martedì 30 ottobre 2018


CHI SIAMO NOI PER GIUDICARE
Stefano Burbi
“Chi siamo noi per giudicare?”. Lo sentiamo tutti i giorni e, come molte affermazioni oggi ricorrenti, in linea di principio non possiamo che essere d’accordo. Il Presidente della Camera Fico ha dichiarato che ci vuole più amore in certe circostanze: peccato però che si riferisse ad un caso (quello di Desirée), in cui l’amore sarebbe stato l’antidoto contro il virus dell’odio e della violenza se anche i suoi carnefici ne avessero fatto uso, e che l’unico modo per mostrare amore verso la povera ragazza sarebbe stato un intervento “violento” contro i suoi aguzzini, anche preventivo. (Il foglio di via consegnato pilatescamente senza dare seguito al provvedimento di espulsione è stato un atto umanitario o la sua attuazione, in modo anche coatto, avrebbe salvato Desirée?). Si deve mettere tutto in ordine ed usare le parole nel loro giusto contesto: una paletta ed un secchiello sono oggetti atti a divertire un bambino, ma non servono a svuotare il mare; una penna è un oggetto utilissimo, ma diventa del tutto inefficace se usata, ad esempio, per fare un buco nel muro.
Ogni giorno la cronaca porta alla luce tutte le problematiche e le criticità che la società moderna ha in realtà creato, favorito e difeso irresponsabilmente, credendo automaticamente che all’avanzare del tempo corrispondesse anche un suo progresso a prescindere (purtroppo esiste anche il regresso). “Chi siamo noi per giudicare?”. Giudicare è importante: se controllate il significato di “giudizio”, su un vocabolario, vedrete che è sinonimo di “senno”, “capacità di valutare”, primo gradino della coscienza e della consapevolezza di se stessi e del mondo circostante. Guai a non giudicare. Vediamo tutti i giorni i nefasti effetti della società che ha rinunciato alla capacità di giudicare: nessuno è perfetto, quindi, sempre secondo la comune mentalità odierna, nessuno può giudicare. Ognuno fa quello che desidera e nessuno deve permettersi di sindacare. Se questo è sacrosanto in certi casi, non lo è affatto in altri. Chi sei tu per giudicare? Sei il padre, sei la madre, che, anche se alla stessa età dei tuoi figli, hai fatto le loro stesse marachelle, non puoi e non devi giustificarle o coprirle. Ora il tuo ruolo ti impone di correggere gli errori, e, se li hai fatti anche tu da giovane, è una ragione in più per dare più forza ai tuoi rimproveri, perché sai che gli sbagli si devono far notare. Chi sei tu per giudicare? Sei un docente che ha il compito di formare i giovani, non secondo le tue idee (non devi plagiare nessuno) ma secondo i principi ed i valori del rispetto e della conoscenza. Se uno studente non è preparato, o il suo comportamento non è corretto, devi intervenire. Chi sei tu per giudicare? Sei il giudice, e non puoi scarcerare uno stupratore con troppa facilità, perché, se così ti sembra di recuperarlo, probabilmente stai creando i presupposti per la rovina di un’altra vita innocente. Chi sei tu per giudicare? Sei un politico che deve fare l’interesse di tutti, ma devi salvaguardare Abele, prima di Caino. Lo so, ti sembra di apparire meno “buono”  e magnanimo, ma allora ti faccio notare che anche Gesù giudicava, ed all’adultera salvata dalla lapidazione disse: “Va’, e non peccare più”, assolvendola solo dopo averle fatto riconoscere l’errore commesso, e con i mercanti del tempio non esitò ad usare la frusta. Se tutti giudicassimo con coscienza e con intelligenza, capiremmo anche con chi si può usare l’amore e con chi, purtroppo, no.
Giudicare bene e con cognizione di causa può salvare vite: la nostra e quella degli altri.
Lo ha fatto anche Gesù: se credete, come me, l’ha fatto il figlio di Dio, e noi siamo stati creati a sua immagine e somiglianza. Possiamo e dobbiamo imitarlo. Se non credete, l’ha fatto un grande uomo che ha lasciato un segno nella storia dell’umanità. E’ un esempio. E non si può ignorare. P.S. Prego evitare commenti violenti ed offensivi verso chicchessia, persone o parti politiche. Ogni opinione è sacra.

sabato 27 ottobre 2018


IL MONDO A 45 GIRI
Bruno Fasoli
Certo che lo ricordo il ballo della mattonella, quando il mondo dei sogni girava a 45giri. Le feste nelle case private... che tempi ragazzi. Dopo pranzo andava in scena la "vestizione", ma prima ci si sottoponeva al rito dello shampo. Phon a manetta e spazzolate vigorose a domare capelli inquieti: allora c'erano.
La camicia, rigorosamente bianca e stirata da mammina, che veniva indossata con la stessa gestualità del torero che veste il suo corpetto splendidamente ricamato. Le scarpe si tiravano a lucido e se c'era il sole, diventavano specchietti.
Non c'era la paghetta ai miei tempi, almeno per me, ma esisteva la cosiddetta "quota di sostentamento domenicale".
Facevamo la colletta per le sigarette: si acquistavano le Gitanes. Rigorosamente francesi, esprimevano contestazione. L'ostentare il pacchetto di sigarette nei film per la pubblicità, lo abbiamo
 inventato noi.
Finalmente si entrava nella stanza disco-music,  carrellata a 360° e subito la ricerca di un posto libero, possibilmente una poltrona.Da lì non mi schiodavo: mettevo in atto la tattica del fare tappezzeria. Preferivo essere invitato per una sorta di timidezza disastrosa e imbarazzante. C'era sempre una volontaria che adempiva al rito e mi ricordo la frase, solita, sempre uguale:
-ti ho notato, sai, non balli mai... provi con me?
E vai, era fatta!. Il buffet generalmente offriva improbabili biscotti e pizzette, a iosa.
L'alcool era rappresentato dal vermhut, liquido sbronzatico per eccellenza.Verso le venti o le ventuno, calava il sipario. Un saluto e ringraziamenti per chi ci aveva ospitati, e forse un appuntamento strappato all'ultimo istante, alla ragazza corteggiata. E poi via. Si tornava a casa contenti, sereni, con la gola devastata dal fumo francese mentre qualcuno maltrattava, con voce inquietante, "A salty dog" dei Procol Harum.


NOI CI LAVIAMO IN MARE
Ricordi tarantini (1)
Di Luisa Meloni
Cominciai, nel 1976, come insegnante alle elementari di Taranto. Vicino a Italsider era sorto un nuovo quartiere per le famiglie dei lavoratori. Non avevano costruito in tempo la scuola, così alcuni appartamenti diventarono scuole. Non c'era però il riscaldamento, non c'erano le lavagne. Allora operai Italsider ci portarono caloriferi a olio presi non si sa dove. Alle lavagne ci pensò l'amante della bidella, bidello anche lui, che di notte trafugò da un deposito di un'altra scuola le agognate lavagne. Noi insegnanti comprammo il gesso, penne, carta. Ah! Lo spirito di iniziativa!
In questo quartiere il Comune aveva assegnato delle case a famiglie disagiate che prima vivevano in specie di grotte come i "sassi". Erano contenti, ma non avevano l'orto, così alcuni nella vasca da bagno piantarono il prezzemolo. Io domandai come facessero a lavarsi. Mi risposero: "Signò, noi ci laviamo a mare". Aldo aveva 10 anni, ma frequentava la prima elementare. Aveva un solo vestito e quando la mamma lo lavava non poteva venire a scuola. Quel giorno, prima che le lezioni fossero terminate, uscì di casa in pigiama, si arrampicò sul davanzale della finestra della scuola perché volle salutarmi.Lo sgridai, ma mi sentii felice..

giovedì 25 ottobre 2018


ORGANIZZARE IL SILENZIO
Estratto da "La macchia umana"
Philip Roth
Einaudi


Per vivere nel trambusto del mondo con un minimo di sofferenza c'è un segreto: convincere il maggior numero possibile di persone ad assecondare le tue illusioni; per vivere da solo quassù, lontano da ogni inquietante allettamento, aspettativa e relazione, lontano soprattutto dalla propria intensità, il trucco consiste nell'organizzare il silenzio, nel pensare alla sua pienezza montana come a un capitale, al silenzio come a una ricchezza che aumenta in modo esponenziale. Nel pensare al silenzio che ti circonda come alla fonte di profitto che hai scelto liberamente, e al tuo solo amico intimo. Il trucco sta nel trovare sostentamento (sempre Hawthorne) «nella comunicazione di uno spirito solitario con se stesso». Il segreto consiste nel trovare sostentamento in persone come Hawthorne, nella saggezza di questi morti illustri.



  C'è voluto del tempo per affrontare e risolvere i problemi posti da questa scelta, del tempo e la pazienza di un airone per soffocare il desiderio di tutte le cose che erano svanite, ma dopo cinque anni ero diventato così abile nel suddividere chirurgicamente le mie giornate che non c'era più un'ora della tranquilla esistenza che avevo abbracciato che non avesse, per me, la sua importanza. La sua necessità. Addirittura la sua eccitazione. Non indulgevo più al pernicioso desiderio di qualcos'altro, e l'ultima cosa che pensavo di poter ancora sopportare era la prolungata compagnia di qualcun altro. La musica che ascolto dopo cena non è un sollievo dal silenzio, ma qualcosa di simile alla sua convalida: ascoltare musica per un'ora o due ogni sera non mi priva del silenzio: la musica è silenzio che s'invera. La prima cosa che faccio d'estate, ogni mattina, è nuotare per trenta minuti nello stagno, e nel resto dell'anno, dopo una mattinata di lavoro (e a patto che la neve non renda impossibile la gita), batto i sentieri di montagna per un paio d'ore ogni pomeriggio. Non ci sono state ricadute del cancro che mi è costato la prostata. Sessantacinque anni, fisicamente in forma, in buona salute, gran lavoratore... E so il fatto mio. Per forza.



  Perché, dunque, dopo avere trasformato l'esperimento di un isolamento radicale in un'esistenza ricca e piena, perché, senza preavviso, dovrei sentirmi solo? Cosa mi manca? Quello che è stato è stato. Impossibile attenuare il rigore, impossibile annullare le rinunce. Cosa mi manca, precisamente? Semplice: la cosa per cui avevo sviluppato un'avversione. La cosa alla quale avevo voltato le spalle. L'impegolarsi nella vita.



  

