venerdì 19 ottobre 2018

ALLUCINAZIONI
Philip K. Dick
Racconti inediti
Volume II

Quando Richards rientrava a casa dall'ufficio lo aspettavano alcune piccole, segrete abitudini, una piacevole serie di azioni che gli davano maggiore soddisfazione delle dieci ore di lavoro all'Istituto del Commercio. Gettò la borsa su una sedia, si arrotolò le maniche, afferrò l'innaffiatore con il fertilizzante ed aprì con un calcio la porta sul retro. La fredda luce solare del tardo pomeriggio lo colpì mentre attraversava agilmente il terreno umido e scuro fino al centro del giardino. Il cuore gli batteva all'impazzata. Come andava?
Bene. Diventava ogni giorno più grande.
L'annaffiò, strappò via alcune foglie secche, smosse il terreno con la vanga, tolse un'erbaccia che stava spuntando, sparse a caso il fertilizzante e poi fece un passo indietro per osservare l'opera. Non esisteva soddisfazione pari a quella di una attività creativa. Sul lavoro era un cognitivo ben pagato nel sistema economico Niplan. Lavorava sui segni verbali, segni di qualcun altro, per di più. Qui, aveva a che fare direttamente con la realtà.
Richards si piegò sulle gambe ed esaminò ciò che aveva realizzato. Era bello da vedere; quasi pronto, quasi del tutto cresciuto. Si chinò in avanti per sfiorarne cautamente i fianchi compatti.
Alla luce morente del giorno l'aereo a reazione scintillava foscamente. I finestrini si erano già formati: quattro pallidi riquadri nello scafo rastremato. La bolla di comando cominciava allora a germogliare dal centro del telaio. Le flange del reattore erano piene e sviluppate. Il portello d'ingresso e l'uscita di sicurezza non avevano ancora preso vita, ma non mancava molto.
La soddisfazione di Richards divenne incontenibile. Non c'erano dubbi. L'aereo era quasi maturo. Da un giorno all'altro avrebbe potuto coglierlo, ormai, e... cominciare a volarci.

Alle nove la sala d'attesa era piena di gente e del fumo delle sigarette; adesso, alle tre e mezzo, era quasi vuota. Uno dopo l'altro i visitatori avevano rinunciato e se ne erano andati. Nastri scartati, posacenere ripieni, sedie vuote circondavano la robosegretaria che macinava laboriosamente il suo lavoro meccanico. Ma in un angolo, seduta diritta come un fuso, le piccole mani strette intorno alla borsetta, rimaneva un'ultima, giovane donna che la segretaria non era riuscita a scoraggiare.
La segretaria tentò ancora una volta. Erano quasi le quattro, e tra un po' Eggerton se ne sarebbe andato. L'ottusa convinzione di aspettare un uomo che stava per infilarsi cappotto e cappello per andare a casa straziava i sensibili nervi della segretaria. E quella ragazza se ne stava lì seduta dalle nove, con gli occhi sgranati a fissare il nulla, senza fumare, senza esaminare nastri. Era rimasta semplicemente seduta ad aspettare.
«Mi ascolti, signora», riprese la segretaria, «il signor Eggerton non riceverà più nessuno, per oggi».
La ragazza accennò un sorriso. «Ci vorrà solo un minuto».
La segretaria sospirò. «Lei è cocciuta. Che cosa vuole? La sua ditta deve fare affari d'oro con rappresentanti come lei... ma come le ho detto il signor Eggerton non compra mai niente. È per questo che è arrivato dove è arrivato, buttando fuori gente come lei. Immagino che lei sia convinta di strappare un bell'ordine, conciata così». La segretaria rincarò la dose, irritata. «Dovrebbe vergognarsi di indossare un vestito simile. Una ragazza carina come lei».
«Mi vedrà», replicò la donna con un filo di voce.

