giovedì 4 ottobre 2018


IL LIBRO DI GIOBBE(20)
Guido Morselli
"Fede e critica"
[...] Gli eroi eponimi dell’umanità, Ulisse, Faust o Amleto, per quanto eloquenti e significativi, sono labili ombre a paragone di questo oscuro personaggio biblico che soffre con un’anima simile alla nostra, e dice le cose che anche noi ci siamo detti, le uniche cose veramente essenziali per tutti. E le conclusioni che in questo Libro si delineano, elusive o negative in apparenza, sono le stesse che molti di noi attingeranno, al fondo delle loro esperienze, di là da tante presunte certezze.[...]

  Fuori dell’apologetica di tipo speculativo, di cui Agostino rimane il riconosciuto campione (anche se le estreme conclusioni della sua opera, implicando il mistero, non paiono in accordo con l’assunto di una teodicea), il pensiero ebraico e cristiano in ordine alla giustificazione del male s’impernia sul principio retributivo. Questo sarà il nostro nuovo argomento; prima però di inoltrarci in esso, qualche parola a proposito di un’altra capitale espressione della religiosità, entro la quale si trova pure un riflesso del grande problema.
  L’esigenza di risolvere il contrasto fra la realtà del male e la realtà di Dio, non si è imposta soltanto ai pensatori della religione; si è fatta sentire talvolta anche ai contemplatori, ossia ai mistici. Se per alcuni di loro la contemplazione è serafico, ineffabile smarrimento, ve ne sono altri i quali nell’estasi si dicono in grado di vedere e di apprendere, non solo il divino Oggetto nella sua complessità, ma i singoli atti e decreti della sua volontà e provvidenza. Vi sono mistici che descrivono la visione estatica precisamente come un mezzo a chiarirsi perché ci sia il male nel mondo, perché Dio lo abbia consentito, come e perché gli uomini lo abbiano provocato. Queste esperienze si compiono nei modi peculiari alla via mistica, per cui sullo svolgimento della riflessione teologica non hanno avuto influenza, se non forse remota. Né va taciuto che la più parte dei mistici non si soffermano sul problema del male: molti (e sono i più noti, quelli che meglio si adeguano all’idea che noi per solito ci facciamo di questa maniera di religiosità), lo superano di slancio, nel fervore del loro anelito al divino, nella beatitudine della loro partecipazione. Ma la circostanza accennata, quantunque si tratti di casi isolati, appare significativa.
  Un limite rigoroso fra l’apologetica (o teodicea) religiosa di tendenza filosofica, e quella teologica propriamente detta, non è mai stato tracciato. La distinzione tuttavia è abbastanza chiara, almeno in linea concettuale: fra i caratteri evidenti della seconda, vi è quello d’essere più radicalmente apodittica, o dogmatica, anche perché essa soltanto poggia sulla rivelazione, e cioè su asserti che si presumono provenire in linea diretta da Dio. Inoltre, essa astrae da premesse metafisiche, per impiantarsi decisamente sul terreno etico. Il male morale è il male capitale, il male per eccellenza; di qui derivano tutti gli altri.
  Sull’esistenza del male, la teodicea del tipo speculativo non ha nulla di nuovo da insegnarci rispetto alle profane filosofie; le sue tesi riproducono quelle consuete dell’ottimismo filosofico. La teologia propriamente detta, viceversa, accampa un suo sistema specifico, che fa capo al criterio della retribuzione: il male esiste ed è reale, ma non può non esserci poiché è da noi meritato.21

  La superiorità di una religione non consiste tanto nell’indirizzo monoteistico, quanto nella consapevolezza che la reggitrice volontà divina dev’essere esente da arbitrio. Questa parola: arbitrio, designa così l’azione immotivata, come l’azione che ubbidisce a motivi che non siano ragionevoli o morali. Entrambe queste specie di arbitrio sono state attribuite ai numi dalle religioni primitive, o eticamente meno evolute, quali si hanno anche in istadii avanzati della civiltà, ma è certo che Dio si è inalzato nel cielo dello spirito quando si è compreso che la sovrana grandezza non doveva esserne l’unica prerogativa, che non meno necessaria gli era la giustizia (e, s’intende, una giustizia riconoscibile da noi). Una tale giustizia costituisce un attributo, e un attestato, del divino, più decisivo che non sia la stessa onnipotenza. Pensiamo alle guarigioni che avvengono a Lourdes, e ai tanti fenomeni analoghi, antichi o recenti. Nei loro confronti la questione non è, come la si pone di solito, se ci sia ‘il miracolo’; l’evento inesplicabile c’è in molti casi di sicuro; la questione è se esso fornisca un plausibile argomento in pro di Dio, e di una sua benefica presenza nel mondo. E la risposta mi pare sia negativa, proprio perché il miracolo rappresenta un fatto eccezionale (dico eccezionale, non in rapporto alle leggi della natura, ma in senso statistico); perché Lourdes è una sacra lotteria, e le guarigioni vi avvengono a vantaggio di uno o di pochi mentre innumerevoli altri individui, molti dei quali dotati di uguale fede, pur essendo altrettanto meritevoli e bisognosi, sono lasciati soffrire senza scampo né soccorso.22 Se, per vie pur prodigiose o sovrannaturali, fosse fatto conoscere agli uomini il modo di alleviare, se non di guarire, le infermità che più atrocemente colpiscono la nostra carne, se il beneficio fosse concesso non a un malato o due o dieci, ma a tutti, allora crederemmo più facilmente. Ma allora, è chiaro, si tratterebbe di un Dio non semplicemente taumaturgo. Posto che i miracoli servano solo ad attestare la imperscrutabilità dei voleri di Dio, non se ne vede la necessità. Per questo ci basta l’esperienza di ogni giorno.

