!... E quando sono entrato in banca, ero io, sempre io, quello che faceva più straordinari!... Lei continua a non capire, lo so... Oppure, se capisce, forse comincia a rendersi conto... Ecco, adesso me lo dica lei che è un medico se non è a forza di fare lavori pesanti che mia madre si è ritrovata con un prolasso renale... Me ne infischio!... Sì, me ne infischio, è la verità...


«Perché io, io ho capito... Non è il caso di guardarmi così... Dagli da bere, Cécile, così la pianta di guardarmi in questo modo!... Io sono ubriaco e lui non lo è abbastanza...».


Docile, la donna riempì un bicchiere, lo porse e si rimise a sedere tirando sulle ginocchia un lembo della vestaglia azzurra.


Anche Cosson bevve, impaziente di abbassare il tono, di venir fuori da quella crisi.


Sembrava quasi che quello fosse il suo momento, che lo avesse preparato, aspettato, che avesse attirato lentamente, metodicamente Bergelon in quella camera in cui era difficile immaginare che al di là della tenda écru esistesse ancora la strada.


«Potevano rigirarmi come volevano, capisce?... Ero un bravo bambino... Un imbecille!... Un credulone... E mettevo i soldi da parte... E ho scelto mia moglie perché aveva l’aria più perbene delle altre...


«Volevo diventare capocontabile, vicedirettore... Questo non le dice niente, a lei, vero?


«E non ha neppure idea di quello che significa, per una giovane coppia, mettere su casa, arredare un appartamento... Dopo la mia giornata di lavoro, dopo gli straordinari, tenevo la contabilità di alcune piccole aziende...


«Per guadagnare di più!... Per vivere decorosamente!... Per avere un salotto!... Perché il bambino, quando fosse nato... Branco di farabutti!... Cécile! Non c’è più niente da bere in dispensa?...».


E Cécile, con voce dolce:


«È rimasto solo un po’ di vino rosso».


«Da’ qua!».


Il dottore dovette berne anche lui, un vinaccio da pochi soldi, denso, che gli rivoltava lo stomaco.


«Senta, Cosson...».


Voleva parlare anche lui, spiegarsi. Era preso da una smania febbrile.


«Le giuro...».


«Chiuda il becco!... Oggi parlo io... Sono io che ho il diritto di parlare perché voi, tutti voi...».


Sputò sul pavimento un sorso di vino rosso che non gli era andato giù.


«Adesso tutti mi prendono per un poco di buono perché hanno saputo che venivo qui già prima... Vero, Cécile?... Cosa posso farci se mia moglie detestava fare l’amore?... Diglielo, Cécile, come stavamo bene, noi due, quando venivo a passare una mezz’ora dopo la banca... Però a mia moglie non toglievo un centesimo... Questo glielo assicurerà anche Cécile... Solo la prima volta!...».


Piangeva di nuovo: di nuovo quella commozione pronta a mutarsi in rabbia.


«Dopo, siamo diventati amici... Le raccontavo tutto... Ed era per lo più con lei che parlavo del bambino che aspettavamo... E mi domando... sì, dev’essere così... È stata Cécile a chiedermi se avevamo un buon ostetrico...


«Non capisce ancora?... Avrei continuato così, ne sono certo... Me l’hanno ripetuto fin troppo che prima di tutto bisogna essere onesti!...


«Mentre tutti voi, carogne che non siete altro...


«Ah, quella notte!... Stavo malissimo... Andavo... Venivo... Quasi piangevo di commozione... E ripetevo a mia moglie:


«“Non devi assolutamente avere paura... Sei nelle mani del miglior chirurgo di Bugle...”.


«E intanto...


«Quel Mandalin, non lo conosco... È fatto così... Probabilmente non può essere diverso...


«Ma quando ho saputo che era lei a riscuotere la parcella del parto...».


«Senta, Cosson...».


Il dottore si era alzato, brancolava in un mondo ovattato. Sapeva che non c’era parola che potesse tradurre tutto quello che pensava, perché era ubriaco e le parole, in quel caso, non rispecchiano più le idee, non hanno alcun rapporto con i bizzarri sprazzi di verità che si scoprono.


«... Mi ascolti... È vero che dovevo riscuotere... Ma...».


«Basta!».


Con un gesto violento, imprevisto, Cosson fece volar via dalla tavola bottiglia e bicchieri.


«Lei mi dà il voltastomaco!... Ecco!... Contento?... Avevo deciso di uccidermi sulla loro tomba, il giorno del funerale... Mi ero portato dietro una rivoltella... Perché trovavo che fosse la cosa giusta... Poi l’ho guardata... Non ha neppure notato che la guardavo... Chiacchierava con quelli che erano lì, al funerale, quasi tutti suoi pazienti... Come un deputato con i suoi elettori...».


Era proprio così! Bergelon ne fu molto colpito. Non ricordava di aver avuto conversazioni particolari, al cimitero. E tuttavia, gli tornò in mente all’improvviso che, tra gli altri, Halkin, il fabbro, gli aveva parlato dei suoi disturbi al fegato e che lui gli aveva consigliato un rimedio!