La segretaria cercò nella propria memoria un altro significato del verbo vedere. «Già, lo credo, con un vestito come quello», cominciò a dire, ma proprio in quel momento la porta interna si sollevò e apparve John Eggerton.
«Disattivati», ordinò alla robosegretaria. «Vado a casa. Programma la riattivazione per le dieci; domattina farò tardi. A Pittsburgh c'è una riunione a livello politico del Blocco Id e vorrei approfittare dell'occasione per dire qualche cosetta».
La ragazza si alzò in piedi. John Eggerton era un uomo massiccio con le spalle da scimmia, i capelli lunghi e trascurati, in maniche di camicia sotto la giacca sbottonata e piena di macchie, e con lo sguardo acuto e impenetrabile da industriale navigato. Esaminò con circospezione la ragazza che gli si stava avvicinando.
«Signor Eggerton», disse lei, «ha un momento da dedicarmi? C'è qualcosa che vorrei discutere con lei».
«Non acquisto e non assumo». La voce di Eggerton era rauca per la stanchezza. «Mia cara signorina, torni dal suo datore di lavoro e gli dica che se vuole propormi un affare mi mandi un rappresentante esperto, e non un pivello di...»
Eggerton era miope. Solo quando la ragazza gli fu molto vicino notò il biglietto che lei stringeva fra le dita. Per un uomo della sua corporatura si mosse con straordinaria agilità: balzò in avanti, diede una spinta alla ragazza, schizzò intorno alla robosegretaria e scomparve attraverso una porta laterale dell'ufficio. La borsetta della ragazza cadde rumorosamente a terra, spargendo ovunque il suo contenuto. Lei esitò, indecisa se raccogliere gli oggetti o inseguirlo, poi con un sibilo di esasperazione uscì dall'ufficio precipitandosi nel corridoio. L'ascensore rapido per il tetto segnava rosso; stava già salendo lungo i cinquanta piani che portavano agli alloggi privati.
«Dannazione», esclamò la ragazza. Si voltò e rientrò nell'ufficio ribollendo per la frustrazione.
La segretaria aveva cominciato a riprendersi. «Perché non mi ha detto che è un Immune?» domandò, mentre la sua rabbia cresceva... l'indignazione di un burocrate. «Io le ho dato il modello S045 da compilare e la riga sei richiedeva esplicitamente informazioni dettagliate sulla sua occupazione. Lei... mi ha ingannato!»
La ragazza la ignorò e s'inginocchiò per raccogliere le sue cose. La pistola, il braccialetto magnetico, il microfono da collo dell'intercom, il rossetto, le chiavi, lo specchio, gli spiccioli, il fazzoletto, la notifica delle ventiquattro ore destinata a John Eggerton... appena fosse rientrata all'Agenzia l'avrebbero mandata al diavolo. Eggerton era riuscito anche ad evitare il riconoscimento orale: il nastro della bobina che era caduta dalla borsetta era vuoto e inutile.
«Il tuo principale è proprio in gamba», disse rivolta alla segretaria, in un impeto di rabbia. «Tutto il giorno seduta in questo ufficio puzzolente con tatti quei rappresentanti, per niente».
«Mi domandavo perché lei fosse così insistente», disse la segretaria. «Non ho mai visto una venditrice così insistente; avrei dovuto capire che c'era qualcosa che non andava. Lei ci era quasi riuscita».
«Lo prenderemo», replicò la ragazza, pronta ad andarsene. «Diglielo domani mattina, quando verrà».
«Non si farà vedere», rispose la segretaria a se stessa, visto che la ragazza era andata via. «Non ritornerà più, non per adesso. Non con voi Immuni nei paraggi. La vita di un uomo vale più del suo lavoro, anche di un lavoro di questa importanza».
La ragazza entrò in una videocabina pubblica e compose il numero dell'Agenzia. «È scappato», disse alla donna con il volto corrucciato che era il suo diretto superiore. «Non ha toccato il biglietto di citazione; temo proprio di aver fallito».
«Ha visto il biglietto?»
«Certo, è per questo che è scappato via».
La donna anziana scarabocchiò alcuni rapidi appunti su un notes. «Tecnicamente, è nostro. Lascerò che siano i nostri legali a vedersela con i suoi eredi; io andrò avanti con la notifica delle ventiquattro ore, come se lui l'avesse accettata. Se prima era prudente, d'ora in poi sarà impossibile raggiungerlo. Non riusciremo mai ad avvicinarlo più di così. È proprio un peccato che tu non sia riuscita a...» La donna prese una decisione. «Chiamalo a casa e notifica ai suoi collaboratori l'avviso di colpevolezza. Domani mattina diffonderemo la notizia attraverso i robogiornali».
Doris interruppe la comunicazione, passò la mano sullo schermo per ripulirlo e poi fece il numero personale di Eggerton. Riferì al suo assistente la notifica formale che Eggerton era preda legale per ogni cittadino del Niplan. L'assistente - un robot - registrò doverosamente l'informazione come se si fosse trattato di un ordine per qualche decina di metri di stoffa. In qualche modo l'impassibilità della macchina aumentò lo sgomento della ragazza. Lasciò la cabina e scese tristemente la rampa che portava al bar dove avrebbe aspettato suo marito.

John Eggerton non aveva l'aspetto di un paracinetico. Doris se li immaginava giovani, minuti e pallidi, chiusi in se stessi e tormentati, sepolti in qualche città o sobborgo fuori mano, lontano dalle aree urbane. Eggerton era un uomo importante... ma naturalmente questo non gli aveva impedito di essere individuato dalla rete di controllo casuale. Mentre sorseggiava il suo Tom Collins, Doris cercò di capire se ci fossero degli altri motivi per cui John Eggerton aveva ignorato l'iniziale avviso di controllo, poi l'ammonizione - una multa ed una possibile incarcerazione - ed infine quest'ultima notifica.
Eggerton era veramente un paracinetico, un PK?
Il volto di lei riflesso nello specchio scuro al di là del bancone tremolava, creando giochi di ombre, figure indistinte, una specie di nebbia opprimente simile a quella che avvolgeva il sistema Niplan. Avrebbe potuto essere il riflesso di una giovane donna paracinetica: cerchi scuri al posto degli occhi, ciglia umide, capelli bagnati sulle spalle magre, dita troppo affusolate e troppo appuntite. Ma era solo uno specchio: non esistevano paracinetici di sesso femminile. Almeno, non ne erano ancora stati individuati.
Suo marito apparve all'improvviso, gettò il soprabito su uno sgabello e si sedette. «Come è andata a finire?», le domandò Harvey, con interesse.
Doris ebbe uno scatto. «Mi hai spaventato!»
Harvey si accese una sigaretta e richiamò l'attenzione del barista. «Bourbon con acqua». Poi si rivolse affettuosamente alla moglie. «Coraggio... ci sono altri mutanti da individuare». Le agitò davanti uno dei giornali del pomeriggio. «Forse lo sai già, ma il tuo ufficio di San Francisco ne ha presi quattro tutti insieme. Ciascuno di loro era un pezzo unico. Ce n'era uno che aveva un talento tutto particolare per accelerare i processi metabolici di quelli che gli stavano antipatici».
Doris annuì con aria assente. «Lo abbiamo saputo attraverso le registrazioni dell'Agenzia. Un altro poteva attraversare i muri, senza cadere attraverso il pavimento. E un altro ancora era capace di far muovere i sassi».
«Eggerton è scappato?»
«Come un fulmine... non credevo che un uomo così grosso fosse in grado di reagire con quella agilità. Ma forse non è un uomo». Rigirò fra le dita il lungo bicchiere gelato. «L'Agenzia sta per rendere pubblica la notifica delle ventiquattro ore. L'ho già chiamato a casa... e questo è un bel vantaggio per i suoi collaboratori».
«È giusto che sia così. In fondo hanno lavorato per lui. Dovrebbero essere i primi ad incassare la taglia». Harvey cercava di scherzare, ma sua moglie non reagì. «Pensi che un uomo così importante possa rimanere nascosto a lungo?»
Doris alzò le spalle. Il problema era di facile soluzione con quelli che si nascondevano: si tradivano con comportamenti sempre più strani rispetto alla norma. Erano quelli che non si rendevano conto della loro innata diversità, quelli che continuavano a funzionare finché non venivano scoperti per caso... i cosiddetti PK inconsapevoli avevano imposto la creazione del sistema di controllo casuale e la sua Agenzia di femmine Immuni. Nella testa di Doris si formò lo strano pensiero di un uomo che non era un PK ma pensava di esserlo... l'estenuante, nevrotica paura di essere in qualche modo diverso, uno svitato, quando in realtà era del tutto normale. Eggerton, malgrado tutto il suo potere e la sua influenza di grande industriale, poteva essere un uomo qualsiasi affetto dalla lacerante fobia di essere un PK. Era già successo... e c'erano dei PK autentici che se ne andavano in giro tranquillamente senza rendersi conto della loro diversità.
«Ci serve un test a prova di dubbio», disse ad alta voce Doris. «Qualcosa che uno possa farsi da solo. In modo da essere sicuro».
«Non ne avete? Non avete la sicurezza del risultato quando vengono intercettati dalla rete?»
«Se vengono intercettati. Uno su diecimila. Sono troppo pochi quelli che cadono nella rete». Improvvisamente allontanò il bicchiere e si alzò in piedi. «Andiamo a casa. Ho fame e sono stanca. Voglio andare a dormire».
Harvey raccolse il soprabito e pagò il conto. «Scusami, tesoro. Stasera andiamo a cena fuori. Un tale dell'Istituto di Commercio, un certo Jay Richards. L'ho incontrato a pranzo... per la verità, tu non c'eri. Siamo tutti invitati a festeggiare qualcosa».
«Festeggiare che cosa?», chiese Doris, irritata. «Cosa c'è da festeggiare?»
«È un suo segreto», rispose Harvey, aprendo l'ampia porta. «Ce lo rivelerà dopo cena. Coraggio... magari passeremo una bella serata».