  Tornando al nostro discorso: la giustizia attribuita al nume importava legalità nei suoi rapporti col mondo, quindi il male non poteva interpretarsi che come effetto della prevaricazione dell’uomo. Il male è castigo delle nostre colpe; siffatto assioma, noto col nome di principio retributivo (da non confondersi col concetto di un premio o di una pena riservati all’uomo post mortem), per il credente è materia rivelata, mentre per il critico raffigura un dato spontaneo, quantunque tardivo, della coscienza religiosa. In quanto a noi, ci accontenteremo di stabilirne, non l’origine ma il valore, o piuttosto, la funzione.

  Questo dato, in quelli che presumibilmente costituivano i suoi termini originari, non era che una generica impostazione del problema. La verità di fede che vi si enuncia – i mali terreni puniscono le nostre colpe – era estremamente comprensiva ma di altrettanto imprecisa. Le colpe onde il male è castigo, hanno luogo in ciascuno di noi, determinano a volta a volta la sofferenza che ciascuno è tenuto a subire? Se non è cosὶ, quando sono state commesse e da chi? Una colpa non è tale se non implica la facoltà di autodeterminarci; ed è poi vero che questa facoltà ci è concessa? Inoltre: supposto che siamo liberi, come mai la libertà, dono divino, include l’attitudine al male, ossia, come mai è in grado di corrompersi? Restava insomma da spiegare, per che modo la prevaricazione sia possibile da parte di quelle che devono considerarsi creature di Dio.

  Domande che possono parerci ovvie, ma che dovettero per diverso tempo rimanere senza una risposta canonica; finché la teologia, raggiunta che ebbe la maturità, non sentì il bisogno di studiare questa materia e di definirla; e a questo compito si dedicò durante l’età del suo maggior vigore, presso i cristiani ma anzitutto presso gli Ebrei, dal seno della cui religione il principio retributivo era primamente scaturito.
  L’elaborazione non fu facile né lineare. Si profilarono entro l’ebraismo correnti diverse, dovettero sorgere dibattiti e conflitti, tali, forse, da investire nell’intimo la stessa religiosità popolare. Ad attestarlo rimane, nel cuore della Scrittura, un documento di straordinario interesse, oltre che storico, psicologico. È il Libro di Giobbe.
  Venendo a parlare di quest’opera famosa, e così ignorata, mi sembra opportuna una premessa. La neutra staccatezza con cui si possono considerare altre manifestazioni della religiosità qui non sarebbe meglio che un artificio. Qui la religiosità non è semplice oggetto d’indagine, al pari di qualunque prodotto spirituale. Diviene sostanza integralmente umana, per ciò che il suo assunto ci concerne tutti quanti, quali che sieno le opinioni e le confessioni, direttamente. Con una fedeltà da fare sgomento, questo racconto è per molta parte la nostra biografia ideale, còlta nella sua crisi risolutiva. Gli eroi eponimi dell’umanità, Ulisse, Faust o Amleto, per quanto eloquenti e significativi, sono labili ombre a paragone di questo oscuro personaggio biblico che soffre con un’anima simile alla nostra, e dice le cose che anche noi ci siamo detti, le uniche cose veramente essenziali per tutti. E le conclusioni che in questo Libro si delineano, elusive o negative in apparenza, sono le stesse che molti di noi attingeranno, al fondo delle loro esperienze, di là da tante presunte certezze.

  La rivelazione del divino, della quale la Bibbia intende darci il testo definitivo, si svolge in tre momenti fondamentali. Agli estremi, la creazione e la redenzione, ossia la divinità che si manifesta e agisce apertamente e senza tramiti; al centro, nel Libro di Giobbe, il Deus absconditus, che cela il proprio volto alle creature governando la loro sorte dall’alto, e la cui parola non risuona che nel travaglio delle loro coscienze. Nel Genesi e nei Vangeli si muovono esseri privilegiati dal contatto immediato col Dio; qui invece ci rispecchiamo noi, uomini comuni e dal comune destino, che dobbiamo credere per vedere, e pei quali la sofferenza è una realtà irrefutabile e senza compenso.