martedì 23 ottobre 2018



Etica e cristianesimo nel pensiero di Dostoevskij

Anna Mola

N. Berdjaev, uno tra i più importanti, nonché influenti, interpreti di Dostoevskij sosteneva che le vere protagoniste dei romanzi dell'autore russo erano le idee [1]. In generale, è possibile affermare che Dostoevskij appartiene a quel tipo di scrittori che narrano e scoprono se stessi nelle loro opere. Se è vero, inoltre, che non è possibile parlare propriamente di questo scrittore come di un teologo, è altrettanto vero che i suoi romanzi, in particolare i cosiddetti “grandi romanzi”, sono spesso definiti “teologici”, perché il tema di fondo costante è il rapporto tra uomo e Dio. Parlare degli aspetti religiosi dell'opera dostoevskiana equivale ad analizzare l'intero mondo di questo scrittore. Questi due aspetti, uniti a una riflessione profondissima sull'etica, trovano massima espressione in due fondamentali romanzi dell'autore: Delitto e castigoe I fratelli Karamazov. Vediamo, innanzitutto, in particolare per la prima opera, come la maggior parte della narrazione non consti di azioni, ma di pensieri, pensieri orgogliosi, utopici, grandiosi e poi infinitamente pieni di angoscia e di disperazione; pensieri sempre e comunque umani, su cui ciascuno è invitato a riflettere. In secondo luogo, notiamo che, in entrambi i romanzi, il rapporto tra i personaggi e Dio è costantemente analizzato e, in alcuni casi, costituisce il punto di svolta delle vicende.
La storia di Delitto e castigo è, dal punto di vista dell'intreccio narrativo, piuttosto semplice: in una Pietroburgo enorme e, allo stesso tempo soffocante, vive un giovane studente di legge, Raskol'nikov, estenuato dalla povertà e dai debiti che deve pagare a una vecchia usuraia senza scrupoli. È un ragazzo intelligente e perspicace, non è assolutamente di natura malvagia, anzi, è generoso e sensibile, tuttavia, egli non accetta la condizione umana: non sopporta le ingiustizie di questo mondo, in particolare, non riesce a tollerare il fatto che un individuo avido e spregevole come la vecchia usuraia rovini la sua vita e quella di tanti altri studenti. Oppresso dalle condizioni disagiate e rattristato da una lettera in cui la sorella gli comunica di accettare il matrimonio con Lužin, un ricco uomo d'affari, che non ama, per poterlo aiutare a finire gli studi, Raskol'nikov si decide a un terribile atto: uccide l'usuraria e la deruba delle sue, peraltro misere, ricchezze. Ma egli non ha ucciso per soldi, ed è qui che compare l'idea centrale del romanzo: il suo non è delitto compiuto per necessità, ma per convinzione, come lo definisce Gasparini [2]. L'idea che lo conduce all'atto finale è maturata nella sua testa per un lungo periodo, fino ad ottenere una forma concreta: non tutti sono degni di vivere allo stesso modo, ci sono individui più dannosi che utili per la società, la cui esistenza rende il mondo peggiore; è, dunque, legittimo che vengano eliminati per fare del bene all'intera umanità. Chi avrà il coraggio di compiere quest'atto mostrerà la propria natura superiore rispetto agli altri, a lui sarà concesso ignorare le comuni leggi morali, che impongono di non uccidere, perché il suo fine è superiore e sarà ricordato nella storia come benefattore dell'umanità. Raskol'nikov vuole capire se possiede questo coraggio o se è un uomo comune. Il suo delitto è, quindi, una sorta di “esperimento”; un esperimento che fallisce, in quanto, non appena compiuto l'omicidio, egli viene colto da un senso di colpa paralizzante, l'angoscia cresce in lui fino a diventare disperazione e più cerca di giustificare a se stesso l'atto più viene pervaso da un malessere devastante. Inizia così il vero e proprio delirio del protagonista: soffre di improvvisi e fortissimi attacchi di febbre, crisi di sonnolenza alternate a lunghissime notti insonni. Lo schiacciante senso di colpa lo induce a vivere in isolamento dalla madre e dalla sorella, che lo hanno raggiunto a Pietroburgo, e dagli amici, sconvolti dal suo atteggiamento. Perfino la città sembra trasformarsi e riflettere la sua angoscia, ogni cosa perde la sua oggettività e assume la forma della sua ossessione. La situazione di Raskol'nikov è peggiorata, inoltre, dal fatto che le indagini della polizia si indirizzano vieppiù sulle sue tracce e che l'investigatore che si occupa del caso, Porfirij Petrovi?, è certo della sua colpevolezza e cerca di esasperarlo, negli interrogatori, in modo da indurlo a confessare.
Alla fine, sopraffatto dalla gravità del gesto compiuto, il protagonista decide di confidarsi con Sonja, la figlia di Marmeladov costretta dalla matrigna a prostituirsi per guadagnare qualche soldo e di cui egli si innamora profondamente. La confessione di Raskol'nikov è profonda e totale, egli ammette di non aver ucciso, in realtà, per i soldi o per essere il benefattore dell'umanità, ma per sapere se egli avesse coraggio, se fosse «un pidocchio, come tutti, o un uomo» [3]. Attraverso la figura di Sonja e la lettura, che lei gli propone del brano evangelico della resurrezione di Lazzaro, egli scopre la possibilità della conversione, la via della croce, che conduce alla piena ammissione di colpa e all'umile accettazione della legge comune a tutti gli uomini, che non permette a nessuno di decidere arbitrariamente della vita e della morte di un altro. Il suo non è ancora un pentimento completo, tuttavia sceglie di pagare per il delitto commesso e di aprirsi a una nuova opportunità di vita: l'accettazione della croce regalatagli da Sonja e il prostrarsi a baciare la terra, dopo il colloquio con lei, sono i simboli di tale apertura.
Il romanzo termina con un incubo di Raskol'nikov, che, intanto, è stato condannato in Siberia ai lavori forzati: egli sogna una sorta di apocalissi mostruosa, in cui l'umanità era devastata da una terribile pestilenza, che rendeva gli individui arroganti e presuntuosi. Ognuno si sentiva l'unico in grado di giudicare il bene e il male, cosa che portava a infiniti scontri e induceva gli uomini a distruggersi l'uno con l'altro. Solo una ristretta classe di persone poteva salvarsi, cioè gli eletti, i più puri, destinati a iniziare una nuova stirpe e una nuova era, a rinnovare e a redimere la terra. Il sogno permette a Raskol'nikov di vedere chiaramente, per la prima volta, a cosa avrebbe portato, in prospettiva, la realizzazione del suo ideale. Da poco è trascorsa la Pasqua, le giornate erano serene e miti, egli prende il Vangelo che Sonja gli ha regalato, e, per la prima volta, lo apre e comprende che la via dell'espiazione consiste nel cercare la convivenza con gli altri, nell'offrire al prossimo, come fa Sonja, che lo ha seguito nei lavori forzati, un amore semplice e totale, fatto di silenziosa dedizione.
Questa la storia narrata nel romanzo, a cui molte definizioni sono state attribuite: romanzo giallo, romanzo sociale e romanzo “filosofico”; ma Delitto e castigo è soprattutto la storia del suo protagonista, della sua ribellione a un mondo in cui ci sono troppe ingiustizie e sofferenze, un mondo in cui una ragazzina è costretta a prostituirsi per non morire di fame, in cui una giovane donna decide di sposare un uomo che non ama e non stima per poter assicurare un futuro al fratello, in cui, infine, un'avida usuraia trae soddisfazione dalla sofferenza dei suoi creditori. Raskol'nikov non accetta il mondo in cui si trova a vivere, ma, anziché “restituire il biglietto d'ingresso”, come farà Ivan Karamazov, preferisce tentare di cambiarlo, di renderlo migliore, per questo adotta l'idea “napoleonica”, l'idea, cioè, per cui l'uomo “superiore” (Napoleone ne è il simbolo) sia legittimato nell'infrangere le leggi della comune morale, che impongono il rispetto di ciascuna vita, senza eccezione alcuna.
L'idea “napoleonica” si riduce a questo: l'omicidio è permesso nel caso in cui la vittima sia un individuo inutile, malvagio e se dalla sua eliminazione è possibile derivare azioni buone, oneste e capaci di cancellare il delitto. Certamente non a tutti è consentito realizzare quest'ideale, ma soltanto agli uomini superiori, i dominatori, coloro che hanno il compito di rendere migliore l'umanità. «I legislatori e i fondatori dell'umanità […] Licurghi, Soloni, Maometti» [4] hanno dato nuove leggi all'umanità e distrutto quelle antiche e non l'hanno fatto pacificamente, ma con grandi spargimenti di sangue; i loro delitti, però, sono relativi, in quanto giustificati da un fine superiore. Se Napoleone, per esempio, per edificare il suo impero non avesse dovuto affrontare sanguinose battaglie, ma semplicemente uccidere una sordida vecchia, l'avrebbe fatto con lo stesso rimorso che si potrebbe avere nel tagliare un ramo che ostacola il cammino [5]. Oppure se grandi geni come Keplero o Newton, per rendere note le loro scoperte, non avessero avuto altra scelta, per assurdo, che sacrificare la vita di una, cento, mille persone, avrebbero avuto il diritto, persino l'obbligo di ucciderle, perché le loro invenzioni sono state utili a milioni di persone [6].
Esistono, dunque, due tipi di uomini, secondo Raskol'nikov: quelli inferiori, che servono solo a riprodurre il genere umano, e uomini veri e propri, i soli che siano in grado di portare avanti la storia. I primi amano ubbidire ed è necessario che lo facciano, mentre i secondi sono sovversivi, sconvolgono il sistema sociale in cui vivono. La prima categoria, costituita dalla massa, condanna gli uomini veri, li disprezza, a volte arriva addirittura a giustiziarli, salvo poi, nel corso delle generazioni, rivalutarli come eroi e metterli su un piedistallo.
Raskol'nikov vuole far parte della prima classe di uomini, vuol essere, in senso davvero nietzschiano, un “Superuomo”, un individuo a cui tutto è permesso, che si pone “al di là del bene e del male”. Egli sceglie l'omicidio per dimostrare a se stesso la propria libertà illimitata e assoluta, trasgredisce deliberatamente la legge religiosa e morale per provare la sua legittima appartenenza a quel ristrettissimo numero di esseri eccezionali ai quali tutto è permesso. Attraverso questi pensieri, egli diventa orgoglioso e superbo e, pur dicendo di voler fare del bene all'umanità, in realtà, la disprezza [7]. L'uomo del sottosuolo – prima ed essenziale figura nella “svolta filosofica” di Dostoevskij – che rinunciava a un benessere mediocre e sceglieva il dolore e la pazzia per dimostrare il predominio della volontà e dell'arbitrio sulla ragione, si eleva ora a Superuomo e decide non solo di ignorare la morale comune, ma di vivere solo secondo i suoi principi, togliendo all'uomo la posizione di fine e riducendolo a mezzo per raggiungere la felicità. Se la libertà è la più grande forza dell'uomo, la conseguenza più immediata non sta forse nel principio del “tutto è permesso”? Si tratta di una pura e semplice deduzione logica. «Una morte, cento vite in cambio» [8], dice il protagonista, prima di commettere il delitto: è un puro calcolo matematico.
Il peccato di Raskol'nikov, come nota Cantoni, è proprio questo: aver fatto prevalere l'intelletto sulla morale, aver pensato che la ragione, chiusa nel ciclo dei suoi processi, possa risolvere con le sue forze finite tutti i problemi esistenziali. È lo stesso errore che commetterà Ivan Karamazov, è l'etica degli atei, dei nichilisti, dei cospiratori dei Demoni, del Grande Inquisitore. Sia Ivan che Raskol'nikov sono personaggi di animo nobile, dotati di un'intelligenza brillante e profonda, ma la loro filosofia va in una direzione contraria rispetto alle leggi della vita. Essi vorrebbero risolvere l'enigma dell'esistenza nei suoi fondamenti ultimi e modificare l'iniquità e la crudeltà presenti nel mondo per mezzo di una razionalità colpevole, e la colpa non sta nell'irrazionalità constatata, ma nella pretesa di poter sostituire, con il loro intelletto finito, alla forza misteriosa e infinita che governa l'universo [9].
Come ogni grande ribelle e ogni Superuomo, Raskol'nikov è un solitario – non a caso raskol' in russo, significa “scisma”, “scissione” – le sue idee lo portano a staccarsi dal resto della società dei suoi simili, che giudica inferiori, abbandonandosi alla seduzione delle sue costruzioni mentali. Si può dire, con Malcovati [10], che questo personaggio cede alla tentazione di Lucifero: quella, cioè, di stabilire per sé una legge diversa dalle norme morali che seguono gli altri; quella di agire contro il “gregge”, sentendosi unici e autorizzati alla diversità. Ma la sicurezza che egli ha raggiunto nelle sue fantasticherie non è definitiva, occorre un atto estremo, “titanico” che ne comprovi la veridicità. Per questo Raskol'nikov decide di compiere il delitto; ormai l'aspetto morale, per lui, è diventato secondario, quel che conta è solo riuscire, attuare la decisione presa e passare definitivamente dalla parte dei “Napoleoni”. Così il protagonista, in uno stato di esaltazione, muovendosi come un automa, ruba un'accetta, si reca a casa dell'usuraia e le infligge tre colpi mortali. Egli è alla ricerca di una prova che consacri e legittimi ai suoi occhi l'alta idea che, nella solitudine, egli ha concepito di sé e sceglie l'assassinio perché non esiste qualcosa di più estraneo alla sua indole e che richieda maggiori energie per essere compiuto. Lo sforzo al quale egli si sottopone conferisce un aspetto quasi eroico alla sua impresa; d'altra parte, se fosse stato meno in contraddizione con il suo animo, non gli avrebbe permesso di mettersi alla prova, di capire se era davvero degno di entrare nel novero degli esseri superiori o se era destinato a rimanere tra “i pidocchi”. In quel momento egli non può prevedere le conseguenze del suo atto [11].
