DUE SICILIE (4)
ROCHONVILLE
Alexander Lernet-Holenia
Traduzione di Cesare De Marchi
Adelphi eBook
ROCHONVILLE
1
Fintantoché i padrini suoi e di Pufendorf non ebbero regolato la faccenda, Lukawsky passò i giorni e le notti con una pistola a ripetizione in tasca ovvero sotto il cuscino – la stessa sul grilletto della quale aveva tenuto il dito durante l’incontro con Pufendorf. Non sentiva, infatti, il minimo bisogno di condividere il destino di Engelshausen o di Fonseca. In quei giorni – dopo la guerra era diventato funzionario di una compagnia assicurativa – doveva andare in visita di lavoro da due clienti fuori città. Ritenendo che i due inviti fossero simulati, era già preparato a qualche brutta sorpresa. Ma non era successo niente di inconsueto.
Il giorno trenta partì con i suoi padrini per Sopron. Alla moglie aveva detto che si trattava di un viaggio di lavoro. Usava allora, poiché per tali occorrenze le leggi ungheresi erano più favorevoli, andare oltre confine e battersi sul suolo magiaro anziché sul proprio.
I padrini di Lukawsky erano un tal capitano Vargha e un certo tenente von Schustekh. In un primo momento Lukawsky avrebbe voluto chiedere a Silverstolpe e a Marschall, ma poi abbandonò l’idea per non mettere a repentaglio la propria libertà d’azione e altresì quella dei due amici.
Arrivarono verso sera a Sopron e pernottarono all’«Albero verde». Dopo cena trascorsero il tempo giocando a carte.
La notte vi fu un temporale, e la mattina i campi erano ancora coperti di nebbia. Il terzetto si mosse già alle cinque. Lukawsky asseriva, è vero, che battersi così di buon’ora era soltanto un uso sopravvissuto al tempo in cui la gente si alzava molto prima, e solo per negligenza non si era passati a orari più ragionevoli. Ma ritenendo che a ora più tarda ci sarebbero state più persone in giro, si era rimasti d’accordo per le prime luci del giorno.
Montando in vettura – un calesse dalle imbottiture di pelle nera e relativamente malandato – Lukawsky sentì affiorare alla memoria certe sue imprese giovanili, e durante il tragitto si diede a raccontarne qualcuna. Gli altri, però, non erano in animo di ascoltarlo, o non gli prestarono attenzione, perché si davano pensiero delle conseguenze che la faccenda avrebbe potuto avere.
Vargha aveva portato con sé un medico. Schustekh teneva sulle ginocchia la scatola con le pistole.
Due poliziotti, davanti ai quali passarono, li salutarono pur indovinando, dal loro aspetto, il proposito di quei signori incamminatisi così di buon’ora.
Lukawsky non era del tutto sicuro che Pufendorf si sarebbe presentato, non avendolo scorto, il giorno innanzi, né sul treno né in città. Ma quando arrivarono al luogo stabilito, sui prati rivieraschi, Pufendorf era già lì con i suoi padrini.
Qualche raggio di sole filtrava attraverso la nebbia. Gli alti alberi erano avvolti in veli simili a ragnatele, i quali stavano cominciando già a dissolversi, e sopra le carici il vapore umido aleggiava come un corteo di anime afflitte sui prati inferi.
I padrini di Pufendorf – entrambi russi – erano un certo signor Harff e un tal conte Goleniščev-Kutuzov. Di Harff si venne a sapere, durante le trattative, che in precedenza era stato funzionario di banca. Goleniščev, invece, era stato consigliere di legazione.
I russi avevano miseri vestiti e nei loro sguardi si leggevano malumore e abbattimento. Sullo sfondo nebbioso la silhouette di Pufendorf somigliava di nuovo alla silhouette di Vrangel’.
La vettura dei russi si era già ritirata sotto gli alberi, e quella di Lukawsky la raggiunse.
Dopo i saluti, i secondi si accordarono designando Harff arbitro del duello. I due avversari, intanto, stavano in disparte, ciascuno per sé. Lukawsky si accese una sigaretta e seguì con gli occhi le spire della nebbia, fingendo di non vedere che Pufendorf lo stava osservando. Quest’ultimo lo scrutava però con uno sguardo non già minaccioso, bensì fisso e quasi triste.
Il medico era occupato con i suoi strumenti.
Erano stati pattuiti tre scambi di pallottole. Dopo aver letto il verbale che Schustekh gli aveva passato, Harff fece un tentativo di conciliazione. Abbassò il foglio che aveva letto sino in fondo, dicendo: «Siamo diventati tutti dei poveracci. Non siamo più quelli di una volta. Il mondo di cui eravamo parte non è più. Ciò che qui sta per accadere è cosa d’altri tempi. Tempi in cui eravamo giovani. Non dobbiamo più invocare il giudizio di Dio in questa contesa. Dio è diventato altissimo. Non decide più. Chiedo ai contendenti di riconciliarsi».
Parlava male il tedesco, e si notava che aveva mandato a memoria quelle frasi. Evidentemente i russi si aspettavano che lui, il più anziano, sarebbe stato comunque designato arbitro del duello.
Le sue parole caddero come ombre sopra la scena per sé già tetra.
Lukawsky, aggrottando le sopracciglia, dichiarò di essere perfettamente consapevole della responsabilità che si addossava, ma di dover nondimeno respingere il tentativo di mediazione. Quanto a Pufendorf, tacque affatto. Non restava dunque che caricare le pistole, e ciò richiese un certo tempo; dopodiché esse vennero consegnate ai due avversari, i quali erano stati condotti alla debita distanza.
«Conterò fino a tre» disse Harff. «A ogni numero batterò le mani. Noi in Russia facevamo così. Tra l’uno e il tre si può tirare. I secondi sono tenuti ad abbattere immediatamente qualunque dei due avversari faccia fuoco prima dell’uno o dopo il tre».