   

   

  Un giorno, il Signore adunò intorno al suo trono gli angeli e gli spiriti buoni. Ma alle schiere dei figli della luce si era accompagnato il principe delle tenebre, Satana. « E il Signore chiese a Satana: Di dove vieni? E quegli rispose al Signore e disse: Ho fatto il giro della terra e l’ho visitata tutta» (Giobbe, 1, 6-7). Con questo inconcepibile dialogo, incomincia la vicenda dell’uomo di Hus. Dio e Satana a colloquio; Dio e il suo contrario, il Bene e il Male, possono stare di fronte l’uno all’altro, parlarsi, misurarsi, e l’infinito non è troppo ristretto per contenerli.

  Ci si potrebbe chiedere come un simile esordio si concilii colla ‘rigidezza’ del monoteismo giudaico, asserita ab antiquo dalla scienza delle religioni. Ma sarebbe una domanda oziosa. Gli autori della Bibbia non erano dei teorici, legati alle nostre categorie, erano dei credenti; e come osservava un illustre ebreo moderno, la stessa trascendenza o immanenza del divino è una questione che non concerne Dio, bensì soltanto gli uomini.23 Non esiste che un Dio, ma accanto a lui poteva porsi un altro ente, diverso e anzi opposto, capace di propri fini. Per gli autori della Bibbia c’erano delle zone immerse in una sacra tenebra, entro le loro stesse credenze capitali. Certo, si rendevano conto che quivi era il nodo della creazione, e il sancta sanctorum della fede. Nel Libro di Giobbe, il coesistere dei due princὶpi non è un’incoerenza del racconto, ne costituisce la ragion d’essere; non a caso si profila drammaticamente sino dalla scena iniziale. Giacché d’altra parte non dobbiamo aspettarci di trovare qui l’imprecisione fantastica della leggenda. Il Vecchio Testamento, storia e, spesso, cronaca dei rapporti fra l’uomo e il suo Signore, è una narrazione oggettiva in cui ogni avvenimento è esposto con la gravità e la perspicuità richieste da un alto intento parenetico e morale. Non vi è il favoloso, l’atmosfera sospesa e irreale che si trova nei documenti di altre religioni; lo stesso poeta dei Salmi è una natura appassionata ma concreta.24 Vi sono elementi allegorici, o che si prestano a essere intesi come tali: non vi è di proposito l’elemento immaginoso, come non vi è il mito. Ciò non significa che a questa religiosità sia estraneo il mistero; tutt’altro. I Greci ebbero pochi misteri e moltissimi miti. Degli Ebrei – il popolo più lontano per indole dalla grecità – si potrebbe dire l’inverso, e se consideriamo la nostra anima di occidentali e di cristiani, folta di misteri quanto scarsa di miti, avremo una riprova del maggior influsso che gli Ebrei hanno esercitato su di noi.

  Nella letteratura moderna, romantica e quindi pruriginosa di mischiare al mistico il sensuoso, al sacro il mondano, il ‘prologo in Cielo’ del Libro di Giobbe ha trovato più di un imitatore. Ma per noi, Satana o Mephisto è immancabilmente un simbolo, lo spirito umano insofferente del giogo religioso o morale, smanioso di tutto afferrare, cupido di tutto godere. Nel Libro di Giobbe si respira un’aura diversa; Satana è una realtà congenita al mondo; esisteva prima dell’uomo, esisterebbe anche se l’uomo, che si è creduto riempir l’universo colle invereconde vociferazioni della sua superbia, non fosse apparso mai. È autentica presunzione, non umiltà, quella che ci fa asserire che il male lo introduciamo, lo ‘inventiamo’ noi; una sottospecie dell’antropocentrismo ai cui miraggi cedono volentieri i filosofi.

  Giobbe non ha voce nel dialogo, ch’egli ignora, fra il Bene e il Male. Di lui dispongono forze che lo trascendono vertiginosamente; nella loro contesa egli è soltanto un pretesto. Situazione che ci riporta ai personaggi della tragedia greca, con una differenza ovvia e sostanziale, che per quelli il bene e il male si compendiano nel fato, entità impersonale, oscura necessità, e Giobbe invece crede in Dio, lo stimava sovrana personificazione della bontà e della giustizia, capace, e degno, di essere amato, un Dio che certo non poteva sottoporlo a una prova inutile e iniqua. Quando la calamità immeritata lo colpisce, egli vi reagisce con l’impeto di una delusione che ha accenti singolarmente alti, e insieme, violenti.

  Giobbe non è l’antesignano dei moderni critici di Dio, e suoi aspiranti sostituti: ma altrettanto poco assomiglia al paziente imperturbato che in lui ha veduto la tradizione. La sua ‘passione’ – la coscienza dell’ingiustizia che si consuma ai suoi danni, e la rivolta – ci è riferita senza attenuazioni, e costituisce, sul piano psicologico, il motivo dominante del libro. Mente e cuore affermano in quest’uomo il bisogno di sapere. Niente velleità intellettualistiche: niente esigenze dello ‘spirito’, nell’accezione retorica cara a idealisti e ottimisti; la sventura si accanisce su di lui ed egli ne chiede conto a chi, secondo la sua fede, ne è l’unico autore. Ciò che rimane immutato è questa fede: il pensiero che l’umana infelicità possa avere altre cause che il volere di Dio, non lo sfiorerà mai nemmeno, ma di tanto più la sua accusa è recisa ed è convincente. Contro di essa si spuntano gli argomenti della apologetica. Il trionfo del divino si celebra nel libro, ma dopoché le cosiddette spiegazioni, e i ‘motivi di credibilità’, sono passati in rassegna e respinti come insufficienti. La storia di Giobbe è ben altro che l’edificante ‘storia di un’anima’, o la vicenda a lieto fine dell’innocenza conculcata e premiata.

