sabato 13 ottobre 2018



IL MENDICANTE E LA RAGAZZA SDEGNOSA

Estratto da:" Storie del buon Dio
Rainer Maria Rilke


Successe che, il signor maestro e io, fossimo testimoni del seguente piccolo incidente. Dalle nostre parti, al limite del bosco, se ne sta talvolta un vecchio mendicante. Anche quel giorno era tornato di nuovo, più povero, più triste che mai, a causa di un pietoso mimetismo era quasi impossibile distinguerlo dalle assi della fradicia staccionata cui si appoggiava. Ma accadde d’improvviso che una bambina arrivasse correndo verso di lui per donargli una monetina. Questa cosa, di per sé, non era straordinaria, sorprendente fu il modo con cui si svolse: la bambina compì la sua riverenza, porse al vecchio il suo dono in fretta, come se nessuno dovesse accorgersene, si inchinò di nuovo e se ne andò. Quei due inchini, però, erano degni almeno di un imperatore. Tale fatto irritò particolarmente il signor maestro. Era sul punto di correre verso il mendicante, probabilmente per cacciarlo via dalla staccionata, perché, com’è noto, lui è nel Consiglio direttivo della Congregazione di Carità ed è quindi contrario agli accattoni. Lo trattenni.

– Noi diamo loro sostegno, – inveiva, – direi quasi li manteniamo. Ma se essi continuano a mendicare per strada, questa è sfrontatezza.– Caro maestro, – cercai di calmarlo, ma egli mi tirava sempre più verso il bosco, – posso raccontarle ora una storia?
– È tanto urgente? – chiese stizzito.
Lo presi in parola:
– Sì, ora, prima di dimenticare quanto abbiamo visto un momento fa per caso.
Il maestro diffidava di me dal tempo dell’ultima storia: glielo lessi in viso e lo rassicurai:
– Non riguarda il buon Dio, non proprio. Il buon Dio non compare nella mia storia. È un racconto storico.
Così avevo vinto: basta pronunciare la parola “storia” e qualunque maestro drizza le orecchie, perché la storia è qualche cosa di rispettabile, di innocuo e può avere scopi pedagogici. Vidi il signor maestro ripulire gli occhiali, segno che ogni sua facoltà si era trasferita nelle orecchie, e seppi abilmente sfruttare il momento favorevole.
Cominciai:
– Accadde a Firenze. Il giovane Lorenzo de’ Medici, non ancora signore della città, aveva appena finito di comporre il poema “Trionfo di Bacco e Arianna”, che già tutti i giardini ne risuonavano. Allora si componevano poesie vive. Dalle tenebre del poeta esse affioravano nelle voci e su queste, come su navi d’argento, si spingevano senza paura verso l’ignoto. Il poeta iniziava un canto e in cantori la diffondevano e la perfezionavano. Nel “Trionfo”, come nella maggior parte delle poesie dell’epoca, viene celebrata la vita, questo violino dalle corde luminose e sonore, e la sua buia cassa armonica: il suono del sangue. I versi di ineguale lunghezza salgono in un ebbra gioia, ma, proprio là dove la gioia si esaurisce, ogni volta prende avvio un semplice, breve ritornello che, sporgendosi da quelle altezze vertiginose, atterrito dall’abisso, sembra chiudere gli occhi.
Dice il ritornello:

Quant’è bella giovinezza

che si fugge tuttavia!
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.

Deve forse stupire che gli uomini che cantarono questa poesia furono afferrati dall’ansia di considerare tutte insieme le feste sul presente, l’unica roccia sulla quale val la pena di costruire? Così ci si può spiegare la folla di figure ritratte nei quadri dei pittori fiorentini, i quali si sforzavano di riunire in una sola tela tutti i loro principi, le loro donne, i loro amici, perché si dipingeva lentamente e chi poteva sapere se, nel momento in cui si sarebbe lavorato al successivo quadro, tutto sarebbe stato ancora così giovane, vivace, unito. Questo spirito d’impazienza si esprimeva con maggior chiarezza nei giovani naturalmente. I più brillanti tra loro sedevano, dopo un banchetto, sulla terrazza di Palazzo Strozzi e parlavano dei giochi che si sarebbero presto svolti davanti alla chiesa di Santa Croce. Un poco discosti, sotto una loggia, stavano Palla degli Albizzi con il suo amico Tommaso, il pittore. Discutevano animatamente e a un tratto Tommaso esclamò:

