martedì 9 ottobre 2018


L'OMBRA DEL VENTENNIO
Adriano Sofri
https://www.ilfoglio.it/politica/2018/10/08/news/lombra-del-ventennio-217759/

La demagogia, il sovranismo, la xenofobia, la seduzione del capo. Solo sfascisti nella coalizione Lega-M5s? Adriano Sofri rilegge immagine e realtà del fascismo, la sua costruzione e la continuità col passato. Una spregiudicata indicazione di assonanze con i giorni nostri.
 [....] Il punto sta nella degradazione della democrazia e delle libertà a opera di movimenti politici caratterizzati dalla impudente demagogia, dalla xenofobia e dal razzismo (contro “i migranti”, ma con una irresistibile tentazione verso l’antisemitismo “sociale”, il diabolico Soros), dal nazionalismo-sovranismo, dal gregarismo e dalla seduzione del capo, dalla frustrazione culturale e dall’insofferenza per i diritti. E dalla compiaciuta cattiveria, giustiziera del buonismo e del pietismo. La coalizione fra Lega e Movimento 5 stelle, chissà quanto duratura nella forma iniziale, chissà quanto compatta in ciascuna delle due componenti, è l’attrice di questa mutazione, tutt’altro che inficiata dalla “continuità”.[...]
Perché l’Italia che deve commemorare, che sta commemorando, gli ottant’anni dalle leggi razziste, inclina al razzismo e applaude e si fa gli autoritratti coi razzisti al governo? Il fascismo era un’altra cosa, ammoniscono. Lo so, ho letto i libri, tutto è stato sempre un’altra cosa, diversa dalla prossima. La prossima c’è già. Leggo un altro libro che promette di servire, si intitola “La macchina imperfetta. Immagine e realtà dello Stato fascista”, è edito dal Mulino, ha più di 600 pagine, ho fiducia nell’autore, Guido Melis. Il titolo spiega l’intenzione: mostrare come all’immagine del totalitarismo fascista non corrispondesse la realtà, più contraddittoria e complicata. E’ convincente che sia così e perfino ovvio, ma non è il punto che mi interessa. Piuttosto, per illustrare le contraddizioni del regime fascista e dello stesso Mussolini, Melis ricostruisce i modi in cui sotto la madornale facciata sovversiva e innovatrice continuino e si adattino istituti abitudini mediazioni e persone che hanno segnato il liberalismo autoritario prefascista. Mi interessa questo e ne so pochissimo perché, quando leggevo di più, la continuità che coinvolgeva e scandalizzava buona parte, una parte buona, della mia generazione era quella fra il fascismo sconfitto e la democrazia repubblicana che gli era succeduta: lo scandalo dell’epurazione mancata e sbeffeggiata dalle sentenze, o dell’amnistia di Togliatti, che quella continuità compendiava, anche per chi non escludesse una saggezza fra realista e umana dell’amnistia ma sentiva ributtante la clausola dei “crimini particolarmente efferati” e l’applicazione che la magistratura era stata pronta a darle.
Dunque abbiamo a che fare con una doppia continuità, Sabino Cassese riassume così: “Definire ‘lo Stato fascista’ è difficile, perché, al di là della sua proclamata natura totalitaria, le sue radici affondano nell’Italia liberale e le sue istituzioni sopravvivono alla caduta del fascismo…”. Dunque il fascismo non fu né una parentesi né un’invasione degli Hyksos, come pensò – si augurò – Benedetto Croce.