Ma l'esperimento di Raskol'nikov fallisce completamente: egli perde la sicurezza, non soltanto nel suo ideale, ma proprio in se stesso: «Me stesso ho ucciso, e non la vecchiuccia!» [12], ammetterà egli stesso, confidandosi con Sonja. Lo stato di profondo sconforto, in cui cade al ritorno dal luogo del delitto, non è sintomo solo della stanchezza nervosa, ma anche della distruzione che egli sente essersi consumata dentro di lui. Egli ha perduto per sempre quel sogno di superiorità e grandezza, senza il quale la vita gli pare abietta [13]. Tuttavia è ancora lontano dal riconoscere la sua colpa e l'errore insito nel suo ideale; non riesce, per ora, ad ammettere che nessuno ha il diritto di raggiungere il proprio fine con il delitto, anche se il fine non fosse la felicità individuale, ma il miglioramento della vita dell'intera umanità. Dal suo punto di vista, Raskol'nikov ha ucciso senza aver acquistato il coraggio di uccidere, senza esser riuscito a valicare quel limite invisibile che separa gli uomini veri da quelli comuni e spregevoli, quelli, cioè, che hanno il diritto di impadronirsi del potere da quelli che, invece, devono soccombere. Il terribile senso di colpa che lo tormenta testimonia, secondo lui, il fatto che non aveva quel diritto; ma che questo diritto, in realtà, non esista è qualcosa che imparerà più tardi, in Siberia. Se avesse sopportato il peso del suo crimine, avrebbe avuto ragione sulla storia dell'umanità, ma egli non ha avuto quella forza d'animo e il sentimento di sconfitta che prova è la punizione più severa che si possa immaginare.
L'espiazione, in Dostoevskij, è una legge di natura; quando questa non agisce convincendo il colpevole del suo errore, produce, tuttavia, delle alterazioni così forti nella sua coscienza, da costringerlo a sottomettersi alla sua osservanza anche contro volontà e contro ragione. È questa legge che isola il protagonista di Delitto e castigo dagli altri individui, che distrugge i suoi affetti familiari e lo costringe a dichiararsi vile pur proclamando l'altezza e la giustizia dell'idea ispiratrice del suo delitto. Egli subisce, di fatto, la legge dell'espiazione, ma non è disposto ad ammetterne la superiorità [14].
Il pentimento autentico di Raskol'nikov avviene per mezzo di Sonja, peccatrice come lui, ma portatrice di una fede semplice, che lo guida nella presa di coscienza del fatto che la legge morale è valida per tutti allo stesso modo e che nessuno ha il diritto di porsi al di sopra di essa. L'ideale del Superuomo si è sgretolato alla sua prima impresa e a lui, che lo incarnava, non rimangono che la solitudine e la vergogna. Una sola via gli rimane, escludendo quella rapida ma vile del suicidio, ed è la via della croce, cioè della piena responsabilità. Questa via è rappresentata proprio da Sonja, figura tanto pura quanto sfortunata e indifesa, che non disprezza il mondo, ma si fa carico, insieme a Raskol'nikov, della sofferenza e della colpa da espiare. La croce che ella gli dona e la lettura del racconto evangelico della resurrezione di Lazzaro sono i simboli del nuovo cammino da intraprendere. Attraverso Sonja, la sua dedizione e il suo conforto, Raskol'nikov comprende che la felicità non è terrena, egoistica, individuale, ma soprannaturale e infinita e che si raggiunge con la sofferenza, il sacrificio di se stessi, l'umile dedizione al prossimo. La forza per sostenere tali sacrifici è data dalla fede in Dio e dall'amore per Lui e per gli uomini.
L'idea “napoleonica” e il dono della croce da parte di Sonja sono, nella loro totale contrapposizione, i due elementi più importanti del romanzo; e il gesto silenzioso di Sonja riesce ad agire sull'ideale di Raskol'nikov, denunciandone la superbia e l'ambizione malvagia che vi si nascondono, e, alla fine, aprendolo alla conversione. In questo modo, Dostoevskij mostra la sconfitta della morale del Superuomo, del titano, del nuovo Prometeo; una morale che dovrebbe essere assolutamente libera e che si rivela, alla fine, come il suo contrario, cioè come arbitrio illimitato, come negazione della libertà stessa e annullamento della volontà.
Raskol'nikov ha sperimentato su se stesso l'impossibilità di una vita guidata soltanto dall'intelletto privo di amore, il superamento della sua posizione avviene attraverso una profonda e radicale esperienza interiore, che lo condurrà, alla fine, alla possibilità del ripristino di legami autentici con l'umanità, legami spezzati nel suo tragico gesto di rivolta.
Delitto e castigo pone di fronte a grandi temi etici, primo fra tutti il valore assoluto dell'essere umano in quanto tale, a prescindere dalla su utilità o dannosità all'interno della società. A questo proposito, lo studioso Tugan-Baranovskij, nel suo saggio La visione etica di Dostoevskij [15], rintraccia una possibile comparazione tra l'autore russo e Kant sul tema della morale e sul fondamento di essa, cioè Dio. Senza il principio di un'entità soprannaturale, l'idea del valore supremo della persona umana diventa negativa, perché, non solo non è in grado di costruire la vita, ma, al contrario, conduce alla distruzione della vita stessa, all'omicidio. Ponendosi al di fuori del bene assoluto rappresentato dalla divinità, l'uomo non può acquistare un valore supremo: l'idea di uomo e l'idea di Dio sono, dunque, inscindibilmente legate e l'utopia della persona fine a se stessa è semplicemente un'assurdità.
Tutto ciò che può assumere un valore assoluto, lo acquista solo presupponendo l'esistenza di Dio; così come l'uomo, anche la legge morale, per il solo fatto di esistere, esige il riconoscimento di Dio. In tal modo, Dostoevskij si avvicina molto alle posizioni di Kant, il quale postula Dio come fondamento ultimo della morale. Nella coscienza etica dell'uomo, si riflette un barlume di divinità, che gli conferisce un valore infinito.
Tuttavia, non tutti gli individui possiedono nella stessa misura una coscienza morale e qui sorge un nuovo problema: come conciliare il valore infinito dell'uomo e la sostanziale uguaglianza che ne deriva con le differenze oggettive, sul piano etico, degli individui, che sembra condurre al riconoscimento di una diversità di valore? Questo problema, chiamato da Tugan-Baranovskij “problema dell'umanità”, è pienamente rappresentato da Raskol'nikov. Da un punto di vista utilitaristico, la sua visione etica è inoppugnabile: se la moralità o immoralità di un comportamento è determinata solo dall'utilità o dal danno che ne può derivare, allora, una grande scoperta scientifica, che può salvare la vita a milioni di persone, merita, se necessario, il sacrificio di qualche individuo. È stata proprio questa logica la causa della perdizione di Raskol'nikov. Il suo errore consiste nel fatto di voler motivare logicamente ciò che, per sua natura, non ammette una razionalizzazione. Egli cercava la dimostrazione logica della morale, ma non si rendeva conto che la legge morale non è passibile di dimostrazione, in quanto è, kantianamente, un principio a priori, che, quindi, non riceve una legittimazione dall'esterno, bensì dall'interno di ogni individuo.
Non esiste altra motivazione che imponga all'uomo il rispetto della vita di ogni altro essere, se non un “devi perché devi”, che si fonda sul principio infinito della divinità e non ammette un fondamento logico. La legge morale non può essere oggetto di indagine razionale, così come non può esserlo tutto ciò che esiste per forza propria, indipendentemente dalla nostra volontà. Sta di fatto che la nostra coscienza morale afferma la sacralità della vita, tale è la legge morale. Qualunque sia l'origine di questa legge, essa esiste con tanta realtà quanta ne hanno le leggi di natura. Il protagonista di Delitto e castigo tenta di negarla e per questo cade, ed è, allo stesso modo, destinato a cadere, chiunque, violerà tale legge.
La vera possibilità di riscatto si offrirà a Raskol'nikov, alla fine del romanzo, quando, dopo vari anni di lavori forzati, grazie anche all'appoggio di Sonja, avviene nel suo animo un cambiamento: riconosce il suo delitto e rinasce così a nuova vita. La coscienza morale ha vinto e ciò gli permette di riconciliarsi con se stesso, con gli altri uomini e con l'infinito, che di nuovo sente dentro di sé.
Dilaniato quanto Raskol'nikov, prima della conversione, o forse in maniera ancora più disperata, è Ivan Karamazov, probabilmente il più combattuto tra i personaggi dostoevskiani.
Egli si presenta come un ragazzo dotato di lucida intelligenza, ma dal carattere chiuso, inquieto e scostante; il suo cuore è pieno di disprezzo per un padre violento e cinico, e di rabbia nei confronti di un mondo ingiusto e crudele. La sofferenza delle creature innocenti costituisce la sua motivazione per accusare Dio di malvagità e di mancanza di vero amore per gli uomini. Il tormento di Ivan è il tormento per un interrogativo che si è posto, e continua a porsi, in ogni epoca, l'umanità che cerca di conciliare l'esistenza di un Dio buono e giusto con la realtà innegabile del male in tutti i suoi aspetti. Finché il male è la conseguenza di una colpa si può trovarne una giustificazione, ma quando colpisce immeritatamente creature incapaci di reagire, vulnerabili e innocenti, nasce la ricerca, nell'uomo, di una soddisfacente e comprensibile risposta da parte della ragione umana e, poiché sembra impossibile trovarla, sorge, a questo punto, il dramma, rappresentato dalla figura di Ivan, che si trasforma, nel suo caso, in rivolta.
Se per Raskol'nikov il delitto era un atto individuale, un esperimento simbolico della ribellione personale, sostenuto dalla dottrina del Superuomo, in Ivan Karamazov l'atteggiamento di sdegno per il mondo e di rivolta raggiunge proporzioni metafisiche, in quanto comporta, in ultima analisi, la negazione di Dio e del significato del mondo. Come l'assassino di Delitto e castigo, Ivan ha una grande voglia di vivere, ma si chiude poi in una dimensione costituita solo dai suoi pensieri, in cui si pone problemi filosofici. Il suo interessamento alle vicende esterne è sempre condizionato dalla posizione intellettuale che ha assunto. Come Raskol'nikov, anch'egli è un peccatore, ma il suo peccato è di natura mentale: non ha ucciso nessuno, pur avendo desiderato e permesso la morte del padre, ma ha rinnegato il mondo in quanto non corrisponde a un sistema logico comprensibile per l'uomo. Il rifiuto del mondo terreno da parte di Ivan implica la rottura con l'aldilà, con il mondo della trascendenza. L'intelletto rimane ancorato a ciò che riscontra nell'esperienza e nella storia, che dà prova, secondo Ivan, del fatto che il creato non può essere governato da Dio, poiché in esso regnano il disordine e la contraddizione. La logica terrestre si attiene ai fatti, è la logica della certezza e non della speranza, della razionalità e non del mistero. Per il credente, la fede arriva là dove l'intelletto non può arrivare, mentre per la ragione che ha fiducia solo in se stessa, ciò che è incomprensibile, rimane tale. Se l'idea di mondo si dissocia da quella di Dio e segue un suo corso irrazionale, le nozioni di giusto e ingiusto, fondate sulla credenza nella divinità, attraverso la tradizione religiosa, non hanno più alcun significato. All'uomo che ha distrutto i legami con il trascendente e ha rinnegato la teocrazia, non resta che inventare nuovi valori. Se l'“idea napoleonica” di Raskol'nikov rispecchia l'idea del Superuomo di Nietzsche, nel rifiuto della fede di Ivan possiamo intravedere un riferimento a un altro modello filosofico, quello dell'homo homini deus, di stampo feuerbachiano. La filosofia atea del pensatore tedesco si poneva, infatti, l'obiettivo di liberare l'amore dalla credenza nella divinità, in modo da indirizzarlo completamente all'uomo, privandolo, quindi, della sua connotazione trascendentale. Ma in una dialettica del rovesciamento di soggetto e predicato divini, come, appunto, quella di Feuerbach, l'uomo che si affida esclusivamente alle infinite possibilità dell'intelletto e all'amore che può provare per i suoi simili, rinnegando qualcosa di superiore, finisce per smarrirsi nell'incertezza [16].
Ivan è stato più volte definito un “ateo credente”, nel senso che egli non nega l'esistenza di Dio, può accettare l'idea di riconoscerlo come Essere onnipotente e buono, ammette l'inevitabilità del male come conseguenza del peccato originale dei primi genitori; non rifiuta neppure la responsabilità di tutto il genere umano nella colpa e la solidarietà nell'espiazione per giungere all'armonia universale, tuttavia trova scandaloso e inaccettabile il fatto che, per il conseguimento di tale armonia, sia necessario anche il sacrificio dei bambini. Il momento cruciale della ribellione di Ivan inizia con la terribile scissione che sente al proprio interno: da una parte avverte la necessità di Dio e ama il mondo, dall'altra non riesce ad accettare la sua imperfezione macchiata dal sangue degli innocenti.
Tra tutti gli eroi dostoevskiani, Ivan è senz'altro quello la cui coscienza è più divisa tra fede e ateismo, in quanto i suoi dubbi hanno origine nell'ambito della fede. Per Dostoevskij, l'uomo trova la propria verità in Dio, questo è innegabile, ma l'itinerario che conduce alla fede è tutt'altro che semplice e deve passare per la fase dell'incredulità. Ivan giunge allo stadio più crudele del dubbio religioso, ma il suo ateismo assoluto è il «penultimo scalino della fede perfetta, mentre l'indifferente non ha nessuna fede, tranne una cattiva paura» [17]. La fede, dunque, per Dostoevskij, non può diventare completa se non scomparendo nel suo contrario per riapparire fortificata al grado superiore. Nel processo di sviluppo, l'alternativa diventa sempre più penosa, cosicché a una fede perfetta si oppone un ateismo altrettanto completo. Ivan vive con tale passione l'affermazione ateista che sembra essere quasi pronto a convertirsi nel suo opposto. Ma, se, da un lato, l'incredulità dei grandi ribelli, come Raskol'nikov, Stavroghin, Kirillov e Ivan, sembra essere prossima al raggiungimento della fede, attraverso le terribili esperienze del delitto e della follia, dall'altro, l'apertura alla credenza è scossa dalle pretese dell'intelletto di interpretare il mondo secondo i suoi canoni logici. La fede autentica, per Dostoevskij è un fine a cui si arriva tramite un percorso faticoso; un percorso in cui l'affermazione e la negazione si alternano drammaticamente [18].