  «Perisca il giorno in cui io nacqui e la notte in cui fu detto: è stato concepito un uomo... Perché non morii nel seno materno?... Perché fu data la luce al misero e la vita a quelli che sono in amarezza d’animo? I quali aspettano la morte, che non viene, come se cercassero un tesoro nascosto, e si rallegrano grandemente quando hanno trovato il sepolcro. Perché fu data la luce all’uomo la cui via è nascosta e che Dio ha circondato di tenebre?» (3, 3, 11, 20-23).

  La parola di chi non spera più, si ripete uguale nei secoli: se la vita è un male, perché ci fu data? In principio della sua dolente disamina, Giobbe si dichiara in peccato; anche lui, come tutti, trova che la sventura è meno grave quando può parere espiazione. Ma subito gli è chiaro che non vi è corrispondenza fra il peccato e il castigo; i mali che lo hanno colpito «pesano più dell’arena del mare» (6, 3). Dal fondo della sua tristezza – «sono senza speranza, io più non vivrò» – dall’empito stesso della sua invocazione – «abbi pietà di me, che i miei giorni sono un nulla» (7, 16) – si leva a Dio la voce recriminatrice: se l’essere umano sbaglia, di chi veramente la colpa? «Perché mi hai messo in opposizione a te? quare posuisti me contrarium tibi?». «Perché non togli il mio peccato e non rimuovi la mia inclinazione all’errore?» (7, 20-21).

  Si sente reietto, si vede perseguitato con accanimento. «Se io dico: il mio letto mi consolerà e parlando con me stesso sul mio giaciglio sarò sollevato, Tu mi atterrirai con orrende visioni. Per questo l’anima mia preferisce una fine violenta, e le mie ossa bramano la morte» (7, 13-15). Sta per toccare il colmo della disperazione, quello stato in cui un essere umano fugge ogni contatto: un letto su cui buttarsi a gemere, e il pensiero della morte come ultimo rifugio sicuro. Ma nemmeno la solitudine gli è lasciata. Davanti a lui stanno tre visitatori, venuti all’annuncio delle disgrazie abbattutesi sulla sua casa: Eliphaz, Baldad, Sophar, la sapienza che contempla rigidamente austera lo spettacolo del dolore. Per sette giorni e sette notti, dice il racconto, i tre sapienti se ne erano rimasti in silenzio; infine il primo, Eliphaz, ha preso a parlare ammonendo il sofferente a pentirsi delle sue colpe e ad accogliere mansueto la riprensione divina. Nulla avviene nel mondo che non rispecchi un’alta giustizia, e chi soffre non può non esserselo meritato. Ma la smentita è pronta. Dio castiga l’innocente quanto il malvagio e, spesso, castiga solo l’innocente. «Egli moltiplicherà le mie piaghe anche senza motivo» risponde Giobbe (9, 17). Etiam sine causa; affermazione grave, quantunque trovi qualche riscontro qua e là nella Scrittura,25 e sebbene sia preparata dalle parole che l’autore mette in bocca a Dio medesimo nel suo colloquio con Satana: «Mi hai incitato contro di lui, affinché lo facessi soffrire senza necessità» (2, 3). Né Giobbe si ferma a questo; talora, egli dice, pare che Dio si rida del giusto che fa tribolare (9, 23). E di fatti, sa egli che cosa sia la sofferenza per gli esseri umani? Ha Dio «occhi di carne», «sono i suoi giorni come i giorni dell’uomo?» (10, 4-5).

  Mentre è verosimile che i discorsi coi tre visitatori (cui si aggiunge più tardi un quarto personaggio, di nome Eliu) servano a mettere in rilievo l’indole singolare del protagonista, va tenuto presente che Eliphaz e soci hanno anzitutto un’altra funzione, e cioè raffigurano una delle tendenze della teologia ebraica contemporanea nei riguardi della fondamentale questione che ci è nota. Un criterio (gli storici moderni lo chiameranno della retribuzione diretta, o materiale), che da tempo doveva essersi imposto e aver assunto carattere di dottrina ufficiale, ma a cui non mancavano oppositori, giacché, come si accennava, questa materia dava luogo a contrasti, probabilmente non sopiti mai; perlomeno al difuori della classe sacerdotale. Ciò che mi sembra comunque acquisito, si è che il dibattito verte sull’applicazione del principio retributivo, e di esso soltanto. Non si capisce come i commentatori ortodossi abbiano stimato di potervi far intervenire il principio cosiddetto perfettivo (le sventure inviate dal Cielo all’innocente per perfezionare la sua virtù). A parte che simile ‘spiegazione’ si risolve nel supporre che Dio tenti l’uomo, il che non può non apparire al credente ingiusto e quindi assurdo, il testo non offre appigli alla tesi. Vi è bensì all’inizio la singolare sfida tra Jehova e il principe delle tenebre (sfida poco edificante anche se drammatica e metafisicamente grandiosa); ma poi non se ne fa più menzione. Il protagonista non ne ha nemmeno il sospetto, e lo stesso Jehova, quando direttamente interloquisce nell’epilogo, non vi accenna in alcun modo, come non vi accennano i visitatori.26