Ora anche a me interessa l’altro capo, quello dell’inizio, come nell’attuale trapasso da un regime ancora più o meno democratico (alla democrazia si addice il più o meno) a uno non più democratico e che si rivendica novissimo. La cronaca elenca i nomi dei direttori generali e dei capi di gabinetto che i novissimi e inetti ministri ereditano dai ministeri precedenti. Penso esattamente il contrario di quello che sembrano pensare per lo più i commentatori “moderati” – la moderazione, altre volte stimabile, sconfina già nella viltà quando le persone stanno sequestrate, oltraggiate e usate come ostaggi sulle barche della repubblica alla fonda: pensano che il ricorso a un personale provato sia inevitabile per un nuovo potere incompetente e arrogante in proporzione, e che una dose di continuità burocratica offra un argine allo sconquasso delle istituzioni, dell’economia e della vita pubblica. Penso il contrario, che quel travaso di competenze – dove ci sono – e se no di sottopoteri notabilari e burocratici non impedisca e nemmeno ostacoli la degradazione dello stato e della vita pubblica, proprio come avvenne col fascismo. Forse sono in disaccordo con lo stesso Melis, o con un suo riconosciuto maestro come Sabino Cassese, benché faccia completo credito alle loro ricostruzioni sulle aporie, le falle, le contraddizioni e le esitazioni della dittatura fascista. Intendiamoci, il giudizio di Melis è intransigente e antifascista, per così dire (io dico così) e non c’è discussione su questo. Solo che al Melis storico importa studiare e mostrare la complessità e la complicazione, la seconda più della prima, della macchina fascista, che una storiografia più vicina nel tempo e animosa era meno incline a riconoscere e magari più preoccupata che attenuasse la condanna. La mia conclusione, di lettore senz’altro profano e coinvolto, alla fine del grosso studio di Melis è più semplice di quanto fosse all’inizio: tutte le “imperfezioni” che hanno intralciato gli ingranaggi della macchina fascista non hanno impedito e anzi hanno pressoché inesorabilmente portato all’imperialismo colonialista, al razzismo, alla guerra dalla parte più infame, alla complicità larghissima del popolo e tanto più ignobile quanto più qualificata, a cominciare dall’università.
Dal punto di vista storico la questione somiglia a una di quelle poesie di Brecht che hanno un’andata e un ritorno. La lode del dubbio: “Sia lode al dubbio! / Oh bello lo scuoter del capo / su verità incontestabili! […] Con coloro che non riflettono e mai dubitano / si incontrano coloro che riflettono e mai agiscono. / Non dubitano per giungere alla decisione, bensì / per schivare la decisione. Le teste / le usano solo per scuoterle”. Se il fascismo, nonostante la pretesa totalitaria, fosse attraversato da contraddizioni, renitenze di corpi rivali e sopravvivenze “liberali”. O se il fascismo, nonostante contraddizioni renitenze e sopravvivenze fosse un regime totalitario. Ecco una citazione di Melis da un’intervista sul suo libro: “Lungi dall’essere marmoreo e impenetrabile [lo Stato fascista] era invece poroso; e nei suoi pori, dentro i singoli istituti, si manifestavano gli interessi (economici, sociali, collettivi ma anche spesso individuali).
In ciò lo Stato fascista, pure dittatoriale e persecutorio verso le libertà, non differiva molto dagli Stati del suo tempo, anche dalle democrazie”. Non vi viene voglia di un ritorno brechtiano? “In ciò lo Stato fascista, pur non differendo molto dagli Stati del suo tempo, anche dalle democrazie, era dittatoriale e persecutorio verso le libertà”
Impiego questo termine, totalitario, consapevole di una sua peculiare ambiguità e anzi proprio per questo. L’ambiguità è costitutiva e paradossale se si ricordi che l’aggettivo totalitario, arrivato a noi sulla scia della riflessione sull’orrore in cui precipitò in Europa la prima metà del secolo scorso, era pronunciato dai fascisti nella più positiva delle accezioni: il totalitarismo era ciò cui la rivoluzione fascista aspirava. In quella nozione c’era soprattutto il sequestro della persona e la sua consegna al corpo sociale disciplinato e al suo capo, la politica “totale”. Succede così anche con la parola Dittatura – qui non erano solo i fascismi a vedervi un riparo alla democrazia, ma il comunismo sentiva il bisogno di fare titolare della dittatura il proletariato. Succede così anche con le parole Razzismo, Razzista. Parole sacre, obbligate al gergo fascista. Il razzismo “totale” era la meta cui tendere. Venuti dopo Auschwitz (molto dopo, pensa con fastidio qualcuno) noi stiamo attenti a dire “Non sono razzista, ma…” (ancora per un poco, almeno). I pochissimi buonisti di allora – “pietisti”, li chiamavano, con lo stesso disprezzo di oggi – che ottant’anni fa si attentassero ad attenuare la persecuzione di un ebreo – anche il più illustre, il più patriottico, il più fascista perfino – doveva esordire dicendo: “Sono razzista, ma…”. Si teme un abuso del sospetto o dell’accusa di razzismo, oggi. Allora si accusava spietatamente qualcuno insinuando: “Non è razzista!”