Il rischio “eterno” dell'uomo, in cui Ivan cade, è quello di ridurre la concezione di Dio alla portata dell'uomo. Su questa via, egli decide di seguire il suo intelletto, piuttosto che ammettere la logica del mistero di Dio e tenta, quindi, di creare una sua teodicea. Accettare il mondo così com'è significherebbe, per lui, dare scacco alla propria intelligenza, ma egli non ha intenzione di farlo; intende proprio questo, quando dichiara al fratello Alëša: «Non è che io non accetti Dio, intendi bene questo punto: è il mondo da lui creato, questo mondo di Dio, che io non accetto e non posso piegarmi ad accettare» [19]. Non è ammissibile, nella sua ottica, il fatto che l'armonia universale si debba ottenere anche con la sofferenza inutile e gratuita. Interpretare questa sofferenza come conseguenza della colpa originaria e come una ferita non sanabile (per lo meno su questa terra) significa affermare l'assurdità dell'esistenza e questo diventa per Ivan motivo di profonda inquietudine. La creazione, che dovrebbe essere la gloria di Dio ed essere prova della sua onnipotenza e bontà, diventa, nel giudizio di Ivan, la negazione di queste ultime, in quanto non è conforme alle condizioni poste dalla “mente euclidea”, che conosce il mondo attraverso le tre dimensioni spaziali della geometria classica.
La constatazione del dolore dei più deboli conduce Ivan a mettere in dubbio l'esistenza di Dio; o meglio, per il suo intelletto, la sofferenza nel mondo e l'esistenza di Dio si elidono a vicenda. Secondo il critico A. Penke, lo sbaglio di Ivan consiste nel concentrarsi sul fatto della sofferenza stessa e non sulla ricerca del suo significato; per lui il male non è l'effetto di una responsabilità personale, quindi di un atto di libertà, ma di un Dio cattivo o impotente, che, in ogni caso, non merita di essere adorato [20]. La protesta innalzata verso Dio da Ivan è originale, come nota Rozanov [21], rispetto alla letteratura universale e, nello stesso tempo, molto pericolosa per la religione. Si tratta, infatti, di una prova di attribuzione di un carattere divino al senso della giustizia presente nell'uomo. Secondo il critico, Ivan è un uomo devoto alla religione e la sua ribellione mette in luce ciò che è divino nell'animo umano, cioè il sentimento di giustizia e il senso della sua dignità. Forse, come osserva Guardini, a questo personaggio manca l'umiltà del cuore, che potrebbe aprirlo all'amore per Dio e risanare la frattura nata in lui [22]. Non potendo essere risanata, questa frattura viene compensata con la rivolta. Ivan sceglie l'esaltazione della legge della ragione, che si pone in contrapposizione all'apertura al mistero divino.
Gli interrogativi che Ivan si pone rimangono, dunque, senza risposta: la sofferenza dei bambini non riesce a trovare un senso. Ma Ivan non può accettare di vivere in un mondo di cui non concepisce il senso, in cui è impossibile la conciliazione tra razionale e irrazionale e preferisce, quindi, “restituire il biglietto d'ingresso”:
Non voglio l'armonia: – confessa ad Alëša – per amore stesso dell'umanità non la voglio. Voglio che si rimanga, piuttosto, con le sofferenze invendicate. Preferisco, io, di rimanere nel mio stato di invendicata sofferenza e d'implacato scontento, dovessi pure non essere nel giusto. Troppo caro, in conclusione, hanno valutato l'armonia: non è davvero per le tasche nostre, pagar tanto d'ingresso. Quindi, il mio biglietto d'ingresso, io m'affretto a restituirlo. […] Non è che non accetti Dio, Alëša: ma semplicemente Gli restituisco, con la massima deferenza, il mio biglietto. [23]
Il suo ragionamento lo ha portato ad attribuire la colpa del male a Dio; ma non si può accettare un Dio ingiusto, non resta che negarlo e vivere secondo le leggi della ragione. La libertà “intellettuale” a cui aspira Ivan, conduce, in realtà, per Dostoevskij, al libero arbitrio, che è negazione della libertà autentica, concepita dallo scrittore come un atto di obbedienza e di riconoscimento verso il Creatore. Per questo motivo la sofferenza di Ivan è davvero “inutile”, in quanto non conduce alla redenzione, ma allo smarrimento di sé e alla morte spirituale. Come sostiene Berdjaev, l'arbitrio e la rivolta di Ivan sono ciò in cui culmina il concetto di libertà senza grazia.
L'idea di Ivan Karamazov coincide con quella del vecchio cardinale protagonista del suo piccolo poema, cioè il Grande Inquisitore, e con questo personaggio raggiungerà l'esito più catastrofico: la libertà, trasformatasi in arbitrio, diventerà costrizione. La logica del Grande Inquisitore è il punto di arrivo della “mente euclidea”. Essa cerca di razionalizzare il mondo, liberandolo, per quanto è possibile, dal dolore e dal male. Alla base delle convinzioni del cardinale e di Ivan c'è la sincera volontà di aiutare la debolezza umana; entrambi non sono mossi dalla ricerca di beni personali o solo materiali, ma mirano alla felicità degli uomini. Il loro fine è nobile, ma cerca di realizzarsi al di fuori dell'ottica divina; vogliono sostanzialmente sostituirsi a Dio, per correggere un'opera per loro troppo imperfetta, ma, esercitando una libertà illimitata, finiscono per togliere all'uomo ogni possibilità di scegliere liberamente il proprio destino.
Attraverso Ivan Karamazov e il Grande Inquisitore, Dostoevskij simboleggia la tesi per cui, se si ritiene che Dio sia ingiusto o addirittura che non esista, allora non ha più senso distinguere comportamenti morali e immorali, perché l'uomo può sostituirsi a Dio e decidere arbitrariamente del destino degli uomini. La ribellione di Ivan si traduce nella filosofia del “tutto è permesso”: l'eliminazione di Dio dalla vita dell'uomo toglie senso alla vita stessa e permette la legittimazione di ogni delitto, così Raskol'nikov uccide l'avida usuraia, Ivan è il responsabile ideologico della morte del padre e il Grande Inquisitore minaccia Cristo di farlo bruciare vivo. La “mente euclidea”, che non sopportava la sofferenza dei bambini, finisce, così, per tollerare i crimini più efferati. Per Dostoevskij, la filosofia del “tutto è permesso” è in realtà la negazione di ogni principio morale, anzi, è il simbolo della più alta immoralità, è la realizzazione di ciò cui aspira il diavolo, che, infatti, a un certo punto del romanzo, appare in un incontro visionario a Ivan e viene a identificarsi con i suoi pensieri più segreti, costringendolo ad ammettere il fatto che crede in lui.
Ivan possiede una coscienza autonoma, come tutti i personaggi di Dostoevskij, incarna un'idea e ha la possibilità di esprimere ciò che pensa e vive nel suo stato d'animo. La questione che si è posta la critica a questo riguardo è se il Dio di Ivan coincida con quello dello scrittore o se rappresenti la sua opposizione. La disputa è stata inizialmente sollevata da Rozanov, che nell'opera dedicata allo scrittore, sosteneva che l'idea di Ivan e la creazione del Grande Inquisitore coincidessero con i pensieri di Dostoevskij [24]. Un'opinione diametralmente opposta sosteneva, invece, la critica esistenzialista, che ebbe un notevolissimo peso nelle successive interpretazioni dello scrittore nei confronti del tema della fede. In particolar modo, il filosofo russo Berdjaev affermava una corrispondenza tra gli eroi dostoevskiani e le varie fasi della vita dell'autore, fino ad arrivare a una sostanziale divaricazione tra l'idea del Grande Inquisitore e la sua; divaricazione che equivale alla scelta tra l'uomo-Dio e il Dio-uomo.
Secondo S. Frank, nella figura di Ivan, Dostoevskij non intravede soltanto la minaccia del nichilismo, ma avverte un nuovo tipo di credente ateo, che sorgerà in Europa dopo la sua morte. Per lo studioso, la critica dell'autore russo coinvolge, attraverso questo personaggio, tutta la civiltà occidentale. La condanna dello scrittore si rivolgerebbe a tutta la corrente umanistica del XIX secolo - movimento nato nell'Illuminismo – che attraverso la fede dell'uomo in quanto tale, abbandona l'individuo a se stesso, cancellando il concetto cristiano che coglie l'uomo in rapporto con Dio [25].
Questi autori converrebbero nell'affermare che l'unica risposta che Dostoevskij può dare a Ivan Karamazov e ai seguaci della sola intelligenza umana consiste nella riproposizione del modello del Cristo sofferente. In altre parole, per Dostoevskij, l'umanità è liberata dal dolore, da una parte perché esso è sublimato in Dio, dall'altra perché diventa partecipazione alla sofferenza di Cristo, che, nella crocifissione, ha ricondotto a sé tutta la sofferenza del mondo. Nella sua rivolta, quindi, Ivan non nega il mistero di Dio soltanto come creatore, ma anche come redentore; il dolore per l'ingiustizia del mondo, allora, attraverso cui giudica l'operato di Dio, diventa qualcosa di inutile e destinato a non potersi trasformare nel suo opposto attraverso la redenzione. Ciò che Ivan non comprende è che il Figlio di Dio non è venuto sulla terra per spiegare il male, ma per assumere su di sé questo male. Il senso del sacrificio di Cristo è invece compreso da Dmitrij Karamazov, il fratello accusato e condannato ingiustamente per la morte del padre. Egli, pur essendo innocente, non rinnega Dio, ma accetta la sofferenza come solidarietà nell'espiazione per tutte le creature. In forza del vincolo che lega tutta l'umanità, occorre essere solidali anche con i criminali peggiori e mostrare pietà verso i più colpevoli, come fa l'umile Sonja nei confronti di Raskol'nikov [26].
La rigenerazione e il riscatto dell'uomo avvengono, in Dostoevskij, sempre attraverso il dolore, perché esso è l'elemento in cui Dio e uomo possono sentirsi accomunati, unendo i loro sforzi.
A tutte queste interpretazioni fa da contraltare l'ipotesi di Cantoni, forse la più aderente al testo, secondo cui Dostoevskij è prima di tutto un “filosofo della crisi”: della crisi di ideali, della crisi di una società che stava cambiando sempre più velocemente. Lo scrittore non offre soluzioni edificanti, non si trova in lui l'apologia di una fede pacificata, piuttosto quella della libertà di coscienza, che è apertura alla conversione alla fede più pura quanto alla perdizione più diabolica. «L'uomo vivo […] è quello in cui senso e intelletto, con tutta la loro demonicità, non si subordinano come potenze inferiori e colpevoli alla sublimità dell'amore religioso» [27].
[1] N. Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, tr. it. di B. Del Re, Einaudi, Torino 2002, p. 5.
[2] E. Gasparini, Dostoevskij e il delitto, Montuoro, Milano 1946, p. 67.
[3] F.M. Dostoevskij, Delitto e castigo, tr. it. di S. Polledro, Rizzoli, Milano 2004, p. 446. Delitto e castigo venne pubblicato a puntate sulla rivista “Russkij vestnik” nel 1866.
[4] Ibid., p. 276.
[5] Ibid., p. 441.
[6] Ibid., p. 275.
[7] Secondo, R. Girard, attraverso Raskol'nikov, Dostoevskij esprime l'idea per cui le dottrine etiche che vogliono porsi come garanti del bene e dell'armonia tra gli interessi personali e quelli generali, finiscono, in realtà, per imporre l'egoismo di pochi. R. Girard, Dostoïevski du double à l'unité, in Critique dans un souterrain, l'Age d'homme, Lausanne 1976, p. 61.
[8] F.M. Dostoevskij, Delitto e castigo, cit., p. 72-3.
[9] R. Cantoni, Crisi dell'uomo. Il pensiero di Dostoevskij, Arnoldo Mondadori, Milano 1948, pp. 108 e 114.
[10] F. Malcovati, Introduzione a Dostoevskij, Laterza, Bari 1995, p. 63.
[11] E. Gasparini, op. cit., pp. 77-78.
[12] F.M. Dostoevskij, Delitto e castigo, cit., p. 446.
[13] Cfr. L. Pareyson, Il pensiero etico di Dostoevskij, Giappichelli, Torino 1967, p. 74.
[14] E. Gasparini, op. cit., pp. 86-87: “L'idea più profonda e più originale del romanzo resta quella di una espiazione come legge di natura, di un germe di moralità gettato nel cuore dell'uomo da una mano terribile e misericordiosa”.
[15] M. Tugan-Baranonvskij, “La visione etica di Dostoevskij”, in Il dramma della libertà, saggi su Dostoevskij, a cura di Centro studi Russia Cristiana, La casa di Matriona, Milano 1991, pp. 21-37.
[16] R. Cantoni, op. cit., pp. 108-119.
[17] Così parla il monaco Tichon a Stavrogin, alla fine de I demoni. Cfr. F.M. Dostoevskij, I demoni, tr. it. di R. Küfferle, Mondadori, Milano 2005, p. 701. Il romanzo I demonifu pubblicato a puntate sulla rivista “Russkij vestnik” nel 1871.
[18] Cfr. R. Cantoni, op. cit., pp. 110-11, ed E. Gasparini, op. cit., p. 95.
[19] F.M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, tr. it. di A. Villa, Einaudi, Torino 1976, p. 315. Il romanzo I fratelli Karamazov fu pubblicato a puntate sulla rivista “Russkij vestnik” nel 1879-80.
[20] A. Penke, Percorsi cristologici in Fëdor M. Dostoevskij, a cura di G. Lorizio, P. Coda, A. Joos, Pontificia Universitas Lateranensis, Roma 1999, p. 19-24.
[21] V. Rozanov, La leggenda del Grande Inquisitore, tr. it. a cura di N. Caprioglio, Marietti, Genova 1989, p. 74 sg.
[22] R. Guardini, Il mondo religioso di Dostoevskij: studi sulla fede, tr. it. di M.L. Rossi, Morcelliana, Brescia 2000, p. 153.
[23] F.M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, cit., p. 328.
[24] V. Rozanov, op. cit., p. 121.
[25] Cfr. S. Frank, “Dostoevskij e la crisi dell'umanesimo”, in Il dramma della libertà, saggi su Dostoevskij, cit., pp. 193-99.
[26] Cfr. L. Pareyson, Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, Einaudi, Torino 1993, p. 79: «Bisogna assumersi la responsabilità anche delle colpe non commesse, in virtù della solidarietà che lega gli uomini fra di loro», corsivo nel testo.
[27] R. Cantoni, op. cit., p. 128.
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lunedì 22 ottobre 2018