Dal modo in cui pronunciò anche queste frasi si capì che le aveva imparate a memoria. Era, del resto, una sorta di voce estranea a parlare per bocca di quell’uomo. Non era solo la voce di un paese straniero, era proprio una voce estranea.
«Tristo individuo!» disse Lukawsky, sottovoce, a Vargha. Vargha non replicò. I padrini andarono a collocarsi a distanza dai duellanti, su una stessa linea. Anche Goleniščev e Vargha stringevano in mano pistole cariche. Alle loro spalle, il medico. In quell’istante il sole irruppe, con cascate di luce, attraverso la nebbia. La rugiada scintillò.
«Siete pronti, signori?» domandò Harff. E alla risposta affermativa esclamò: «Attenzione!» e prese a contare: «Uno – due – tre!».
Al contempo batté tre volte le mani. I duellanti fecero fuoco in modo quasi simultaneo. Lukawksy forse una frazione di secondo prima di Pufendorf. La sua pallottola aveva chiaramente mancato il russo. Attraverso il fumo dello sparo vide che Pufendorf, il quale prima teneva lo sguardo chino, adesso levava l’occhio su di lui. Anzi, erano invero due, gli occhi che si levarono insieme su di lui: quello animato, umano, e quello rotondo e inanimato della pistola, che era distintamente raffigurato nella superficie anteriore di questa, anch’essa rotonda, su cui splendeva il sole. Era in realtà impossibile che il maggiore vedesse da una simile distanza questi due occhi. Ma credette nondimeno di vederli. Erano l’uno al di sopra dell’altro, un po’ come gli occhi di una sogliola, e guardavano lui.
Nell’istante successivo il fumo dello sparo di Pufendorf nascose lo sguardo di entrambi. La pallottola del russo fracassò il gomito del braccio destro ancora alzato del maggiore, dopodiché il piombo deformato si conficcò nel margine inferiore della sua scapola destra.
Egli restò ritto ancora un attimo, poi cadde a terra. Il medico accorse insieme con gli altri, lo visitò dopo avergli tolta la giacca e gli fece una prima fasciatura. In quel mentre il maggiore perse conoscenza. Chiamarono le vetture. Mentre lo caricavano, Goleniščev-Kutuzov disse al secondo di Lukawsky: «Iddio la perdoni per aver costretto Konstantin Il’ič a far questo a quell’uomo».
Il maggiore venne portato all’ospedale. Gli altri si consegnarono alle autorità.
2
Rochonville apprese la notizia verso sera di quello stesso giorno: la apprese da Gordon, che non conosceva di persona. Quest’ultimo, con sua sorpresa, andò infatti a trovarlo.
«Colonnello Rochonville,» disse Gordon con quel sorriso obbligato che esprimeva al tempo stesso la sua rassegnazione verso il corso del mondo e la sua convinzione che solo un uomo d’affari si intenda di checchessia – «colonnello Rochonville, non so se lei sa già che il suo maggiore Lukawsky si è battuto a Sopron con un certo signor von Pufendorf, un russo, e che è stato ferito piuttosto gravemente».
«Lukawsky?» esclamò Rochonville. «Con un russo? Un signor von...?».
«Proprio così» disse Gordon. «Questo Pufendorf le è forse sconosciuto?».
«Mi faccia riflettere! Dove ho già sentito il nome...? E il maggiore, dice, è stato ferito? Che ferita è, che ha...».
«Un braccio fracassato» disse Gordon sorridendo come se si trattasse della cosa più gradevole del mondo «e un proiettile confitto nella scapola. A considerar la cosa con leggerezza, se ne potrebbe concludere che si sia buscato quel genere di ferita, particolarmente ignominiosa per i Romani, voltando le spalle al nemico. Ma in realtà ciò è dovuto alla posizione da lui assunta durante lo scambio di revolverate: si era infatti postato di fianco per offrire il minor bersaglio possibile all’avversario. E non è stato colpito da due tiri, ma da uno soltanto: la stessa pallottola che gli ha frantumato il gomito ha avuto ancora forza sufficiente da penetrargli nella schiena.
«Comunque lo sfidante era lui stesso, e a nessuno verrà in mente di rinfacciargli mancanza di coraggio. Al contrario: è proprio la sua iniziativa che mi ha indotto a farle questa visita. Desidero infatti chiederle, signor colonnello, di voler esercitare l’influenza di cui gode presso i suoi ufficiali affinché essi desistano dal cercar oltre di risolvere per conto proprio un caso la cui soluzione è di pertinenza della polizia. Già il suo conte Fonseca ha dovuto scontare un simile tentativo scomparendo di scena, e adesso anche il suo maggiore Lukawsky si è buscato questa ferita grave».
Disse «il suo conte Fonseca» e «il suo maggiore Lukawsky» come una ditta chiama i dipendenti di un’altra ditta «i loro signori Taldeitali». Quindi continuò:
«La decisione di pregarla di smorzare lo spirito d’iniziativa dei suoi signori, colonnello Rochonville, è mia personale e privata. Così facendo io oltrepasso – lo so bene – i limiti delle mie competenze di funzionario di polizia, e lei ha tutte le ragioni di chiedermi con quale diritto io venga qui da lei accampando simili pretese. Voglia considerare però, la prego, questa mia visita sotto l’aspetto non già professionale, ma mondano. Vorrei che noi, da signori quali siamo, ne parlassimo qui in privata sede. Io, quantomeno, ritengo che questo sia il modo migliore di addivenire a un’intesa. Già la scomparsa di Fonseca ha proiettato una luce inutilmente chiassosa sulle questioni in sospeso, e che adesso – per giunta – il maggiore Lukawsky si sia preso a revolverate con quel Pufendorf peggiora ulteriormente la faccenda. Senza questi due episodi l’opinione pubblica con ogni probabilità avrebbe dimenticato da un pezzo la morte di Engelshausen. Così, invece, si parla già di un affare “Due Sicilie” – e forse non a torto. Sì, perché soprattutto nel caso di Fonseca ci si domanda per che cosa mai sarebbe dovuto morire, se non per un reggimento di tal nome. Ma, come ho detto, tutte queste iniziative dei suoi signori non giovano alla polizia, al contrario ne ostacolano il lavoro.