Lo scorso febbraio il Giornale ha pubblicato una recensione al libro di Melis il cui titolo esemplifica bene il mio dubbio: “Studiare la storia per smontare l’allarme fascismo”. L’autore è a sua volta uno storico del fascismo, Francesco Perfetti, apprezzato allievo e continuatore di Renzo De Felice. “Negli ultimi tempi – scrive – la polemica politica, attraverso la riscoperta di un risibile pericolo neo-fascista, ha riportato indietro di interi decenni i discorsi sul fascismo, addirittura all’epoca precedente gli studi defeliciani. […] In una situazione del genere è da salutare con grandissimo apprezzamento l’uscita in libreria di un importante e denso saggio di Guido Melis”. La dialettica e la continuità scrupolosamente documentate fra l’Italia prefascista e il fascismo fa concludere che “il traguardo della realizzazione di uno Stato totalitario non venne raggiunto”. Conclusione che è in effetti dello studio di Melis: più problematica mi pare la sua relazione col “risibile pericolo neo-fascista”. Immagino che Perfetti intenda gruppi e persone che si rivendicano ostentatamente fasciste e che vengono volentieri sbrigati come casi di folklore squadristico. Il punto non è qui. Il punto sta nella degradazione della democrazia e delle libertà a opera di movimenti politici caratterizzati dalla impudente demagogia, dalla xenofobia e dal razzismo (contro “i migranti”, ma con una irresistibile tentazione verso l’antisemitismo “sociale”, il diabolico Soros), dal nazionalismo-sovranismo, dal gregarismo e dalla seduzione del capo, dalla frustrazione culturale e dall’insofferenza per i diritti. E dalla compiaciuta cattiveria, giustiziera del buonismo e del pietismo. La coalizione fra Lega e Movimento 5 stelle, chissà quanto duratura nella forma iniziale, chissà quanto compatta in ciascuna delle due componenti, è l’attrice di questa mutazione, tutt’altro che inficiata dalla “continuità”.
Naturalmente a uno storico preme ricostruire e interpretare i fatti così come sono effettivamente andati, e Melis lo fa in modo eccellente. La sua indagine, anche statistica, segue particolarmente, oltre e dentro la continuità degli “istituti”, quella delle persone: le quali trapassano con zelo fanatico o con zelo calcolato o con calcolo privo di zelo dall’affermazione di sé e del proprio patrimonio di competenze e potere dallo stato liberale a quello fascista. Le eccezioni insigni sono pochissime, le eccezioni coraggiose non poche. “Dal 1927 all’entrata dell’Italia in guerra nel 1940 il Tribunale speciale giudica 5.619 imputati, di cui 4.596 raggiunti da sentenze di condanna per un totale di 28.000 anni di galera, e pronuncia 9 condanne a morte… Tra il 1926 e il 1943 vennero assegnati al confino circa 12.300 oppositori politici…”, così riassume Guido Neppi Modona in una recensione. Dopo la conquista fascista del governo, “tutti i vecchi direttori generali restarono in sella”. Non molto diversa fu la vicenda dei capi di gabinetto. Ci fu chi protestò contro il tradimento della purezza fascista da parte di una burocrazia “astutissima”…
Le carriere all’inizio o a mezza via, e anche, spesso più accanitamente, quelle già pervenute assai in alto, trovarono nello stato fascista spazi abbondanti in cui accomodarsi e alibi sufficienti – perfino all’indomani delle leggi razziste, quando gli spazi lasciati dai docenti e studiosi ebrei furono presto ed entusiasticamente occupati: eppure si trattava della costruzione di un regime “totalitario”. Come volete che siano impensierite le carriere di oggi rispetto a un novissimo governo che pure vanta di rimandare i migranti in Libia e che sorteggia il suo presidente fra mediocri curriculum universitari? Tuttavia, leggendo, ho avuto l’impressione che lo stesso Melis oscillasse fra la sottolineatura – altrimenti troppo ribadita – dell’“imperfezione” della macchina fascista, e l’avvertimento dell’inanità di quella imperfezione a intralciarne gli ingranaggi e del destino degli “imperfetti” a risultare comunque complici
Nelle prime pagine si cita una lettera confidenziale in cui, dieci giorni dopo la marcia su Roma, un prefetto riferisce al suo vecchio principale, Francesco Saverio Nitti, primo ministro fino al 1920, della situazione interna al Viminale dove ha appena fatto ingresso Mussolini, capo del governo e ministro dell’interno. “E’ impressione generale – scrive – che molta acqua sarà messa nel vino fascista”. (Dove avevo sentito quell’espressione? Non era tanto tempo fa. Infatti, era il settembre del 2017, dopo il referendum costituzionale, prima delle elezioni politiche, e nel noto Forum Ambrosetti era stato l’ex primo ministro Mario Monti a dirsi felicemente sorpreso che “oggi c’è molta acqua nel vino degli euroscettici”). Nitti, bestia nera di D’Annunzio, dignitosa persona, qualche mese dopo l’insediamento fascista scrisse a sua volta a Giovanni Amendola: “Bisogna che l’esperimento fascista si compia indisturbato: nessuna opposizione deve venire da parte nostra […]. Se l’esperimento non riuscirà, nessuno potrà dire che l’insuccesso dipende da noi…”. Sentita di nuovo anche questa, no?