Eggerton non andò direttamente a casa. Veloce, senza una meta precisa, sorvolò in circolo il primo anello di strutture residenziali alla periferia di New York, con il terrore che nella sua mente si alternava al risentimento. Il suo primo impulso era stato quello di dirigersi subito verso le sue proprietà, ma la paura di imbattersi in altri dipendenti dell'Agenzia gli aveva fatto cambiare idea. Mentre cercava di prendere una decisione il microfono da collo gli aveva trasmesso la chiamata dell'Agenzia.
Era stato fortunato. La ragazza aveva comunicato la notifica delle ventiquattro ore ad uno dei suoi robot, e i robot non erano interessati alla taglia.
Scese sul campo di atterraggio di un tetto scelto a caso all'interno della zona industriale di Pittsburgh. Nessuno lo vide, e anche questa fu una fortuna. Tremava per tutto il corpo quando entrò nell'ascensore ed iniziò la discesa fino al livello della strada. Insieme a lui c'erano un impiegato dal volto inespressivo, due donne anziane, un giovane dall'aria seria e la graziosa figlia di qualche funzionario di basso rango. Un innocuo gruppo di persone, ma lui non si faceva illusioni: allo scadere delle ventiquattro ore ognuno di loro avrebbe sputato l'anima pur di fargli la pelle. E non poteva biasimarli: dieci milioni di dollari erano una bella somma.
Teoricamente Eggerton aveva dalla sua il vantaggio di un intero giorno, ma era difficile che le notifiche finali venissero tenute segrete. Molti degli uomini che contavano ne erano sicuramente già a conoscenza. Un vecchio amico poteva benissimo incontrarlo, salutarlo, mangiare e bere insieme a lui, offrirgli un rifugio su Ganimede pieno di ogni ben di Dio... e sparargli in mezzo agli occhi appena fosse trascorso il giorno.
Naturalmente l'impero industriale di Eggerton comprendeva unità in ogni patte del paese, ma sarebbero state controllate sistematicamente. Aveva numerose società finanziarie, e aziende di copertura, ma l'Agenzia le avrebbe tenute d'occhio tutte, se avesse ritenuto che ne valeva la pena. L'improvvisa intuizione che poteva facilmente diventare il bersaglio preferito della società Niplan, gestita e manipolata dall'Agenzia, lo fece quasi uscire di senno. Fin dalla sua prima infanzia le femmine Immuni gli avevano sempre scatenato complessi sepolti nel profondo; il pensiero di una cultura matriarcale era qualcosa che detestava visceralmente. E prendere Eggerton era come scardinare uno dei puntelli basilari del Blocco: adesso gli venne in mente che il suo numero di controllo casuale forse non era stato scelto veramente a caso.
Astuto... compilare i numeri identificativi di serie dei dirigenti del Blocco Id, inserirli ogni tanto nelle reti di controllo e pian piano eliminarli ad uno ad uno.
Giunse al livello della strada e rimase lì indeciso, mentre il traffico urbano scorreva rumorosamente intorno a lui. E se i dirigenti del Blocco Id fossero stati semplicemente d'accordo con le reti di controllo? L'accettazione della notifica iniziale comportava solamente la sonda mentale di prammatica da parte dei gruppi di mutanti autorizzati dalla società, i castrati telepatici che venivano tollerati perché erano utili contro altri mutanti. Scelta a caso o secondo un disegno preciso, la vittima non poteva far altro che sottoporsi alla sonda, offrire la sua mente indifesa all'Agenzia, lasciare che facessero scempio a colpi d'ascia dei contenuti della sua psiche, per poi tornarsene tranquilla e ripulita nel suo ufficio. Ma questo implicava un particolare: che il pezzo grosso dell'industria fosse in grado di superare la sonda, che non fosse un PK.
L'ampia fronte di Eggerton grondava sudore. Si stava forse dicendo, in modo contorto, che lui era un PK? No, non era quello il punto. La conclusione era un principio: l'Agenzia non aveva il diritto morale di sondare la mezza dozzina di uomini la cui potenza industriale era il caposaldo del sistema Niplan. Da quel punto di vista ognuno degli altri dirigenti del Blocco Id sarebbe stato d'accordo con lui... un attacco a Eggerton era un attacco al Blocco stesso.
Pregò ardentemente che anche loro la vedessero in quel modo. Chiamò un robotaxi e gli ordinò: «Portami al palazzo del Blocco Id. E se qualcuno cerca di fermarti, questi cinquanta dollari serviranno a rimetterti in movimento».