«Lei certo potrebbe obiettarmi che la polizia finora non ha fatto nessun lavoro, o perlomeno non ha conseguito grandi risultati. Purtroppo non sono autorizzato a darle informazioni circa l’attività dei miei agenti e sugli esiti, finora raggiunti, dei loro sforzi. Credo, nondimeno, di dover uscire in una certa misura dal riserbo impostomi e comunicarle che sotto il cielo ci sono più cose di quante non si sogni uno che non è poliziotto – e non viceversa –, e che io sono soddisfatto dei risultati provvisori raggiunti dai miei uomini. Non si dia dunque pensiero della durata dell’indagine e lasci fiduciosamente sbrigare queste cose a noi poliziotti. In ogni caso non cerchi di esserci d’aiuto».
Aveva parlato come a un consiglio d’amministrazione. Il colonnello lo aveva lasciato finire, ma nel frattempo aveva riflettuto e gli era venuto in mente dove aveva già sentito il nome di Pufendorf.
«Signor Gordon,» domandò «sa qualcosa di più preciso intorno a questo signor von Pufendorf?».
Gordon gettò un’occhiata al colonnello. «Lei no?» domandò.
«Io» disse il colonnello «ho udito parecchio su un altro personaggio dal medesimo nome, ma su questo no».
«Dunque,» disse Gordon «posso tanto più darle alcune informazioni su di lui, in quanto lo stesso Pufendorf non ha nulla da spartire con il caso che mi è stato affidato».
«Nulla?».
«No. È stato un errore madornale del maggiore Lukawsky averlo attaccato – o aver creduto di attaccare lui».
Il colonnello lo guardò dubbioso.
«Lei non sembra credermi» disse Gordon. «Ma è così. Questo Pufendorf, come ho detto, è un russo, sebbene la sua famiglia, che nel Seicento deve aver ottenuto una patente di nobiltà, sia originaria della Germania settentrionale. È stato ufficiale e ha servito nella Guardia, in uno dei reggimenti più rinomati, quello degli ussari di Grodno...».
«Negli ussari di Grodno?» esclamò il colonnello.
«Sì. La sorprende poi tanto?».
«Quello che intendo io deve aver servito anche lui negli ussari di Grodno».
«Forse allora è la stessa persona».
«Sarebbe impossibile. Quell’altro, infatti, dev’essere morto».
«Ma forse non lo è veramente. Questo, comunque, è figlio di un certo Elias von Pufendorf e di una tal principessa Vjazemskaja...».
«Di un Elias von Pufendorf? Ma allora dovrebbe chiamarsi Il’ič!».
«Certo, dal nome di suo padre».
«E come si chiama lui?».
«Konstantin».
«Konstantin?» esclamò il colonnello. «Konstantin Il’ič?».
«Così è, e non può essere altrimenti».
«In questo caso sarebbe, in effetti, la stessa persona. Ma è impossibile!».
«Impossibile? Perché?».
«Perché, come le ho già detto, Konstantin Il’ič è morto».
«Ebbene, io le dico che è vivo. Come avrebbe altrimenti potuto colpire Lukawsky al braccio e, a provar ancor meglio la propria esistenza, pure nella schiena? Del resto, che cosa la spinge a crederlo morto? Chi glielo ha raccontato?».
Il colonnello era sul punto di dirlo al commissario. Ma per una qualche ragione se ne astenne. Difficilmente avrebbe saputo spiegare perché a un tratto non voleva dirlo. Forse riteneva che Gordon, se fosse venuto a sapere della vicenda, l’avrebbe mandata a rotoli come già i casi Engelshausen e Fonseca. Giacché, per quanto il commissario lo assicurasse che le indagini procedevano bene, il colonnello era convinto che la polizia si trovasse in un vicolo cieco. Quantomeno non poteva – come Gordon – ritenere che Lukawsky si fosse sbagliato.
«Non riesco più a ricordare» rispose finalmente. «Ma mi dica: conosce il capitano di cavalleria Gasparinetti?».
«È quello stesso che, la sera della sventura di Engelshausen, dai Flesse...».
«Sì. Il signor von Pufendorf gli somiglia?».
«Al capitano? Come le viene in mente? Io non conosco Pufendorf di persona, ma credo che i due, a prescindere dalla loro alta statura, non abbiano nessuna somiglianza tra loro».
«Perché no?».
«Perché ho visto la fotografia del russo e ho avuto in mano i suoi dati segnaletici: né quella né questi combaciano con le fattezze del capitano di cavalleria. Pufendorf, ad esempio, è biondo – di quel biondo slavo che è proprio di tanti russi –, mentre il capitano è decisamente scuro. Perché me lo domanda, poi?».
«Perché avevo sperato di potermi fare un’idea di questo Pufendorf partendo dalle fattezze di Gasparinetti. In fondo vediamo molti – per così dire – conoscenti senza sapere chi sono, e dopo un po’ di tempo praticamente finiamo per aver visto quasi tutte le persone che vivono nella stessa città».
«Ebbene,» disse Gordon «è possibile che lei abbia – praticamente – già visto anche Pufendorf».
Il colonnello non capì del tutto che cosa intendesse Gordon.
«Sa forse, per caso, anche qualcosa di Gasparinetti?» chiese.
Gordon lo guardò.
«Ho solo qualche dato,» rispose «come quelli che a suo tempo sono stati presi di tutti gli invitati dei Flesse».
«Ho dimenticato in quale reggimento prestava servizio Gasparinetti».
Il sorriso di Gordon si accentuò. Ora sorrideva davvero.
«Nel nono reggimento degli ulani, se non erro» disse. «Lo ritiene importante?».