Fra le limitazioni istituzionali al potere totalitario si evoca l’anomala – rispetto alla Germania nazista, per esempio - permanenza della monarchia e delle sue prerogative, che avrebbe dato luogo a una “diarchia”. In realtà quella diarchia non fu imperfetta, fu di facciata, da parata. Delle proprie prerogative il re non fece uso al di fuori dei mugugni o delle ire private, fino al 25 luglio del 1943. O piuttosto: Melis ricorda che Vittorio Emanuele, dopo aver approvato senza riserve l’avvio, la conduzione e la conclusione della guerra d’Etiopia, “la più grande guerra coloniale che la storia ricordi”, che lo rese imperatore, minacciò nel 1938 di non firmare la proposta di legge che assegnava a lui e a Mussolini, e solo a loro due, il grado di Primo Maresciallo dell’Impero. Poi passò sopra alla suscettibilità e firmò. Firmò senza problemi, in quel 1938, le leggi razziste. Giuseppe Bottai, ripugnante razzista, intelligentissimo fascista, in un brano di diario chiama il rapporto Vittorio Emanuele-Mussolini “binomio”, che sembra molto più appropriato. E argomentando che un tal binomio sarebbe stato impossibile con un’altra coppia di persone, immagina che si arrivi a una figura unitaria, un re né assoluto né costituzionale, “un Re di Stato totalitario, espressione del popolo organizzato” (giugno 1938).
Chi vuole può aggiornare il tema a quello attuale del rapporto costituzionale e di fatto fra novissimo governo Lega-Cinque stelle e presidente della Repubblica: una diarchia lei sì imperfetta e soprattutto provvisoria. Un parlamento esautorato e fedele saprà prima o poi riallineare Palazzo Chigi, o piuttosto il Viminale, e il Quirinale. Per il ventennio fascista, Melis ricorda che alla diarchia Duce-re si aggiungeva anche un terzo attore, la chiesa, la cui “penetrante forza condizionante creava un ostacolo alla completa realizzazione dello Stato totalitario”. Un’analoga integrazione si può fare per il presente: l’episodio dell’intervento della Conferenza episcopale nella soluzione del sequestro di migranti sulla nave Diciotti il 25 agosto è stato singolarmente significativo. La chiesa si è mossa come uno Stato extracomunitario – con l’Albania e l’Irlanda! – non ospitando i naufraghi nella Città del Vaticano ma in Italia: uno Stato nello Stato di fatto, inconcepibile benché a fin di bene, se non fosse stato autorizzato e comunque tacitamente accettato dal governo, bisognoso di tirarsi fuori da un disastro legale oltre che disumano.
Siccome non è a una recensione di Melis che aspiro ma alla spregiudicata indicazione di assonanze con i nostri giorni, citerò anche il passo in cui si tratta non dei continuatori del regime prefascista ma dei nuovi, gli uomini che la militanza fascista promuove nel potere. “Un’intera leva di attori politici, che per età anagrafica o per emarginazione di classe prima del fascismo sarebbero stati esclusi dal potere locale, rivendicò con singolare determinazione e voracità i propri ‘diritti’, pretendendo di esercitare, in nome della ‘rivoluzione’ in camicia nera della quale erano stati i protagonisti, una sorta di individuale ‘diritto alle spoglie’. Talvolta in contrasto acerrimo l’uno con l’altro”. Questa leva, forse la prima leva di massa di professionisti della politica, nel senso stretto di stipendiati dalla politica, attingeva molto più che “ai capoluoghi di provincia ai piccoli e piccolissimi centri, spesso anche alle frazioni”. 