La vasta ed echeggiante sala era buia e tetra, quando Eggerton vi giunse. Mancavano ancora parecchi giorni alla riunione. Eggerton camminò su e giù lungo i corridoi, tra le file di banchi in cui avrebbero preso posto le delegazioni tecniche ed amministrative delle diverse unità industriali, oltre i sedili di acciaio e plastica dove sedevano i dirigenti, fino alla vuota postazione del relatore. Luci fioche si accesero per lui quando si fermò indeciso di fronte al palco di marmo. All'improvviso gli si rivelò la futilità della sua posizione: stando in piedi in quella sala vuota si rese conto in un istante di come avesse fatto di se stesso un reietto. Poteva gridare e strepitare e non sarebbe venuto nessuno. Non poteva convocare nulla e nessuno. Era l'Agenzia il governo legale del sistema Niplan. Attaccando l'Agenzia lui si era messo contro l'intera società civile... e per quanto fosse potente non poteva sperare di avere la meglio sulla società stessa.
Lasciò in tutta fretta il palazzo, individuò un ristorante costoso e si concesse un lauto pasto. Ingurgitò quasi febbrilmente enormi quantità di raffinatezze di difficile importazione; almeno poteva godersi le sue ultime ventiquattro ore. Mentre mangiava osservò con apprensione i camerieri e gli altri commensali. Volti anonimi e indifferenti... ma ben presto tutti avrebbero visto il suo numero e la sua faccia su ogni robogiornale. E la grande caccia avrebbe avuto inizio: miliardi di cacciatori su un'unica preda. Terminò bruscamente di mangiare, guardò l'orologio e lasciò il ristorante. Erano le sei del pomeriggio.
Per un'ora sperperò furiosamente il suo denaro in una pretenziosa casa di piacere, girando da un appartamento all'altro, non facendo nemmeno caso agli occupanti. Si lasciò alle spalle un gran caos, per il quale pagò, poi abbandonò quell'atteggiamento sconsiderato e si concesse un po' d'aria fresca per la strada. Vagabondò fino alle undici attraverso i parchi illuminati solo dalla luce delle stelle che circondavano la zona residenziale della città, in mezzo ad edifici altrettanto bui, con le mani desolatamente infilate nelle tasche, ingobbito ed infelice. Lontano da qualche parte, l'orologio di una torre cittadina emise un segnale orario. Le ventiquattro ore stavano scadendo e nessuno poteva fermarle.
Alle undici e mezzo smise di vagabondare e riuscì a rimettersi abbastanza in sesto da analizzare la sua situazione. Doveva affrontarla: la sua unica speranza era nella sede del Blocco Id. Il personale tecnico ed amministrativo non si era ancora fatto vedere, ma molti dei dirigenti erano sicuramente asserragliati all'interno dei quartieri abitativi. La sua mappa da polso gli rivelò che si era allontanato di quasi otto chilometri dal palazzo. Improvvisamente terrorizzato, prese la decisione.
Tornò direttamente in volo alla sede, atterrò sul tetto deserto e discese fino al piano dei quartieri abitativi. Non poteva più rinviare la cosa: adesso o mai più.

«Entra, John», lo accolse affettuosamente Townsand, ma cambiò espressione quando Eggerton ebbe fatto un rapido riassunto di ciò che era avvenuto nel suo ufficio.
«Dici che hanno già mandato la notifica finale a casa tua?» gli domandò ansiosamente Laura Townsand. Si era alzata dal divano su cui era seduta ed era venuta verso la porta. «Allora è troppo tardi!»
Eggerton gettò il soprabito nel ripostiglio e si sdraiò in una comoda poltrona. «Troppo tardi? Forse... troppo tardi per evitare la notifica, ma io non ho intenzione di arrendermi».
Townsand e gli altri dirigenti del Blocco Id si fecero intorno ad Eggerton, con i volti che tradivano curiosità, partecipazione e qualche traccia di un freddo piacere. «Ti sei cacciato in un bel pasticcio», disse uno dei dirigenti. «Se ce lo avessi fatto sapere prima che veniva emessa la notifica finale avremmo potuto fare qualcosa, ma a questo punto...»
Eggerton ebbe una stretta alla gola nell'accorgersi che già stava calando una barriera fra loro. «Un momento», disse concitatamente, «chiariamo le cose. Ci siamo dentro tutti. Oggi tocca a me, domani può toccare a voi. Se vado a picco io...»
«Non ti agitare», disse qualcuno a voce bassa. «O affrontiamo la questione razionalmente o non se ne parla nemmeno».
Eggerton si appoggiò di nuovo allo schienale della poltrona, che si adattò al suo corpo stanco. Sì, era contento di affrontare la questione con razionalità.
«Per come la vedo io», disse con calma Townsand, piegandosi in avanti e intrecciando le dita, «la questione non è se possiamo neutralizzare l'Agenzia. Noi tutti, messi insieme, costituiamo il cuore economico del sistema Niplan; se togliamo il sostegno all'Agenzia non sopravviverà. Dunque la domanda giusta è un'altra... vogliamo far fuori l'Agenzia?»
La voce di Eggerton divenne stridula per l'esasperazione. «Buon Dio, qui si tratta di noi o loro! Non capisci che si servono delle reti di controllo e delle sonde mentali per indebolirci?»
Townsand lo fissò e poi riprese il discorso a beneficio degli altri dirigenti. «Forse stiamo dimenticando qualcosa. Siamo stati noi a mettere l'Agenzia in un posto così alto; cioè, il Blocco Id prima di noi ha elaborato i presupposti di base della verifica mediante rete di controllo casuale, l'uso dei telepati addomesticati, la notifica finale e la caccia... e il tutto funziona. L'Agenzia serve alla nostra stessa protezione; altrimenti i paracinetici crescerebbero come le erbacce e alla fine ci soffocherebbero. Naturalmente, dobbiamo tenere sotto controllo l'Agenzia... è il nostro strumento».
«Proprio così», convenne un altro dirigente. «Non possiamo permettere che ci sfugga di mano. Quanto a questo, Eggerton ha ragione».
«Diamo per scontato», riprese Townsand, «che in ogni caso debba esistere un meccanismo in grado di individuare i PK. Se l'Agenzia va a gambe all'aria, si dovrà trovare qualcosa che la sostituisca. Te lo dico io come sta la faccenda, John». Fissò Eggerton con aria pensierosa. «Se ti viene in mente un'alternativa, allora può darsi che la cosa ci interessi. Se no, l'Agenzia rimane dov'è. Dalla scoperta del primo PK, nel 2045, soltanto le donne si sono rivelate immuni. Qualunque cosa mettiamo su dovrà avere una linea di condotta gestita da donne. Ed eccoci di nuovo all'Agenzia».
Cadde il silenzio.