  Giobbe, dunque, si difende con vigore; e se è esente da ambizioni speculative, non gli fa difetto una logica stringente. Asserisce di essere senza macchia e quindi di non meritare la sua disgrazia (10, 7), ma fa valere che, quand’anche la legge sia violata, non può esserne imputato l’uomo, il quale nasce da seme impuro (14, 4); ed è del resto, in tutti i suoi tratti, quale lo ha foggiato il creatore. «Le tue mani mi hanno plasmato tutto intero nei miei contorni» (10, 8); «tu hai contato i miei passi» (14, 16). «Ti pare ben fatto l’opprimere me, che sono opera delle tue stesse mani?» (10, 3). – Risulta chiaro come l’autore inclini a vedere nel male qualcosa la cui origine non si inserisce nel gioco ristretto delle cause umane, e tanto meno nell’ambito dell’azione e della volontà individuali. Ed è una veduta molto plausibile. L’imputabilità del male (del male morale), appartiene al novero degli assiomi che non si lasciano verificare. I nostri codici, legali o d’altra sorta, si riducono a sistemi di convenzioni; ma convenzione, seppure una delle più stabili, non è forse quella per cui in un rapporto di connessione (sempre estrinseca) fra un individuo e un evento, supponiamo un indizio bastevole per assegnare al primo la responsabilità, ossia la libera ed efficiente volontà, dell’evento? Le sentenze dei nostri tribunali hanno un valore giuridico e ‘storico’, solo perché noi chiudiamo gli occhi sulla necessità in cui diritto e storia si trovano d’ignorare i fattori esterni, innumerabili e incontrollabili, che ci configurano e ci condizionano.

  «Gli uomini non peccano mai se non loro malgrado» osserverà Marco Aurelio. Senza dubbio, è opportuno che in certe circostanze l’individuo si senta portato a incolpare se stesso; ne consegue un duplice utile effetto, poiché questa persuasione ci dispone ad accettare un’esigenza connaturata alla società (il bisogno, appunto, d’individuare una colpa e di farvi corrispondere una pena), e poiché, d’altra parte, vi si alimenta quella fede nella nostra facoltà di scelta e di spontanea determinazione, che è componente soggettiva precipua della personalità. Ed è bello che compiendo il bene, ci sembri in qualche caso di operare un risarcimento, di riparare un torto nostro. Ma quale consistenza attribuire alle accuse che ci rivolgiamo, riguardate che siano, non sotto l’aspetto di questa particolare sensibilità, ma da chi consideri la serie umana e naturale, di cui ciascuno di noi è solo un elemento, e la nostra azione un labile atteggiamento? Si è coerenti se si riconosce che il male non è colpa nostra né di alcuno, che il male (come è stato detto altamente) «non viene commesso, accade». La libertà non è un mendacio. Su un piano che non è quello della storia e del diritto, sussiste in quanto «idea della ragione» (direbbe Kant), o superiore certezza dello spirito: da intendersi peraltro non come possesso ma come aspirazione dell’uomo morale; immagine di un mondo in cui egli deve credere e a cui deve mirare, senza illudersi di attuarlo mai. Ma su questo supposto è ingiusto oltre che vano istituire processi, pronunciare condanne – in qualunque sede.

   

   

  La sapienza teologica torna all’assalto, in persona di Sophar e di Baldad. Ribadiscono i loro argomenti: se Dio manda delle sventure, non fa che ristabilire l’ordine turbato dal peccatore; dissennato e superbo chi non si offre prono alla vindice mano di Dio.

  Giobbe non nasconde la propria collera. «Chi non sa queste cose che voi sapete?» ribatte (12, 3). Voi, dice, offendete il Signore supponendo che gli giovino discorsi come questi (13, 7). «Quand’anche Egli mi uccidesse spererò in lui; cionondimeno difenderò le mie vie alla sua presenza» (13, 15). Non è disposto a piegarsi ad una sofferenza ingiusta, e non intende mentire: «Dirò tutto quello che la mente mi suggerisce» (13, 13). Dio non può volere che i suoi figli falsino la verità: «Nessun ipocrita sarà ammesso al suo cospetto» (13, 16). Più oltre rinnoverà tale proposito. «Finché io non venga meno, non lascerò in abbandono la mia innocenza, non rinuncerò alla mia difesa; giacché il mio cuore non mi rimprovera nulla in tutta la mia vita» (27, 5-6).