Fra le differenze con il collocamento statale e parastatale della alleanza Lega-Cinque stelle c’è la loro ormai annosa presenza nei luoghi del potere pubblico: la Lega, addirittura, si vanta il più antico partito italiano. Ma le elezioni politiche del marzo 2018 hanno trasformato i vincitori, e il loro accordo, in una colossale agenzia di collocamento di persone selezionate largamente col criterio della fedeltà e dell’entusiasmo, della voracità. Attenendosi al Ventennio, Melis lo scrive così: “[al partito era affidata] la selezione dei quadri ‘militanti’: anche qui secondo una accezione tutta particolare, configurandosi cioè non come partecipazione dal basso e ascesa dei migliori ma come selezione sulla base dell’adesione fideistica, della cieca obbedienza, della conformazione acritica al ‘comando’ dall’alto”.
Melis arriva a chiedersi: “Sarebbe legittimo domandarsi se l’Italia, che si proclamava a gran voce fascista, lo fosse alla fin fine davvero. La domanda non sarebbe oziosa. L’osmosi, che pure certamente era in atto e agiva in molti settori della società, lasciava però sussistere ampie aree forse (anzi, certamente) non di dissenso, ma di adesione solo formale, cioè priva – avrebbero lamentato (e lamentavano) i fascisti della prima ora – della necessaria ‘passione’ militante”.
Qui, se non fraintendo, si registra un nuovo capitolo, il terzo, delle tendenze prevalenti nel giudizio sul consenso profondo al fascismo. La prima più militante si figurava, o voleva figurarsi, una dittatura imposta con il terrore al popolo italiano. (Ma il riconoscimento precoce dell’ampiezza del consenso e di una dimensione di “guerra civile” del 1943-45 venne anche dal realista Togliatti e dalla storiografia limpidamente antifascista, come esemplarmente in Claudio Pavone). La seconda insisteva soprattutto sulla vastità dell’adesione popolare al fascismo (convinzione che era stata anche di una aristocratica amarezza azionista). Il dubbio, se tale è, di Melis, riguarda l’adesione popolare o le riserve e le simulazioni e le dissimulazioni di funzionari e gruppi collocati su vari livelli nella gerarchia pubblica? C’è comunque una parte in cui, trattando dei poteri locali, Melis tocca la questione: “O forse c’era qualcosa di più, una sorta di linea d’ombra che nascondeva un’Italia minore, in sordina, l’esatto contrario (senza esserne mai consapevole, però) dell’Italia in camicia nera che occupava le piazze e i cinegiornali Luce”.
Melis ricorda la convinzione di un altro illustre storico del fascismo, Emilio Gentile, che invece il fascismo abbia realizzato un progetto coerente di “via italiana al totalitarismo”. Gentile sostiene in particolare che “il fascismo è stato il primo movimento del nostro secolo [cioè del secolo scorso] che ha portato il pensiero mitico al potere…”. Riferito a una “religione politica” di massa col suo culto del duce, con le sue credenze, i suoi riti e i suoi simboli, il “pensiero mitico al potere” suona sinistramente famigliare anche un secolo dopo, quando persone nate dopo che un uomo ha messo il piede sulla luna vanno al potere negando che sia mai successo: “La verità è sempre un’altra rispetto a quello che vi vogliono far credere”.
La domanda, in buona parte retorica, si ripete in fondo a ogni capitolo dell’indagine di Melis, e più clamorosamente riguardo al diritto: “Viene da chiedersi: ma, in definitiva, ebbe poi il fascismo una sua idea univoca, coerente della politica del diritto?”. Domanda che ha in sé la risposta. Articolata attraverso la ricostruzione di un trasformismo di uomini e dottrine giuridiche. “Il morto afferrava il vivo, si potrebbe dire: il metodo, i principi, l’articolazione stessa della logica giuridica, il linguaggio, lo stile restavano quelli antichi, sia pure mascherandosi talvolta in forme moderne”. Nell’impresa del codice Rocco come in quella del codice civile l’innovazione è più quantitativa che di qualità – nel penale, indurimento delle pene, riduzione dei diritti di difesa, misure di sicurezza, protezione “politica” delle forze di polizia accusate di reati, rafforzamento dell’accusa nel processo ecc. Nel civile, episodi come la parte primaria assegnata da Grandi al “non fascista Calamandrei” (con l’assenso di Mussolini), o quella di Vassalli, sollevano un’ardua questione morale e fanno dei Codici “un enigma, o quanto meno la prova dell’ambiguità del fascismo”. Ma è spaventoso pensare che quell’ambiguità avvolgeva un paese in cui le leggi razziste erano state approvate e attuate. Il “nicodemismo” prima della guerra d’Etiopia e delle leggi razziste e dell’entrata in guerra con la Germania nazista cedette il passo addirittura a modi anche impegnativi di “collaborazione” dopo. La legislazione del periodo fascista forse non fu fascista, o non lo fu “abbastanza”: ma non ne ebbe bisogno.