Confusamente, nella testa di Eggerton si accese una fiammella di speranza. «Convieni che l'Agenzia rischia di sfuggirci di mano?», domandò con voce rauca. «Sta bene, allora dobbiamo farci valere». Gesticolò con aria impotente. I dirigenti lo fissavano impietriti e Laura Townsand stava tranquillamente versando del caffè nelle tazze mezze vuote. Gli rivolse un'occhiata di muta partecipazione, poi tornò in cucina. Un freddo silenzio circondava Eggerton, che si mosse a disagio sulla poltrona mentre Townsand proseguiva con voce monotona.
«Mi dispiace che tu non ci abbia informato che era stato estratto il tuo numero», stava dicendo. «Alla prima notifica avremmo potuto fare qualcosa, ma non adesso. A meno di scoprire le carte... e non credo che siamo preparati a farlo». Puntò l'indice contro Eggerton. «Sai, John, io non credo che tu ti renda veramente conto di chi siano questi PK. Forse te li immagini come dei pazzi, gente che soffre di allucinazioni».
«Io lo so chi sono», replicò risentito Eggerton, ma non riuscì a trattenersi dal domandare: «Perché... non è vero che soffrono di allucinazioni?»
«Sono dei pazzi che hanno il potere di realizzare i loro complessi allucinatoli nello spazio-tempo. Alterano un'area limitata intorno a loro per adattarla alle loro concezioni eccentriche... capisci? Il PK concretizza la sua allucinazione. Che quindi, in un certo senso, non è più un'allucinazione... a meno di riuscire ad allontanarsi abbastanza da confrontare quell'area alterata con il mondo normale. Ma come fa un PK a fare una cosa del genere? Non ha un riferimento oggettivo, non è capace di staccarsi da se stesso e l'alterazione lo segue ovunque vada. I PK veramente pericolosi sono quelli che credono che chiunque possa far muovere le pietre, o trasformarsi in un animale, o trasmutare i minerali vili. Se ci facciamo sfuggire un PK, se lo lasciamo crescere, riprodursi, mettere su famiglia, una moglie e dei figli, se consentiamo a questa parafacoltà ereditata di diffondersi... si trasformerà in una coscienza collettiva... diventerà una pratica socialmente istituzionalizzata.
«Qualunque PK è in grado di dar vita ad una società di PK costruita attorno al suo particolare potere. Il grosso pericolo è questo, che alla fine noi non-PK diventiamo una minoranza... la nostra visione razionale del mondo potrebbe essere allora considerata eccentrica».
Eggerton si umettò le labbra. Quella voce languida e monocorde lo faceva stare male; mentre Townsand parlava, lui si sentì invadere dal gelo minaccioso della morte «In altre parole», farfugliò, «non avete intenzione di aiutarmi».
«Esatto», rispose Townsand. «Ma non perché non vogliamo aiutarti. Noi abbiamo la sensazione che il pericolo costituito dall'Agenzia sia minore di quello che credi; per noi la vera minaccia sono i PK. Trova un modo per individuarli senza l'Agenzia, e noi saremo tutti dalla tua parte... altrimenti, niente da fare». Si chinò verso Eggerton e gli diede una pacca sulla spalla con le dita magre e ossute. «Se non ci fossero le donne, che sono immuni, non avremmo la minima possibilità. Siamo fortunati... potremmo stare davvero molto peggio».

Eggerton si alzò lentamente in piedi. «Buonanotte».
Anche Townsand si alzò, e seguì un momento di imbarazzante, teso silenzio. «Comunque», aggiunse Townsand, «possiamo bloccare questa caccia che ti stanno per scatenare contro. C'è ancora tempo, la notizia non è stata ancora resa pubblica».
«Che devo fare?», domandò Eggerton, disperato.
«Hai con te la copia scritta della notifica?»
«No!», strillò istericamente Eggerton. «Sono scappato dall'ufficio prima che la ragazza me la potesse consegnare!»
Townsand rifletté. «Sai chi è? Sei in grado di rintracciarla?»
«No».
«Fa' delle ricerche. Trovala, fatti consegnare la notifica, e poi affidati alla comprensione dell'Agenzia».
Eggerton allargò rassegnato le braccia. «Questo significa che sarò legato all'Agenzia per il resto della mia vita».
«Ma sopravviverai», ribatté tranquillo Townsand, senza rivelare la minima emozione.
Laura Townsand portò a Eggerton una tazza di caffè nero bollente. «Crema o zucchero?», gli domandò gentilmente, quando fu riuscita ad attirare la sua attenzione. «O tutti e due? John, sarà meglio che mandi giù qualcosa di caldo; hai una lunga strada da fare».