«Nel nono reggimento degli ulani?» esclamò il colonnello.
«Sì. Perché si stupisce sempre tanto quando viene a sapere in quale reggimento uno ha prestato servizio?».
«Quel reggimento non è mai esistito».
«Che reggimento?».
«Il nono ulani».
«Perché non dovrebbe essere esistito? Non avevamo forse almeno tredici reggimenti degli ulani? Mio cognato, per esempio, era nel tredicesimo».
«Ma il nono e il decimo non esistevano. Cioè, in origine esistevano sì, ma poi, e ormai da un pezzo, sono stati sciolti. Quindi lei si sbaglia se crede che Gasparinetti abbia prestato servizio nel nono reggimento».
«Non sbaglio di certo» disse Gordon. «Potrò forse suscitare l’impressione di essere una persona superficiale, però ho presente tutto ciò che ha rilevanza, e probabilmente anche qualcosa di più».
«Eppure si nota che lei non ha fatto il soldato».
Gordon scrollò le spalle.
«Forse il funzionario che ha preso nota del numero di reggimento di Gasparinetti si è sbagliato o ha sentito male» disse il colonnello.
«Nessun funzionario, perlomeno dai Flesse, ha preso nota del numero di reggimento di Gasparinetti. Non creda che si continuino ad annotare i numeri di reggimento delle persone che vengono identificate – a meno che ciò non accada per i componenti del suo reggimento partenopeo. Il numero di reggimento di Gasparinetti dev’essere entrato per altra via nel fascicolo».
«Per che via?» domandò il colonnello, chiedendosi dove volesse andare a parare Gordon con quel classico accenno.
«Per una via erronea, presumibilmente – come lei stesso asserisce. Ma questo, si diceva, è irrilevante. Supponiamo pure che il numero sia stato effettivamente mal trascritto e che il capitano abbia prestato servizio nel sesto o nel dodicesimo ulani o che so io, in uno degli ussari. La questione non cambia».
«Quale questione?».
«La sua, colonnello Rochonville» disse Gordon. «La mia no di certo. Ma l’ho trattenuta fin troppo e la prego di scusarmi se sono venuto a disturbarla. Spero nondimeno che vorrà prendere atto della piccola richiesta che è stata motivo di questa mia visita».
E si alzò.
Il colonnello, assorto nei suoi pensieri, lo guardò per un istante distrattamente, quindi si alzò lui pure.
«Dove si trova adesso Lukawsky?» chiese.
«Il mestiere del soldato» disse Gordon «è davvero rude, altrimenti lei si sarebbe informato da un pezzo sulle condizioni del maggiore. Non per nulla mi ha riprovato perché non ho servito nell’esercito».
«Ebbene, dov’è?».
«A Sopron» disse Gordon. «All’ospedale. E gli altri partecipanti a quel confronto a mano armata sono stati arrestati – almeno momentaneamente – dalle autorità ungheresi».
«E chi erano codesti – come le è piaciuto esprimersi – “partecipanti”?».
«Un tal tenente von Schustekh, indi un certo capitano Vargha, il signor von Pufendorf, un tal signor Harff, un conte Goleniščev e un medico – un numero considerevole di persone, quindi, le quali hanno deciso, benché erroneamente, di correggere me, singola persona. Lei osserverà tuttavia – e, presumo, con sollievo – che i suoi signori Marschall e Silverstolpe (il quale ultimo, certo, non è più idoneo a questo genere di imprese), come pure il suo caporale Slatin, non sono della partita».
Perché mai Silverstolpe non fosse più idoneo a «questo genere di imprese», il colonnello non lo capì. «Osservo altresì» disse «che lei non manca di interessarsi dell’appartenenza a certi reggimenti».
«Solo in questo caso particolare,» disse Gordon «come ho già accennato. Vorrà dunque lei pure, egregio colonnello, come egualmente già accennato, usare la mia stessa sollecitudine affinché i componenti di questo reggimento, che fu tenuto per così dire a battesimo dalla figlia di Maria Teresa e da Emma Hamilton, non prendano altre iniziative individuali. L’Ordine di Maria Teresa ormai non viene più conferito per questo genere di azioni».
E così dicendo si congedò con un sorriso.
3
Uscito Gordon, il colonnello rimase pensieroso e immobile – ma se qualcuno fosse entrato all’improvviso e gli avesse chiesto in che genere di pensieri fosse assorto, egli probabilmente non avrebbe neppure saputo di avere dei pensieri o a che cosa avesse mai pensato. Sentiva che qualcosa di preciso doveva venirgli in mente, che già vi era vicino, e tuttavia non avrebbe saputo dire di che si trattasse, né che lui stesse cercando di arrivarvi. Tutti i risultati effettivi del nostro riflettere sono ispirazioni. Il pensiero cosciente porta sempre e solo a esiti irrilevanti. Non è il cervello a ubbidire a noi: siamo noi a ubbidirgli.
Erano i pensieri più svariati, quelli che agitavano il colonnello, anzi è probabile che fossero un’infinità. Una mente che, in modo consapevole, non è in grado di pensare due cose al tempo stesso, in modo inconscio ne pensa mille insieme: alcune si mostrano chiare come, in un banco di pesci, quelli più vicini alla superficie, mentre gli altri si fanno vieppiù confusi nelle profondità della coscienza come nell’oscurità delle acque. Il colonnello non si era più curato di quel che restava del suo reggimento, sei ufficiali e un sottufficiale – ora che anche quel resto andava scomparendo, finalmente vi faceva caso. E gli risultava chiaro che anche i resti degli altri reggimenti, anzi, che tutto l’esercito tornato dalla guerra, si perdeva sempre più, scompariva, si dissolveva. D’un tratto ebbe la sensazione di non essere più nella sua stanza, ma all’aperto; era un paesaggio singolare – singolare per una ragione non meglio precisabile –, quello su cui credeva di trovarsi. Pareva un magro pascolo su colline autunnali, macchie d’alberi e boschetti sparsi all’intorno. L’aria, benché il cielo fosse coperto, era limpidissima. Il colonnello credette di non essere solo: erano comparse anche altre persone in gran numero, ma non singolarmente, bensì a gruppi o a drappelli, pur se alquanto dispersi in lontananza. Al colonnello costoro sembrarono carichi di attrezzi, ed era immaginabile che fossero strumenti di misurazione; quei drappelli sembravano accingersi a misurare il terreno. A suggerirlo era anche l’atteggiamento esplorativo con cui procedevano. Ma di colpo il colonnello vide che quelle che portavano con sé erano armi.