Per ognuno degli ambiti dello Stato e della vita pubblica che passa in esame, Melis rintraccia e fa emergere le anomalie, le falle, i tasselli fuori posto: è il centro del suo studio. C’è un doppio confronto internazionale da rilevare. Con i paesi occidentali democratici, nei quali la disciplina e l’economia di guerra e le trasformazioni della produzione di massa hanno spinto a una concentrazione delle decisioni di governo e a un intervento pubblico nell’economia, che sono anche del fascismo e anzi costituiranno la sua vera “rivoluzione involontaria”, come la creazione dell’Iri, ben più importante del programma corporativo. E con i paesi dittatoriali, Germania e Urss, nei quali il totalitarismo appare ben più compatto e conseguente. Si rischia la tentazione di veder rispuntare per questa fessura l’italiano brava gente, il luogo comune sui tedeschi che vanno fino in fondo e gli italiani che segnano il passo e si disperdono per strade traverse. La ricerca di Melis è anche, fin dal titolo, l’omaggio reso alla perspicacia di Giaime Pintor, che nell’ottobre 1943, un mese prima di passare le linee e trovare la morte, scriveva: “Lo stato totalitario moderno è una macchina che si muove con poche leve e pochissime persone… In Italia lo Stato fascista era una macchina che funzionava malissimo, i suoi congegni erano rozzi e imperfetti, e a ciò si deve se, a differenza di quanto avvenne in Russia e in Germania, larghe sfere della vita pubblica rimasero in sostanza immuni dalla sua azione”.
Tutta questa discussione ha un appuntamento a lungo rinviato, che finalmente si compie: “la svolta razzista”. Anche al razzismo fascista si è applicato qualcosa come la teoria della parentesi, dell’invasione degli Hyksos. E anche il razzismo è invece una rivelazione e un compimento del ventennio. Melis si guarda bene dal concedere uno spazio all’idea dell’estraneità e dell’irruzione dell’“ignobile campagna antiebraica”, viceversa “lungamente annunciata e in fondo implicita nelle radici stesse del fascismo”. “[Sono] ormai assodati – scrive – i precedenti dell’ipotetica brusca svolta razzista del 1938 nel discorso pubblico e nella cultura stessa del fascismo, sin dalle origini… il tema serpeggiò a lungo e a più livelli, trovando poi nell’occasione della guerra d’Africa un suo primo sbocco molto concreto, sia in termini legislativi (le nuove leggi per le colonie) sia in termini politici e culturali”. Tuttavia Melis sottolinea “un secondo punto chiave”: il modo repentino in cui vengono introdotte nozioni, categorie e parole finora largamente estranee al diritto italiano, incubate nelle riviste razziste. “La caratteristica di questa legislazione fu la sua rapidissima elaborazione, approvazione ed emanazione…”. Vorrei usare questa drammatica, tragica “repentinità” per un abbozzo dello stato d’animo degli italiani di oggi, estate del 2018. Gli italiani stanno infatti sperimentando una condizione che sembra loro decisamente “nuova”. Una maggioranza, si direbbe, con entusiasmo o con un’aspettativa speranzosa, una minoranza con uno sconcerto vicino all’orrore – e poi il vasto perenne numero di coloro che non pervengono alle verifiche del voto o dell’opinione. Comune è comunque la sensazione di una svolta avvenuta. Gli storici, quando toccherà a loro, si divideranno e specializzeranno. Qualcuno descriverà l’irruzione di un regime e un personale politico inaudito, un’ennesima invasione degli Hyksos. Altri ricostruiranno il modo in cui la svolta era stata annunciata e preparata da lontano, e la trasfusione di istituti, abitudini e persone del vecchio regime – che già si era preteso di chiamare Seconda o Terza Repubblica – nel novissimo, ridimensionandone così la novità. E noi, che cosa penseremo noi di quello che ci passa sotto gli occhi? Può darsi che lo svantaggio in cui proverbialmente ci troviamo rispetto agli storici a venire possa essere compensato questa volta dalla nitidezza con cui gli avvenimenti si sono andati consumando. E può darsi addirittura che la nostra esperienza di oggi serva a illuminare l’oscillazione che, ormai autorizzati allo sguardo storico, segna la nostra interpretazione del fascismo fra continuità e rottura.