La ragazza si chiamava Doris Sorrel. Abitava in un appartamento registrato sotto il nome di Harvey Sorrel, suo marito. Non c'era nessuno; Eggerton disintegrò la serratura, poi entrò e frugò nelle quattro piccole stanze. Rovesciò i cassetti, gettando a terra biancheria intima e oggetti personali, e rovistò sistematicamente in ogni ripostiglio ed armadio. Nel vano per l'eliminazione dei rifiuti accanto al tavolo da lavoro trovò quello che stava cercando: un foglio di carta spiegazzato e gettato via ma non ancora distrutto, un appunto preso in tutta fretta con il nome di Jay Richards, la data e l'ora, e le parole se Doris non è troppo stanca. Eggerton si infilò in tasca il biglietto e lasciò l'appartamento.
Erano le tre e mezzo del mattino quando li trovò. Atterrò sul tetto dello sgraziato palazzo dell'Istituto del Commercio e discese la rampa che conduceva ai piani residenziali. Dall'ala settentrionale giungeva una luce e del rumore: la festa era ancora in corso. Pregando fra sé, Eggerton avvicinò la mano alla porta e premette il pulsante.
Venne ad aprire un bell'uomo dai capelli grigi, massiccio, prossimo alla quarantina. Tenendo un bicchiere in mano scrutò senza interesse Eggerton, con gli occhi segnati dalla stanchezza e dall'alcol. «Non ricordo di averla invitata», incominciò a dire, ma Eggerton lo spinse da parte ed entrò nell'appartamento.
C'erano un mucchio di persone, alcune sedute, altre in piedi, altre ancora raggruppate a chiacchierare e a ridere a bassa voce. Liquori, morbidi divani, profumi ed abiti che non passavano inosservati, pareti a colori cangianti, robot che servivano manicaretti, la silenziosa cacofonia di risatine femminili da buie stanze laterali... Eggerton si tolse il soprabito e si aggirò oziosamente per l'appartamento. La ragazza doveva essere da qualche parte. Passò in rassegna un volto dopo l'altro, ma vide solo occhi vacui e fissi, e bocche smorte. Improvvisamente lasciò il salotto ed entrò in una stanza da letto.
Doris Sorrel stava in piedi davanti alla finestra osservando in silenzio le luci della città, volgendogli la schiena, con una mano appoggiata sul davanzale. «Oh», mormorò la ragazza, girandosi appena. «Già qui?» Poi vide chi era.
«La voglio», disse Eggerton. «La notifica delle ventiquattro ore; adesso sono disposto ad accettarla».
«Mi ha spaventato». Si allontanò tremando dal vetro della finestra. «Quanto... da quanto tempo è qui?»
«Sono appena arrivato».
«Ma... perché? Lei è un uomo molto strano, signor Eggerton. Quello che fa non ha senso». Rise nervosamente. «Proprio non la capisco».

Dal buio emerse la sagoma di un uomo che si stagliò brevemente sulla soglia. «Cara, ecco il tuo martini». L'uomo vide Eggerton e un'espressione ostile si dipinse sul suo volto sbalordito. «Sparisci, amico. Non è roba per te».
Doris lo prese debolmente per un braccio. «Harvey, questo è l'uomo al quale ho cercato di consegnare la notifica. Signor Eggerton, mio marito».
Si strinsero freddamente la mano. «Dov'è?», chiese sgarbatamente Eggerton. «Non l'ha con sé?»
«Sì... ce l'ho nella borsetta». Doris si allontanò. «Vado a prenderla. Può venire con me, se vuole». Stava recuperando il suo sangue freddo. «Credo di averla lasciata da qualche parte. Harvey, dove diavolo è la mia borsetta?» Gesticolò nel buio indicando qualcosa di piccolo e rilucente. «Eccola lì. Sul ietto».
Si accese una sigaretta e guardò Eggerton mentre esaminava la notifica delle ventiquattro ore. «Come mai ha cambiato idea?», gli domandò. Per la festa aveva indossato un abito di seta lungo fino alle ginocchia, dei bracciali di rame, dei sandali ed aveva messo un fiore luminoso tra i capelli. Il fiore era ormai tutto appassito, l'abito spiegazzato e sbottonato, e lei aveva l'aria disfatta. Si appoggiò alla parete, con la sigaretta tra le labbra sbaffate di rossetto, e disse: «Non vedo come possa fare alcuna differenza quello che lei sta facendo. La notifica sarà resa pubblica tra mezz'ora... e i suoi collaboratori già lo sanno. Dio, sono esausta». Si guardò intorno con aria impaziente in cerca di suo marito, che stava passeggiando oziosamente. «Andiamocene di qui», gli disse. «Domattina devo andare a lavorare».
«Non l'abbiamo ancora visto», replicò Harvey Sorrel di malumore.
«Che vada al diavolo!» Doris afferrò il cappotto nel ripostiglio. «Perché tutto questo mistero? Mio Dio, sono cinque ore che siamo qui e ancora non si è fatto vedere. Anche se avesse inventato il viaggio nel tempo o avesse trovato la quadratura del cerchio non me ne importa niente, non a quest'ora di notte».
Doris si fece strada attraverso il soggiorno pieno di gente ed Eggerton le corse dietro. «Mi stia a sentire», ansimò e l'afferrò per la spalla, aggiungendo rapidamente: «Townsand mi ha detto che se fossi tornato da voi, avrei potuto contare sulla comprensione dell'Agenzia. Ha detto...»
La ragazza si liberò dalla stretta. «Si, certo, è la legge». Si girò irosamente verso il marito che li seguiva a fatica. «Allora, arrivi?»
«Arrivo», rispose Harvey, con gli occhi che avvampavano per l'indignazione. «Ma prima voglio salutare Richards. E tu gli dirai che l'idea di andarcene è stata tua; non voglio addossarmi la responsabilità di lasciarlo in questo modo. Se non si ha almeno la buona educazione di salutare il padrone di casa...»
L'uomo dai capelli grigi che aveva aperto la porta a Eggerton emerse da un gruppetto di ospiti e si avvicinò sorridendo. «Harvey! Doris! Non l'avete ancora visto». Il suo volto quadrato tradiva un grande sgomento. «Non potete andarvene».
Doris aprì la bocca per dire che poteva eccome. «Senti», la precedette invece Harvey, disperato, «non puoi farcelo vedere adesso? Su, Jay, abbiamo aspettato abbastanza».
Richards esitò. Altre persone si erano avvicinate e facevano capannello intorno a loro. «Suvvia», si levarono alcune voci stanche, «facciamola finita».
Dopo un attimo di indecisione Richards acconsentì. «D'accordo», disse, rendendosi conto che li aveva fatti aspettare abbastanza a lungo. In quegli ospiti stanchi e sazi di esperienze c'era un limite anche all'attesa di una sorpresa. Richards allargò le braccia in modo teatrale, cercando di sfruttare tutto ciò che poteva da quel momento. «Ci siamo, gente! Venite con me... è proprio qui dietro».