A LEZIONE DA NABOKOV


A lezione da Nabokov, antidoto contro la banalizzazione della lettura

Edoardo Rialti
Un autore, o un singolo libro, soprattutto se proveniente da un’epoca o da una cultura diversa dalla nostra, è come un paese straniero, sottolineava Lord David Cecil nel suo breve e denso “The fine art of reading”: occorrono le stesse doti di attenzione e duttilità, lo stesso gusto per la diversità, la stessa disponibilità a esporsi a tempistiche e atmosfere mai semplicemente nostre; solo così si possono aprire – o riaprire – altre stanze e finestre dentro di noi, da esplorare in solitudine o da cui affacciarsi sul mondo. Tuttavia la stessa banalizzazione e lo stesso livellamento consumistico che hanno divorato l’esperienza del viaggio vengono spesso applicati alla lettura stessa.
Nel mondo dei social anche i libri sono ridotti a mete turistiche, e, si tratti di opere d’arte, di cibo, di incontri, la preghiera faustiana (“fermati, attimo, sei così bello”) si è trasformata in una cascata infinita di istanti, luoghi e citazioni tutti parimenti da ricordare ed esporre, e tutti parimenti svuotati di significato e autentica profondità. Per questo, la ripubblicazione di Adelphi del primo volume delle lezioni americane che Vladimir Nabokov – un esule e un emigrato, significativamente – dedicò per un decennio ai grandi classici della letteratura europea, costituisce molto più di un gradito e invocato ritorno. È un sollievo, una di quelle grazie di Dio per cui si può effettivamente ricorrere ai superlativi e all’entusiasmo.
Non si limitano a esporre alcuni requisiti fondamentali per un’autentica esperienza di lettura, che al pari d’ogni disciplina fisica e mentale richiede un addestramento specifico: tempo, pazienza, attenzione, “quella forma laica della preghiera”, secondo Benjamin. Vi respiriamo l’aria sottile che additano e siamo aiutati a sottrarci dal facile dondolio delle narrazioni che ci portano dove sappiamo benissimo recarci da soli. “Agli artisti minori è lasciato l’abbellimento del luogo comune: essi non si prendono la briga di reinventare il mondo, ma si limitano a esprimere il meglio da un ordine di cose prestabilito”.
Invece “Mansfield Park” di Jane Austen o “La metamorfosi” di Kafka costituiscono “una serie di sorprese uniche che i massimi artisti hanno saputo esprimere nella loro forma unica e particolare”. Flannery O’Connor notava che gli scrittori acerbi credono di potere incarnare i grandi conflitti universali, ma non sanno descrivere una discesa lungo le scale o la chiamata d’un taxi. È così anche per il lettore superficiale, che sorvola sui dettagli e li considera meno importanti di determinati dialoghi o scene palesemente drammatiche o ironiche. Invece, sottolinea Nabokov analizzando Dickens, “tutti i gatti hanno gli occhi verdi, ma notate come sono verdi questi occhi verdi grazie alla candela che sale lentamente le scale”. Solo una visualizzazione rigorosa della planimetria della casa del dottor Jekyll permette di notare che essa stessa è un paesaggio spirituale, un misto di bene e di male, esattamente come il suo proprietario.
Si vorrebbe citare tutto – dall’analisi della prosa di Flaubert che al pari della poesia “descrive le emozioni e gli stati d’animo ricorrendo a uno scambio di parole insignificanti”, alla differenza tra il narratore-dio in Proust, Joyce e Dickens – e al tempo stesso niente, perché queste lezioni non sono una mera raccolta di intuizioni e chiavi di lettura, ma una lunga scalata, impegnativa e magnificamente divertente, al termine della quale lettore e scrittore si incontrano “ansanti e felici”. Questa educazione all’ironia, alla sottigliezza, al gusto dell’ambiguità e del prisma immaginativo, non ha bisogno di essere attuale.
Tuttavia, in un’epoca dove tutti leggono e scrivono in continuazione, in un mondo che non ha mai comunicato così tanto e sembra affondare ogni momento nelle acque fangose del letteralismo, della reattività e dell’ottusità, questo inno al pensiero contro-intuivo, questo contributo a formare dei veri lettori costituisce anche – di riflesso, si capisce – un autentico manuale di resistenza civile.

sabato 20 ottobre 2018


RACCONTI DEI NONNI DI ARIANNA
Marianna Saraceno

Dovevo scrivere due righe..... poi la nostalgia mi ha preso la mano.....
Quando eravamo bambini mangiavamo sempre quello che i nostri genitori ci preparavano; non c'erano supermercati o grandi negozi in cui fare la spesa, c'erano solo piccoli negozietti dove si compravano le cose indispensabili.Tutto il resto veniva dalla campagna e dal lavoro di conservazione dei prodotti delle nostre mamme e nonne. Mangiavamo solo prodotti di stagione: al tempo delle ciliegie ne avevamo ceste piene che mangiavamo a piene mani, d'estate pere, pesche, albicocche e fichi, colti maturi dalla pianta e consumati di giorno in giorno; in autunno castagne, noci e uva in abbondanza, d'inverno gli agrumi. Si cercava di conservare per l'inverno e per le feste tutto ciò che non veniva consumato, trasformandolo in golosi dolci. I fichi erano abbondanti d'estate , allora si tagliavano a metà e si facevano seccare al sole conservandoli in sacchi di juta. Verso Natale le mamme li tiravano fuori e li riempivano col gheriglio delle noci e un pezzettino di buccia di mandarino, li chiudevano bene con le mani  e li mettevano nel forno a legna che ogni famiglia possedeva. Si spandeva nell'aria un profumo delizioso che faceva venire l'acquolina in bocca. Le famiglie più ricche impreziosivano questi fichi immergendoli nel cioccolato fuso e lasciato raffreddare. Era il nostro dolce di Natale insieme a noci, nocciole e mandarini. 
Nel forno a legna,come quello dei pizzaioli, le donne cuocevano il pane una volta la settimana: preparavano la pasta col lievito madre e, quando era bella gonfia, ne facevano tante forme che venivano incise a croce sulla superficie e infornate.Quando il pane era dorato si tirava fuori e si poneva in una cassapanca ben ricoperto con teli bianchissimi e consumato durante la settimana.Qualche volta, per noi bambini, le nonne infornavano pizzette preparate con lo stesso impasto e arricchite con pomodori, origano e olio; noi  le aspettavamo con ansia e le gustavamo a piccoli bocconi per farle durare di più.
 Il nonno , ogni sera portava a casa il bidoncino del latte appena munto ,così al mattino la nonna lo faceva bollire e lo versava in una tazza grande con una fetta di pane più secco a pezzettini, lo mangiavamo col cucchiaio prima di andare a scuola. Niente merendine o biscotti.
per pranzo si mangiava tutto ciò che la campagna ci forniva, verdure, legumi freschi o secchi, secondo la stagione, salumi fatti in casa, formaggi, olio e vino di nostra produzione.La carne si mangiava di domenica ed era la gallina o il pollo che allevavamo liberi di razzolare in campagna; d'inverno, quando si uccideva il maiale per produrre salumi, si mangiava anche carne di maiale,quella che non si poteva conservare. Il maiale veniva alimentato con tutto quello che avanzava in casa e che si conservava in un secchio, ma anche patate, fichi, pere e tutto ciò che la campagna offriva. Dunque gli animali, così allevati mangiavano più o meno lo stesso cibo che mangiavamo noi, pertanto le carni erano sane e gustose. Del maiale non si buttava niente, pensate che le nonne, col grasso ed un preciso sistema di bollitura producevano anche il sapone!
I salumi e i formaggi venivano conservati per durare tutto l'inverno co diversi metodi: sott'olio, sotto sale, o sotto spezie varie per non ammuffire. Non mangiavamo mai cibi surgelati, d'altronde non avevamo surgelatori. D'estate, con i pomodori colti alla giusta maturazione si faceva la salsa, tantissime bottiglie di vetro che le nostre mamme preparavano,il metodo di conservazione era la bollitura sottovuoto.
A noi bambini davano da bere anche le uova appena prese dal pollaio, come energetico, a volte crude facendo due buchini che poi ci toccava succhiare, questo non ci piaceva e cercavamo di scappare per non mangiarle, invece le nonne ci preparavano l'uovo sbattuto con lo zucchero, allora era una festa, oppure alla coque con un po' di sale e pezzettini di pane da intingere. Le nonne cercavano di addolcire tutto quello che potevano per vederci contenti: noi il gelato e i dolci li mangiavamo solo in occasione di matrimoni e cerimonie.
Si faceva la pasta in casa per la domenica, in Calabria i filatelli, specie di bucatini, i nonni del nord mangiavano spesso la polenta con intingoli di funghi o di carni e verdure fresche dell'orto, la nonna Nadia che viveva a Milano mangiava spesso il risotto con le salamelle e la cotoletta.
Ciò che accomunava l'alimentazione di questi nonni del nord e del sud era che si comprava solo l'indispensabile, si procurava tutto il resto col lavoro dei campi e di conservazione tutto il resto. Avevamo il necessario, fresco, di stagione, coltivato con metodi naturali, senza sostanze chimiche e conservanti.
La spazzatura prodotta era minima, infatti l'ambiente non era inquinato come adesso e noi bambini crescevamo sani e vivaci all'aperto.

Magritte "Lunette d'approche"

"Tous les emblèmes, toutes les images, tous les miroirs évoquent l’insaisissable, et l’homme interroge l’insaisissable. Nous fabriquons ce que, dans un tableau célèbre, Magritte appelle La Lunette d’approche.
Une fenêtre est à demi ouverte. Le battant qui s’ouvre emporte avec lui le paysage, un ciel et des nuages. La Lunette d’approche découvre ce qu’il y a derrière les emblèmes, les images, les miroirs : un vide, le gouffre, l’Abîme de l’existence humaine.
C’est cet Abîme qu’il nous faut habiter. La raison de vivre commence là."

(Cit. La Fabrique de l’homme occidental
Pierre Legendre)

venerdì 19 ottobre 2018

ALLUCINAZIONI
Philip K. Dick
Racconti inediti
Volume II

Quando Richards rientrava a casa dall'ufficio lo aspettavano alcune piccole, segrete abitudini, una piacevole serie di azioni che gli davano maggiore soddisfazione delle dieci ore di lavoro all'Istituto del Commercio. Gettò la borsa su una sedia, si arrotolò le maniche, afferrò l'innaffiatore con il fertilizzante ed aprì con un calcio la porta sul retro. La fredda luce solare del tardo pomeriggio lo colpì mentre attraversava agilmente il terreno umido e scuro fino al centro del giardino. Il cuore gli batteva all'impazzata. Come andava?
Bene. Diventava ogni giorno più grande.
L'annaffiò, strappò via alcune foglie secche, smosse il terreno con la vanga, tolse un'erbaccia che stava spuntando, sparse a caso il fertilizzante e poi fece un passo indietro per osservare l'opera. Non esisteva soddisfazione pari a quella di una attività creativa. Sul lavoro era un cognitivo ben pagato nel sistema economico Niplan. Lavorava sui segni verbali, segni di qualcun altro, per di più. Qui, aveva a che fare direttamente con la realtà.
Richards si piegò sulle gambe ed esaminò ciò che aveva realizzato. Era bello da vedere; quasi pronto, quasi del tutto cresciuto. Si chinò in avanti per sfiorarne cautamente i fianchi compatti.
Alla luce morente del giorno l'aereo a reazione scintillava foscamente. I finestrini si erano già formati: quattro pallidi riquadri nello scafo rastremato. La bolla di comando cominciava allora a germogliare dal centro del telaio. Le flange del reattore erano piene e sviluppate. Il portello d'ingresso e l'uscita di sicurezza non avevano ancora preso vita, ma non mancava molto.
La soddisfazione di Richards divenne incontenibile. Non c'erano dubbi. L'aereo era quasi maturo. Da un giorno all'altro avrebbe potuto coglierlo, ormai, e... cominciare a volarci.

Alle nove la sala d'attesa era piena di gente e del fumo delle sigarette; adesso, alle tre e mezzo, era quasi vuota. Uno dopo l'altro i visitatori avevano rinunciato e se ne erano andati. Nastri scartati, posacenere ripieni, sedie vuote circondavano la robosegretaria che macinava laboriosamente il suo lavoro meccanico. Ma in un angolo, seduta diritta come un fuso, le piccole mani strette intorno alla borsetta, rimaneva un'ultima, giovane donna che la segretaria non era riuscita a scoraggiare.
La segretaria tentò ancora una volta. Erano quasi le quattro, e tra un po' Eggerton se ne sarebbe andato. L'ottusa convinzione di aspettare un uomo che stava per infilarsi cappotto e cappello per andare a casa straziava i sensibili nervi della segretaria. E quella ragazza se ne stava lì seduta dalle nove, con gli occhi sgranati a fissare il nulla, senza fumare, senza esaminare nastri. Era rimasta semplicemente seduta ad aspettare.
«Mi ascolti, signora», riprese la segretaria, «il signor Eggerton non riceverà più nessuno, per oggi».
La ragazza accennò un sorriso. «Ci vorrà solo un minuto».
La segretaria sospirò. «Lei è cocciuta. Che cosa vuole? La sua ditta deve fare affari d'oro con rappresentanti come lei... ma come le ho detto il signor Eggerton non compra mai niente. È per questo che è arrivato dove è arrivato, buttando fuori gente come lei. Immagino che lei sia convinta di strappare un bell'ordine, conciata così». La segretaria rincarò la dose, irritata. «Dovrebbe vergognarsi di indossare un vestito simile. Una ragazza carina come lei».
«Mi vedrà», replicò la donna con un filo di voce.