  Interloquisce nuovamente Eliphaz che gli rimprovera di usare un linguaggio blasfemo (15, 5), e rammenta le sanzioni comminate a chi si rende reo di empietà. Quegli risponde sarcastico: «I discorsi che mi fate li ho già intesi gran numero di volte. Siete dei consolatori molesti» (16, 2). – Similmente abbiamo pensato anche noi, in qualche momento, di taluni autorevoli ‘consolatori’, della loro eloquenza sacra o profana, blandiente o minacciosa. – Con l’insistenza dell’uomo rinchiuso nella cerchia ossessiva del dolore, Giobbe riprende a lamentarsi. Sospira la morte, per profondo che sia l’abisso che lo aspetta, giacché ivi almeno potrà avere pace (17, 16).27 Come per il Salmista («Dèstati, Signore; perché ti sei addormentato?» Salmo 48, 23), come per Gesù nella solitaria desolazione dell’agonia, per gli spiriti veramente religiosi, ‘all’ora nona’, subentra l’ambascia dell’anima che si sente tradita dal suo Creatore. «Per affliggermi sei diventato crudele» lamenta Giobbe (30, 21); ma già Baldad ha scagliato i suoi anatemi, contro chi si permette di «ignorare Dio» (18, 21). Pia cecità di certe nature nelle quali la fede, anche sincera, ha virtù di perfettamente ottundere ogni umana simpatia e comprensione. Nel tracciare la figura del suo personaggio, in cui il senso del divino vive con una tensione che non ha confronto nemmeno in san Paolo, l’autore, sottilmente esperto di umani contrasti, gli ha posto accanto i tre visitatori e critici, che ne conclamano la flagrante irreligiosità in nome di una gelida ortodossi.

  L’epilogo è una concitata rappresentazione della grandezza e forza del Signore, il quale compare di persona al suo servo, mentre questi si dichiara vinto e si prostra adorando. Giobbe finalmente si è persuaso che la lotta è impari. Farà penitenza nella polvere e nella cenere, e non parlerà più, promette alla rutilante maestà di Jehova. «Porrò la mia mano sopra la mia bocca» (39, 34).

  Un finale diverso, che salvi l’esteriore coerenza del personaggio, non è difficile immaginarlo. Questa improvvisa conversione non è fatta per piacere agli intelletti cartesiani, per cui anche nelle cose dell’anima tutto ha da essere rettilineo e univoco e lampante. In realtà l’autore ha prospettato l’unica conclusione ragionevole. La nostra vicenda spirituale non può ridursi a denegare la razionalità del mondo e la bontà della vita. Non è per nulla sicuro che insorgere contro il nostro destino sia sempre sterile e stolto, ma certo non può trattarsi di una posizione definitiva. Nei riguardi del sentimento religioso ciò si traduce in termini assai semplici: il Dio che affanna e atterra è poi un Dio clemente, che dà, quando e come lo crede, la grazia della rassegnazione.

  Nel racconto si potrebbe se mai riconoscere una lacuna. Vi è descritta la contrizione di Giobbe; manca la sua confutazione. Osservando meglio ci si accorge che nella apparente lacuna risiede il significato essenziale del libro. Il Cielo non condanna le nostre reazioni alla sventura, non si vendica nemmeno se rompiamo in aperta rivolta. Una cosa il Signore non tollera: di chiarire all’uomo la propria condotta. Egli non dice che Giobbe abbia torto; afferma di essere l’onnipotente e l’invitto, di aver diritto all’incondizionato ossequio della creatura; altro non dice. Coerente con ciò il suo comportamento nei confronti di Eliphaz e degli altri sapienti. Sarebbe da attendersi che, pur decidendo di reintegrare il sofferente nell’antica felicità, il Signore rendesse atto a quelli di aver difeso i suoi decreti con ogni possibile zelo. Invece li apostrofa duramente: «Avete parlato senza rettitudine, avete suscitato la mia ira» (42, 7). Non si dimentichi che i discorsi fatti da loro si compendiano nell’asserzione che il male non è disposto se non come castigo del peccato. Vale a dire, essi si sono attenuti al principio retributivo. Dovremmo ricavarne che tale principio è condannato qui, nel cuore della Scrittura, senza appello?

  Vedremo di chiarirci più in là questo punto, che è di estrema importanza per la questione che ci interessa. Per intanto, merita di stabilire quella che rappresenta la ‘morale’ esplicita del racconto. Non è superbia ricusarsi ad ammettere che il male sia colpa nostra; superbia è invece voler penetrare l’impenetrabile, indagare i voleri del Signore, sia pure nell’intento – pio ma non modesto – di assumersi il suo patrocinio. «Volete farvi gli avvocati della causa di Dio?» domanda Giobbe: «Forse che Dio ha bisogno delle vostre menzogne?» (13, 7-8). – Il male non si lenisce predicando a chi soffre, che soffre meritatamente perché ha peccato. Guardiamoci dal metterci con i difensori d’ufficio della divinità, contro i nostri simili che piangono, giacché oltretutto ci attireremmo la collera celeste.