«Mi domandavo dove fosse», disse Harvey seguendo il padrone di casa. «Vieni, Doris». La prese per un braccio e la tirò con sé. Gli altri si accodarono. Attraversarono il soggiorno, la cucina ed uscirono dalla porta posteriore.
La notte era molto fredda. Tirava un vento gelato che li fece rabbrividire mentre scendevano con passo incerto i gradini neri nell'oscurità iperborea. John Eggerton sentì una figuretta che lo spingeva: era Doris, che si era liberata con un violento strattone della stretta del marito. Eggerton riuscì a starle dietro. Lei si fece strada con destrezza in mezzo alla massa di ospiti, lungo il marciapiede di cemento fino al recinto che cingeva il giardino. «Aspetti», rantolò Eggerton, «mi ascolti. Allora l'Agenzia mi prenderà?» Non riuscì ad impedirsi di avere un tono quasi supplichevole. «Posso contarci? La notifica verrà annullata?»
Doris sospirò stancamente. «Sì. Va bene, se vuole la porterò io stessa all'Agenzia e daremo subito il via alle procedure legali, altrimenti ci sarà da aspettare un mese. Immagino che sappia cosa significa. Lei è sotto contratto con l'Agenzia per il resto della sua vita naturale. Lo sa, no?»
«Lo so».
«È quello che vuole?» Lei era nello stesso tempo indifferente e incuriosita. «Un uomo come lei... non credevo che le cose sarebbero andate così».
Eggerton si agitò, sconsolato. «Townsand ha detto...», cominciò a dire pateticamente.
«Quello che vorrei sapere», lo interruppe Doris, «è perché lei non abbia risposto alla prima notifica. Se solo si fosse fatto vivo... tutto questo non sarebbe mai successo».
Eggerton aprì la bocca per rispondere, e stava per dire qualcosa sulle questioni di principio, sul concetto di società libera, sui diritti dell'individuo, sulla legalità di certi processi, sugli abusi dello stato, ma proprio in quel momento Richards accese i potenti riflettori esterni che aveva installato appositamente per quell'occasione. Per la prima volta fu consentito a tutti di vedere la sua grande realizzazione.
Seguì un momento di sbalordito silenzio. Poi, all'improvviso, tutti si misero a strillare e si diedero ad una fuga disordinata. Stravolti, terrorizzati, scavalcarono il recinto, sfondarono la protezione di plastica che circondava il giardino e si precipitarono nel giardino adiacente o direttamente in strada.

Richards rimase come un idiota accanto al suo capolavoro, sconcertato, senza capire ancora quello che era successo. Sotto il bagliore artificiale dei riflettori l'aereo a reazione era qualcosa di assolutamente bello. Era completamente formato, giunto a piena maturazione. Mezz'ora prima Richards si era avvicinato con una torcia, l'aveva ispezionato e poi, fremendo per l'eccitazione, aveva staccato il gambo da cui il velivolo era cresciuto. Adesso era separato dalla pianta sulla quale si era formato; Richards lo aveva trasportato verso il limite del giardino, aveva riempito il serbatoio di carburante ed aveva aperto il portello. Adesso era pronto per volare.
Sulla pianta c'erano i germogli allo stato embrionale di altri aerei, a vari livelli di crescita. Li aveva annaffiati e concimati con ogni cura: la pianta avrebbe generato entro la fine dell'estate una mezza dozzina di aerei a reazione.
Il volto stanco di Doris si rigò di lacrime. «Lo vede?», mormorò ad Eggerton con voce avvilita. «È... così bello. Lo guardi, è appena sbocciato». Stravolta, girò la testa. «Povero Jay... quando se ne renderà conto...»
Richards era rimasto impalato, con le gambe larghe, ed osservava il suo giardino deserto e calpestato. Poi vide Doris ed Eggerton, e dopo un attimo si avvicinò esitante. «Doris», rantolò con voce spezzata, «cos'è quello? Che cosa ho fatto?»
All'improvviso la sua espressione cambiò. Lo stupore scomparve; dapprima venne il terrore, nudo e totale, quando lui si rese conto della sua situazione e del perché gli ospiti erano scappati via. Poi la folle comprensione. Richards si voltò lentamente e percorse il giardino a passi incerti verso il suo aereo.
Eggerton lo fulminò con un colpo solo alla base del cranio, e mentre Doris cominciava a gridare con voce stridula, lui spense i riflettori uno dopo l'altro. Il giardino, il corpo di Richards, il velivolo di metallo scintillante scomparvero nel gelo della notte. Eggerton spinse la ragazza verso i rampicanti che crescevano lungo il muro del giardino e le premette il volto contro le foglie umide e fredde.
Dopo un po' lei riuscì a riprendere il controllo di se stessa. Rabbrividendo, rimase abbarbicata alla vegetazione, le braccia strette intorno alla vita, scossa da un tremore convulso che pian piano scemò fino a cessare del tutto.
Eggerton l'aiutò a rialzarsi. «Tutti questi anni e nessuno che avesse mai sospettato qualcosa. Stava proteggendo... il suo grande segreto».
«Lei se la caverà», stava dicendo Doris, con voce così bassa e fioca che lui la sentì a malapena. «L'Agenzia non avrà difficoltà a riabilitarla. È stato lei a fermarlo». Debole per lo shock, cercò a tentoni nel buio la borsetta caduta chissà dove e le sigarette. «L'avrebbe fatta franca. E quella pianta. Che cosa ne faremo?» Trovò le sigarette e se ne accese una nervosamente. «Che diavolo ne faremo?»
I loro occhi si stavano abituando all'oscurità. Al chiarore delle stelle il profilo della pianta si mise lentamente a fuoco. «Non sopravviverà», disse Eggerton. «Faceva parte della sua allucinazione, e adesso lui è morto».