La segretaria cercò nella propria memoria un altro significato del verbo vedere. «Già, lo credo, con un vestito come quello», cominciò a dire, ma proprio in quel momento la porta interna si sollevò e apparve John Eggerton.
«Disattivati», ordinò alla robosegretaria. «Vado a casa. Programma la riattivazione per le dieci; domattina farò tardi. A Pittsburgh c'è una riunione a livello politico del Blocco Id e vorrei approfittare dell'occasione per dire qualche cosetta».
La ragazza si alzò in piedi. John Eggerton era un uomo massiccio con le spalle da scimmia, i capelli lunghi e trascurati, in maniche di camicia sotto la giacca sbottonata e piena di macchie, e con lo sguardo acuto e impenetrabile da industriale navigato. Esaminò con circospezione la ragazza che gli si stava avvicinando.
«Signor Eggerton», disse lei, «ha un momento da dedicarmi? C'è qualcosa che vorrei discutere con lei».
«Non acquisto e non assumo». La voce di Eggerton era rauca per la stanchezza. «Mia cara signorina, torni dal suo datore di lavoro e gli dica che se vuole propormi un affare mi mandi un rappresentante esperto, e non un pivello di...»
Eggerton era miope. Solo quando la ragazza gli fu molto vicino notò il biglietto che lei stringeva fra le dita. Per un uomo della sua corporatura si mosse con straordinaria agilità: balzò in avanti, diede una spinta alla ragazza, schizzò intorno alla robosegretaria e scomparve attraverso una porta laterale dell'ufficio. La borsetta della ragazza cadde rumorosamente a terra, spargendo ovunque il suo contenuto. Lei esitò, indecisa se raccogliere gli oggetti o inseguirlo, poi con un sibilo di esasperazione uscì dall'ufficio precipitandosi nel corridoio. L'ascensore rapido per il tetto segnava rosso; stava già salendo lungo i cinquanta piani che portavano agli alloggi privati.
«Dannazione», esclamò la ragazza. Si voltò e rientrò nell'ufficio ribollendo per la frustrazione.
La segretaria aveva cominciato a riprendersi. «Perché non mi ha detto che è un Immune?» domandò, mentre la sua rabbia cresceva... l'indignazione di un burocrate. «Io le ho dato il modello S045 da compilare e la riga sei richiedeva esplicitamente informazioni dettagliate sulla sua occupazione. Lei... mi ha ingannato!»
La ragazza la ignorò e s'inginocchiò per raccogliere le sue cose. La pistola, il braccialetto magnetico, il microfono da collo dell'intercom, il rossetto, le chiavi, lo specchio, gli spiccioli, il fazzoletto, la notifica delle ventiquattro ore destinata a John Eggerton... appena fosse rientrata all'Agenzia l'avrebbero mandata al diavolo. Eggerton era riuscito anche ad evitare il riconoscimento orale: il nastro della bobina che era caduta dalla borsetta era vuoto e inutile.
«Il tuo principale è proprio in gamba», disse rivolta alla segretaria, in un impeto di rabbia. «Tutto il giorno seduta in questo ufficio puzzolente con tatti quei rappresentanti, per niente».
«Mi domandavo perché lei fosse così insistente», disse la segretaria. «Non ho mai visto una venditrice così insistente; avrei dovuto capire che c'era qualcosa che non andava. Lei ci era quasi riuscita».
«Lo prenderemo», replicò la ragazza, pronta ad andarsene. «Diglielo domani mattina, quando verrà».
«Non si farà vedere», rispose la segretaria a se stessa, visto che la ragazza era andata via. «Non ritornerà più, non per adesso. Non con voi Immuni nei paraggi. La vita di un uomo vale più del suo lavoro, anche di un lavoro di questa importanza».
La ragazza entrò in una videocabina pubblica e compose il numero dell'Agenzia. «È scappato», disse alla donna con il volto corrucciato che era il suo diretto superiore. «Non ha toccato il biglietto di citazione; temo proprio di aver fallito».
«Ha visto il biglietto?»
«Certo, è per questo che è scappato via».
La donna anziana scarabocchiò alcuni rapidi appunti su un notes. «Tecnicamente, è nostro. Lascerò che siano i nostri legali a vedersela con i suoi eredi; io andrò avanti con la notifica delle ventiquattro ore, come se lui l'avesse accettata. Se prima era prudente, d'ora in poi sarà impossibile raggiungerlo. Non riusciremo mai ad avvicinarlo più di così. È proprio un peccato che tu non sia riuscita a...» La donna prese una decisione. «Chiamalo a casa e notifica ai suoi collaboratori l'avviso di colpevolezza. Domani mattina diffonderemo la notizia attraverso i robogiornali».
Doris interruppe la comunicazione, passò la mano sullo schermo per ripulirlo e poi fece il numero personale di Eggerton. Riferì al suo assistente la notifica formale che Eggerton era preda legale per ogni cittadino del Niplan. L'assistente - un robot - registrò doverosamente l'informazione come se si fosse trattato di un ordine per qualche decina di metri di stoffa. In qualche modo l'impassibilità della macchina aumentò lo sgomento della ragazza. Lasciò la cabina e scese tristemente la rampa che portava al bar dove avrebbe aspettato suo marito.

John Eggerton non aveva l'aspetto di un paracinetico. Doris se li immaginava giovani, minuti e pallidi, chiusi in se stessi e tormentati, sepolti in qualche città o sobborgo fuori mano, lontano dalle aree urbane. Eggerton era un uomo importante... ma naturalmente questo non gli aveva impedito di essere individuato dalla rete di controllo casuale. Mentre sorseggiava il suo Tom Collins, Doris cercò di capire se ci fossero degli altri motivi per cui John Eggerton aveva ignorato l'iniziale avviso di controllo, poi l'ammonizione - una multa ed una possibile incarcerazione - ed infine quest'ultima notifica.
Eggerton era veramente un paracinetico, un PK?
Il volto di lei riflesso nello specchio scuro al di là del bancone tremolava, creando giochi di ombre, figure indistinte, una specie di nebbia opprimente simile a quella che avvolgeva il sistema Niplan. Avrebbe potuto essere il riflesso di una giovane donna paracinetica: cerchi scuri al posto degli occhi, ciglia umide, capelli bagnati sulle spalle magre, dita troppo affusolate e troppo appuntite. Ma era solo uno specchio: non esistevano paracinetici di sesso femminile. Almeno, non ne erano ancora stati individuati.
Suo marito apparve all'improvviso, gettò il soprabito su uno sgabello e si sedette. «Come è andata a finire?», le domandò Harvey, con interesse.
Doris ebbe uno scatto. «Mi hai spaventato!»
Harvey si accese una sigaretta e richiamò l'attenzione del barista. «Bourbon con acqua». Poi si rivolse affettuosamente alla moglie. «Coraggio... ci sono altri mutanti da individuare». Le agitò davanti uno dei giornali del pomeriggio. «Forse lo sai già, ma il tuo ufficio di San Francisco ne ha presi quattro tutti insieme. Ciascuno di loro era un pezzo unico. Ce n'era uno che aveva un talento tutto particolare per accelerare i processi metabolici di quelli che gli stavano antipatici».
Doris annuì con aria assente. «Lo abbiamo saputo attraverso le registrazioni dell'Agenzia. Un altro poteva attraversare i muri, senza cadere attraverso il pavimento. E un altro ancora era capace di far muovere i sassi».
«Eggerton è scappato?»
«Come un fulmine... non credevo che un uomo così grosso fosse in grado di reagire con quella agilità. Ma forse non è un uomo». Rigirò fra le dita il lungo bicchiere gelato. «L'Agenzia sta per rendere pubblica la notifica delle ventiquattro ore. L'ho già chiamato a casa... e questo è un bel vantaggio per i suoi collaboratori».
«È giusto che sia così. In fondo hanno lavorato per lui. Dovrebbero essere i primi ad incassare la taglia». Harvey cercava di scherzare, ma sua moglie non reagì. «Pensi che un uomo così importante possa rimanere nascosto a lungo?»
Doris alzò le spalle. Il problema era di facile soluzione con quelli che si nascondevano: si tradivano con comportamenti sempre più strani rispetto alla norma. Erano quelli che non si rendevano conto della loro innata diversità, quelli che continuavano a funzionare finché non venivano scoperti per caso... i cosiddetti PK inconsapevoli avevano imposto la creazione del sistema di controllo casuale e la sua Agenzia di femmine Immuni. Nella testa di Doris si formò lo strano pensiero di un uomo che non era un PK ma pensava di esserlo... l'estenuante, nevrotica paura di essere in qualche modo diverso, uno svitato, quando in realtà era del tutto normale. Eggerton, malgrado tutto il suo potere e la sua influenza di grande industriale, poteva essere un uomo qualsiasi affetto dalla lacerante fobia di essere un PK. Era già successo... e c'erano dei PK autentici che se ne andavano in giro tranquillamente senza rendersi conto della loro diversità.
«Ci serve un test a prova di dubbio», disse ad alta voce Doris. «Qualcosa che uno possa farsi da solo. In modo da essere sicuro».
«Non ne avete? Non avete la sicurezza del risultato quando vengono intercettati dalla rete?»
«Se vengono intercettati. Uno su diecimila. Sono troppo pochi quelli che cadono nella rete». Improvvisamente allontanò il bicchiere e si alzò in piedi. «Andiamo a casa. Ho fame e sono stanca. Voglio andare a dormire».
Harvey raccolse il soprabito e pagò il conto. «Scusami, tesoro. Stasera andiamo a cena fuori. Un tale dell'Istituto di Commercio, un certo Jay Richards. L'ho incontrato a pranzo... per la verità, tu non c'eri. Siamo tutti invitati a festeggiare qualcosa».
«Festeggiare che cosa?», chiese Doris, irritata. «Cosa c'è da festeggiare?»
«È un suo segreto», rispose Harvey, aprendo l'ampia porta. «Ce lo rivelerà dopo cena. Coraggio... magari passeremo una bella serata».

Eggerton non andò direttamente a casa. Veloce, senza una meta precisa, sorvolò in circolo il primo anello di strutture residenziali alla periferia di New York, con il terrore che nella sua mente si alternava al risentimento. Il suo primo impulso era stato quello di dirigersi subito verso le sue proprietà, ma la paura di imbattersi in altri dipendenti dell'Agenzia gli aveva fatto cambiare idea. Mentre cercava di prendere una decisione il microfono da collo gli aveva trasmesso la chiamata dell'Agenzia.
Era stato fortunato. La ragazza aveva comunicato la notifica delle ventiquattro ore ad uno dei suoi robot, e i robot non erano interessati alla taglia.
Scese sul campo di atterraggio di un tetto scelto a caso all'interno della zona industriale di Pittsburgh. Nessuno lo vide, e anche questa fu una fortuna. Tremava per tutto il corpo quando entrò nell'ascensore ed iniziò la discesa fino al livello della strada. Insieme a lui c'erano un impiegato dal volto inespressivo, due donne anziane, un giovane dall'aria seria e la graziosa figlia di qualche funzionario di basso rango. Un innocuo gruppo di persone, ma lui non si faceva illusioni: allo scadere delle ventiquattro ore ognuno di loro avrebbe sputato l'anima pur di fargli la pelle. E non poteva biasimarli: dieci milioni di dollari erano una bella somma.
Teoricamente Eggerton aveva dalla sua il vantaggio di un intero giorno, ma era difficile che le notifiche finali venissero tenute segrete. Molti degli uomini che contavano ne erano sicuramente già a conoscenza. Un vecchio amico poteva benissimo incontrarlo, salutarlo, mangiare e bere insieme a lui, offrirgli un rifugio su Ganimede pieno di ogni ben di Dio... e sparargli in mezzo agli occhi appena fosse trascorso il giorno.
Naturalmente l'impero industriale di Eggerton comprendeva unità in ogni patte del paese, ma sarebbero state controllate sistematicamente. Aveva numerose società finanziarie, e aziende di copertura, ma l'Agenzia le avrebbe tenute d'occhio tutte, se avesse ritenuto che ne valeva la pena. L'improvvisa intuizione che poteva facilmente diventare il bersaglio preferito della società Niplan, gestita e manipolata dall'Agenzia, lo fece quasi uscire di senno. Fin dalla sua prima infanzia le femmine Immuni gli avevano sempre scatenato complessi sepolti nel profondo; il pensiero di una cultura matriarcale era qualcosa che detestava visceralmente. E prendere Eggerton era come scardinare uno dei puntelli basilari del Blocco: adesso gli venne in mente che il suo numero di controllo casuale forse non era stato scelto veramente a caso.
Astuto... compilare i numeri identificativi di serie dei dirigenti del Blocco Id, inserirli ogni tanto nelle reti di controllo e pian piano eliminarli ad uno ad uno.
Giunse al livello della strada e rimase lì indeciso, mentre il traffico urbano scorreva rumorosamente intorno a lui. E se i dirigenti del Blocco Id fossero stati semplicemente d'accordo con le reti di controllo? L'accettazione della notifica iniziale comportava solamente la sonda mentale di prammatica da parte dei gruppi di mutanti autorizzati dalla società, i castrati telepatici che venivano tollerati perché erano utili contro altri mutanti. Scelta a caso o secondo un disegno preciso, la vittima non poteva far altro che sottoporsi alla sonda, offrire la sua mente indifesa all'Agenzia, lasciare che facessero scempio a colpi d'ascia dei contenuti della sua psiche, per poi tornarsene tranquilla e ripulita nel suo ufficio. Ma questo implicava un particolare: che il pezzo grosso dell'industria fosse in grado di superare la sonda, che non fosse un PK.
L'ampia fronte di Eggerton grondava sudore. Si stava forse dicendo, in modo contorto, che lui era un PK? No, non era quello il punto. La conclusione era un principio: l'Agenzia non aveva il diritto morale di sondare la mezza dozzina di uomini la cui potenza industriale era il caposaldo del sistema Niplan. Da quel punto di vista ognuno degli altri dirigenti del Blocco Id sarebbe stato d'accordo con lui... un attacco a Eggerton era un attacco al Blocco stesso.
Pregò ardentemente che anche loro la vedessero in quel modo. Chiamò un robotaxi e gli ordinò: «Portami al palazzo del Blocco Id. E se qualcuno cerca di fermarti, questi cinquanta dollari serviranno a rimetterti in movimento».