– Tu non lo fai, scommetto che non lo fai!
Gli altri si fecero attenti.
– Che avete? – si informò Gaetano Strozzi, avvicinandosi con alcuni amici.
Tommaso spiegò:
– Il giorno della festa Palla vuole inginocchiarsi davanti alla fiera Beatrice Altichieri, per pregarla di concedergli di baciare l’orlo impolverato della sua veste.
Tutti scoppiarono a ridere: e Leonardo, un Riccardi, osservò:
– Palla ci ripenserà, sa bene che le donne più belle hanno per lui un sorriso che mai hanno per altri.
Un altro aggiunse:
– Beatrice, poi, è così giovane. Le sue labbra sono ancora troppo infantilmente rigide per sorridere. Per questo sembra tanto superba.
– No, – ribatté Palla degli Albizzi con violenza eccessiva, – lei è orgogliosa e non ne è responsabile la sua giovine età. È orgogliosa come la pietra nelle mani di Michelangelo, superba come un fiore davanti a un quadro della Madonna, fiera come un raggio di sole riflesso sul diamante…
Gaetano Strozzi lo interruppe un po’ bruscamente:
– E tu, Palla, non sei orgoglioso anche tu? Da quanto dici, sembra tu abbia intenzione di confonderti tra i mendicanti in attesa, all’ora del vespro, sotto il portico della Santissima Annunziata, finché Beatrice Altichieri non darà loro un soldo tenendo il viso girato dall’altra parte.
– Voglio fare questo! – gridò Palla con occhi accesi, quindi, facendosi largo tra gli amici, si diresse verso la scala e scomparve.
Tommaso volle seguirlo.
– Lascialo andare, – lo trattenne Strozzi. – Ora deve stare solo, ritornerà prima in sé.
Poi i giovani si dispersero per i giardini.
Sotto il portico della Santissima Annunziata anche quella sera, all’ora del vespro, erano in attesa una ventina di mendicanti e accattoni. Beatrice, che li conosceva tutti per nome, e talvolta si recava perfino nelle loro povere case di Porta San Niccolò per visitare bambini e ammalati, era solita dare a ognuno, passando, una piccola moneta d’argento. Quella sera sembrava un po’ in ritardo, le campane avevano già chiamato e solo l’eco risuonava ancora dai campanili al crepuscolo. Tra i poveri c’era una certa inquietudine, anche perché un nuovo, sconosciuto mendicante era scivolato nell’ombra del portale della chiesa ed erano sul punto di scacciarlo, gelosi, quando sotto il portico apparve una giovane in abito nero, quasi monacale. Mossa dalla sua bontà, andava da un povero all’altro, mentre una delle donne che l’accompagnavano teneva aperta la borsa da cui toglieva le sue piccole offerte. I mendicanti si gettavano in ginocchio, singhiozzavano e cercavano di posare per un secondo le loro dita secche sullo strascico dell’abito della benefattrice, oppure ne baciavano il lembo estremo con le loro umide labbra tremanti. La fila era ormai prossima alla fine e nessun volto noto era stato dimenticato da Beatrice. Ma d’un tratto ella scorse, nella penombra del portale, un’altra figura coperta di stracci e si spaventò. Rimase sconcertata. Conosceva tutti i suoi poveri sin da bambina e far loro l’elemosina le era diventata una cosa naturale, come bagnare le dita nelle marmoree acquasantiere poste all’ingresso di ogni chiesa. Ma non aveva mai pensato che potessero esistere mendicanti sconosciuti; come si poteva avere il diritto di fare l’elemosina anche a costoro se non si era prima accertata la loro povertà e quindi la sua fiducia? Non sarebbe stato un inaudito gesto di superbia dare l’elemosina a uno sconosciuto? E in questo conflitto di oscuri sentimenti la fanciulla passò dinanzi al nuovo mendicante come se non lo avesse notato ed entrò rapidamente nella chiesa alta e fresca. Ma quando fu dentro è incominciò il vespro, non le riuscì di ricordare alcuna preghiera. L’assalì il timore di non ritrovare più, al termine del vespro, il pover’uomo accanto al portale e di non aver fatto nulla per alleviare la sua povertà, mentre già scendeva la notte in cui ogni miseria diventa più sentita e triste che di giorno. Fece un segno alla donna con la borsa e, accompagnata da lei, corse verso l’entrata. Là si era fatto il vuoto, ma lo straniero era ancora in piedi, appoggiato a una colonna, e sembrava stesse ascoltando il canto che, stranamente lontano, giungeva dalla chiesa come dal cielo. Il suo viso era quasi del tutto coperto, come talvolta si vede fare dai lebbrosi che scoprono le loro orribili piaghe solo quando si è loro molto vicini e sono sicuri che pietà e ribrezzo parleranno in eguale misura in loro favore. Beatrice esitò. Stringeva lei stessa la piccola borsa e vi sentiva dentro solo poche monete. Tuttavia, con immediata decisione, si avvicinò al mendicante e disse con voce incerta, un po’ cantilenante, senza alzare lo sguardo inquieto dalle proprie mani:
– Non per offenderla, signore… Mi sembra, se la riconosco senza sbagliare, di essere in debito con lei. Suo padre, mi pare, ha fatto in casa nostra la bella ringhiera di ferro battuto che adorna le scale. Più tardi, un giorno, trovai una borsa… nella camera in cui a volte era solito lavorare… Penso che l’abbia smarrita lui, anzi certamente…
Ma la pietosa bugia uscita dalle sue labbra costrinse la giovane a inginocchiarsi davanti allo sconosciuto. Pose a forza la borsa di broccato in quelle mani coperte dal mantello e balbettò:
– Mi scusi…
Ella si accorse che il mendicante tremava; poi, seguita dall’accompagnatrice sgomenta, tornò in chiesa. Dalla porta dischiusa irruppe un coro festoso di voci.
– La storia è finita, messer Palla degli Albizzi rimase nei suoi stracci. Donò tutti i suoi averi e se ne andò girovagando, povero e a piedi scalzi. Più tardi disse di aver vissuto nei dintorni di Subiaco.
– Che tempi, che tempi! – esclamò il signor maestro. – A cosa è servito tutto questo? Era sulla via di diventare un dissoluto e invece quella circostanza lo rese un vagabondo, uno stravagante. Oggi più nessuno, certo, si ricorderà di lui.
– Oh, sì invece – mi permisi di contraddirlo, – il suo nome è spesso invocato nelle solenni litanie della Chiesa cattolica accanto agli intercessori, perché è diventato santo.
I bambini hanno conosciuto anche questa storia e sostengono, con stizza del signor maestro, che anche qui compaia il buon Dio. Io stesso ne sono un poco sorpreso, perché avevo promesso al signor maestro di raccontare una storia senza il buon Dio. Ma tant’è, i bambini, in questo, ne sanno più di noi.

(1) Bettler und das stolze Fräulein, in Geschichten vom lieben Gott (Storie del buon Dio), 1904. Traduzione e note: © associazione culturale Larici, 2010.