«Ci ho provato, a tornare a casa, a riprendere il lavoro in banca... Ma quelli della banca mi fanno schifo quanto lei... Dammi da bere, Cécile...».


«Non c’è più niente».


«Va’ a prendere una bottiglia al bar».


Lei scese, in vestaglia.


Era appena uscita che Cosson esclamò:


«L’hai vista, quella? È vero che le fai passare la visita ogni mercoledì e perciò la conosci come la conosco io. Eppure vale più di tutti voi... Lo sapevo fin da prima... Fin da quando stavo ancora con mia moglie... E qual è la prima cosa che mi ha fatto fare, mia moglie?... Eh?... Indovina!...».


Si lasciò cadere sulla sponda del letto, accanto al dottore, e gli posò una mano sul ginocchio.


«Mi ha fatto fare un’assicurazione sulla vita, vecchio mio!... E io l’ho fatta... Avrei fatto qualsiasi cosa... Perché volevo, a ogni costo... Capisci!... Sono figlio di un modesto poliziotto...».


Piangeva, adesso piangeva come un bambino, con la faccia nascosta tra le mani.


Era ubriaco fradicio. Articolava male.


«Lei è andata a prendere da bere... Vedi!... E voialtri invece... Mandate la polizia a fare un’indagine tra i negozianti, qui sotto...».


«Le giuro...».


L’ubriachezza era al culmine.


«Non giurare!... Non servirebbe a niente... Ho detto che ti ucciderò e ti ucciderò... Non so ancora quando... Un giorno o l’altro, quando non ce la farò più... Non capisci neanche questo, vero?».


Teneva sempre la mano sul ginocchio di Bergelon e Bergelon avrebbe voluto parlare, anche lui, spezzare quella sorta di guscio nel quale si trovava imprigionato.


«Lo sapevo...» riuscì ad articolare con fatica, alzando un dito come qualcuno che fa una dichiarazione definitiva.


«Che cosa?».


«Tutto!... Anch’io sono uno che... Tanto per cominciare, mio padre era un alcolizzato».


«E questo che c’entra?».


«C’entra, perché è la stessa cosa di un poliziotto...».


Non era quello che intendeva dire, ma per lui era chiaro.


«E quando è morto, mia madre ne ha approfittato per andare a vivere in campagna... A Poitiers avevo un’amante che...».


Aggrottò la fronte. Nella sua testa tutto era evidente. Le idee erano perfettamente collegate tra loro, ma le frasi, una volta espresse, non avevano più alcun senso.


«Capisci, vecchio mio...».


«Sei infelice?».


«Non è questo...».


Quel vino rosso gli aveva irritato la gola. Aveva paura di vomitare.


«Ci sono cose che sono in grado di capire perché io... io, vedi, io...».


«Hai paura che ti uccido?».


«No...».


«Dal momento che l’ho giurato... Al diavolo!... Anche se adesso...».


La tavola si muoveva. Il letto scivolava, ora verso il basso, ora verso il soffitto, come un ascensore, e c’era sempre quell’incessante ronzare della macchina per cucire.


«Farai quello che vorrai, ma c’è qualcosa che devi sapere... Mandalin, per esempio... Insomma...».


Cosa stava per dire? Comunque, un’altra idea, balenata per caso, gli si affacciò alla mente:


«E l’ispettore, poco fa... L’ho messo alla porta, l’ispettore...».


Non era esattamente così, ma lo era nella sua testa.


«Quanto a Cécile, anche se fosse malata, io...».


Rumore di passi sulle scale. Cosson cercò di alzarsi e ricadde sul materasso.


«Forse quello che dici è vero... Ma dal momento che ho giurato...».


Lei entrò, quasi sorridente, comunque serena, con una bottiglia di vermut.


«È tutto quello che ho trovato».


Prese a cercare il cavatappi in un cassetto.


«Zitto!...» sussurrò Cosson. «Non è il caso di spaventarla... Un giorno o l’altro ti ucciderò, ma...».


«Non è una ragione per...» lo aiutò Bergelon.


«Non è una ragione... ecco! I soldati, per esempio...».


Questa volta riuscì ad alzarsi, ma lo sforzo lo proiettò con un solo balzo fino al tavolo, che rischiò di rovesciare. Lei lo trattenne e lui la tenne stretta.


«Versa da bere, Cécile...».


Bergelon aveva chiuso gli occhi per un attimo, quando il rumore di una bottiglia che veniva stappata lo fece trasalire.


«Uno di questi giorni lo ucciderò, ma dagli da bere lo stesso...».


Un lembo della vestaglia azzurro cielo lo sfiorò, un profumo leggero, il contatto di una mano.


«Non ne vuole?».


«Deve bere!».


Si rialzò. Gli sorreggevano la nuca. Il vermut liquoroso nella bocca e nella gola, poi due, tre, cinque, dieci lampade che formavano aloni quasi rotondi nella penombra della stanza...


Lontano, molto lontano, una voce di donna che diceva:


«Va’ a letto anche tu, Jean».


E qualcuno che rideva.


«Dovrò ucciderlo comunque, vero?... So quello che devo fare... Non ho sonno... Andrò al cimitero...».


Rumori confusi... La rete del letto che cedeva... Un gomito che gli entrava nelle costole...