Erano armi, e con ogni evidenza quegli uomini non si erano ritrovati casualmente, ma si erano raccolti intorno a singoli vessilli. Ogni drappello aveva una bandiera, portata da un alfiere. Gli uomini erano carichi di armi e attrezzi militari e indossavano pastrani. Trascinavano i lembi dei pastrani sulle foglie cadute dagli alberi, facendole frusciare. E con le estremità delle armi tastavano il terreno.
Il colonnello non capì subito che cosa significasse quell’operazione. Alcuni avevano sguainato la spada, altri reggevano i fucili per il calcio, altri ancora portavano lunghe aste, forse lance. Con le punte delle lame e delle picche, ma anche con le bocche dei fucili, frugavano qua e là nel terreno. E d’un tratto il colonnello seppe che cosa cercavano. Cercavano le loro tombe.
Erano uomini in cerca delle proprie tombe – il luogo in cui sarebbero stati uccisi e sepolti, non poteva essere altrimenti. La frase di Gasparinetti, secondo cui, in fondo, ognuno non fa altro che cercare la propria tomba, gli tornò alla memoria e di colpo gli risultò chiara. E adesso lo si vedeva anche distintamente: con le punte delle spade e con le estremità delle altre armi rovistavano tra le foglie cadute, rivoltavano le pietre e cercavano, quasi come con una verga da rabdomante, tra i cespugli coperti di clematide, sotto le ramature degli alberi e sotto massi muscosi i luoghi dove li avrebbero sepolti.
Il colonnello andava con gli occhi da un gruppo all’altro, e alla sua vista si dischiuse d’un subito l’intero paesaggio, egli vide ben oltre quanto giunga in realtà lo sguardo: tutto il territorio era pieno di drappelli spettrali, anzi l’occhio arrivava al limitare delle montagne, e anche le pareti rocciose erano colme di ombre spettrali. Oltre il bosco di caducifoglie, che stava cangiando nei diversi colori dell’autunno, dal giallo al fucsia al rosa fino al terreo, incominciava subito, insieme con il bosco di aghifoglie, la neve (la stagione era piuttosto inoltrata), anche se non tanto da fermarsi sui rami – ancora piuttosto caldi – di pini e abeti in forma diversa dai bizzarri batuffoli fioccosi. Era una veduta singolarissima, come un ardito esperimento sullo sfondo d’un dipinto di Altdorfer. E dovunque, sotto gli alberi, brulicavano figure incerte. Imbruniva, e la luna di tre quarti stava sospesa nell’aria plumbea come una moneta d’oro incurvata. E in quel crepuscolo le ombre continuavano a cercare.
Il mondo era pieno di uomini in cerca delle proprie tombe. Molti di loro giungevano da età remote, ma ve n’erano altresì di ancora vivi – e forse anche uomini a venire. Indossavano magari costumi, corazze, uniformi, ma coperti da pastrani, e in alto svettavano le bandiere. Quale ordine aveva mai imposto a tutti di cercare i luoghi dove le loro vite avrebbero avuto fine? Chi li aveva condotti tra i boschi e i colli, nei deserti e fra le nevi – la volontà di un unico sovrano e condottiero, oppure una superiore volontà comune? Dal momento che, quand’anche il singolo avesse creduto trattarsi della sua sola volontà, pure non era forse la volontà sua: era qualcos’altro a spingere i popoli. Poteva essere la miseria, o il desiderio di nuove terre, o la fame, o la libidine di donne altrui. L’uno o l’altro trovava forse quanto cercava. Ma quel che tutti cercavano, era la propria tomba.
Era tempo ormai di tornare alla terra da cui erano usciti. Qua e là cominciava già a cadere la neve, non solo sui pendii dei monti ma fin sulle colline, troppo presto a quel che sembrava. Stava infatti sopraggiungendo il lunghissimo inverno, che rendeva impossibile soggiornare là dove ci si era fermati durante l’estate fino ad autunno inoltrato: l’ombra delle querce non era più abitabile, e le fronde degli aceri, tra le quali le anime dei trapassati bisbigliavano come respiri del vento, erano già schiacciate dal peso della neve. Su tutte le fronde era caduta la neve, e sulla neve cadevano a loro volta le fronde gelate – come un uomo dopo una malattia perde tutti i capelli, così a un tratto il fogliame cascava da tutti gli alberi ad un tempo. E ciascuna foglia, catturando più luce della neve circostante, sprofondava isolata nella neve. Era ora che anche i morti sprofondassero. Erano finiti i pomeriggi estivi in cui dai boschetti del parco si guardava verso la casa dove i vivi trovavano lungo il pomeriggio e non sapevano che cosa sia la vita; finiti gli umbratili incontri alla meridiana senz’ombra, finito il tempo sui prati dove si muovevano al vento le campanule. Bisognava prepararsi e partire. Bisognava radunare le armi e gli attrezzi mezzo sprofondati nell’umido, dire addio ai boschetti e alle sorgenti dove si era soggiornato a lungo, e le anime svanivano con un ultimo sospiro. Si avviavano agli ingressi della terra. Alle estremità delle gole coperte di neve, che portavano verso settentrione e verso il basso, era un accalcarsi di ombre, finché l’una dopo l’altra penetravano nella fenditura della terra e proseguivano per sprofondate valli, più sorde e più calde, avanti, fino alle acque degli inferi, ai mesti fiumi e laghi di un azzurro stigio. Qui dovevano montare sulle navicelle e pigiate, barca dopo barca, tragittavano di là e ancora, in un brulichio spettrale, ancora e ancora più al fondo...