Su una scala ravvicinata, l’oscillazione fra continuità e rottura – sul ventennio fascista, o ora, fatte tutte le differenze, sulla coalizione Lega-Cinque stelle – ripropone l’alternanza storica, e storiografica, fra fenomeni di lunga durata e avvenimenti puntuali, ciò che permane nel tempo e ciò che cambia di colpo. La lunga durata, apparsa come un’importazione francese, ha una sua involontaria variante in Italia che ha avuto un successo irresistibile e frivolo. E’ il motto del Gattopardo, Bisogna che tutto cambi perché tutto resti come prima – nel romanzo, letteralmente: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Non passa giorno senza che qualche politico o qualche commentatore della politica la ripeta compuntamente. Chiedeteglielo e vi dirà che è la vera saggezza siciliana, cioè italiana, pronunciata con fatalistico e amaro rimpianto dal vecchio principe di Salina. In realtà a pronunciarla è il giovane e fatuo Tancredi, cui l’uniforme da garibaldino sta benissimo e per farsela perdonare rassicura lo zione: “Se no quelli ti combinano una repubblica in quattro e quattr’otto”. La bella frase ha due piacevoli sottintesi: è qualunquista – sono tutti uguali – e asseconda la diffidenza – non ce la danno a bere. Le cose cambiano, invece. A volte si può dire esattamente in quale giorno e a che ora le cose cambiarono. La svolta “novissima” della vita pubblica italiana avvenne esattamente il 21 aprile del 2017, quando il “capo politico” del movimento 5 stelle, Luigi Di Maio, chiamò le imbarcazioni di soccorso delle Ong nel Mediterraneo “taxi del mare”: “Chi paga questi taxi del mare? E perché lo fa? Presenteremo un’interrogazione in Parlamento…”. Quello stesso giorno il blog di Beppe Grillo aveva intitolato: “Più di 8 mila sbarchi in 3 giorni: l’oscuro ruolo delle Ong private”. Diceva: “Potrebbe esserci dietro una regia e a dirlo non è il M5s, bensì anche un’inchiesta aperta dalla Procura di Catania”. La Procura di Catania, nella persona del procuratore Carmelo Zuccaro, aveva cominciato fin da febbraio a far sapere di aver avviato un’indagine “conoscitiva” – cioè senza accuse e senza accusati - per appurare “chi c’è dietro le Ong, da dove vengono tutti i soldi che hanno a disposizione e soprattutto che gioco fanno”. Zuccaro era piuttosto smanioso di ripetere il suo impegno a vanvera e intanto aveva cura di tutelarsi avvertendo di non avere niente in mano. (Tutti gli sviluppi successivi, una volta trasferiti sul piano giudiziario, hanno dato seccamente torto a Zuccaro e ai suoi comportamenti). Ora, l’operato delle Ong aveva da sempre eccitato l’avversione dei nemici del “buonismo” – i cattivisti – e più di recente il fastidio dell’operazione incaricata dall’Unione Europea di “pattugliare le frontiere europee”, Frontex, che aveva sostituito Mare Nostrum, a sua volta invisa ai nemici del soccorso in mare. Energumeni come Salvini gridavano da tempo all’“invasione” pianificata di musulmani e africani in Italia. Il Movimento 5 stelle, che faceva della spregiudicatezza e indefinibilità (rivendicata: destra e sinistra non esistono più eccetera) la propria cifra, ora di colpo smetteva di tenersi in bilico e faceva precipitare la bilancia dal lato della caccia ai migranti. Quel giorno si saldò l’alleanza che i più, un anno dopo, al momento della formazione del governo Salvini-Di Maio, mostrarono o finsero di mostrare inaudita, imprevedibile e stupefacente. Fino a quel momento Salvini era, e sarebbe rimasto a lungo, un truce provocatore, fra la macchietta e il pericolo pubblico, uno che andava a Pyongyang a elogiare Kim Jong-un, in concorrenza con il senatore Razzi (“Fatti i cazzi tuoi!”…) o sulla Piazza Rossa con Putin sulla maglietta. Un anticipatore, certo, sia per Kim che per Putin. E un ospite prediletto dai talk-show, in particolare dai conduttori squisitamente democratici, i quali di avere uno che esibiva sul palco dei comizi la riproduzione in pallone gonfiato della signora presidente della Camera andavano pazzi. Di Maio era a sua volta un buffo esemplare di uomo nuovo, promosso a capo di un movimento grossissimo che aveva smesso di dire vaffanculo, percorso collaudato, come nel passaggio dalla camicia nera all’orbace al doppiopetto. Del movimento si pensava che fosse buono a nulla ma non ancora capace di tutto, e che sui migranti fosse piuttosto incline all’accoglienza. In un giorno di aprile del 2017 i componenti fino ad allora separati si cristallizzarono: la xenofobia (e l’aperto razzismo) della Lega; la copertura della vanità politica di una parte della magistratura; e la scelta di campo del movimento-partito candidato a conquistare la maggioranza nella prossima elezione.