Spaventati ma anche incuriositi, gli altri ospiti stavano incominciando a ritornare alla spicciolata nel giardino. Harvey Sorrel sbucò improvvisamente dall'ombra e si avvicinò alla moglie con aria di scusa. Da qualche parte in lontananza echeggiò l'urlo di una sirena: qualcuno aveva avvisato la polizia automatica. «Vuole venire con noi?», chiese Doris ad Eggerton con voce debole, indicando il marito. «Andremo insieme all'Agenzia e sistemeremo la sua posizione. Si può fare. Se la caverà con un contratto di qualche anno, al massimo. Nient'altro».
Eggerton si allontanò da lei. «No, grazie,» disse. «Ho qualcos'altro da fare. Magari più tardi».
«Ma...»
«Penso di avere quello che voglio». Eggerton cercò a tastoni la porta e rientrò nell'appartamento deserto di Richards. «Questo è ciò che abbiamo sempre cercato».
Attivò subito il videofono d'emergenza e dopo trenta secondi il campanello suonò in casa di Townsand. Assonnata, Laura svegliò suo marito; Eggerton cominciò a parlare appena vide sullo schermo l'immagine dell'altro.
«Abbiamo il nostro riferimento», disse, «e non ci serve più l'Agenzia. Possiamo mollarli perché non abbiamo più bisogno di loro per essere protetti».
«Cosa?», domandò irosamente Townsand, con la testa ancora intorpidita dal sonno. «Di che diavolo stai parlando?»
Con la maggiore calma possibile, Eggerton ripeté quello che aveva detto.
«E allora chi ci proteggerà?», mugugnò Townsand. «Che significa tutta questa storia?»
«Ci proteggeremo l'un con l'altro», rispose paziente Eggerton. «Nessuno sfuggirà. Ognuno di noi sarà il punto di riferimento per il proprio vicino. Richards non poteva vedersi con obbiettività, ma io sì... anche se non sono immune. Non abbiamo bisogno di nessuno sopra di noi, perché possiamo farcela da soli».
Townsand rifletté, ancora indispettito. Sbadigliò, si strinse addosso il pigiama e diede un'occhiata assonnata all'orologio da polso. «Buon Dio, come è tardi. Forse c'è qualcosa di vero, in quello che dici. E forse no. Dimmi qualche altra cosa su questo Richards... che genere di talento PK aveva?»
Eggerton glielo disse. «Vedi? Tutti questi anni... e non poteva dirlo a nessuno. Ma noi potremmo dirlo subito». La sua voce crebbe di tono per l'eccitazione. «Possiamo di nuovo gestire da soli la nostra società! Consensus gentium... abbiamo sempre avuto un punto di riferimento e nessuno di noi se ne è mai accorto. Individualmente ognuno di noi è fallibile; ma come gruppo non possiamo sbagliare. Dobbiamo solo assicurarci che le reti di controllo casuale raggiungano tutti. Bisognerà intensificare il processo, inserirvi più persone e più di frequente. Bisognerà accelerarlo, in modo che tutti, prima o poi, vi rimangano impigliati».
«Capisco», assentì Townsand.
«Naturalmente ci serviremo ancora dei telepati addomesticati, così potremo tirare fuori tutti i pensieri e la materia subliminale. I telepati non faranno valutazioni; ci penseremo noi».

Townsand fece un lento cenno di assenso. «Mi sembra che quadri, John».
«Mi è venuto in mente appena ho visto la pianta di Richards. Questione di un istante... e ne ho avuto la certezza assoluta. Come poteva esserci un errore? Un sistema allucinatorio come quello semplicemente non può trovare posto nel nostro mondo». Eggerton picchiò la mano sul tavolo di fronte a lui, e un libro che era stato di Jay Richards scivolò a terra cadendo senza fare rumore sul folto tappeto dell'appartamento. «Capisci? Non esiste equazione fra il mondo di un PK e il nostro; tutto quello che dobbiamo fare è tenere il materiale PK dove possiamo vederlo, dove possiamo confrontarlo con la nostra realtà».
Townsand rimase un attimo silenzioso. «D'accordo», disse alla fine. «Va' avanti. Se riesci a convincere il resto del Blocco Id, allora agiremo». Aveva preso la decisione. «Li butterò giù dal letto e li farò venire qui».
«Bene», disse Eggerton allungando la mano verso l'interruttore per spegnere il videofono. «Verrò subito. E grazie».
Si precipitò attraverso l'appartamento pieno di rifiuti e di bottiglie, adesso spettrale e deserto senza gli ospiti che festeggiavano. Nel giardino posteriore la polizia era già in azione, e stava esaminando la pianta moribonda che il talento allucinatorio di Jay Richards aveva portato ad una momentanea esistenza.
L'aria della notte era fredda e frizzante, quando Eggerton emerse dalla rampa sul tetto del Palazzo del Commercio. Alcune voci si levarono dal basso. Il tetto era deserto. Si abbottonò il soprabito pesante, allargò le braccia e si sollevò dal tetto. Ben presto guadagnò quota e velocità, e in pochi attimi fu sulla strada per Pittsburgh.
Mentre volava silenziosamente attraverso la notte ingurgitò grandi boccate di aria fresca e pura. Dentro di lui alla soddisfazione si contrapponeva una crescente eccitazione. Aveva individuato subito Richards... e perché non avrebbe dovuto? Come poteva sbagliarsi? Un uomo che faceva crescere aerei a reazione da una pianta del suo giardino era chiaramente un pazzo.
Era molto più facile agitare le braccia.