Il colonnello sobbalzò. Gli parve d’essersi perso parecchio nei suoi pensieri, ma probabilmente era stato solo un tempo breve – forse perfino brevissimo. Infatti la sigaretta che, prima di accompagnare Gordon all’uscio, aveva posata in un portacenere senza più riprenderla in mano fumava ancora quando egli rientrò nella stanza e si sedette in poltrona. Anzi gli sembrava di aver dormito un attimo soltanto; e nel momento del risveglio – o del pensiero del risveglio – credette di aver avuto un’idea improvvisa.
Si alzò immediatamente, andò alla libreria e prese un libro preciso: la Storia del reggimento dei dragoni Ferdinando I, re delle Due Sicilie, opera di tal Gustav Amon, cavaliere di Treuenfest, seconda edizione, 1917, che ancora non affrontava gli avvenimenti della prima guerra mondiale, ma già aggiungeva gli elenchi dei gradi, dei feriti e dei caduti in tale conflitto.
Rochonville cercò l’indice dei colonnelli. Tra quelli dell’età napoleonica – ovvero di Francesco I – trovò:
1805 Karl conte Grünne.
1806 Sigmund barone von Enzenberg.
1809 Johann von Szombathely.
1812 Jakob cavaliere von Sück.
1814 Karl barone Ramming.
1815 Gasparinetti.
1815 Josef barone von Schuster.
Il fatto che mancasse il nome, metteva in risalto il cognome di Gasparinetti rispetto a tutto il lungo elenco.
Rochonville sfogliò il volume all’indietro, e nelle pagine relative agli anni 1815 e 1817 trovò quanto segue:
1815. Il colonnello barone Ramming ebbe intanto, in data 31 marzo, l’assegnazione allo stato maggiore, il capitano di cavalleria uditore Laurer ebbe la nomina a uditore di stato maggiore e, della disciolta armata italiana, furono assegnati al reggimento il colonnello Casparinetti, i capitani di cavalleria Bordogni e Brioschi, il tenente Bonacina e i sottotenenti Berri e Bertoletti.
1817. In data 4 luglio il colonnello Casparinetti venne esonerato dall’incarico. In settembre il reggimento venne concentrato a Horodenka per esercitazioni di divisione e di reggimento.
Lo stile era vago e scorretto. Da quale armata italiana nel 1815 fossero stati presi alcuni ufficiali, Rochonville non sapeva dire. Che quel colonnello Casparinetti (qui scritto con la C, nell’elenco dei colonnelli invece con la G) fosse stato «esonerato dall’incarico» il 4 luglio 1817 e liquidato con una sola frase, gettava una strana luce su tutta la vicenda.
In ogni caso adesso Rochonville sapeva dove aveva già incontrato quel nome.
Tornò a sfogliare l’elenco dei colonnelli. Complessivamente erano più di settanta. Ultimo della lista compariva lui stesso: Ludwig marchese e nobiluomo von Rochonville. Lo Stato non aveva registrato la sua famiglia con il titolo di margravio, ma solo con il grado nobiliare più basso.
Rimise il libro nello scaffale, prese il cappello, uscì di casa e trovò un telefono pubblico, dal quale chiamò i Flesse. Si fece dare l’indirizzo di Gasparinetti.
Imbruniva già, quando entrò in casa di Gasparinetti. In anticamera trovò valigie aperte e due servitori occupati a riempirle.
«Signor colonnello,» disse Gasparinetti «è un grande onore per me che tu venga a trovarmi; e che tu lo faccia oggi mi rallegra maggiormente, perché domani non mi avresti più trovato. Sono di partenza».
«Ah sì?» disse il colonnello. «Per dove?».
«Vado in campagna; ormai è arrivata l’estate. Posso offrirti una sigaretta o un po’ di cognac?».
Il colonnello si mise a sedere, prese una sigaretta e accavalciò le gambe.
«Se ti ho chiesto dove vai,» disse mentre Gasparinetti gli accendeva una sigaretta «era solo così per dire. In realtà volevo chiederti da dove vieni».
«Prego, colonnello?» chiese Gasparinetti.
«Non prenderla per un’indiscrezione» disse Rochonville con un mezzo sorriso adagiandosi con la schiena nella poltrona, come se la trovasse comodissima. «È vero che forse non si dovrebbe chiedere a qualcuno così a bruciapelo donde viene e dove va. Sì, perché donde viene mai ciascuno di noi! Dal nulla. E dove va? Pure nel nulla. Sicché, in effetti, non è molto opportuno informarsi di cose tanto intime. Dato che, a rigore, queste – e probabilmente non soltanto queste, ma anche il loro concetto – non esistono, interessarsene ha sempre un che di proibito, anzi di quasi indecente».
Rochonville disse questo a mo’ di introduzione, senza troppo riflettervi, ma mentre parlava si meravigliò di esprimersi a un tratto in modo così complicato, e anche Gasparinetti lo osservò sorridendo un po’ sorpreso, anzi quasi soddisfatto.
«Nondimeno,» soggiunse Rochonville come sentendosi spinto a ritornare rapidamente al concreto «nondimeno vorrei pregarti di rispondere ad alcune domande a questo proposito».
«Niente mi è più gradito del darti ragguaglio» acconsentì Gasparinetti.
«Tu,» disse il colonnello «la sera in cui accadde il triste fatto di Engelshausen, hai saputo avvincerci dai Flesse con il racconto delle tue avventure russe. Ti ricordi?».
«Certo» disse Gasparinetti, e parve divertito, anche se al tempo stesso diede a vedere che il suo diletto veniva meno, al pensiero della morte di Engelshausen.