La vasta ed echeggiante sala era buia e tetra, quando Eggerton vi giunse. Mancavano ancora parecchi giorni alla riunione. Eggerton camminò su e giù lungo i corridoi, tra le file di banchi in cui avrebbero preso posto le delegazioni tecniche ed amministrative delle diverse unità industriali, oltre i sedili di acciaio e plastica dove sedevano i dirigenti, fino alla vuota postazione del relatore. Luci fioche si accesero per lui quando si fermò indeciso di fronte al palco di marmo. All'improvviso gli si rivelò la futilità della sua posizione: stando in piedi in quella sala vuota si rese conto in un istante di come avesse fatto di se stesso un reietto. Poteva gridare e strepitare e non sarebbe venuto nessuno. Non poteva convocare nulla e nessuno. Era l'Agenzia il governo legale del sistema Niplan. Attaccando l'Agenzia lui si era messo contro l'intera società civile... e per quanto fosse potente non poteva sperare di avere la meglio sulla società stessa.
Lasciò in tutta fretta il palazzo, individuò un ristorante costoso e si concesse un lauto pasto. Ingurgitò quasi febbrilmente enormi quantità di raffinatezze di difficile importazione; almeno poteva godersi le sue ultime ventiquattro ore. Mentre mangiava osservò con apprensione i camerieri e gli altri commensali. Volti anonimi e indifferenti... ma ben presto tutti avrebbero visto il suo numero e la sua faccia su ogni robogiornale. E la grande caccia avrebbe avuto inizio: miliardi di cacciatori su un'unica preda. Terminò bruscamente di mangiare, guardò l'orologio e lasciò il ristorante. Erano le sei del pomeriggio.
Per un'ora sperperò furiosamente il suo denaro in una pretenziosa casa di piacere, girando da un appartamento all'altro, non facendo nemmeno caso agli occupanti. Si lasciò alle spalle un gran caos, per il quale pagò, poi abbandonò quell'atteggiamento sconsiderato e si concesse un po' d'aria fresca per la strada. Vagabondò fino alle undici attraverso i parchi illuminati solo dalla luce delle stelle che circondavano la zona residenziale della città, in mezzo ad edifici altrettanto bui, con le mani desolatamente infilate nelle tasche, ingobbito ed infelice. Lontano da qualche parte, l'orologio di una torre cittadina emise un segnale orario. Le ventiquattro ore stavano scadendo e nessuno poteva fermarle.
Alle undici e mezzo smise di vagabondare e riuscì a rimettersi abbastanza in sesto da analizzare la sua situazione. Doveva affrontarla: la sua unica speranza era nella sede del Blocco Id. Il personale tecnico ed amministrativo non si era ancora fatto vedere, ma molti dei dirigenti erano sicuramente asserragliati all'interno dei quartieri abitativi. La sua mappa da polso gli rivelò che si era allontanato di quasi otto chilometri dal palazzo. Improvvisamente terrorizzato, prese la decisione.
Tornò direttamente in volo alla sede, atterrò sul tetto deserto e discese fino al piano dei quartieri abitativi. Non poteva più rinviare la cosa: adesso o mai più.

«Entra, John», lo accolse affettuosamente Townsand, ma cambiò espressione quando Eggerton ebbe fatto un rapido riassunto di ciò che era avvenuto nel suo ufficio.
«Dici che hanno già mandato la notifica finale a casa tua?» gli domandò ansiosamente Laura Townsand. Si era alzata dal divano su cui era seduta ed era venuta verso la porta. «Allora è troppo tardi!»
Eggerton gettò il soprabito nel ripostiglio e si sdraiò in una comoda poltrona. «Troppo tardi? Forse... troppo tardi per evitare la notifica, ma io non ho intenzione di arrendermi».
Townsand e gli altri dirigenti del Blocco Id si fecero intorno ad Eggerton, con i volti che tradivano curiosità, partecipazione e qualche traccia di un freddo piacere. «Ti sei cacciato in un bel pasticcio», disse uno dei dirigenti. «Se ce lo avessi fatto sapere prima che veniva emessa la notifica finale avremmo potuto fare qualcosa, ma a questo punto...»
Eggerton ebbe una stretta alla gola nell'accorgersi che già stava calando una barriera fra loro. «Un momento», disse concitatamente, «chiariamo le cose. Ci siamo dentro tutti. Oggi tocca a me, domani può toccare a voi. Se vado a picco io...»
«Non ti agitare», disse qualcuno a voce bassa. «O affrontiamo la questione razionalmente o non se ne parla nemmeno».
Eggerton si appoggiò di nuovo allo schienale della poltrona, che si adattò al suo corpo stanco. Sì, era contento di affrontare la questione con razionalità.
«Per come la vedo io», disse con calma Townsand, piegandosi in avanti e intrecciando le dita, «la questione non è se possiamo neutralizzare l'Agenzia. Noi tutti, messi insieme, costituiamo il cuore economico del sistema Niplan; se togliamo il sostegno all'Agenzia non sopravviverà. Dunque la domanda giusta è un'altra... vogliamo far fuori l'Agenzia?»
La voce di Eggerton divenne stridula per l'esasperazione. «Buon Dio, qui si tratta di noi o loro! Non capisci che si servono delle reti di controllo e delle sonde mentali per indebolirci?»
Townsand lo fissò e poi riprese il discorso a beneficio degli altri dirigenti. «Forse stiamo dimenticando qualcosa. Siamo stati noi a mettere l'Agenzia in un posto così alto; cioè, il Blocco Id prima di noi ha elaborato i presupposti di base della verifica mediante rete di controllo casuale, l'uso dei telepati addomesticati, la notifica finale e la caccia... e il tutto funziona. L'Agenzia serve alla nostra stessa protezione; altrimenti i paracinetici crescerebbero come le erbacce e alla fine ci soffocherebbero. Naturalmente, dobbiamo tenere sotto controllo l'Agenzia... è il nostro strumento».
«Proprio così», convenne un altro dirigente. «Non possiamo permettere che ci sfugga di mano. Quanto a questo, Eggerton ha ragione».
«Diamo per scontato», riprese Townsand, «che in ogni caso debba esistere un meccanismo in grado di individuare i PK. Se l'Agenzia va a gambe all'aria, si dovrà trovare qualcosa che la sostituisca. Te lo dico io come sta la faccenda, John». Fissò Eggerton con aria pensierosa. «Se ti viene in mente un'alternativa, allora può darsi che la cosa ci interessi. Se no, l'Agenzia rimane dov'è. Dalla scoperta del primo PK, nel 2045, soltanto le donne si sono rivelate immuni. Qualunque cosa mettiamo su dovrà avere una linea di condotta gestita da donne. Ed eccoci di nuovo all'Agenzia».
Cadde il silenzio.

Confusamente, nella testa di Eggerton si accese una fiammella di speranza. «Convieni che l'Agenzia rischia di sfuggirci di mano?», domandò con voce rauca. «Sta bene, allora dobbiamo farci valere». Gesticolò con aria impotente. I dirigenti lo fissavano impietriti e Laura Townsand stava tranquillamente versando del caffè nelle tazze mezze vuote. Gli rivolse un'occhiata di muta partecipazione, poi tornò in cucina. Un freddo silenzio circondava Eggerton, che si mosse a disagio sulla poltrona mentre Townsand proseguiva con voce monotona.
«Mi dispiace che tu non ci abbia informato che era stato estratto il tuo numero», stava dicendo. «Alla prima notifica avremmo potuto fare qualcosa, ma non adesso. A meno di scoprire le carte... e non credo che siamo preparati a farlo». Puntò l'indice contro Eggerton. «Sai, John, io non credo che tu ti renda veramente conto di chi siano questi PK. Forse te li immagini come dei pazzi, gente che soffre di allucinazioni».
«Io lo so chi sono», replicò risentito Eggerton, ma non riuscì a trattenersi dal domandare: «Perché... non è vero che soffrono di allucinazioni?»
«Sono dei pazzi che hanno il potere di realizzare i loro complessi allucinatoli nello spazio-tempo. Alterano un'area limitata intorno a loro per adattarla alle loro concezioni eccentriche... capisci? Il PK concretizza la sua allucinazione. Che quindi, in un certo senso, non è più un'allucinazione... a meno di riuscire ad allontanarsi abbastanza da confrontare quell'area alterata con il mondo normale. Ma come fa un PK a fare una cosa del genere? Non ha un riferimento oggettivo, non è capace di staccarsi da se stesso e l'alterazione lo segue ovunque vada. I PK veramente pericolosi sono quelli che credono che chiunque possa far muovere le pietre, o trasformarsi in un animale, o trasmutare i minerali vili. Se ci facciamo sfuggire un PK, se lo lasciamo crescere, riprodursi, mettere su famiglia, una moglie e dei figli, se consentiamo a questa parafacoltà ereditata di diffondersi... si trasformerà in una coscienza collettiva... diventerà una pratica socialmente istituzionalizzata.
«Qualunque PK è in grado di dar vita ad una società di PK costruita attorno al suo particolare potere. Il grosso pericolo è questo, che alla fine noi non-PK diventiamo una minoranza... la nostra visione razionale del mondo potrebbe essere allora considerata eccentrica».
Eggerton si umettò le labbra. Quella voce languida e monocorde lo faceva stare male; mentre Townsand parlava, lui si sentì invadere dal gelo minaccioso della morte «In altre parole», farfugliò, «non avete intenzione di aiutarmi».
«Esatto», rispose Townsand. «Ma non perché non vogliamo aiutarti. Noi abbiamo la sensazione che il pericolo costituito dall'Agenzia sia minore di quello che credi; per noi la vera minaccia sono i PK. Trova un modo per individuarli senza l'Agenzia, e noi saremo tutti dalla tua parte... altrimenti, niente da fare». Si chinò verso Eggerton e gli diede una pacca sulla spalla con le dita magre e ossute. «Se non ci fossero le donne, che sono immuni, non avremmo la minima possibilità. Siamo fortunati... potremmo stare davvero molto peggio».

Eggerton si alzò lentamente in piedi. «Buonanotte».
Anche Townsand si alzò, e seguì un momento di imbarazzante, teso silenzio. «Comunque», aggiunse Townsand, «possiamo bloccare questa caccia che ti stanno per scatenare contro. C'è ancora tempo, la notizia non è stata ancora resa pubblica».
«Che devo fare?», domandò Eggerton, disperato.
«Hai con te la copia scritta della notifica?»
«No!», strillò istericamente Eggerton. «Sono scappato dall'ufficio prima che la ragazza me la potesse consegnare!»
Townsand rifletté. «Sai chi è? Sei in grado di rintracciarla?»
«No».
«Fa' delle ricerche. Trovala, fatti consegnare la notifica, e poi affidati alla comprensione dell'Agenzia».
Eggerton allargò rassegnato le braccia. «Questo significa che sarò legato all'Agenzia per il resto della mia vita».
«Ma sopravviverai», ribatté tranquillo Townsand, senza rivelare la minima emozione.
Laura Townsand portò a Eggerton una tazza di caffè nero bollente. «Crema o zucchero?», gli domandò gentilmente, quando fu riuscita ad attirare la sua attenzione. «O tutti e due? John, sarà meglio che mandi giù qualcosa di caldo; hai una lunga strada da fare».

La ragazza si chiamava Doris Sorrel. Abitava in un appartamento registrato sotto il nome di Harvey Sorrel, suo marito. Non c'era nessuno; Eggerton disintegrò la serratura, poi entrò e frugò nelle quattro piccole stanze. Rovesciò i cassetti, gettando a terra biancheria intima e oggetti personali, e rovistò sistematicamente in ogni ripostiglio ed armadio. Nel vano per l'eliminazione dei rifiuti accanto al tavolo da lavoro trovò quello che stava cercando: un foglio di carta spiegazzato e gettato via ma non ancora distrutto, un appunto preso in tutta fretta con il nome di Jay Richards, la data e l'ora, e le parole se Doris non è troppo stanca. Eggerton si infilò in tasca il biglietto e lasciò l'appartamento.
Erano le tre e mezzo del mattino quando li trovò. Atterrò sul tetto dello sgraziato palazzo dell'Istituto del Commercio e discese la rampa che conduceva ai piani residenziali. Dall'ala settentrionale giungeva una luce e del rumore: la festa era ancora in corso. Pregando fra sé, Eggerton avvicinò la mano alla porta e premette il pulsante.
Venne ad aprire un bell'uomo dai capelli grigi, massiccio, prossimo alla quarantina. Tenendo un bicchiere in mano scrutò senza interesse Eggerton, con gli occhi segnati dalla stanchezza e dall'alcol. «Non ricordo di averla invitata», incominciò a dire, ma Eggerton lo spinse da parte ed entrò nell'appartamento.
C'erano un mucchio di persone, alcune sedute, altre in piedi, altre ancora raggruppate a chiacchierare e a ridere a bassa voce. Liquori, morbidi divani, profumi ed abiti che non passavano inosservati, pareti a colori cangianti, robot che servivano manicaretti, la silenziosa cacofonia di risatine femminili da buie stanze laterali... Eggerton si tolse il soprabito e si aggirò oziosamente per l'appartamento. La ragazza doveva essere da qualche parte. Passò in rassegna un volto dopo l'altro, ma vide solo occhi vacui e fissi, e bocche smorte. Improvvisamente lasciò il salotto ed entrò in una stanza da letto.
Doris Sorrel stava in piedi davanti alla finestra osservando in silenzio le luci della città, volgendogli la schiena, con una mano appoggiata sul davanzale. «Oh», mormorò la ragazza, girandosi appena. «Già qui?» Poi vide chi era.
«La voglio», disse Eggerton. «La notifica delle ventiquattro ore; adesso sono disposto ad accettarla».
«Mi ha spaventato». Si allontanò tremando dal vetro della finestra. «Quanto... da quanto tempo è qui?»
«Sono appena arrivato».
«Ma... perché? Lei è un uomo molto strano, signor Eggerton. Quello che fa non ha senso». Rise nervosamente. «Proprio non la capisco».