Ma l’effetto travolgente di quella precipitazione chimica non stava solo né tanto nella prefigurazione dell’alleanza dell’anno successivo. Stava nella repentina licenza che accordò agli italiani che fino al giorno prima avevano, nella gran maggioranza, tenuto a bada per rispetto, per educazione, per pudore, per timore, certi sentimenti normali quanto indicibili. Potevano dirli: c’era uno starter che li aveva allineati ai blocchi di partenza e ora dava il segnale. Via! Si può dire in pubblico quello che solo i più risoluti avevano scritto sulle pareti dei cessi e gridato alla Radio-parolaccia radicale e poi affidato sempre più intrepidamente alla rete. Si può dire in pubblico e sentirsene sollevati meglio che dopo un orgasmo, e scoprirsene premiati in carriera. Il candidato leghista alla Regione Lombardia, oggi suo presidente, per ingenuità si lasciò sfuggire un grido di dolore alla radio: “La razza bianca è a rischio!” Si affrettò a scusarsene, maldestramente. Passò qualche giorno e ci tornò su, euforico: “La razza bianca? Mi ha fatto salire nei sondaggi e ha risolto il problema di farmi conoscere”. E non è che fino ad allora l’Italia si distinguesse per una correttezza politica. Vaffanculo, appunto: il programma esauriente di Beppe Grillo. In parlamento si era bivaccato a oltranza. Eppure un argine durava. Anche fra sé e sé, anzi era quello l’argine maggiore. Ci si vergognava con se stessi dei propri pensieri e dei propri sentimenti. Il punto è che quei sentimenti e quei pensieri non sono anormali né vergognosi, a condizione che siano messi a confronto con altri pensieri e sentimenti, temperati dalla ragione e dalla disposizione a figurarsi nei panni altrui. Si chiama civiltà, educazione, buone maniere, amore per il prossimo, ipocrisia, come volete: caduto quell’argine, addio civiltà, buone maniere eccetera. Diventa una gara, come quando fra bambini ci si cimenta nelle prime parolacce. In questa gara Matteo Salvini non ha rivali. Ha il fiuto e la paura del vuoto. Non lascia che si resti interdetti e disgustati e sbigottiti dall’enormità che ha pronunciato e già ne pronuncia un’altra, più enorme, per così dire, più infame. Qualcosa del genere fa Donald Trump, ma lui soprattutto perché è braccato. Salvini perché gioca d’azzardo, il tutto per tutto. Quando la cosa si normalizzasse finirebbe in galera o a girare un documentario sulla Padania.
Dunque le cose cambiano e anche bruscamente, e profondamente. Ieri non si poteva, oggi si può. Una liberazione? Ieri non si poteva sparare ai neri e vincere le elezioni. Oggi un ex candidato della Lega ha sparato ai negri e la Lega ha vinto le elezioni. Anche le nostre vite personali, ci sono giorni, ore, che le cambiano. Diventiamo altri. Il popolo italiano è diventato un altro. Quello che sta avvenendo attorno a noi, a noi stessi, aiuta a capire che cosa successe in Italia, la repentina onda alluvionale che rese l’Italia del 1938 fanaticamente, ferocemente e vilmente razzista. E viceversa?