«E raccontando hai fatto il nome di un certo Konstantin von Pufendorf, per il quale ti avrebbero scambiato».
«Eccome» disse Gasparinetti, e parve sempre più divertito.
«Questo Pufendorf» continuò il colonnello «avrebbe prestato servizio negli ussari di Grodno e, stando alle tue indicazioni, sarebbe caduto in battaglia...».
«... e invece, in realtà, è vivo e abita a Vienna» completò la frase con divertimento Gasparinetti.
«Proprio così» disse il colonnello. «Ma non è tutto. Questa mattina a Sopron ha anche ferito il maggiore Lukawsky al braccio, e per giunta pure alla schiena».
«Ma che cosa dici!» esclamò Gasparinetti allegramente. «Però, come è possibile?».
«È quello che mi domando anch’io – o meglio, che domando a te. Voglio dire: è stato possibile perché i due si sono battuti a duello».
«E per quale ragione?».
«Per ragioni private» disse il colonnello. «E io non voglio certo mostrare un così scarso senso dell’umorismo da chiederti come tu abbia potuto raccontarci che Pufendorf era morto, pur sapendo che è ancora vivo...».
«Posso lo stesso spiegartelo» disse Gasparinetti. «E lo faccio anche molto volentieri. Io...».
«Tutti hanno il diritto» disse il colonnello «di raccontare storielle non vere, purché siano buone...».
«La storiella non è malvagia, e nemmeno falsa come credi».
«Sì, è ben possibile – fatto salvo che Pufendorf non era morto, ma...».
«... che io stesso ero, in certo senso, morto o almeno creduto morto» aggiunse Gasparinetti.
«Cosa vuoi dire?».
Gasparinetti si accese una sigaretta.
«Dovrebbe esserti noto» disse «che anche Pufendorf dopo la guerra è fuggito dalla Russia. Cioè: dal momento che ora è qui, dev’esserci pure arrivato in un modo o nell’altro. Ma sai sotto che nome è riuscito a farlo?».
«Quale, dunque?».
«Sotto il mio, e con i miei documenti».
E guardò con soddisfazione il colonnello.
«Che altra storia è mai questa!» disse il colonnello. «Come può esserci riuscito?».
«Perché con il suo vero nome, presumibilmente, non ce l’avrebbe fatta – o solo con gran difficoltà. Sicché pensò di servirsi dei documenti di un prigioniero di guerra, al quale, dato che rientrava in patria, non avrebbero fatto difficoltà, o almeno non tante. Ma quel prigioniero di guerra ero io, e quei documenti erano i miei».
«E come ne sarebbe entrato in possesso?».
«Li avranno sequestrati dopo la mia fuga dal campo di prigionia, dove li avevo lasciati» disse Gasparinetti. «E per chiarire il putiferio che avevo provocato al maneggio Michajlovskij, li avranno spediti a San Pietroburgo. Di sicuro il mio fascicolo è arrivato sotto gli occhi di Pufendorf. E lui avrà preso i miei documenti conservandoli amabilmente per ricordo. In fondo, non è privo di interesse entrare in possesso dei documenti di una persona con cui ti hanno scambiato. Ma quando ebbe modo di impiegarli per sé, ecco, li impiegò per sé».
«Ma come hanno potuto scambiarti per lui?».
«Perché non dovrebbero scambiarmi per...».
«Perché voi, nell’insieme, non vi assomigliate affatto. Lui, per esempio, è biondo, e tu non lo sei».
«Se fossi stato ben rasato e ben vestito,» disse Gasparinetti «di sicuro il granduca non mi avrebbe preso per Pufendorf. Può aver immaginato che fossi Pufendorf solo perché mi credeva travestito. E, una volta che si era messo in testa un’idea, sorvolava sulle dissomiglianze che altrimenti non gli sarebbero sfuggite. Di sicuro ha pensato che mi fossi, per esempio, tinto i capelli».
«Bene» disse il colonnello dopo un momento. «Tralasciamo questa storia del granduca. Non puoi certo pretendere che io dia ancora molto credito ai tuoi ameni racconti. Ma se fossero veri, le cose sarebbero potute andare più o meno così. Il punto è: perché, invece di dirci che Pufendorf era scappato con i tuoi documenti, hai finito per raccontarci la conclamata menzogna che era morto?».
Gasparinetti, sorridendo, si versò un bicchiere di cognac.
«In primo luogo,» disse «non potevo immaginare che sarebbe entrato tanto presto nel tuo campo visivo. E, in secondo luogo, ho propalato con intenzione la notizia della sua morte».
«E con quale intenzione?».
«Se due persone sono una persona sola,» disse Gasparinetti «bisogna fondatamente che uno dei due non si faccia vedere».
«Perché mai una persona sola? Siete in due».
«Noi, però, a seconda dei casi, abbiamo asserito di essere una persona sola – o per meglio dire: me, mi hanno preso per lui, lui – invece – si è davvero spacciato per me. Perché, allora, non dovrei dire di lui che non esiste? Lui per me non esiste veramente più».
«Tu però sapevi che lui vive qui».
«Già,» disse Gasparinetti «forse per me era proprio questa la ragione buona per affermare che non era più vivo. Del resto, se non è oggi sarà domani. Che cosa ne posso, io, se Lukawsky mira tanto male? E poi: con gli anni ci si avvezza a non sopportare più i propri simili. Ma nessuno è meno sopportabile di chi si spaccia per te. Probabilmente questo è dovuto al fatto che meno ancora si sopporta se stessi. Solo che a se stessi si è costretti a rassegnarsi».
«Lo conosci di persona?» domandò il colonnello dopo una pausa.
«Dio ne scampi!» disse Gasparinetti. «Fra tutti gli uomini, quelli che hanno a che fare l’uno con l’altro sono i più restii a conoscersi. Soltanto quelli che non hanno niente da spartire fra di loro si legano d’intima amicizia».