  «Ce n’est pas la divinité / C’est l’humanité que Dieu venge», ha detto un moderno, con la limpida comprensione dei fatti spirituali che qualche volta è della poesia.28
  La tragedia greca, e ancor meglio quella genericamente ‘classica’, assegna all’eroe una costanza indefettibile, una rigidezza statuaria. Qui, invece abbiamo la cangiante mobilità della vita. Quanto impassibili e immoti sono i tre spettatori nella loro ostinata animadversione, tanto vari e commossi gli accenti del perseguitato. Rimprovera loro di non avere un gesto di solidarietà, e subito dopo li scongiura di non abbandonarlo. «Abbiate pietà di me, abbiate pietà almeno voi, mentre la mano di Dio mi percuote» (19, 21). Dopo avere assalito il Cielo con le sue querele, Giobbe si impone ancora di credere, e in un ritorno convulso di speranza afferma: «Io so infatti che il mio redentore vive e che nell’ultimo giorno mi farà risorgere dalla terra» (19, 25). Parole di così ardente fiducia non avrà neppure nell’ora del finale ravvedimento, ma poco più in là confessa che nessuna luce gli rimane, che non vi è più Dio all’orizzonte del suo spirito. «Se vo verso l’oriente egli non comparisce, se vo verso l’occidente non lo scorgo. Se vado a manca, che farò io? non posso raggiungerlo; e se vado a dritta io non lo vedrò...» (23, 8-9). Allorché gli sembra di averlo ritrovato, è nuovamente per lagnarsi di lui. «Ti chiamo e tu non mi ascolti; sono qui, e tu non mi guardi» (30, 20).
  In questo fluttuare dell’animo, un atteggiamento emerge: quello dell’accusa; un’accusa di cui gli uomini non sono che incidentalmente l’oggetto. Giobbe non ammette che Dio punisca in lui un peccato: egli è incolpevole, ne ha la certezza e ne porta le prove (31, 1-34); d’altronde, se avesse mancato, la colpa non sarebbe sua, ma di chi lo ha esposto alla tentazione, di chi lo ha messo in ‘opposizione’ alla fonte del bene. Si colpisce dunque arbitrariamente; a un certo punto egli griderà ai suoi contraddittori: «Ora almeno capacitatevi che Dio mi ha afflitto con giudizio non giusto, Deus non aequo iudicio afflixerit me» (19, 6).

  La tradizione ha voluto vedere in Giobbe il tipo dell’acquiescenza totale e fanatica, senza curarsi che il testo rivendichi in lui con energia la qualità di creatura che soffre e ne chiede ragione. «Giacché, quale fortezza è la mia per durare? O qual fine sarà il mio per cui io mi regga con la pazienza? Non è fermezza di sasso la mia fermezza, e non è di bronzo la carne mia» (6, 11-12). La tradizione, dal De Patientia di Tertulliano al commento del vescovo Martini, esclude che ci sia stata rivolta, e con ciò fraintende l’assunto capitale del libro: che Dio è disposto a indulgenza verso chi insorge contro i suoi decreti, ma non verso chi pretende svelarne il mistero, subordinandoli ai criteri di una legalità rigorosa bensì, ma antropomorfica. Si può capire che il timore di scandalizzare gli innocenti abbia prevalso. Resta il rammarico che le esigenze didattiche vadano così raramente d’accordo coll’insegnamento più vero e sostanzioso; ed è strano poi che autori laici e indipendenti abbiano accettato a occhi chiusi l’interpretazione convenzionale. Basterà citare un Dostoevskij.29

  «Non aequo iudicio afflixerit me». È Dio stesso, in ciò che costituisce il suo maggiore attributo, che Giobbe osa contestare. Eliphaz e gli altri, sbagliano incolpandolo di ignorare Dio, perché non vedono che negare è cosa diversa dall’ignorare, che la negazione appassionata è una testimonianza, più valida della compunta devozione; ma non è inspiegabile che essi notino, come fanno, Giobbe di bestemmia (34, 37). In realtà Giobbe è ben lungi dall’essere un reprobo, ma è, o è stato, un ribelle, un accusatore. Il divario fra lui e il credente comune, che conosce a un tratto l’amarezza del disinganno e geme e inveisce, non va cercato nel suo finale incondizionato sottomettersi: ma nel vigore meraviglioso con cui egli asserisce la sua e la universa dipendenza da Dio. È questa coscienza, così risoluta, della realtà divina operante senza intermediari e senza intervalli, che fa di lui un santo, sia pure di una santità alquanto lontana da quella regolare e canonica.
  Coloro che ‘scusano Dio’ per imputare se stessi, sono talvolta i medesimi che aprono la strada ai cosiddetti umanesimi, divinizzatori dell’Uomo. Giobbe è di ben diversa tempra; nemmeno per un attimo egli pensa di poter disgiungere le sciagure che lo colpiscono, dalla sovrana volontà del suo Signore, come mai non gli è avvenuto di attribuire il bene ad altra causa: alle proprie virtù, per esempio. Dalla veemenza della sua recriminazione, vi è da attingere per gli spiriti religiosi una lezione di umiltà; tra i fini di chi ci ha trasmesso la sua storia, c’era probabilmente anche questo, niente affatto paradossale.