Dal buio emerse la sagoma di un uomo che si stagliò brevemente sulla soglia. «Cara, ecco il tuo martini». L'uomo vide Eggerton e un'espressione ostile si dipinse sul suo volto sbalordito. «Sparisci, amico. Non è roba per te».
Doris lo prese debolmente per un braccio. «Harvey, questo è l'uomo al quale ho cercato di consegnare la notifica. Signor Eggerton, mio marito».
Si strinsero freddamente la mano. «Dov'è?», chiese sgarbatamente Eggerton. «Non l'ha con sé?»
«Sì... ce l'ho nella borsetta». Doris si allontanò. «Vado a prenderla. Può venire con me, se vuole». Stava recuperando il suo sangue freddo. «Credo di averla lasciata da qualche parte. Harvey, dove diavolo è la mia borsetta?» Gesticolò nel buio indicando qualcosa di piccolo e rilucente. «Eccola lì. Sul ietto».
Si accese una sigaretta e guardò Eggerton mentre esaminava la notifica delle ventiquattro ore. «Come mai ha cambiato idea?», gli domandò. Per la festa aveva indossato un abito di seta lungo fino alle ginocchia, dei bracciali di rame, dei sandali ed aveva messo un fiore luminoso tra i capelli. Il fiore era ormai tutto appassito, l'abito spiegazzato e sbottonato, e lei aveva l'aria disfatta. Si appoggiò alla parete, con la sigaretta tra le labbra sbaffate di rossetto, e disse: «Non vedo come possa fare alcuna differenza quello che lei sta facendo. La notifica sarà resa pubblica tra mezz'ora... e i suoi collaboratori già lo sanno. Dio, sono esausta». Si guardò intorno con aria impaziente in cerca di suo marito, che stava passeggiando oziosamente. «Andiamocene di qui», gli disse. «Domattina devo andare a lavorare».
«Non l'abbiamo ancora visto», replicò Harvey Sorrel di malumore.
«Che vada al diavolo!» Doris afferrò il cappotto nel ripostiglio. «Perché tutto questo mistero? Mio Dio, sono cinque ore che siamo qui e ancora non si è fatto vedere. Anche se avesse inventato il viaggio nel tempo o avesse trovato la quadratura del cerchio non me ne importa niente, non a quest'ora di notte».
Doris si fece strada attraverso il soggiorno pieno di gente ed Eggerton le corse dietro. «Mi stia a sentire», ansimò e l'afferrò per la spalla, aggiungendo rapidamente: «Townsand mi ha detto che se fossi tornato da voi, avrei potuto contare sulla comprensione dell'Agenzia. Ha detto...»
La ragazza si liberò dalla stretta. «Si, certo, è la legge». Si girò irosamente verso il marito che li seguiva a fatica. «Allora, arrivi?»
«Arrivo», rispose Harvey, con gli occhi che avvampavano per l'indignazione. «Ma prima voglio salutare Richards. E tu gli dirai che l'idea di andarcene è stata tua; non voglio addossarmi la responsabilità di lasciarlo in questo modo. Se non si ha almeno la buona educazione di salutare il padrone di casa...»
L'uomo dai capelli grigi che aveva aperto la porta a Eggerton emerse da un gruppetto di ospiti e si avvicinò sorridendo. «Harvey! Doris! Non l'avete ancora visto». Il suo volto quadrato tradiva un grande sgomento. «Non potete andarvene».
Doris aprì la bocca per dire che poteva eccome. «Senti», la precedette invece Harvey, disperato, «non puoi farcelo vedere adesso? Su, Jay, abbiamo aspettato abbastanza».
Richards esitò. Altre persone si erano avvicinate e facevano capannello intorno a loro. «Suvvia», si levarono alcune voci stanche, «facciamola finita».
Dopo un attimo di indecisione Richards acconsentì. «D'accordo», disse, rendendosi conto che li aveva fatti aspettare abbastanza a lungo. In quegli ospiti stanchi e sazi di esperienze c'era un limite anche all'attesa di una sorpresa. Richards allargò le braccia in modo teatrale, cercando di sfruttare tutto ciò che poteva da quel momento. «Ci siamo, gente! Venite con me... è proprio qui dietro».

«Mi domandavo dove fosse», disse Harvey seguendo il padrone di casa. «Vieni, Doris». La prese per un braccio e la tirò con sé. Gli altri si accodarono. Attraversarono il soggiorno, la cucina ed uscirono dalla porta posteriore.
La notte era molto fredda. Tirava un vento gelato che li fece rabbrividire mentre scendevano con passo incerto i gradini neri nell'oscurità iperborea. John Eggerton sentì una figuretta che lo spingeva: era Doris, che si era liberata con un violento strattone della stretta del marito. Eggerton riuscì a starle dietro. Lei si fece strada con destrezza in mezzo alla massa di ospiti, lungo il marciapiede di cemento fino al recinto che cingeva il giardino. «Aspetti», rantolò Eggerton, «mi ascolti. Allora l'Agenzia mi prenderà?» Non riuscì ad impedirsi di avere un tono quasi supplichevole. «Posso contarci? La notifica verrà annullata?»
Doris sospirò stancamente. «Sì. Va bene, se vuole la porterò io stessa all'Agenzia e daremo subito il via alle procedure legali, altrimenti ci sarà da aspettare un mese. Immagino che sappia cosa significa. Lei è sotto contratto con l'Agenzia per il resto della sua vita naturale. Lo sa, no?»
«Lo so».
«È quello che vuole?» Lei era nello stesso tempo indifferente e incuriosita. «Un uomo come lei... non credevo che le cose sarebbero andate così».
Eggerton si agitò, sconsolato. «Townsand ha detto...», cominciò a dire pateticamente.
«Quello che vorrei sapere», lo interruppe Doris, «è perché lei non abbia risposto alla prima notifica. Se solo si fosse fatto vivo... tutto questo non sarebbe mai successo».
Eggerton aprì la bocca per rispondere, e stava per dire qualcosa sulle questioni di principio, sul concetto di società libera, sui diritti dell'individuo, sulla legalità di certi processi, sugli abusi dello stato, ma proprio in quel momento Richards accese i potenti riflettori esterni che aveva installato appositamente per quell'occasione. Per la prima volta fu consentito a tutti di vedere la sua grande realizzazione.
Seguì un momento di sbalordito silenzio. Poi, all'improvviso, tutti si misero a strillare e si diedero ad una fuga disordinata. Stravolti, terrorizzati, scavalcarono il recinto, sfondarono la protezione di plastica che circondava il giardino e si precipitarono nel giardino adiacente o direttamente in strada.

Richards rimase come un idiota accanto al suo capolavoro, sconcertato, senza capire ancora quello che era successo. Sotto il bagliore artificiale dei riflettori l'aereo a reazione era qualcosa di assolutamente bello. Era completamente formato, giunto a piena maturazione. Mezz'ora prima Richards si era avvicinato con una torcia, l'aveva ispezionato e poi, fremendo per l'eccitazione, aveva staccato il gambo da cui il velivolo era cresciuto. Adesso era separato dalla pianta sulla quale si era formato; Richards lo aveva trasportato verso il limite del giardino, aveva riempito il serbatoio di carburante ed aveva aperto il portello. Adesso era pronto per volare.
Sulla pianta c'erano i germogli allo stato embrionale di altri aerei, a vari livelli di crescita. Li aveva annaffiati e concimati con ogni cura: la pianta avrebbe generato entro la fine dell'estate una mezza dozzina di aerei a reazione.
Il volto stanco di Doris si rigò di lacrime. «Lo vede?», mormorò ad Eggerton con voce avvilita. «È... così bello. Lo guardi, è appena sbocciato». Stravolta, girò la testa. «Povero Jay... quando se ne renderà conto...»
Richards era rimasto impalato, con le gambe larghe, ed osservava il suo giardino deserto e calpestato. Poi vide Doris ed Eggerton, e dopo un attimo si avvicinò esitante. «Doris», rantolò con voce spezzata, «cos'è quello? Che cosa ho fatto?»
All'improvviso la sua espressione cambiò. Lo stupore scomparve; dapprima venne il terrore, nudo e totale, quando lui si rese conto della sua situazione e del perché gli ospiti erano scappati via. Poi la folle comprensione. Richards si voltò lentamente e percorse il giardino a passi incerti verso il suo aereo.
Eggerton lo fulminò con un colpo solo alla base del cranio, e mentre Doris cominciava a gridare con voce stridula, lui spense i riflettori uno dopo l'altro. Il giardino, il corpo di Richards, il velivolo di metallo scintillante scomparvero nel gelo della notte. Eggerton spinse la ragazza verso i rampicanti che crescevano lungo il muro del giardino e le premette il volto contro le foglie umide e fredde.
Dopo un po' lei riuscì a riprendere il controllo di se stessa. Rabbrividendo, rimase abbarbicata alla vegetazione, le braccia strette intorno alla vita, scossa da un tremore convulso che pian piano scemò fino a cessare del tutto.
Eggerton l'aiutò a rialzarsi. «Tutti questi anni e nessuno che avesse mai sospettato qualcosa. Stava proteggendo... il suo grande segreto».
«Lei se la caverà», stava dicendo Doris, con voce così bassa e fioca che lui la sentì a malapena. «L'Agenzia non avrà difficoltà a riabilitarla. È stato lei a fermarlo». Debole per lo shock, cercò a tentoni nel buio la borsetta caduta chissà dove e le sigarette. «L'avrebbe fatta franca. E quella pianta. Che cosa ne faremo?» Trovò le sigarette e se ne accese una nervosamente. «Che diavolo ne faremo?»
I loro occhi si stavano abituando all'oscurità. Al chiarore delle stelle il profilo della pianta si mise lentamente a fuoco. «Non sopravviverà», disse Eggerton. «Faceva parte della sua allucinazione, e adesso lui è morto».

Spaventati ma anche incuriositi, gli altri ospiti stavano incominciando a ritornare alla spicciolata nel giardino. Harvey Sorrel sbucò improvvisamente dall'ombra e si avvicinò alla moglie con aria di scusa. Da qualche parte in lontananza echeggiò l'urlo di una sirena: qualcuno aveva avvisato la polizia automatica. «Vuole venire con noi?», chiese Doris ad Eggerton con voce debole, indicando il marito. «Andremo insieme all'Agenzia e sistemeremo la sua posizione. Si può fare. Se la caverà con un contratto di qualche anno, al massimo. Nient'altro».
Eggerton si allontanò da lei. «No, grazie,» disse. «Ho qualcos'altro da fare. Magari più tardi».
«Ma...»
«Penso di avere quello che voglio». Eggerton cercò a tastoni la porta e rientrò nell'appartamento deserto di Richards. «Questo è ciò che abbiamo sempre cercato».
Attivò subito il videofono d'emergenza e dopo trenta secondi il campanello suonò in casa di Townsand. Assonnata, Laura svegliò suo marito; Eggerton cominciò a parlare appena vide sullo schermo l'immagine dell'altro.
«Abbiamo il nostro riferimento», disse, «e non ci serve più l'Agenzia. Possiamo mollarli perché non abbiamo più bisogno di loro per essere protetti».
«Cosa?», domandò irosamente Townsand, con la testa ancora intorpidita dal sonno. «Di che diavolo stai parlando?»
Con la maggiore calma possibile, Eggerton ripeté quello che aveva detto.
«E allora chi ci proteggerà?», mugugnò Townsand. «Che significa tutta questa storia?»
«Ci proteggeremo l'un con l'altro», rispose paziente Eggerton. «Nessuno sfuggirà. Ognuno di noi sarà il punto di riferimento per il proprio vicino. Richards non poteva vedersi con obbiettività, ma io sì... anche se non sono immune. Non abbiamo bisogno di nessuno sopra di noi, perché possiamo farcela da soli».
Townsand rifletté, ancora indispettito. Sbadigliò, si strinse addosso il pigiama e diede un'occhiata assonnata all'orologio da polso. «Buon Dio, come è tardi. Forse c'è qualcosa di vero, in quello che dici. E forse no. Dimmi qualche altra cosa su questo Richards... che genere di talento PK aveva?»
Eggerton glielo disse. «Vedi? Tutti questi anni... e non poteva dirlo a nessuno. Ma noi potremmo dirlo subito». La sua voce crebbe di tono per l'eccitazione. «Possiamo di nuovo gestire da soli la nostra società! Consensus gentium... abbiamo sempre avuto un punto di riferimento e nessuno di noi se ne è mai accorto. Individualmente ognuno di noi è fallibile; ma come gruppo non possiamo sbagliare. Dobbiamo solo assicurarci che le reti di controllo casuale raggiungano tutti. Bisognerà intensificare il processo, inserirvi più persone e più di frequente. Bisognerà accelerarlo, in modo che tutti, prima o poi, vi rimangano impigliati».
«Capisco», assentì Townsand.
«Naturalmente ci serviremo ancora dei telepati addomesticati, così potremo tirare fuori tutti i pensieri e la materia subliminale. I telepati non faranno valutazioni; ci penseremo noi».

Townsand fece un lento cenno di assenso. «Mi sembra che quadri, John».
«Mi è venuto in mente appena ho visto la pianta di Richards. Questione di un istante... e ne ho avuto la certezza assoluta. Come poteva esserci un errore? Un sistema allucinatorio come quello semplicemente non può trovare posto nel nostro mondo». Eggerton picchiò la mano sul tavolo di fronte a lui, e un libro che era stato di Jay Richards scivolò a terra cadendo senza fare rumore sul folto tappeto dell'appartamento. «Capisci? Non esiste equazione fra il mondo di un PK e il nostro; tutto quello che dobbiamo fare è tenere il materiale PK dove possiamo vederlo, dove possiamo confrontarlo con la nostra realtà».
Townsand rimase un attimo silenzioso. «D'accordo», disse alla fine. «Va' avanti. Se riesci a convincere il resto del Blocco Id, allora agiremo». Aveva preso la decisione. «Li butterò giù dal letto e li farò venire qui».
«Bene», disse Eggerton allungando la mano verso l'interruttore per spegnere il videofono. «Verrò subito. E grazie».
Si precipitò attraverso l'appartamento pieno di rifiuti e di bottiglie, adesso spettrale e deserto senza gli ospiti che festeggiavano. Nel giardino posteriore la polizia era già in azione, e stava esaminando la pianta moribonda che il talento allucinatorio di Jay Richards aveva portato ad una momentanea esistenza.
L'aria della notte era fredda e frizzante, quando Eggerton emerse dalla rampa sul tetto del Palazzo del Commercio. Alcune voci si levarono dal basso. Il tetto era deserto. Si abbottonò il soprabito pesante, allargò le braccia e si sollevò dal tetto. Ben presto guadagnò quota e velocità, e in pochi attimi fu sulla strada per Pittsburgh.
Mentre volava silenziosamente attraverso la notte ingurgitò grandi boccate di aria fresca e pura. Dentro di lui alla soddisfazione si contrapponeva una crescente eccitazione. Aveva individuato subito Richards... e perché non avrebbe dovuto? Come poteva sbagliarsi? Un uomo che faceva crescere aerei a reazione da una pianta del suo giardino era chiaramente un pazzo.
Era molto più facile agitare le braccia.