Il colonnello scosse la testa.
«Non ti capisco sino in fondo» disse. «Comunque è curioso che ora voi due viviate nella stessa città. Ma c’è un’altra cosa che volevo chiederti. In che reggimento hai prestato servizio?».
«Nell’ottavo reggimento degli ulani; com’è risaputo, il Massimiliano I, imperatore del Messico» disse Gasparinetti. «Cioè, basta Massimiliano solo – un secondo Massimiliano del Messico non c’è stato, e non credo che ce ne sarà un altro».
«Ah ecco!».
«Prego?».
«Si dice che tu abbia servito nel nono ulani».
«Curioso!» commentò Gasparinetti.
«Nevvero? Il nono non esiste. O meglio: già allora non esisteva più».
«No, non per questo è tanto curioso» disse Gasparinetti.
«E perché allora?».
«Perché da noi era l’ottavo reggimento a chiamarsi Max von Mexico – ma in Russia invece era il nono».
«Che cos’era il nono in Russia?».
«Il nono reggimento russo degli ulani. Anche quello si chiamava ulani del Messico».
«Come lo sai?».
«L’ho appreso in Russia. Quanti reggimenti aveva quel poveretto, e in definitiva non gli sono serviti a niente! Quell’indio Juárez alla fine l’ha fatto fucilare lo stesso! Ma questo, solo di passata. Quanto a me, comunque, se fossi stato davvero nel nono reggimento, dovrei aver prestato servizio in Russia oppure – se avessi servito qui nel nono – sarei del tutto inesistente. Tanto poco esistente quanto ho asserito essere Pufendorf affatto inesistente».
Al colonnello tutti quei reggimenti cominciavano a far a girare la testa: gli ussari di Grodno, il leggendario colonnello Gasparinetti nel reggimento dragoni delle Due Sicilie, l’ottavo vero e proprio e il nono russo degli ulani, gli inesistenti nono e decimo, e per giunta vi si mescolavano ancora ricordi del reggimento dragoni Nicola II di Russia. Inoltre da un po’ Gasparinetti sorrideva ambiguamente, e il suo sorriso ricordava il continuo sorridere di Gordon. Il colonnello non si sentiva più del tutto padrone del suo senno, quella era davvero una giornata curiosa.
Si alzò.
«Come?» disse Gasparinetti. «Vai già via?».
«Temo sia ormai tempo».
«Ma non hai ancora raccontato, per esempio, l’oggetto del contendere fra il mio bravo Pufendorf e quel – com’è che si chiama? –, e quel maggiore! Che cosa è successo in realtà?».
«A quanto pare una divergenza di opinioni» disse il colonnello. «Non so neanch’io di preciso. Io...».
«Che la gente, oggi, abbia ancora tanta dignità e continui a battersi!» disse Gasparinetti. «Di Pufendorf, quantomeno, non lo avrei creduto. Ma che ne sarà adesso di quei due?».
«Le autorità ungheresi li tratterranno di certo».
«Pufendorf,» disse il capitano di cavalleria «è capace di scappargli ancora sotto un altro nome. Stavolta magari sotto il nome di Engelshausen. O anche sotto il proprio? A proposito, nel caso Engelshausen non è venuto fuori ancora niente? – per non dire di Fonseca».
«Niente di sicuro» disse il colonnello.
«Già, io l’avevo predetto fin da allora. Nella vita capitano a volte cose talmente curiose che gli strumenti quotidiani non riescono a spiegarle. In fondo si può dubitare di tutto, anzi ti dirò: può darsi perfino che ci si metta a dubitare di se stessi e si finisca per non sapere più chi si è e a che punto della propria vita ci si trovi. A volte si crede davvero di essere un altro e di aver fatto cose di cui poi, come un sonnambulo, non ci si ricorda più. Ma in fondo Dio sa che disegno ha su di noi, su tutto, e non occorre che ci spremiamo le sue meningi. Anche quando Dio opera in modo discutibile, basta sostenere più dignitosamente di quanto lui non si immagini anche la sorte più discutibile che ci ha riserbato, e comunque con la stessa dignità con cui i tuoi ufficiali sanno vivere e morire – proprio come ti avevo predetto prima ancora che si verificasse ciò che ha dato origine a tutti questi fatti».
Poiché Gasparinetti stava ricominciando con la sua ossessione della morte, il colonnello si congedò piuttosto alla svelta dopo aver replicato qualcosa a certi altri fronzoli retorici del capitano, senza curarsi della coerenza delle proprie risposte. È tempo, pensò, di andar a trovare, per esempio, la signora Lukawsky. Scese le scale e uscì sulla strada, dove i lampioni erano già stati accesi, ma le cose di cui aveva parlato Gasparinetti continuavano a frullargli per il capo. Si sentiva estenuato, e tuttavia non poteva impedire alla sua mente di continuar a voltare e rivoltare quei pensieri, riandò a tutti i reggimenti di cui avevano parlato, i suoi e gli altri, alle schiere di una volta, che rivedeva su lunghe file, con le teste tentennanti dei cavalli. A un tratto gli parve di vedere distintamente avanti a sé, come se le file venissero tirate indietro, le bocche dei cavalli mordere le briglie digrignando i denti e roteando gli occhi, tanto che lui – degli occhi – vedeva il bianco. Al tempo stesso udì grida confuse, come di più litiganti, e sentì l’urto di un timone di carrozza, quasi una lancia, in pieno petto, e venne scaraventato a terra e perse conoscenza.
Quando sollevarono il vecchio, che sanguinava dalla bocca, in mezzo a un assembramento e fra le esclamazioni del cocchiere che continuava a maledirsi e a proclamarsi incolpevole, Gasparinetti, che aveva visto dalla finestra l’incidente, era già lì e fece trasportare in casa il colonnello. Ma prima ancora che Gabrielle, da lui subito avvertita, fosse accorsa, Rochonville morì.