  Note
20

  Le citazioni dal Libro di Giobbe seguono la Volgata e le sue versioni correnti. Non mi è parso necessario rifarmi alle edizioni che attingono direttamente al testo ebraico; gli intenti ch’io mi proponevo erano tutt’altro che di ordine filologico. Del resto, la Volgata traduce Giobbe con buona fedeltà.

  21

  Accanto al principio retributivo si adducono a spiegare il male due altri criteri, che però nello svolgimento della riflessione teologica vera e propria hanno scarso rilievo.
  Il criterio correttivo o medicinale: le sventure di cui soffriamo non avrebbero sempre funzione di castigo; qualche volta servirebbero più specificamente a far ravvedere il peccatore, e a risparmiargli così pene maggiori. È una semplice variante, o un’attenuazione, del principio anzidetto.
  L’altro criterio si richiama all’impiego perfettivo del male medesimo: le sventure inviate non al colpevole ma all’innocente, per saggiare o accrescere la sua virtù. Il difetto di tale interpretazione è in questo, che riesce molto difficile distinguere tra un Dio che si prefigge di perfezionare le sue creature, e un Dio che semplicemente si compiace di sottoporle a gratuiti e crudeli esperimenti, come lo Jehova del Prologo al Libro di Giobbe. Meglio convenire con quella sentenza della Scrittura, in cui è detto che «Dio non tenta nessuno» (Giac. 1, 13); in verità, se egli tentasse le creature non sarebbe più buono e giusto, anzi si abbasserebbe al livello umano. E ad ogni modo, si porrebbe il dilemma: o Dio non può ottenere il perfezionamento delle anime per altre vie; e ciò significa che ci sono limiti alla sua volontà. O lo può; e allora è inammissibile che non lo voglia.

  22

  I motivi della scelta sono imperscrutabili? Ma quando diciamo che gli dèi del paganesimo reggevano il mondo a capriccio, lo diciamo fondandoci su di un criterio nostro. Se attribuiamo al Cielo la giustizia, deve trattarsi di una giustizia comprensibile, verificabile da noi. Altrimenti, come distinguere tra la Provvidenza ‘giusta’ e la volontà di Giove ‘arbitraria’?

  23

  Martin Buber, Sette Discorsi sull’Ebraismo, vers. ital., Firenze, 1923, p. 100.

  24

  «Chiarezza, calma e oggettività» sono le doti caratteristiche del dettato biblico, è stato detto giustamente (S. Bernfeld, Storia della Letteratura Ebraica Antica, Milano, 1926, p. 12).

  25

  Cfr. ad esempio Geremia 12, 1; Sal. 72.

  26

  Certe parole di Eliu, ultimo degli oratori intervenuti nella disputa, sono state intese da qualche interprete come se alludessero allo scopo medicinale, o disciplinare, che ha talvolta la sventura, inviata da Dio al peccatore per farlo ravvedere e risparmiargli pene maggiori.
  Si tratterebbe, però, di accenni brevissimi, oltre che molto oscuri; e ad ogni modo, quest’altra interpretazione è da respingere, in quanto urta contro il fatto che Giobbe è riconosciuto sin da principio (e per bocca di Dio stesso) uomo «semplice e retto», anzi «impareggiabile» fra gli umani (1, 8, 2, 3). Dunque nel suo caso la sventura non può avere finalità correttiva.

  27

  L’idea che Giobbe si fa della dimora dei morti non è diversa da quella che è tipica del giudaismo, almeno per gran parte del suo svolgimento; un’idea che non ha quasi analogie con la visione dell’immortalità delle anime, e di un premio eterno riservato ai buoni. Tuttavia non direi che il dramma dello spirito religioso di fronte alla realtà del male, questo dramma che si agita così vividamente nelle pagine del racconto, sorga dalla convinzione che non c’è alcun compenso ultraterreno alle nostre sofferenze; come ha sostenuto G.F. Moore, nella sua celebre Storia delle Religioni.
  Giobbe si rende conto che ciò che revoca in dubbio la bontà e la giustizia di Dio (e quindi, Dio medesimo), è l’irrazionalità di questo nostro mondo, e null’altro. Ben poco giova la prospettiva di un compenso ultraterreno quando non si possa giustificare il male che regna quaggiù, conciliandone la realtà con la presenza di un superno e giusto reggitore. Se il male è immotivato, se nasce dall’arbitrio o dal caso, nessun premio concesso postumamente alle creature, varrà a salvare Dio dalla loro accusa. Se invece l’uomo giunge a convincersi che il male sia secondo giustizia, il risarcimento ultramondano può non esserci, senza che perciò vi sia ragione a recriminare.

  28

  Questo bel verso, in cui è più genuino senso religioso che in molti volumi di teologia morale, appartiene all’Ahasvérus di Edgar Quinet: un autore che, se ebbe molti meriti verso il liberalismo, in religione non fu precisamente un ortodosso.

  29


  Alludo al racconto dello stariez Sossima, nei Karamazov.